Come il fisico, così lo spirito

Testo e foto di Luca Salvatore Pistone |


Wat Tham Krabok è un monastero che si è specializzato in recupero di tossicodipendenti. Offre una terapia d’urto, fisica e spirituale. Molto rigorosa ma efficace. E così è frequentato da thailandesi e stranieri. E qualcuno finisce per fermarsi.

A 150 chilometri da Bangkok, nella provincia di Saraburi, poco distante dalla trafficatissima Phahonyothin Road, nascosto tra le montagne, si trova il tempio buddhista di Wat Tham Krabok. Dalla sua fondazione, avvenuta sessant’anni fa, quando la Thailandia era in pieno boom di consumatori di oppiacei, il santuario funge da centro di riabilitazione per tossicodipendenze. La terapia cui i pazienti vengono sottoposti dai monaci include trattamenti poco ortodossi, primo tra tutti la «cerimonia del vomito».

All’ingresso del tempio si trova un piccolo altare votivo pieno di fiori e piccole luci, un omaggio alla fondatrice dell’ordine monastico Tudong, una principessa thai vissuta il secolo scorso che dedicò tutta la sua vita alle opere caritatevoli. A Wat Tham Krabok tutto è perfettamente organizzato. Coloro che vogliono essere ammessi al sacro recinto devono compilare a penna un modulo dettagliato dichiarando il loro stato di dipendenza da sostanze nocive e, quindi, impegnandosi ad accettare ogni regola imposta. Lo stesso atto di abbandono degli abiti civili ha un significato simbolico e religioso: spogliandosi, si rinuncia a quanto arriva dal mondo esterno per entrare in una differente dimensione psichica prima che fisica.

Altrettanto significativo e simbolico è il fatto di mettersi a gattoni sulla grata di una fognatura, con un secchio pieno d’acqua accanto e un misurino contenente un miscuglio dal fetore insopportabile, per rigettare tutto ciò che si ha in corpo. Eee è al suo quarto giorno e ancora non si è abituato a tutto ciò. Nei primi cinque giorni di riabilitazione a Wat Tham Krabok, alle tre in punto del pomeriggio, i pazienti devono prendere parte alla cosiddetta «cerimonia del vomito»: vomitare a oltranza espellendo tutte le tossine dopo aver ingerito un intruglio di erbe amare e semi locali fatto dai monaci la cui ricetta è segretissima. Se il beverone non è sufficiente a indurre il rigetto, il soggetto si infila due dita in gola o beve acqua fino a esplodere. Il tutto, alla presenza di un vasto pubblico di monaci e pazienti che applaude alla fine del rituale.

Thailandia, monastero disintossicazione. Foto Luca Salvatore Pistone

La storia di Eee

Ventiquattrenne, dipendente dalle metanfetamine, Eee è uno degli ultimi arrivati a Wat Tham Krabok. «Lavoravo al mercato dei fiori di Bangkok – racconta mentre pulisce dalle foglie uno dei cortili del tempio – e le cose non mi andavano male. Poi ho cominciato a fare uso di metanfetamine e di conseguenza ad avere allucinazioni durante l’orario lavorativo. Sono stato licenziato ed è stato allora che mi sono deciso a venire qui. Non mi sono ancora abituato a tutte queste strane pratiche».

«Il miscuglio della cerimonia del vomito – spiega Richard, un monaco neozelandese da diversi anni a Wat Tham Krabok – scatena fortissime e incontrollabili contrazioni dei muscoli intercostali e addominali, provocando una sensazione di dolore e di soffocamento. I muscoli della parete dello stomaco si contraggono spasmodicamente e i contenuti vengono espulsi in una irrefrenabile crisi di vomito. Questa crisi dolorosa e provocata non è tesa solo alla liberazione fisica da ogni impurità residua dovuta agli stupefacenti, ma anche a un rifiuto psichico della dipendenza. Attraverso l’espulsione violenta, il paziente raggiunge annullamento fisico e psichico cadendo in uno stato di prostrazione che gli dona una sensazione liberatoria». La permanenza a Wat Tham Krabok è di almeno due settimane, senza la possibilità di ricoveri successivi. «Questa non è una clinica a porte girevoli» sono soliti ripetere i monaci. Alloggi e trattamenti sono gratuiti. Di tasca loro i pazienti devono esclusivamente pagarsi il vitto, che può essere consumato solo una volta al giorno alle sette di mattina. La sveglia è alle quattro e mezza mentre alle otto di sera si spengono le luci. Nel complesso del tempio è vietato fare entrare sostanze stupefacenti e alcol, come sono vietate le visite di parenti e amici. Ogni paziente deve indossare l’uniforme fornita dai monaci, un camicione di colore bordeaux con la scritta «vincitore» sulla schiena. Niente telefoni cellulare né tablet. Gli unici svaghi concessi sono un pallone da calcio sgonfio, un tavolo da ping pong malconcio, qualche chitarra scordata e un televisore sintonizzato su uno dei canali nazionali thailandesi. È proibito mettere piede fuori dal perimetro del tempio: in più occasioni i monaci hanno scovato piccoli spacciatori, nascosti tra i cespugli, intenti a offrire droghe ai pazienti.

Thailandia, monastero disintossicazione. Foto Luca Salvatore Pistone

Spiritualità e terapie

Nella cura delle tossicodipendenze, Wat Tham Krabok racchiude un misto di spiritualità e terapie fisiche di forte impatto. Quello del vomito è il trattamento più invasivo, ma la terapia dei monaci buddhisti non si limita a esso. Il primo giorno il nuovo arrivato viene sottoposto alla cerimonia del sajta, il sacro voto di astinenza. Alla presenza di un monaco anziano, i pazienti giurano solennemente di rinunciare a ogni sostanza stupefacente. Il religioso scrive su dei foglietti il nome e la promessa dei novizi e li inserisce in un braciere che accende con dei lunghi fiammiferi. Al temine di una nenia tra il canto e la preghiera, il monaco porge il braciere a una statua del Buddha. È così che il voto diventa sacro – chi lo infrange non potrà più mettere piede a Wat Tham Krabok – e il sajta si conclude.

Ancora, la «cerimonia della sauna». Seguiti a vista dai monaci, i pazienti escono dall’area dormitorio e si recano all’area sauna che è composta da due stanzini che hanno una tenda nera in cotone pesante come porta. Il calore al loro interno è prodotto da un forno a legna situato sul retro della struttura. Ammassati l’uno contro l’altro, i pazienti devono realizzare tre sessioni di sauna di cinque minuti l’una, intervallati da pause di due minuti durante le quali è possibile trovare sollievo con dell’acqua gelata.

«La temperatura all’interno degli stanzini – dice stremato Peter, svedese al penultimo giorno di ricovero – sfiora i cento gradi e non sono rari i casi di mancamenti. Io stesso la prima volta sono svenuto. I monaci mi hanno rianimato con dei sali. Gran brutta storia… Bisogna fare dei sacrifici per rimettersi in forma e io sento di essere ormai a buon punto. Non avrei mai detto che uno stile di vita così spartano avrebbe risolto i miei problemi».

Non molto distante dalla zona sauna c’è un rudimentale laboratorio di artigianato. «Questa officina – racconta Phra Kru Vichit, uno dei monaci anziani – è un altro dei nostri fiori all’occhiello. Insegniamo ai nostri pazienti a creare opere d’arte servendosi di oggetti riciclati».

Thailandia, monastero disintossicazione. Foto Luca Salvatore Pistone

Storia e numeri

Wat Tham Krabok nacque nel 1959. L’idea di rendere un tempio buddhista un luogo di disintossicazione fu – precisa Phra Kru Vichit – «una scelta dettata dal fatto che a quei tempi il maresciallo Sarit Thanarat (primo ministro della Thailandia dal 1957 al 1963 in seguito ad un colpo di stato da lui attuato, nda) aveva lanciato una feroce campagna contro le coltivazioni di oppio. Migliaia di oppiomani ed eroinomani vennero giustiziati e così i monaci si sentirono in dovere di aiutare queste persone».

Il centro raggiunse una grande popolarità nel 1997, quando la Thailandia assistette a un boom della dipendenza da metanfetamine. La terapia prevede anche mezzora al giorno di meditazione guidata da un monaco. Di norma presso Wat Tham Krabok ci sono in cura una trentina di persone alla volta, ma è capitato spesso di superare quota cinquanta. Il tempio non riceve sovvenzioni statali e va avanti solo grazie agli sforzi dei suoi quasi duecento monaci.

I numeri di Wat Tham Krabok sono davvero impressionanti. Dalla sua fondazione, oltre 110mila tossicodipendenti sono stati presi in cura. Continua Phra Kru Vichit: «Oggi il novanta per cento dei nostri assistiti completa il programma e il sessanta per cento per tutto l’anno successivo alla terapia rimane lontano dalle droghe. Per noi il tossicodipendente non è un semplice malato che necessita di cure fisiche ma è essenzialmente un uomo che deve ritornare alla pace attraverso la rinuncia, la purificazione e il sacrificio. Abbiamo avuto molti pazienti che dopo avere seguito il trattamento hanno deciso di farsi monaci, circa il venti per cento del totale. Il fatto che molti nostri monaci siano ex pazienti crea una certa empatia con i nuovi arrivati».

A tal proposito, Phra Kru Vichit convoca un altro monaco anziano con braccia e petto coperti da tatuaggi. Il religioso chiede di celare il suo nome. «Sono qui da trent’anni – dice – e posso dire che Wat Tham Krabok mi ha salvato la vita. Da ragazzo non ho mai lavorato e mi facevo di ogni cosa. Una notte, durante una violentissima retata della polizia, mi salvai per un pelo. Fu allora che mia madre mi supplicò di venire al tempio. Mai scelta fu più giusta. La nuova dimensione conosciuta grazie ai monaci mi ha fatto capire che un nuovo corso era possibile. Da allora non ho mai lasciato i miei confratelli. Oggi, oltre a occuparmi della mensa, aiuto i nuovi arrivati ad ambientarsi al meglio. Capisco perfettamente cosa hanno passato».

Il monastero tratta un numero sempre maggiore di pazienti dipendenti dallo ya-ba, un mix potentissimo di metanfetamine e caffeina. Lo ya-ba, il cui significato in lingua thai è «droga della follia», ha incontrato larga diffusione non solo in Thailandia ma anche al di fuori del territorio asiatico.

Thailandia, monastero disintossicazione. Foto Luca Salvatore Pistone

Pazienti dall’estero

I portentosi risultati del tempio attirano ormai da anni anche pazienti dall’estero, soprattutto da Stati Uniti, Australia ed Europa settentrionale. Danielle, inglese, è all’ultimo giorno di ricovero a Wat Tham Krabok per alcolismo, dice: «Ho scoperto questo posto meraviglioso perché avevo letto in rete che Pete Doherty (il noto musicista britannico leader della band punk Libertines, nda) ci era stato tempo fa senza però resistere alla terapia oltre il terzo giorno. Mi sono informata e alla fine ho trovato molte critiche positive. All’inizio è stata davvero dura ma, trascorsi i primissimi giorni, ho cominciato ad abituarmi. È stato solo dopo aver espulso tutto il marcio che avevo dentro attraverso le sessioni di vomito e sauna che ho davvero apprezzato questo luogo di pace. Ho potuto riscoprire me stessa, rinascere, ma senza un reale sforzo personale non si va da nessuna parte. Adesso voglio solo rimanere pulita e proseguire il mio percorso interiore».

«Ci si prospetta una nuova vita – le fa eco Andrew, statunitense, al tempio per la sua dipendenza da metanfetamine e cocaina -. Devo ringraziare mia moglie che ha trovato questo centro navigando su internet e mi ha convinto a venirci. È stata un’esperienza meravigliosa, più intensa di quelle provate nei centri di disintossicazione conosciuti prima nel mio paese. Ho imparato molto, ho visto molto. Sono stato in grado di capire chi sono davvero. Non sono buddhista, ma ritengo che la meditazione, la disciplina e la semplicità del tempio mi abbiano fatto elevare a uno stato superiore».

A contribuire alla straordinarietà di Wat Tham Krabok è il complesso di statue del Buddha all’ingresso del santuario. Sculture fatte di un composto di ossidiana e altri minerali meno nobili, che vanno dai venti ai quaranta metri di altezza e che sono state interamente fabbricate dai monaci. «Lasciano senza fiato, vero? – riprende la parola Danielle – Io rimango estasiata ogni volta che le osservo. Pensare che delle persone così pacate possano arrivare a fare tanto è strabiliante. Sono uomini unici questi monaci. Sono stati in grado di aiutarmi, riuscendo a fare qualcosa in cui molte cliniche pubbliche e private europee avevano fallito».

Luca Salvatore Pistone

Thailandia, monastero disintossicazione. Foto Luca Salvatore Pistone




A cuore e piedi scalzi

Testo e foto di Maristella Tommaso


Ottobre, quest’anno, oltre a essere stato straordinario per desiderio del Santo Padre, lo è stato per me in modo particolare per ciò che la missione ha donato alla mia vita, per i cammini di liberazione che ho incrociato lungo la mia strada e per il calore, l’affetto, la presenza della gente incontrata nelle terre meravigliose dove i miei piedi si sono poggiati.

Ho ventisette anni, insegno e sono innamorata del mondo in tutte le sue sfumature, i suoi colori. Amo i bambini, i giovani che sono il presente, gli anziani che per secoli hanno custodito e protetto questo mondo, le donne e gli uomini della terra. Non riesco a immaginare la mia vita da «disinnamorata». Amo tutto ciò che la vita ci dona, accolgo tutto come un immenso regalo e mi sforzo di poter ricambiare al mondo l’amore che lui ha per me, per noi.

La mia vita è cambiata nel 2012 quando in Puglia ho partecipato a un primo incontro regionale di Missio Giovani, organismo della Cei che si occupa di animazione, formazione e cooperazione missionaria. Da quel momento ho iniziato a sognare di partire, di stare dalla parte degli impoveriti della terra, di mettermi in gioco e di sporcarmi le mani.

Così ho iniziato, piano piano, a benedire i miei piedi con la terra sacra dei paesi visitati: il Brasile, la Palestina, il Benin, per continuare a cercare e ad amare il Signore nei volti, nei sorrisi, negli abbracci, nelle lacrime di chi incontravo.

Nel Nord della Thailandia

Il 23 agosto scorso sono tornata dalla Thailandia, precisamente dal Nord, dalla diocesi di Chiang Rai (costituita nel 2018), ai confini con Myanmar e Laos, e il cuore fa ancora fatica a staccarsi da quella terra magica, meravigliosa, verdeggiante, sorprendente. Sono partita grazie all’esperienza estiva che Missio Giovani Italia organizza ogni anno ed ero insieme ad altri 16 giovani e 2 accompagnatori: Anita Cervi, formatrice presso il Centro unitario per la Formazione missionaria (Cum) e Giovanni Rocca, segretario nazionale di Missio Giovani.

Siamo abituati a vedere la parte turistica della Thailandia, le calette caratteristiche, il mare cristallino, la Bangkok caotica e lussuosa, gli hotel da sogno sulle palafitte, le scimmie addestrate, gli elefanti costretti a trasportare turisti sul loro dorso… ma mai nessuno parla di un’altra Thailandia. Quella poco turistica, ma proprio per questo motivo splendida, quella impoverita e nello stesso tempo ospitale, quella che respira gli influssi del Laos e del Myanmar, che ama gli incontri e ama la gente. La Thailandia del Nord, ricca di storia e di storie, di vite che si intrecciano e di culture.

Ambientazione e mandato

Siamo partiti il 1° agosto da Roma e dopo più o meno 15 ore di aereo ci siamo ritrovati a Chiang Mai (diocesi dal 1965, fondata come missione nel 1931), dove ci ha subito accolto don Attilio, sacerdote fidei donum che è parte del gruppo di dieci sacerdoti del Progetto Triveneto, sostenuto dalle diocesi del Veneto. Ospitati dalla diocesi, i primi tre giorni ci siamo fermati a pensare, a giocare, a riflettere, a riscoprirci anche con l’aiuto di Anita Cervi. Con Giovanni Rocca, invece, abbiamo scoperto la Thailandia, le sue tradizioni e cultura, e abbiamo conosciuto le quattro missioni in cui saremmo stati destinati.

Quei giorni di preparazione e formazione sono stati un mix di ansia, paura, entusiasmo e gioia. Le emozioni, tutte, positive e negative, ci scorrevano nelle vene… e la cosa più bella era capire che eravamo sorelle e fratelli e tutti provavamo le stesse cose.

Domenica 4 agosto, durante la messa, abbiamo vissuto il bellissimo momento del mandato, quando ci hanno consegnato la croce verde, gialla, rossa, blu e bianca simbolo di Missio. I gruppi erano formati: un gruppo a Mae Sai, un altro a Chiang Cam; il terzo a Chiang Saen, e il quarto a Nan. «Si inizia», ci siamo detti. Davvero tutto stava iniziando e tutto si stava realizzando.

 

Verso Chiang Saen

Il lunedì, zaini in spalla, ci siamo divisi e siamo partiti per raggiungere le nostre destinazioni. Durante il tragitto abbiamo fatto tappa al Tempio Bianco, dove abbiamo potuto ancora una volta, come già fatto a Bangkok, ammirare la meraviglia dei templi buddhisti e apprezzare la cura con cui i fedeli vivono la loro religione. È stato bellissimo essere a stretto contatto con un’altra religione e sapere che tra cristiani, buddhisti e musulmani c’è un bellissimo rapporto di stima reciproca, di collaborazione e di amore profondo per il creato.

Giunti alla missione siamo subito stati accolti dalle missionarie, dai missionari, dalle ragazze e dai ragazzi che vivono con loro. Ci hanno fatto sentire a casa come membri della loro grande famiglia. Le nostre giornate si sono svolte nei villaggi, nelle risaie o nella struttura insieme alle ragazze e ai ragazzi. Abbiamo persino fatto giardinaggio, piantato e raccolto riso, preparato 150 panzerotti durante la festa della mamma (in Thailandia si festeggia nel giorno del compleanno della Regina Madre, il 12 agosto). Ci siamo imbattuti nei mestieri più strani, pensando di non esserne capaci. Abbiamo provato l’ebbrezza di lasciarci coccolare dall’altalena akha (gli Akha sono una tribù thailandese presente soprattutto nel Nord) che viene costruita proprio durante i giorni della festa dell’Assunta per far divertire i bambini del villaggio (…e anche noi grandi!).

Sono stati giorni intensi di accoglienza, di collaborazione, di pazienza, di adattamento, di prova, spesso giorni stancanti… ma sempre stracolmi di bellezza. Abbiamo apprezzato la cura con cui ogni missionaria e ogni missionario porta avanti l’opera di Dio, prendendo sulle proprie spalle i più piccoli della terra, mettendosi costantemente al servizio dei più poveri e degli indifesi, mangiando con loro, sporcandosi ogni giorno le mani nella terra per confermare l’amore per tutto il Creato.

Condivisione

Ci tengo, mentre scrivo di quella che è stata per me la Thailandia, a raccontare un aneddoto che ha stravolto la mia vita, il mio sguardo, il mio tutto. Una sera, di ritorno da un villaggio dove avevamo passato la notte, raccontavamo alla suora che ci seguiva come fossimo rimasti meravigliati del fatto che alle sei del mattino sul nostro tavolo per la colazione avevamo trovato ben 30 ciotoline diverse piene di cibo. Lei ci ha risposto con una semplicità disarmante: «Avete visto? Non bisogna avere tanto per fare grandi cose. In quel villaggio ognuno vi ha portato quel poco che aveva, che era diverso dal poco dell’altro… e dal poco di ognuno è venuta fuori una tavola stracolma di bontà che avrebbe sfamato tantissima gente».

È proprio vero. Dal poco di ognuno vien fuori il moltissimo di Dio.

Partire è…

La missione mi ha cambiato la vita, le partenze me l’hanno stravolta, la gente incontrata mi ha fatto capire quanto bella fosse la mia esistenza così intrecciata all’esistenza delle altre e degli altri. A chi mi chiede se è bene o no partire, senza esitare rispondo che partire è camminare, partire è respirare, partire è crescere, è osare, è scoprire che in qualsiasi parte del mondo tu vada, avrai sempre una famiglia che sarà pronta ad accoglierti, ad amarti.

«Tutto il mondo è la mia famiglia», canta Jovanotti… ed è proprio così. I nostri piedi inevitabilmente si incroceranno con altri piedi, le nostre mani si sporcheranno con altre mani e il cuore batterà per e con altri cuori. La missione è stare con la gente, fermarsi a mangiare con loro, stare sotto un albero a chiacchierare, giocare con i bambini, aiutare le ragazze a studiare. La missione è «stare» nella libertà di essere ciò che si è insieme agli altri!

La missione è tutto ciò che di più semplice possa esserci. Ed è proprio questa semplicità che ha reso la mia vita straordinaria, proprio perché è vita insieme ad altre vite, storia insieme ad altre storie, cammino insieme ad altri cammini di liberazione.

Semplicità straordinaria

I piedi scalzi con cui si sta spesso in questa terra immensa ci siano di esempio per la vita, perché bisogna spogliarsi, vivere dell’essenziale, sporcarsi per poter essere prossimi, per poterci prendere cura, per poter amare.

«A cuore scalzo», canta Max Gazzè. «A cuore e a piedi scalzi» continuo io, perché la Chiesa che sogniamo sia sempre più povera con i poveri, priva di fronzoli, essenziale, compagna delle donne, degli uomini e dei bambini della terra, umile proprio perché la terra la tocca, la sente sotto i piedi e la ama. Continuiamo a ricercare la bellezza, l’essenziale. Continuiamo a mettere in atto una rivoluzione dell’amore, continuiamo a mettere i cuori gli uni vicino agli altri, a sentire qualsiasi ingiustizia della terra nelle nostre vene, continuiamo a lottare per il bene di tutte e di tutti… e partiamo se ne sentiamo il desiderio e lasciamoci travolgere dall’immensa straordinarietà che vi è negli stili di vita, nelle culture diverse, nell’accoglienza, nel sentirci tutti appartenenti alla stessa terra, allo stesso mare, collaboratori di un sogno grandissimo. Quello che si realizza nell’innalzare ponti, nell’abbattere muri, nell’eliminare qualsiasi confine, nel volere una Chiesa che sia grembo accogliente, scalza. Il sogno di una Terra in cui tutti si sentano sorelle e fratelli, senza più discriminazioni, senza lasciare indietro nessuno, senza esclusioni e senza più oppressi ed oppressori, ricchi e poveri.

Un sogno che è anche il sogno di Dio, ne sono certa. Sogniamo con lui… e realizziamolo!

Maristella Tommaso


Chiang Saen

Costruita nel 545 d.C. Chiang Saen, nel Nord della provincia di Chiang Rai, era una città importante del regno di Lanna (o Lannathai) durato fino al 18° secolo. È al Nord della Thailandia, quindi nella parte verdeggiante, in cui scorrono fiumi – in particolare il famoso Mekong -, si innalzano montagne che ospitano ai loro piedi villaggi, nella parte che profuma di fiori, tutti diversi e tutti colorati, che è piena di natura incontaminata. Quasi un paradiso terrestre vero e proprio… ma anche là dove sembra tutto perfetto, in realtà si svolge la vita di chi non ha nulla, di chi vive in case di lamiera, di chi non ha un lavoro, di chi per anni ha fatto uso di droghe e ancora adesso non riesce ad uscirne.

Era a pochi chilometri dal cosiddetto Triangolo d’Oro, ai confini con il Myanmar e il Laos, luogo che per anni è stato il centro dello spaccio mondiale, della cultura dell’oppio e della sua coltivazione. Moltissima gente è stata arrestata e messa in carcere per aver fatto uso di droghe e moltissimi bambini sono cresciuti senza genitori. Il Nord della Thailandia è abitato, più che da thailandesi, da birmani dei gruppi etnici Akha e Lahu, come quasi tutte le ragazze della casa, che dal Myanmar arrivano in Thailandia come rifugiati e profughi senza documenti e senza educazione formale. Questo li taglia fuori dalle opportunità di lavoro, per cui spesso vivono nell’illegalità. Violenza e abuso di sostanze stupefacenti sono rampanti nella regione, molte famiglie vivono in estrema povertà.

L’evangelizzazione nella regione è iniziata nel 1931 con l’arrivo dei primi due sacerdoti delle Missioni Estere di Parigi a Chiang Mai, capitale della regione, diventata diocesi nel 1969. Nel 2018 è stata creata la diocesi di Chiang Rai. La comunità cristiana di Chiang Saen è seguita da missionari gesuiti.

I giovani di Missio sono stati accolti nella «Casa Lilia», dal 2013 gestita dalle Sorelle della Provvidenza (fondate a Udine nel 1837) che ospita una trentina di ragazze orfane o di famiglie molto povere.

M.T.




Cari Missionari


Lettere dai Lettori


In memoria di padre Luigi Palumbo

Una gloria del clero dell’arcidiocesi di Otranto (Le)

Padre Luigi Palumbo nasce il 2 gennaio 1935 a Castrì, Lecce, e va in cielo il 14 aprile 2018, a Boa Vista, Roraima, Brasile. Ordinato sacerdote nel 1963, parte subito per il Brasile e nel 1965 arriva a Roraima. 55 anni di sacerdozio, 55 di Brasile.

Ho avuto la fortuna di conoscere questo coraggioso missionario della Consolata e di trascorrere le più belle giornate della mia vita durante la mia permanenza a Roraima nei mesi di collaborazione vissuti lì dal 1996 al 2001.

La sua gamba era stata accorciata di 10 cm dopo essere stato investito da un fuoristrada su una via di Boa Vista nel 1968, ma il suo spirito emanava un profumo di virtù, che ti afferrava, e di fraternità vissuta in comunione con i suoi confratelli missionari e con il popolo, a incominciare dai poveri, sperduti nelle misere capanne della inospitale savana, lavoratori della terra assegnata dal governo nelle fattorie e masserie dell’immensa Amajarì.

Padre Luigi non lavorava per essere remunerato con denaro o con premi di riconoscenze e onorificenze. Una volta, il proprietario di una fattoria gli chiese: «Padre, ma chi ti paga per il lavoro che stai facendo in questa regione? Il Governo, il Papa, il Vescovo?». Padre Luigi rispondeva sempre con un secco: «No. Io lavoro per la diffusione del Regno di Dio sulla terra».

In un suo viaggio missionario in Venezuela, il vescovo di Bolivar gli offrì ospitalità in una stanza di lusso dell’episcopio, nella speranza di trattenerlo nella sua diocesi bisognosa di clero.

Quella stanza addobbata sfarzosamente con tutte le comodità non era di suo gradimento, per cui padre Luigi ringraziò il monsignore e gli disse: «Me ne vado, perché non mi piace vivere nel lusso».

Padre Luigi era abituato a viaggiare con la bicicletta, con il cavallo, con la moto e con la canoa per stare vicino alle persone, istruirle, celebrare battesimi, matrimoni e, soprattutto, la santa messa per formare comunità cristiane.

Dovunque è passato ha lasciato i segni delle sue opere, ha progettato e costruito chiese fatte di legname e paglia, di mattoni ed eternit, dove non solo si celebravano i sacramenti, ma si insegnava il catechismo e, talvolta, anche discipline scolastiche governative per ragazzi analfabeti.

Il ministero dell’Educazione di Roraima stimava tanto questo giovane missionario, da nominarlo ispettore delle scuole governative, dove i professori risultavano quasi sempre ammalati e invece di svolgere il loro lavoro scolastico, si assentavano per andare alla capitale Boa Vista per i loro affari.

Guarito dopo la frattura della gamba, di ritorno a Boa Vista da São Paolo dove era stato curato, il vescovo don Servilio Conti lo ha nominato primo parroco di Mucajaì, dove ha costruito la nuova chiesa parrocchiale, due saloni, aule catechistiche e due campi sportivi, uno per i ragazzi e uno per le ragazze.

Risale al tempo di padre Luigi l’ampia piazza della Passione, ai piedi di un alto colle, dove il Venerdì Santo, nel pomeriggio, si svolgono alcune scene della Via Crucis con attori del posto, sino alla Crocifissione e alla conclusione con il canto dell’Ave Maria.

Questa celebrazione annuale è diventata una delle manifestazioni folcloristiche nazionali dello stato di Roraima.

A Mucajaì c’erano soltanto le prime classi delle scuole elementari e gli studenti non avevano la possibilità di frequentare il ginnasio nella capitale Boa Vista, distante 60 km e con impervie strade di collegamento.

Padre Luigi non solo ha ottenuto l’istituzione del ginnasio di Mucajaì, ma in mancanza di docenti, ha insegnato religione, morale e storia, dopo aver ottenuto la indispensabile cittadinanza brasiliana.

I miei accenni sulla vita di padre Luigi sono poca cosa rispetto a quello che ha saputo realizzare con le persone da lui avvicinate, formate, istruite e riappacificate.

Padre Luigi è stato un costruttore di chiese materiali e vive. Ha costruito numerose chiese e opere parrocchiali non solo nei villaggi, ma anche nelle città dove è vissuto.

Ha formato, visitando gli abitanti dell’immensa regione Amajarì, e avvicinando tra di loro le comunità cristiane praticanti e operanti nella chiesa.

Non sarei completo se non accennassi alla vena poetica e musicale di padre Luigi.

Io gli ho regalato una chitarra e un mandolino, portandoli dall’Italia, perché era un abile suonatore di questi strumenti musicali.

Durante le celebrazioni liturgiche in qualsiasi parte del Brasile il popolo canta e sa cantare. I cori parrocchiali e gli strumenti musicali, chitarre, tamburi e tamburelli, accompagnano il canto dell’assemblea, non lo escludono, come avviene spesso nelle nostre parrocchie.

Padre Luigi è stato un bravo compositore di canti, soprattutto per la liturgia, autore del testo e della relativa musica.

Ha composto anche un inno ai santi Martiri di Otranto, che io ho tradotto in italiano e pubblicato.

Padre Luigi è stato un uomo di Dio, libero; una voce limpida, un missionario doc, una realizzazione di progetti, un pellegrino fermato solo dalla morte corporale.

Il tuo spirito vibra nelle terre della sua missione, nella sua città natale di Castrì e nell’intera arcidiocesi degli Eroi e dei martiri del 1480 e di ogni tempo.

Mons. Paolo Ricciardi
Otranto, ottobre 2018

(Montanari)


Il sole splende negli occhi dei bambini di Bangkok

Il sole splende sulla calda e caotica Bangkok, una megalopoli di 12 milioni di abitanti. Ma, insieme al sole, splende sulla capitale thailandese un’altra luce: il dottor Amporn con suoi 50mila bambini orfani.

Il dottor Amporn viene incontro a mia moglie Paola, a me e ai nostri quattro figli con un sorriso. Uomo semplice e umile, ci fa sentire subito a casa. Piccoli gesti, delicati, poche parole, una conoscenza iniziata con una mail. Grazie all’associazione «Insieme si può», di cui facciamo parte, abbiamo avuto l’onore e fortuna di conoscerlo. […]

Rimasto orfano a cinque anni in un remoto villaggio della Thailandia rurale, Lek (questo è il suo nome da bambino) deve lottare tutta la vita per trovare il suo posto nel mondo. Solo e impoverito, sopravvive chiedendo cibo nei mercati di Surin finché non è reclutato per combattere come bambino soldato nella giungla della Cambogia.

La disperazione e la povertà lo portano a tentare il suicidio finché non incontra padre Alfred Bonningue, prete cattolico francese che lavora nella chiesa di san Francesco Saverio a Bangkok. Il prete si prende cura di lui, le suore gli insegnano l’inglese e i padri gesuiti gli parlano di Gesù e Maria. «Avevo perso mia madre a cinque anni», racconta, «e conoscere Maria, che è gentile e vuole bene a tutti, me l’ha fatta subito amare». Amporn dice di «voler passare l’amore ricevuto da padre Bonningue (morto in Francia nel 2001) ai bambini in difficoltà del paese».

Inizia così il viaggio di Lek per diventare il dottor Amporn, uomo noto come padre adottivo di bambini malati, poveri e indigenti della Thailandia.

Il dottor Amporn Wathanavongs, «il padre adottivo di 50mila bambini», grazie alla sua Ong, la Fondazione per la riabilitazione e lo sviluppo di bambini e famiglie (Fordec), guida oltre 80 attività che mirano al miglioramento delle loro condizioni.

Dopo un lungo periodo Amporn si converte al cattolicesimo e trova la sua strada. Diventa rappresentante per la Thailandia del Fondo cristiano per i bambini, una Ong americana nella quale opera per 25 anni, e, una volta concluso il suo impegno, non va in pensione ma prende i suoi risparmi e fonda nel1998 la Fordec.

(Montanari)

Il dottor Amporn Wathanavongs è ora un esperto di pediatria che spesso tiene seminari internazionali. Il «dottore» che precede il suo nome, deriva da una laurea ad honorem conferitagli da un ateneo americano per il suo impegno sociale. Ha pranzato con la famiglia reale thailandese, con i banchieri che reggono il paese e con l’ex presidente Usa Jimmy Carter. Ha conosciuto il defunto papa Giovanni Paolo II, il papa emerito Benedetto XVI ed è fiero dei 19 pellegrinaggi compiuti al santuario di Lourdes, in Francia.

Al momento, la sua Ong supporta circa 15mila fra bambini, poveri, disabili, drogati e persone affette da Hiv.

Accompagnati dal dottor Amporn arriviamo alla scuola materna gestita da Fordec. Duecento bambini, tutti ordinatamente seduti, ci aspettano per accoglierci. Un canto gioioso ci avvolge come avvolgente è l’amore e il senso di famiglia che si respira qui. Bambini, maestre, volontari, cuoche, Amporn: una famiglia che ci fa sentire accolti, indipendentemente dal colore della nostra pelle, dal nostro linguaggio e dalla nostra cultura.

Emanuele, Tommaso, Filippo, e anche il piccolo Francesco, i nostri figli, sono subito impiegati per servire il pranzo ai bimbi della scuola materna. Paola, con le cuoche, distribuisce il cibo nei piatti, io asciugo le mani di tanti bimbi, prima del pasto.

Tante sensazioni e pensieri si affollano nei nostri cuori, l’emozione sale fino agli occhi, e qualche lacrima compare. Un’esperienza, fatta di piccoli gesti quotidiani, che ha un valore inestimabile, che ci fa porre domande, che ci dice: «La vita è bella se è donata, se è condivisa» e, come recitava lo slogan di un nostro weekend missionario della associazione Colibrì di cui facciamo parte: «Non muri ma ponti!».

Luigi Montanari
08/07/2018


Cambogia e Vietnam

Gent. padre Gigi,
ho letto con tantissimo interesse gli articoli relativi a Cambogia e Vietnam.

Sono due stati che mi hanno profondamente colpito per gli orrori che dominazioni, guerre e dittature hanno inflitto alle popolazioni. Nel 2009 ho passato quasi due mesi in quelle zone partendo dal Nord Vietnam, arrivando fino a Ho Chi Min (ex Saigon) e entrando poi in Cambogia dal Delta del Me Kong per risalire fino al sito archeologico di Angkor ai confini con la Thailandia. Buona parte del viaggio l’ho fatto sui fiumi per avere contatti, il meno possibile contaminati dal turismo, con gli abitanti dei piccoli villaggi a ridosso dei fiumi (vedi foto di apertura e qui sotto).

(Beltrami)

Dagli anziani, soprattutto, ho raccolto testimonianze terribili, difficili a volte anche solo da ascoltare per la crudezza, per l’orrore dei contenuti. Una fra tutte, che non potrò mai dimenticare anche per la partecipazione con cui è stata raccontata, quasi stesse ancora vivendo quella tragedia, è di un pescatore cambogiano. Nel quadriennio terribile dei Khmer Rossi con a capo Pol Pot, paesi e città vennero svuotate con la forza. La capitale Phnom Penh, che contava oltre un milione di abitanti, alla fine del quadriennio ne aveva a mala pena cinquantamila e in buona parte militari. Milioni di persone, compresi vecchi e bambini, vennero ammassati in località decentrate e costretti a lavori massacranti in un clima di terrore. Bastava che qualcuno venisse accusato di tradimento, anche in mancanza di prove, perché venisse torturato e ucciso davanti a tutti. Ma il racconto del pescatore, con le lacrime agli occhi, mi ha sconvolto. La sorellina di 10 anni, affamata come può essere un bambino senza cibo, aveva visto delle mele e ne aveva presa una. È stata picchiata, denudata, legata a un palo dopo che le era stato spalmato sul corpo qualcosa di appiccicoso per attirare formiche e altri insetti. È rimasta così una notte intera per essere poi ammazzata, ormai in fin di vita, con un colpo di pistola la mattina seguente. Questa è la più terribile storia descritta, ma tante altre, soprattutto da parte di mutilati da mine, come è ampiamente raccontato negli articoli, non erano facili da ascoltare. In particolare quando si trattava di bambini. Gli americani, che si vantano di essere i depositari della democrazia (da dove poi abbiano maturato questa convinzione ricordando la segregazione razziale fino agli anni ‘60), hanno lasciato in Vietnam e Cambogia conseguenze disastrose inimmaginabili. Città e paesi rasi al suolo, villaggi dati alle fiamme, vecchi, donne e bambini uccisi come bersagli da tiro a segno, per non parlare poi delle tonnellate di prodotti chimici sganciati dagli aerei (anche questo ben descritto negli articoli) che hanno reso praticamente incoltivabili i campi, comprese le risaie, importantissimo settore di quelle zone, provocando povertà insanabile e morti di fame. Si calcola che in quel periodo, solo in Cambogia, vi furono non meno di due milioni di morti, senza contare i mutilati, gli intossicati dalle esalazioni chimiche, i nati con gravi handicap. Un vecchio mi diceva che ogni famiglia aveva avuto almeno un morto e lui era riuscito a scamparla per una serie di circostanze incredibili.

Purtroppo, sembra che tutto questo non abbia insegnato nulla poiché vediamo ancor oggi gli stessi orrori perpetrati in Medio Oriente.

Mario Beltrami
05/10/2018