Siamo entrati in una prigione del Rojava per incontrare un ex terrorista dell’Isis. L’organizzazione islamista è in ritirata, ma non è morta. Se lo stato curdo dovesse cadere, potrebbe tornare a farsi minacciosa.
Raqqa (Rojava). Sono passati cinque anni da quando la resistenza curda cacciava i terroristi dell’Isis fuori dalle città principali del Rojava, nel Nord Est della Siria. I combattenti dell’Ypg (Unità di protezione popolare) e dell’Ypj (Unità di protezione delle donne) riconquistavano le città di Raqqa, Kobane, Deir ez-Zor e Qamishle. Riprendevano possesso di territori diventati, nei quattro anni di occupazione dei militanti dello Stato islamico (Isis, o Daesh, acronimo arabo di «Stato islamico dell’Iraq e del Levante»), teatro di esecuzioni di massa, torture e distruzione.
Sono passati cinque anni e, oggi, la domanda è: i terroristi dell’Isis sono stati davvero sconfitti o si stanno solo nascondendo in attesa di riorganizzarsi? Qui in Rojava, gli attentati sono diminuiti, ma non sono mai cessati del tutto. Un ulteriore intensificazione del terrorismo sta avvenendo proprio in questi mesi, complici una nuova serie di bombardamenti da parte della Turchia e le conseguenze del devastante terremoto di febbraio. Questi eventi hanno favorito la fuga di diversi detenuti, riunitisi, in seguito, alle cellule terroristiche nascoste.
Per comprendere meglio lo stato delle cose, ho chiesto alle autorità curde di poter intervistare uno dei detenuti.
Dopo diverse settimane di controlli delle mie credenziali, colloqui e incontri con le autorità, riesco ad avere il permesso di parlare con un prigioniero, un uomo che aveva militato nelle file dell’Isis fino al suo arresto, avvenuto nel 2017, e che, prima della sua radicalizzazione, aveva anche vissuto e studiato in Italia.
L’ex terrorista sta scontando la sua pena nel carcere di al-Hasakah, il più grande del Rojava. Qui si trovano 3.500 detenuti di cui 700 minori, ragazzi soprannominati «i cuccioli del califfato».
Le misure di sicurezza sono tantissime. Proprio qui, il 20 gennaio 2021, un gruppo armato attaccò il carcere causando un’evasione di massa. L’attacco si trasformò in una battaglia, durata nove giorni, che vide la morte di 140 persone, tra guardie del carcere e forze dell’ordine.
Per questo costante stato di pericolo, vengo perquisito a fondo e scortato da alcuni militari.
Manette ai polsi di Adnan Bu Zedi, l’ex terrorista dell’Isis da noi intervistato in un carcere del Rojava. Foto di Angelo Calianno.
Dentro il carcere
Ad accogliermi c’è Omar (nome di fantasia), uno dei responsabili della sicurezza. A lui, chiedo di parlarmi della situazione attuale: «In Rojava deteniamo la maggior parte dei terroristi del Daesh, arrestati durante le operazioni di questi anni, operazioni che ancora continuano in tutto il territorio. Ci sono sempre tentativi di fuga. Qui, ce ne sono stati almeno venti negli ultimi due anni.
Come hai potuto vedere, i bombardamenti da parte della Turchia non favoriscono il nostro lavoro. Erdogan, e i capi dello Stato maggiore turco, per anni si sono scontrati con noi ma, capendo che il popolo curdo resiste e combatte, stanno tentando questa nuova tecnica: debilitare la sicurezza attorno alle strutture di detenzione, favorendo la fuga di potenziali terroristi che possono attaccarci dall’interno, mentre la Turchia prova a invaderci».
Gli chiedo: anche le famiglie dei detenuti, quelle rinchiuse nei campi profughi, sono considerate alla stregua di terroristi?»
«Le misure di sicurezza nei campi sono più leggere. All’interno di un territorio delimitato, quelle persone possono muoversi come vogliono, ricevono cibo e assistenza medica. Cerchiamo di trattare anche le famiglie dei terroristi con umanità ma, personalmente, credo che la maggior parte di loro siano terroristi. A parte la mia opinione, in questi campi troviamo continuamente, durante le perquisizioni, armi nascoste tra le tende. Purtroppo, la maggior parte delle radicalizzazioni oggi, avvengono proprio nelle prigioni e nei campi di detenzione, è un processo difficile da evitare. Possiamo dividere i criminali in base al grado di pericolosità, attuare misure di isolamento, ma parliamo di migliaia di persone, è un’impresa impossibile da raggiungere con le nostre risorse. Ora incontrerai uno dei prigionieri, io sarò dietro di te, armato, pronto a intervenire in qualsiasi caso. Potrai chiedergli quello che vuoi, tranne informazioni sulla prigione, domande a proposito dei suoi compagni o qualsiasi cosa possa rivelare la logistica del carcere. Inoltre, non potrai dire nulla su quello che accade al di fuori di qui, niente notizie sulla situazione politica o particolari sulle nostre misure di sicurezza».
Incontro con Adnan, carcerato ed ex terrorista
Adnan Bu Zedi, l’ex terrorista dell’Isis ritratto di schiena (su sua richiesta); in carcere dal 2017, non sa ancora quando e se sarà liberato, né quanto potrebbe durare la sua pena. Foto di Angelo Calianno.
Due soldati accompagnano un uomo, incatenato mani e piedi, verso la stanza messa a disposizione per l’intervista.
L’ex terrorista ha la testa coperta da un cappuccio nero, è visibilmente molto magro. Tolto il cappuccio, ci presentiamo. Pronuncia le sue prime frasi in un italiano quasi perfetto, ma preferisce continuare l’intervista in arabo. L’uomo dice di chiamarsi Adnan Bu Zedi, ha 39 anni ed è di nazionalità tunisina. Si trova in carcere dal 2017. Adnan è laureato in matematica. Dopo l’università, grazie a un programma interculturale, si è specializzato studiando a Roma e a Siena. Adnan ha vissuto in Italia quattro anni, dove ha anche lavorato, come commesso, per una famosa catena di negozi di abbigliamento.
«Sono stati molto belli i miei anni in Italia. Quando sono arrivato ero sì, musulmano, ma non molto praticante. Nemmeno la mia famiglia è stata mai molto religiosa», mi racconta.
La storia della radicalizzazione di Adnan comincia dal suo ritorno in Tunisia, nel 2011, durante le proteste della Primavera araba. «Sono tornato in Tunisia perché dovevamo fare qualcosa contro la corruzione e la povertà. La religione non aveva nulla a che fare con le mie azioni. Io volevo solo avere una vita normale, ma la situazione di quegli anni non ci permetteva di pensare al futuro, per questo erano cominciati gli scontri e le proteste. In quei giorni però, ho conosciuto dei ragazzi che mi hanno introdotto alla moschea e ai movimenti più radicali.
È stato facile avvicinarmi alla religione. Stavo vivendo un momento personale molto brutto. La mia fidanzata mi aveva lasciato, ero senza lavoro, avevo litigato con la mia famiglia e, di conseguenza, ero sprofondato in una brutta depressione. Questo è stato il motivo per cui mi sono avvicinato alla moschea, ad Allah e ai miei compagni. Ho trovato conforto e una nuova famiglia: mi sentivo parte di qualcosa.
Qualche tempo dopo, uno dei miei nuovi amici alla moschea, mi ha parlato della Siria. La guerra stava devastando il paese, c’era bisogno di riportare la parola di Allah in quelle terre e così, siamo partiti. Il nostro viaggio è stato interamente pagato da un benefattore (15mila dollari), leader del nostro movimento. Sono arrivato a Istanbul con regolare visto turistico. In seguito, illegalmente, con i miei compagni abbiamo passato il confine per arrivare in Siria. Lì è cominciata la nostra opera. Tutto questo è avvenuto prima dell’arrivo del Daesh. Il nostro gruppo non era violento, quello che facevamo era semplicemente predicare per strada, nelle moschee, e avvicinare i ragazzi più giovani all’Islam “giusto”. Quello è stato un bel periodo per me, economicamente stavo molto bene, tanto che mi sono riappacificato con la mia famiglia, alcuni di loro mi hanno anche raggiunto in Siria. Il movimento si sciolse dopo circa un anno, il nostro leader si era ammalato gravemente. Quindi, ho trovato un lavoro presso un distributore di benzina. Subito dopo, ho sposato una ragazza siriana.
Alla fine del 2013, alcuni miei amici mi hanno chiamato dicendomi che si stava formando una nuova organizzazione, un gruppo che avrebbe riportato ordine e la parola di Allah in Siria: era nato il Daesh. Mi sono trasferito a Raqqa e mi sono unito ai miei nuovi compagni. Io ho l’asma e, per l’Islam, chi è infermo non può combattere. Mi occupavo della logistica, soprattutto della ricerca di alloggi e infrastrutture per i combattenti».
In quei giorni, il Daesh si macchiava di orrendi crimini. Venivano uccise centinaia di persone senza motivo. Chiedo ad Adnan: vedendo questo, non hai mai avuto ripensamenti? Lo trovavi giusto? «Ho più volte avuto dei ripensamenti e considerato di poter tornare in Tunisia. I miei compagni, però, erano molto bravi a farmi cambiare idea. Devo dire che il fattore economico aveva un grosso peso: fino a quando eravamo affiliati, non avevamo mai problemi di soldi. Ci tengo a dire che, per me, le uccisioni erano sbagliate, perché nel Corano è scritto che non bisogna uccidere. Certo, ci sono alcuni casi in cui la violenza è necessaria: se, ad esempio, una donna tradisce, merita di morire; se un uomo ruba, è giusto che gli venga tagliata una mano».
Nel 2017, quando l’Isis cominciava a indebolirsi, Adnan, sua moglie e due figli, denunciati da un ex compagno «pentito», sono stati arrestati mentre cercavano di scappare verso la Tunisia.
Quando gli chiedo come si sente oggi e cosa farebbe se mai dovesse uscire dal carcere, mi risponde: «In galera ho capito il senso della vita. Se mai dovessi uscire, la mia priorità sarebbe quella di tenermi fuori dai guai, lontano dai problemi. Vorrei avere una vita tranquilla. La prima cosa che farei sarebbe quella di mangiare del miele, mangerei un po’ di miele ogni giorno, mi manca il suo sapore, non l’ho più assaggiato da quando sono qui».
Lo stadio di calcio di Raqqa; è stato teatro dei momenti più drammatici durante l’occupazione dell’Isis; è qui che avvenivano molte delle esecuzioni pubbliche; gli spogliatoi per gli atleti sono stati trasformati in celle per la detenzione degli «infedeli». Foto di Angelo Calianno.
Reem, la signora della pace
Lasciato il carcere di al-Hasakah, torno a Raqqa, quella che è stata la roccaforte dell’Isis per quattro anni. Qui sono state migliaia le persone, considerate «infedeli», giustiziate dal Daesh.
Cosa è successo a tutti quelli che, in qualche modo, sono sopravvissuti ai giorni di occupazione dei terroristi? Come vivono oggi? Quali sono le loro speranze per il futuro?
Reem, la «signora della Pace», ritratta di schiena in una delle stanze della sua piccola Ong; Reem indossa il burqa solanto per proteggere la sua identità. Foto di Angelo Calianno.
Una delle persone più adatte a rispondere a queste domande è Reem, una donna che ha fondato una piccola Ong che si prende cura delle vittime del terrorismo: persone che hanno avuto danni psicologici e fisici, gente che ha perso lavoro e famiglia. Grazie a un team di 37 volontari tra medici, psicologi e insegnanti, Reem cerca di guarire la ferita profonda lasciata dalla guerra. Per il suo impegno, molti poeti siriani le hanno dedicato delle odi, soprannominandola «Lady Peace» (signora della pace).
Mi racconta: «Pochi si rendono conto dei danni psicologici che il Daesh ha provocato e continua a provocare. Sono tantissime le persone che fanno fatica a uscire di casa, a causa dei traumi subiti durante i giorni di occupazione. Io sono una di loro. Vengo da una famiglia cristiana, mi sono convertita per sposare mio marito. A casa avevo una statua della Madonna e, per questo, un giorno degli uomini hanno fatto irruzione e distrutto tutto a colpi di mitragliatrice: tutti i miei ricordi.
Mentre provavo a lasciare Raqqa, una pattuglia del Daesh ci ha bloccato per strada prendendo a bastonate il taxi che ci trasportava: il motivo era che mia figlia, di 15 anni, non indossava un burqa integrale. Sono stati giorni tremendi, non ci si poteva fidare di nessuno, molti erano pronti a denunciarti anche solo per ottenere un pasto caldo. Un giorno, nel mio quartiere, hanno radunato tutti gli uomini non musulmani e quelli sciiti e, davanti ai nostri occhi, li hanno decapitati. Dopo aver assistito alla scena, la moglie di uno di quegli uomini è morta sul colpo, stroncata da un infarto.
Io, per l’ansia, da allora esco raramente e ho cominciato a fumare moltissimo. Ho ancora paura che quacuno mi possa fermare per strada e uccidere. Per la mia attività, per quello che ho deciso di fare aiutando le vittime del Daesh, sono in cima alle loro liste delle persone da eliminare. Per questo preferisco che non mi si veda in volto».
Un’immagine del centro di Raqqa, sullo sfondo s’intravvede la chiesa armena dei Santi Martiri. Foto di Angelo Calianno.
Torture e indottrinamento
Camminando per Raqqa, sono tantissimi i luoghi che portano le cicatrici della guerra contro il terrorismo. Centinaia sono i palazzi distrutti per essersi trovati in mezzo alla linea di fuoco nei combattimenti tra i terroristi e la coalizione internazionale. Malgrado le case siano ad alto pericolo di crollo, sono comunque occupate abusivamente. Molte di queste abitazioni hanno subito ulteriori crolli dovuti al terremoto del 6 febbraio, evento che ha ucciso migliaia di persone in Siria, molte nemmeno registrate come cittadini. Le uniche alternative, per chi ha perso tutto, sono l’occupazione abusiva o la vita in una tenda di un campo profughi.
Uno dei luoghi più noti per la detenzione, e le esecuzioni dell’Isis, è stato lo stadio di calcio di Raqqa. Un guardiano mi apre il cancello, mi mostra le stanze dove i terroristi tenevano gli «infedeli». Persone catturate perché non avevano osservato la sharia, o semplicemente perché di un’altra religione.
Qui incontro Majid, sunnita, uno dei ragazzi che, in queste celle, ha passato mesi. «Nel 2014 – racconta – il Daesh aveva distrutto la chiesa dei Santi Martiri, qui a Raqqa. Allora io, insieme a tanti musulmani, sciiti e sunniti, e a cristiani di varie confessioni, sono andato lì per rimettere su la croce, in segno di protesta contro l’occupazione. Sono stato arrestato in quell’occasione. Non mi sono mai tirato indietro contro le ingiustizie, ho sempre cercato di far sentire la mia voce con proteste pacifiche. Ovviamente, questo dava molto fastidio e così mi hanno arrestato e torturato. Le torture si alternavano a tentativi di indottrinamento. I primi giorni mi trattavano bene, mi davano molto da mangiare e, in seguito, mi parlavano a lungo del motivo per cui mi sarei dovuto unire al Daesh. Quando mi sono rifiutato, una delle prime volte, mi hanno legato, incappucciato e lasciato nel centro del corridoio, proprio qui all’ingresso degli spogliatoi dello stadio. Tutti quelli che passavano mi picchiavano, mi tiravano calci in testa, nelle costole, sulla schiena. Sono rimasto in quello stato per diversi giorni.
Poi, ancora nuovi tentativi di conversione e nuove torture. Una delle peggiori che ricordo è chiamata al-Shabh («il fantasma», in arabo), una tortura che consiste nell’essere appeso con le braccia in tensione dietro la schiena. Sono stato lasciato così quasi un giorno. Sono stato accusato di essere sciita, perché nella mia famiglia ci sono diverse persone che si chiamano “Alì”. In seguito, mi hanno accusato di essere comunista, ateo e di aver combattuto con i partigiani curdi».
«Durante quel periodo, mi sono gravemente ammalato di dissenteria. I miei carcerieri mi davano solo un minuto per poter andare in bagno, puoi immaginare le condizioni igieniche. Sulla porta della mia cella, con delle pietre, avevo disegnato un ideale passaggio rappresentato da un arco con dei fiori. Quell’immagine mi ha dato speranza. Sono rimasto imprigionato per 5 mesi e 20 giorni. Sono stato liberato perché la mia famiglia ha pagato un riscatto. Ancora oggi però, soffro di attacchi di ansia. Dormo pochissimo e ho continuamente incubi. Ci sono dei suoni che mi scatenano ancora terrore: il tintinnio delle chiavi, il rumore di un cancello che si apre, dei passi lungo il corridoio. Chi è sopravvissuto fisicamente all’Isis, dentro ha ancora delle ferite inguaribili».
Oggi Majid lavora in diversi campi di rifugiati in tutto il Medio Oriente. Si occupa di portare avanti progetti d’arte e pittura con i bambini che hanno perso casa e famiglia. Come prima immagine, quando si presenta ai ragazzi, mostra quell’arco con i fiori che gli ha dato speranza durante la prigionia.
Chi sostiene l’Isis
Oltre ai bombardamenti ordinati da Erdogan, a favorire l’Isis ci sarebbe anche Assad con il suo regime. Il presidente della Siria, secondo diversi comunicati dell’intelligence curda e Usa, decidendo di non intervenire in alcun modo per contrastare i terroristi dello Stato islamico, ne favorirebbe la circolazione e la sopravvivenza. Un recente dossier del Washington Institute (un centro studi statunitense sul Medio Oriente, ndr), parla anche di veri e propri finanziamenti in denaro e fornitura di armi.
Così come Erdogan, anche Assad auspica il crollo della democrazia del Rojava, cosa che gli darebbe la possibilità di occupare i territori del Nord Est, molto ricchi di petrolio.
Malgrado non ci sia più una vera occupazione da parte del Daesh, e la maggior parte delle cellule terroristiche si sia rifugiata nelle zone rurali e sulle montagne, il pericolo del terrorismo è ancora reale. Proprio nella struttura governativa curda, che mi ha ospitato a Raqqa, il 26 dicembre 2022 i terroristi dell’Isis hanno fatto irruzione, uccidendo sei persone.
A seguito di questo attacco, una nuova operazione antiterrorismo, effettuata dall’Sdf (Syrian democratic force), chiamata «Per i martiri di Raqqa», ha portato all’arresto di 32 terroristi e di decine di complici che ne favorivano la latitanza.
A oggi, sono 55 i villaggi sospettati di ospitare e sostenere gli uomini dello Stato islamico. Negli ultimi tre anni, grazie agli interventi dell’Sdf, sono stati sequestrati centinaia di milioni di dollari in contanti, nascosti da alcuni «facilitatori» che si occupavano degli aspetti finanziari del terrorismo islamista.
Malgrado la comprovata efficienza delle operazioni militari, moltissimo c’è ancora da fare, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto umanitario che coinvolge profughi e detenuti. Campi di detenzione e carceri rischiano di essere, secondo il parere dei vertici dello Stato maggiore curdo, degli incubatori per i terroristi di domani.
Angelo Calianno (seconda parte – fine)
Periferia di al-Hasakah: in gran parte delle città non esistono discariche ufficiali, l’immondizia viene lasciata in enormi spazi, appena fuori dai centri abitati; qui s’incontrano molti ragazzi e bambini che, tra la spazzatura, cercano materiali da riciclare, soprattutto metalli da poter rivendere a peso. Foto di Angelo Calianno.
Dopo i 45mila morti del terremoto
La tragedia e il cinismo di Erdogan e Assad
I l devastante terremoto che, il 6 febbraio 2023, ha colpito il Sud Est della Turchia e il Nord Ovest della Siria, rischia di influire pesantemente anche sugli equilibri geopolitici del Medio Oriente.
Per quanto riguarda la Turchia, la zona colpita, una delle più povere del paese, è abitata per la maggior parte da curdi. Città come Salinurfa e Gaziantep, sono da sempre i centri principali dei movimenti di opposizione a Erdogan. Con le elezioni alle porte, previste prima per giugno 2023 ma, molto probabilmente, anticipate al 14 maggio, il presidente turco potrebbe usare il controllo degli aiuti come mezzo di propaganda. Erdogan si gioca molta della sua credibilità nella gestione di questa emergenza. In Turchia, la consapevolezza del rischio di un terremoto di questa entità esisteva da anni. Il governo parla di 4,2 miliardi di euro, spesi negli ultimi 20 anni, per la messa in sicurezza di case e infrastrutture. I partiti di opposizione rispondono che, visto quello che il sisma ha causato, quei soldi sono stati spesi in alcune zone piuttosto che in altre, svantaggiando i curdi, i nemici di sempre di Erdogan.
Le elezioni anticipate potrebbero giocare molto a sfavore dell’attuale presidente, ma anche per l’opposizione, che non ha ancora un leader abbastanza carismatico da contrapporre a Erdogan.
In Turchia sono arrivati volontari da tutto il mondo. La macchina degli aiuti si è mossa velocemente. Nonostante questo, al momento (6 marzo), sono oltre 40mila le vittime di questo terremoto.
Ancora più complicata è la situazione in Siria. Il terremoto, oltre alle migliaia di vittime dovute allo stato precarissimo delle costruzioni, ha causato l’ennesima evasione di terroristi dello Stato islamico da alcuni dei centri di detenzione. Inoltre, la Siria è ancora uno stato sottoposto a sanzioni, quindi, l’ingresso di aiuti umanitari e invio di denaro è molto complicato.
Il ministro del Tesoro degli Stati Uniti, Wally Adeymo, ha dichiarato sospese, almeno temporaneamente, alcune delle penalizzazioni nei confronti del paese, per permettere l’ingresso alle organizzazioni umanitarie.
Tuttavia, i soccorsi sono arrivati e stanno arrivando molto in ritardo. Le Nazioni Unite ne hanno posticipato l’invio per il timore che Assad possa usare il coordinamento degli aiuti come ulteriore arma per rafforzare il proprio regime, e controllare quelle aree ancora a lui ostili. In questo momento, le Ong stanno cercando un modo per inviare denaro, e supporto, direttamente alle organizzazioni umanitarie già presenti in Siria (come, ad esempio, i volontari White Helmets), evitando così che tutto debba passare al vaglio di Damasco. A questo, si sono opposti Iran e Russia, alleati del presidente Assad.
A oggi, sono quasi seimila le vittime in Siria, numero destinato drammaticamente a salire, poiché sono davvero poche le aree raggiunte dai soccorsi.
Un ulteriore problema, che la Siria dovrà affrontare, sarà l’ondata di persone che tenteranno di fuggire dal paese, il terremoto ha distrutto quel poco che rimaneva di molte aree già provate da più di un decennio di guerra.
An.Ca.
L’interno della chiesa armena dei Santi Martiri oggi interamente ricostruita dopo essere stata distrutta durante l’occupazione dei miliziani dell’Isis; la ricostruzione è avvenuta anche grazie all’aiuto di molti volontari, soprattutto musulmani. Foto di Angelo Calianno.
I cristiani del Rojava
Fuga senza fine
Nel 2011, erano 400 le famiglie di cristiani residenti a Raqqa. Una comunità, molto praticante, partecipava a tutte le funzioni domenicali e delle festività, soprattutto quella natalizia. L’occupazione dell’Isis, l’impossibilità di praticare la propria religione e le persecuzioni, hanno causato la fuga della maggior parte dei fedeli. Oggi, a Raqqa sono rimasti meno di 60 cristiani, quasi tutti uomini. Malgrado alcune chiese siano state ricostruite (come quella armena in foto), non si celebrano più messe per la mancanza di parrocchiani. Dei 150mila cristiani che si stimano presenti nel Rojava, una gran parte sta a al-Qamishle e dintorni. In tanti si sono trasferiti a Erbil, nel Kurdistan iracheno, dove la comunità cristiana è relativamente benestante.
An.Ca.
L’esterno della chiesa armena dei Santi Martiri oggi interamente ricostruita dopo essere stata distrutta durante l’occupazione dei miliziani dell’Isis; la ricostruzione è avvenuta anche grazie all’aiuto di molti volontari, soprattutto musulmani. Foto di Angelo Calianno.
Siria: Accerchiati e bombardati
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I curdi del Nord Est della Siria sono stati fondamentali per fermare gli estremisti dello Stato islamico (Isis-Daesh). Dimenticato il loro contributo, oggi sono in balia dei vicini, la Siria di Assad e l’ambigua Turchia di Erdogan.
Semalka (confine Kurdistan iracheno-Siria), 10 novembre 2022. Entrare in Rojava non è semplice per uno straniero. Riesco a varcare il confine, con il visto giornalistico, dopo circa due mesi di iter burocratico. L’unico accesso al Nord Est della Siria è via terra, dal Kurdistan iracheno attraverso Semalka, valico aperto tre giorni a settimana. I controlli di sicurezza durano ore, sei nel mio caso. Attraverso la frontiera insieme ad altre poche decine di persone. Alcuni tornano a casa dopo essere stati, per motivi di salute, a Erbil, città curda con ospedali più moderni ed equipaggiati. Sono migliaia invece le persone in uscita, chi ne ha la possibilità prova a fuggire per cercare un futuro migliore.
Sono diretto a Qamishle (anche Qamishlo, ndr) una delle città principali del Nord Est della Siria e, per la sua posizione, un ottimo luogo come base logistica. A parte questo, le città del Rojava non hanno molto da offrire, quasi tutto sembra in uno stato di semi abbandono: case distrutte e mai ricostruite, cantieri di palazzi iniziati e mai terminati. Molte delle strade, fatta eccezione per alcune costruite con l’aiuto di Ong straniere, somigliano a sentieri sterrati. Piove molto al mio arrivo. Il maltempo ha tenuto alla larga per qualche giorno i droni della Turchia, ma ha riversato terra e fango sulle strade, rendendo ancora più difficile ogni spostamento. Tutte le città sono divise in quartieri, alcuni dei quali ancora sotto il controllo del regime di Assad.
Il medico «terrorista»
Per poter comprendere meglio quello che accade, visito il centro di riabilitazione della Mezzaluna rossa di Qamishle. Nella struttura vengono curati centinaia di pazienti feriti dai bombardamenti, dagli attentati e dalle decine di mine antiuomo lasciate dall’Isis, prima della sua ritirata.
È qui che incontro il dottor
Adnan Malla Ali, direttore del centro e medico degli sfollati interni (Internally displaced persons, Idp) che, in più di 300mila, dovettero fuggire da Afrin durante l’invasione turca del gennaio 2018.
«Non potrò mai dimenticare – racconta il medico – il giorno dell’attacco. Erano le 4 di pomeriggio, stavo curando dei bambini. Sentii il rumore dei razzi. All’inizio pensai fossero solo delle esplosioni isolate, la Turchia ha sempre attaccato le nostre città, come a “ricordarci” della sua presenza. Ma quel giorno è stato diverso. Gli aerei turchi hanno sganciato ben 72 bombe».
Perché la Turchia ha invaso proprio Afrin?, gli chiedo. «I fattori sono diversi: la vicinanza con il loro confine prima di tutto. Afrin poi, è anche la zona più verde di tutta questa regione, famosa anche per la qualità del suo olio d’oliva, forse il migliore di tutto il Medio Oriente. Ma a parte questo, è un’affermazione di potere. Erdogan ha manie di espansione e considera tutti i curdi dei terroristi. Io stesso sono annoverato nelle “liste nere” come terrorista, semplicemente perché, da medico, ho curato dei combattenti delle milizie curde».
Oltre a quanto affermato dal medico, molto dell’interesse nel Rojava deriva dalle sue risorse. Qui, infatti, si trova l’80% del petrolio di tutta la Siria. Il Rojava, però, non possiede raffinerie, infrastrutture che si trovano tutte nel territorio sotto il regime di Assad.
Nonostante le sue risorse e il suo ruolo chiave nella lotta al terrorismo, il Rojava oggi versa in uno stato di estrema povertà. Materie prime, forniture ospedaliere, medicine e qualsiasi prodotto inviato dall’estero non possono arrivare direttamente qui (almeno legalmente), tutto deve passare da Damasco. La logistica è sempre complicata, perché il regime di Assad non ha mai riconosciuto ufficialmente l’indipendenza di questo stato. L’unico canale di accesso è il Kurdistan iracheno, via però tutt’altro che semplice a causa di una grande mancanza di strade e un grave problema di sicurezza.
Inoltre, le città del Nord Est della Siria hanno pagato e pagano ancora un prezzo altissimo per la guerra contro l’Isis. Interi quartieri nelle città di Kobane e Raqqa sono in rovina, distrutti dai bombardamenti americani alcuni, e fatti saltare in aria dagli uomini di Daesh altri.
dottor Adnan Malla
Il campo di Al-Hol
E poi c’è l’onnipresente Turchia. L’operazione «Claw-Sword» (riquadro a pag.14) non è terminata con gli eventi del 19 novembre 2022. La sera del 23 novembre, infatti, alle 19.30, un nuovo attacco di droni ha colpito il campo di rifugiati di Al-Hol, uccidendo otto militari che lo sorvegliavano.
Vi arrivo qualche giorno dopo il bombardamento. Al-Hol è un campo di detenzione dove si trovano famiglie dei membri più radicali dell’Isis. Le persone al suo interno, ufficialmente, non sono accusate di nulla, ma per le forze di sicurezza curde sono potenziali terroristi. All’interno è impossibile vedere il volto di una donna adulta senza il burqa, molte hanno anche gli occhi coperti da un velo.
Lo spazio, dove sorge questa enorme tendopoli, è circondato da pali e reti metalliche. Ci sono diversi check point, guardie e veicoli blindati a presenziare ogni accesso. Ad accogliermi c’è Gihan, una giovane donna curda che si occupa della gestione del campo: «Qui vivono circa 53mila persone, l’80% sono donne, bambini e bambine fino ad un massimo di 12 anni. Il resto sono anziani e alcuni uomini adulti “Idp” (sfollati interni), che hanno perso la casa durante i vari conflitti. Il campo è diviso in diverse zone, quello dove ci sono gli Idp appunto, poi un’ulteriore divisione viene fatta per nazioni: c’è un settore dove si trovano solo iracheni e siriani. Un altro ancora raccoglie gli stranieri che arrivano da oltre 50 nazioni diverse, la maggior parte da Egitto, Tunisia e Kuwait».
Chiedo a Gihan se può spiegarmi cosa è accaduto la sera del 23 novembre, quando la Turchia ha lanciato l’attacco. Qual era il loro scopo? Perché attaccare voi? La donna racconta: «Erano le 19.30 quando abbiamo sentito due forti esplosioni. Abbiamo in seguito capito che erano state delle bombe sganciate da droni. Ci sono state diverse ore di panico ma l’attacco è stato ben mirato: ha colpito e ucciso otto delle nostre guardie. Le bombe non sono cadute nel campo ma bensì fuori dalle reti di protezione per colpire noi, le forze di sicurezza curde. Lo scopo, che la Turchia cerca di raggiungere da tempo, è quello di creare caos e destabilizzare il governo di Rojava. Uno dei metodi più usati è quello di colpire luoghi come il nostro in modo che potenziali terroristi possano scappare e riunirsi alle cellule di Daesh operanti così da organizzare nuovi attentati. Qui, fortunatamente, siamo riusciti a riprendere chi cercava di fuggire. In un altro campo invece, nella città di Al-Hassakah, dopo i bombardamenti ci sono state diverse evasioni. Se usiamo le nostre risorse per continuare a combattere l’Isis e riprendere chi scappa, saremo più deboli nel momento in cui la Turchia dovesse invaderci. Questo sembra essere il loro piano».
Chiedo: «Pensa che, all’interno dei campi come questo, ci siano davvero molti potenziali terroristi?». «Assolutamente sì – risponde sicura -. Lo sappiamo noi, lo sa la Turchia, lo sanno le forze di coalizione. Posso fare molti esempi a riguardo. Qualche giorno fa, nel settore degli egiziani, sono state trovate due ragazzine morte, due sorelle assassinate. Abbiamo allora fatto una perquisizione e, nelle tende, abbiamo trovato centinaia di armi, soprattutto Kalashnikov e Rpg (entrambi di produzione russa, ndr). C’era un arsenale sufficiente a cominciare una nuova guerra. All’interno del campo abbiamo scuole e anche 20 ambulatori. In uno di questi uno dei nostri dottori ha curato la gamba di un ragazzino, per mesi. Il bambino di sette anni era stato colpito da alcune schegge di granata. Alla fine della cura, il bambino ha detto al medico: “Quando sarò grande, uscirò da qui e ti ucciderò. Lo farò velocemente, tagliandoti la testa per non farti soffrire perché, mi hai curato, ma sei pur sempre un infedele”. Noi operatori, molto spesso, abbiamo paura perché il campo è enorme e gli eventi sono imprevedibili. Il prossimo passo per la sicurezza sarà un’ulteriore divisione dei settori, in modo da poter avere più controllo. Benché la maggior parte dei residenti siano donne e bambine, ogni anno nel campo ci sono circa sessanta nuove nascite».
«Allah Akbar»
Lasciato l’ufficio di Gihan, comincio a camminare per le stradine fangose della tendopoli, mi rendo subito conto dei problemi di sicurezza di cui mi parlava la manager. All’ingresso del settore egiziano e tunisino, io e il mio interprete siamo bersagli di una sassaiola. Il lancio di pietre comincia prima da alcuni ragazzini a cui, man mano, se ne aggiungono altri e in seguito anche donne. Molti urlano: «Allah Akbar» (Dio è grande), esclamazione spesso usata prima degli attentati. Siamo costretti a lasciare questo primo settore.
Entrando nella zona a maggioranza irachena e siriana, l’accoglienza è molto diversa. Vengo accerchiato da tantissime donne, non vogliono darmi il proprio nome ma vogliono descrivermi le condizioni in cui vivono. Una signora, nella parte del campo destinata al mercato, mi racconta: «I nostri mariti sono in galera ma noi non abbiamo fatto nulla. Siamo rinchiuse qui a crescere i nostri figli, senza soldi né risorse. È vero, il cibo è gratis ma è poco, non basta praticamente mai. Manca tutto, sono tre giorni che siamo senza corrente e per quattro siamo stati senz’acqua. Non c’è il diesel per il riscaldamento e nelle tende si muore dal freddo. Veniamo trattate come criminali. Alcuni militari mi hanno anche rubato i soldi».
I racconti di chi gestisce il campo, e di chi ci vive, sono tra loro estremamente contrastanti. In questo clima, è molto difficile capire chi, tra le persone rinchiuse qui, sia innocente e chi un potenziale pericolo.
Incertezze e pericoli
I bombardamenti degli ultimi mesi sono solo l’ultimo capitolo di una regione che non trova pace. Nella conferenza stampa del 30 novembre, il generale Abid Mazloum, comandante dell’Sdf (Syrian democratic force) ha dichiarato: «In caso di invasione da parte della Turchia saremo pronti a combattere e combatteremo. Quello che però gli stati occidentali devono capire è che, se saremo impegnati in una guerra contro la Turchia, non potremo usare le nostre risorse per continuare a combattere l’Isis e mantenere quello stato di sicurezza garantito fino ad ora. Una nuova guerra, inoltre, significherà migliaia di nuovi profughi che scapperanno dai luoghi in conflitto e quindi, una nuova emergenza umanitaria. Una guerra in Rojava non riguarderà solo il Rojava, ma sarà un problema anche per tutti quegli stati che hanno interessi in Medioriente».
Nel 2018, dopo le molte battaglie vinte contro l’Isis, i media occidentali osannavano le milizie curde. Si guardava al Rojava come un grande esempio di democrazia e convivenza tra religioni. Il Nord Est della Siria oggi è circondato dai suoi nemici: da una parte le forze ostili del regime di Assad, dall’altra le numerose cellule dell’Isis ancora attive. A tutto questo, si aggiunge la Turchia con i suoi raid aerei e una lotta senza sosta contro l’etnia curda. Erdogan continua a mantenere le proprie truppe vicine al confine, pronte per un’invasione via terra. Nonostante Onu e Usa abbiano condannato gli attacchi contro il Rojava, nessun passo concreto è stato fatto per scongiurare quello che potrebbe essere un nuovo, sanguinoso conflitto in quest’angolo di Medio Oriente.
Angelo Calianno (1- continua)
Il Rojava e i curdi
La lotta per uno stato indipendente
Il Rojava è uno stato, autoproclamatosi indipendente, che comprende i territori del Nord Est della Siria. In lingua curda, la parola Rojava sta a identificare il luogo dove tramonta il sole: l’Ovest. Non essendo ufficialmente riconosciuto da nessuna nazione, a parte il Kurdistan iracheno, nei documenti ufficiali ci si riferisce a quest’area geografica come: Siria del Nord Est o Kurdistan dell’Ovest.
Gli storici fanno risalire la lotta curda per una propria patria al 1916 con l’accordo Sykes-Picot, conosciuto anche come accordo sull’Asia minore.
Questa trattativa stipulava un’intesa segreta fra l’Inghilterra, rappresentata da Mark Sykes, e la Francia, rappresentata da Georges Picot, con l’assenso della Russia zarista. L’accordo ridefiniva confini e controllo dei territori dopo la caduta dell’Impero Ottomano. Il piano Sykes-Picot lasciava i curdi senza una propria nazione, divisi in un territorio frammentato tra Turchia, Siria, Iraq e Iran.
La prima forma di governo in Rojava arriva nel 2012 quando le milizie curde prendono il controllo di alcune delle principali città istituendo il Dfns (Democratic federation of north-eastern Syria). La nascita ufficiale dello stato e la sua dichiarazione di indipendenza avviene nel 2016.
Oggi il Rojava è amministrato dall’Aanes (Autonomous administration of North and East Syria), una coalizione politica formata da: Sdc (Syrian democratic council), e dall’Sdf (Syrian democratic forces). Quest’ultimo gruppo racchiude, in un unico corpo militare, milizie curde e ribelli di diverse etnie e credi religiosi.
L’esperimento democratico in Rojava è stato oggetto di studio di centinaia di attivisti e ricercatori di tutto il mondo. La sua «Carta del contratto sociale» (una sorta di Costituzione provvisoria) prende ispirazione dall’ideologia del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan), e dalla filosofia del suo leader Abdullah Ocalan che, nel 1978, fondò il partito di stampo marxista leninista. L’idea di base del Pkk e di Ocalan è quella di un decentramento del potere denominato: «Confederalismo democratico». I punti fondamentali sono: uguaglianza e pari rappresentanza per ognuna delle religioni ed etnie presenti nello stato; istruzione gratuita e accessibile per tutti; assoluta parità nei ruoli tra uomini e donne. Detto questo, Ankara considera il Pkk, e chiunque gli sia collegato, come un gruppo terroristico. Da 22 anni, Ocalan è incarcerato nell’isola prigione di İmralı a Bursa, in Turchia, dove sta scontando l’ergastolo.
Le continue migrazioni, lo spostamento dei confini e le migliaia di profughi interni, rendono difficile una stima del numero degli abitanti in Rojava. L’ultima statistica risale al 2021 e contava 4 milioni e 500 mila abitanti. Il 60% della popolazione è di etnia curda anche se, dopo l’annessione delle città di Manjin, Deir ez Zor e Raqqa, riconquistate dopo essere state sotto il controllo dell’Isis, la proporzione della popolazione araba ha quasi eguagliato quella curda.
Le altre minoranze sono rappresentate da: Yazidi, Turkmeni, e Cristiani (divisi tra Siriaci, Assiri, Armeni, Greco ortodossi). Prima della guerra contro l’Isis, i cristiani erano 150mila, ora una stima approssimativa ne conta 55mila.
Gli abitanti del Rojava si considerano in guerra con la Turchia, anche se nessuna comunità internazionale riconosce questo conflitto. Un’inchiesta della Bbc, effettuata tra il 2016 e oggi, ha contato più di duecento «incidenti di confine», azioni in cui la Turchia, con diversi pretesti, ha attaccato e provato a invadere il Nord Est della Siria.
Angelo Calianno
I giochi politici della Turchia
La guerra di Erdogan ai Curdi
Il 19 novembre 2022 la Turchia ha lanciato l’operazione Claw-Sword (spada-artiglio), una serie di bombardamenti aerei che hanno attaccato il Nord Est della Siria, la regione a maggioranza curda conosciuta come Rojava (*).
L’offensiva ha colpito diversi obiettivi nelle città di Kobane, Raqqa, Al-Hassakah, Al- Malikiyah e Darbasiya. I portavoce dello Stato maggiore turco hanno dichiarato di aver centrato solo bersagli militari e potenziali terroristi. In realtà, ci sono state anche diverse vittime civili, tra cui Issam Abdullah, giornalista siriano ucciso durante un raid aereo mentre intervistava dei contadini nelle zone rurali di Al-Malikiyah. L’operazione Claw-Sword è nata come risposta all’attentato di Istanbul del 13 novembre 2022 quando, su Istiklal street, una delle principali vie dello shopping della capitale, una forte esplosione ha ucciso 6 persone e ferito altre 81. Il giorno dopo veniva arrestata una donna di origine siriana, Ahlam Albashir, accusata di essere l’esecutrice materiale dell’attentato. I primi comunicati stampa da parte del governo turco hanno affermato che la donna è stata addestrata dalle milizie curde dell’Ypg (unità di protezione popolare curda), e che l’attentato sarebbe stato ordinato dal Pkk (Partito dei lavoratori).
Il ministro dell’interno turco Suleyman Soylu, a seguito del messaggio di cordoglio da parte degli Stati Uniti, ha dichiarato: «Rifiutiamo le condoglianze da parte degli Usa. Sono nostri alleati ma, nello stesso momento, finanziano organizzazioni terroristiche curde che minacciano la nostra libertà».
Cosa accade ora in Rojava dopo l’offensiva turca? Ci sono davvero le milizie curde dietro l’attentato a Istanbul? Ad oggi non si hanno più notizie di cosa sia accaduto alla sospettata, Ahlam Albashir. Nessuna novità riguardante le sue dichiarazioni o quelle degli altri 46 arrestati. Sia il Pkk che l’Ypg negano con forza qualsiasi coinvolgimento, accusando Erdogan di aver strumentalizzato la tragedia, usandola come ennesima scusa per attaccare e invadere il Rojava. Non è la prima volta, infatti, che la Turchia lancia offensive verso questa parte della Siria. Anzi, queste sono state una costante sin dalla nascita di questo stato. Uno degli attacchi più cruenti, poi seguiti da un’invasione e occupazione da parte dei Turchi, è avvenuto nel 2018 per l’importante città di Afrin. Durante quell’anno, le milizie curde dell’Ypg si rendevano protagoniste nella guerra contro l’Isis, sconfiggendo decine di cellule terroristiche e costringendo gli uomini dello Stato islamico a fuggire dai principali centri abitati. Subito dopo queste vittorie, la Turchia attaccava e invadeva Afrin, considerato luogo di nascita e attuale centro dei movimenti politici curdi. Questa operazione, denominata Olive Branch (Ramoscello d’ulivo), fu eseguita anche con il supporto economico dell’amministrazione Trump.
Gli Stati Uniti hanno un ruolo molto ambiguo nel Nord Est della Siria, essendo da una parte al fianco dei curdi nella coalizione anti Isis, dall’altra alleati strategici della Turchia.
An.Ca.
(*) La regione è stata interessata dal devastante terremoto dello scorso 5-6 febbraio (mentre questa rivista andava in stampa). In particolare, è stata colpito il centro di Afrin, oggi in mano turca.
Giovani, costruite il vostro destino
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testo di Marco Bello |
È stato innanzitutto un amico d’infanzia di Sankara. Ci racconta il paese reale, la sfida del terrorismo e i conti ancora aperti con un passato su cui fare giustizia. E ci ricorda l’attualità e l’universalità del messaggio del presidente visionario.
Fidél Toé, classe 1949, è stato ministro del Lavoro, Sicurezza sociale e Funzione pubblica di Thomas Sankara (1983-87). Era amico d’infanzia del presidente visionario del Burkina Faso. Avevano, in fatti, frequentato insieme il liceo Ouezzin Coulibaly di Bobo Diulasso.
«Ho conosciuto Sankara nel 1962», ci racconta. «Abbiamo avuto relazioni sane, abbiamo discusso, a volte non eravamo d’accordo».
L’ex minstro è oggi in pensione, dopo una vita nella funzione pubblica, un mandato da deputato (2002-2007), e anni di impegno nella lotta all’Hiv nel suo paese, come coordinatore della Cellula ministeriale di lotta al Hiv/Aids del ministero del Lavoro e della sicurezza sociale.
Toé ha conosciuto l’esilio, dopo l’assassinio di Sankara, avvenuto il 15 ottobre 1987. Ha passato sette anni tra il Ghana e il Congo Brazzaville (1987-94).
È un signore cordiale e accogliente, e quando parla è subito chiaro che porta dentro di sé una grande fetta di storia del Burkina Faso. «Scriverò una memoria – ci confida -, ho tante cose da raccontare».
Lo abbiamo raggiunto telefonicamente, nella sua casa di Ouagadougou. Gli facciamo alcune domande sulla difficile situazione che attraversa oggi il paese saheliano.
Terrorismo islamista
Onorevole, come legge gli ultimi, sanguinosi, attacchi dei terroristi in Burkina Faso?
«Gli attacchi sono iniziati nel 2015, nel Nord del paese. Hanno sorpreso molti, mentre altri se li aspettavano. Con l’insediamento del primo governo del presidente Roch Marc Christian
Kaboré sono arrivati attacchi precisi agli hotel per stranieri, e poi allo stato maggiore dell’esercito. Il presidente ha rivelato che alcune persone sospette avevano reclamato, informalmente, al governo, alcuni veicoli promessi dal precedente presidente, Blaise Compaoré. Secondo me c’è la complicità del vecchio regime. Sono state intercettate telefonate nelle quali si diceva che occorreva destabilizzare il paese.
Oggi, pur non conoscendo la faccia di chi attacca, sappiamo che ci sono tra loro dei giovani burkinabè, reclutati dagli jihadisti. Devo ammettere che in qualche modo anche noi siamo complici, per il fatto di non denunciare i nostri figli. Se un ragazzo che non possiede nulla e non lavora, torna al villaggio pieno di soldi, certo non li ha vinti alla lotteria. Li ha ottenuti tramite le armi, la droga o la frode.
Sono questi elementi endogeni che permettono al terrorismo di attaccare, installarsi e sfruttare. Come nell’ultimo attacco a Solhan (vedi box), un villaggio nei pressi del quale si estrae oro in maniera tradizionale. Le autorità dovrebbero capire che se abbiamo l’oro non dobbiamo metterlo a disposizione di chiunque. La ricerca artigianale di questo metallo è oggi fonte di insicurezza, perché nei pressi dei siti si installano persone giunte da ogni dove, anche dall’estero, e non si ha più il controllo di chi è presente sul territorio. Inoltre, le nostre frontiere sono molto permeabili. In fondo penso ci sia una mancanza dei servizi d’informazione oltre che una debolezza organizzativa.
Durante la rivoluzione (sankarista, 1983-87, ndr), chiunque arrivasse in un villaggio doveva presentarsi alle autorità e al Cdr locale (Comitato di difesa della rivoluzione), per essere registrato. Inoltre, un altro problema è che non abbiamo insegnato alla popolazione a difendersi, così la gente scappa di fronte al nemico».
Ma non dovrebbero essere l’esercito e la polizia a garantire la sicurezza dei cittadini?
«È vero, ma in queste situazioni. quando il problema è troppo grande per l’esercito, penso che la popolazione debba sapersi difendere. Si tratta di autodifesa per supplire alle mancanze delle forze di sicurezza. In diversi casi di attacchi, l’esercito era a decine di chilometri, ed è potuto intervenire solo in un secondo tempo. Le nostre frontiere sono difficili da controllare con l’esercito che abbiamo. Ci sono pure soldati che si rifiutano di andare in zone remote. Forse c’è un problema a livello delle gerarchie militari.
Poi c’è la questione dei siti auriferi. Se c’è una popolazione che si organizza per sfruttare l’oro, deve anche essere disponibile a impiegare dei soldi per la sicurezza, per proteggere il minerale estratto. In altri paesi succede così».
Più in generale, come valuta la lotta al terrorismo da parte di questo governo?
«Devo dire che non ci sono stati risultati, quindi c’è un fallimento da questo punto di vista. I servizi non funzionano, non si sa quando arriva il nemico. Dicono che si è fatto un negoziato, ma in verità non è cambiato nulla. Non si è ancora trovata la soluzione».
Inoltre il terrorismo a livello internazionale sembra una scusa per una presenza straniera nel paese.
«Il ricorso a forze straniere dimostra l’impotenza della nostra nazione di affrontare il nemico. Penso che non si sia spiegata in modo adeguato l’importanza di questa lotta ai nostri giovani, perché vediamo dei burkinabè che criticano l’intervento straniero, ma essi stessi non fanno nulla. Non c’è in noi la coscienza che dobbiamo batterci e che, chi può, deve andare al fronte. Ci sono tanti, anche della società civile, che sono contro l’intervento militare, che trovano troppo violento, ma loro non si sporcano mai le mani. Non c’è una guerra con le mani pulite. Ci saranno altre situazioni difficili, queste persone sono molto violente. Negli eventi di Solhan si vede la barbarie. E questo ti fa diventare barbaro, e ti fa chiedere una giustizia punitiva immediata».
Notizie di attacchi jihadisti nel Nord del paese (Photo by OLYMPIA DE MAISMONT / AFP)
L’insurrezione
Parlando dell’insurrezione del 2014 e poi di quella del 2015 contro il colpo di stato, cosa è rimasto del movimento popolare?
«Nel 2014 c’è stata un’insurrezione salutare, che ha visto la fuga di un uomo che non voleva più lasciare il potere, mentre la nostra Costituzione prevede che il capo di stato può stare 5 anni, rinnovabile una volta. Ma Blaise Compaoré voleva un rinnovo perpetuo.
Le forze che hanno fatto l’insurrezione erano dei vecchi amici del partito di Compaoré che si erano dimessi (alcuni mesi prima, ndr) unendosi all’opposizione storica. Movimento che si era rafforzato con i giovani di Ouagadougou e di tutto il paese che si sono sollevati affinché ci fosse un rinnovamento.
Però, quando si fa un’insurrezione, e non c’è uno stato maggiore che dica, nel caso di successo, che cosa si farà, ecco che altri, più organizzati, possono appropriarsene. È quello che è accaduto qui con i militari, che hanno “recuperato” i risultati della rivolta. L’esercito è organizzato, ha potuto subito dire chi aveva preso il potere, mettere in piedi un sistema di sicurezza (per evitare derive, ndr). Hanno presentato un volto unico, mentre i partiti politici, che avevano mandato via Compaoré, non sono riusciti a presentare una struttura e una visione unica del dopo insurrezione. I militari stessi hanno messo in salvo il presidente deposto, facendolo fuoriuscire dal paese in segretezza.
Allo stesso tempo hanno utilizzato il linguaggio degli insorti e hanno preso le redini. Le contraddizioni sono poi venute fuori con il colpo di stato del generale Dinederé (sventato da una successiva insurrezione, ndr).
Oggi assisto a un fenomeno che mi fa sorridere, ovvero gli ex del sistema Cdp (Congresso per la democrazia e il progresso, il partito di Compaoré che ha regnato 27 anni, ndr) che minacciano di preparare un’insurrezione contro questo governo, che è stato acquisito a sua volta dopo un sollevamento popolare.
Aspettiamo di vedere cosa faranno. Dicono che il regime attuale è fallito. Il governo ha creato delle forze speciali, e loro dicono di essere contrari, che esisteva già il Rsp (Reggimento di sicurezza presidenziale, il corpo militare scelto che proteggeva il presidente ed è stato origine del colpo di stato del 2015, ndr). Ma questo proteggeva un uomo e la sua famiglia e non la popolazione. Gli ex del Cdp dicono che il governo deve dare le dimissioni, altrimenti loro lo cacceranno con la forza. Poi chiedono che per la riconciliazione nazionale si faccia tornare Blaise Compaoré, che attualmente ha cambiato nome in Kouassi Kodjo, e vive in Costa d’Avorio».
Verità e giustizia sul passato
Facendo un passo indietro, in questo periodo si parla molto del processo contro i responsabili dell’uccisione di Thomas Sankara e dei suoi dodici compagni, quel 15 ottobre 1987. Lei come è coinvolto?
«Tutti gli elementi d’indagine sono riuniti affinché il processo possa cominciare. Il giudice d’istruzione, di grande competenza, ha convocato molti testimoni. Io stesso sono stato chiamato a testimoniare e ho raccontato quello che so. Devo dire che nessuno, prima d’ora, mi aveva convocato su questo. Ci hanno accusato di tante cose, me e Sankara, ma nessuno mi aveva mai interrogato.
Inoltre, il giudice d’istruzione, ha finalmente avuto accesso ai dossier francesi sul caso, che erano secretati. Qui tutti (gli avvocati, la famiglia, io stesso) pensano che il processo avrà luogo.
Per questo chiediamo che il termine “Riconciliazione nazionale” non sia esibito per dire, dobbiamo stare zitti, ma, al contrario, occorre fare verità su quanto è successo. Un paese che non ha la verità sul suo passato, che mente a se stesso, non può andare avanti. Non potrà dire di voler giudicare i ladri, se non ha fatto luce sui suoi dirigenti.
Penso che ci sarà il processo, e che il presidente Sankara possa essere sepolto, perché i suoi resti attendono ancora un degno commiato. Spero che si faccia presto, perché da quando se ne parla alcuni testimoni sono già deceduti. Stiamo diventando vecchi».
L’attualità di Sankara
Qual è l’attualità del messaggio del presidente Thomas Sankara per i giovani del Burkina Faso?
«Un messaggio per i giovani dell’Africa e del mondo, che ha superato la dimensione geografica del Burkina Faso. I giovani si devono organizzare seriamente. Non devono aspettarsi che tutto sia facile, ma devono responsabilizzarsi per prendere in mano il proprio destino. Occorre avere uno sguardo nuovo sul modo in cui organizzarsi, in tutti i settori di attività. Sankara voleva rivoluzionare i diversi settori. È stato il primo a parlare contro la deforestazione, per la protezione della natura, per un’economia endogena. Altrimenti consumiamo prodotti provenienti dall’estero e non sviluppiamo la nostra economia. Come, ad esempio, l’allevamento di piccoli animali, nel quale siamo forti.
L’avvenire del Burkina Faso non è nelle miniere d’oro. I giacimenti si sono costituiti durante periodi molto lunghi, non si può venire e sfruttarli per dieci anni, portando via tutto, dando allo stato solo qualche inezia e dicendo che si contribuisce al paese.
Sankara ha sempre detto che anche se troviamo del petrolio in Burkina, non sarà quello che ci salverà. Basta guardare ora in che stato è l’economia di tutti quei paesi che hanno trovato il petrolio, con i loro dirigenti che rubano i soldi derivati. Per l’oro è la stessa cosa».
Provincia Loroum, Nord Burkina
L’insurrezione ha in qualche modo «sdoganato» la figura di Thomas Sankara, prima se ne parlava di nascosto, adesso sono tutti sankaristi.
«È vero, Thomas Sankara suscita molto interesse. Ci sono scritti che possono essere utili, altri lo sono di meno. Per esempio, c’è un libro scritto da un italiano che non conosco (Toé si riferisce a un romanzo pubblicato in Italia, ndr), che si sarebbe ispirato alla biografia scritta dal mio amico Bruno Jaffré (il biografo di Thomas Sankara, ndr). Mi hanno mandato qualche pagina di questo libro, nel quale l’autore parla di me in termini che ho trovato offensivi e irritanti. Prima di tutto non capisco perché in un romanzo (una fiction), anche se su Thomas Sankara, sia stato utilizzato il mio nome. Perché si sia parlato dei miei genitori, scrivendo Jérôme Toé, che non è il nome di mio padre. Se è stata fatta della fiction, bisogna farla con nomi inventati.
Il rapporto tra me è Sankara è presentato in modo falsato. Abbiamo sempre fatto dell’emulazione sana, per arrivare all’eccellenza, non ci copiavamo, ma potevamo completarci. Sankara è stato per me un amico e un compagno. E lui diceva che io ero un fratello per lui.
Quando aveva bisogno di qualcuno di fiducia, mi chiamava, e sono sempre stato al suo fianco. Prima come direttore di gabinetto della comunicazione, quando era segretario di stato, poi come ministro. Ho parlato con lui al telefono trenta minuti prima che fosse ammazzato. Scriverò un libro di memorie, con la mia verità».
�Bruno Jaffré, Burkina Faso. Les années Sankara, L’Harmattan, 1989.
�Lila Chouli, Sur l’insurrection populaire et ses suites au Burkina Faso, L’Harmattan-Sénégal, 2018.
�Marco Bello, Enrico Casale, Burkina Faso. Lotte, rivolte e resistenza del popolo degli uomini integri, Infinito edizioni, 2016.
Roch Marc Christian Kaborāˆ presidente del Burkina Faso (Photo by OLYMPIA DE MAISMONT / AFP)
Il paese combatte il terrorismo e cerca la verità sul suo passato
Massacro nel Sahel
Gli attacchi terroristici islamisti, iniziati nel 2015, continuano a insanguinare il Burkina Faso. A Solhan, nel giugno scorso, si è toccato il record di vittime. Di mezzo c’è l’oro, e il finanziamento che i gruppi jihadisti ne traggono. Intanto l’opposizione politica chiede conto al governo sulla sicurezza.
È la notte tra il 4 e il 5 giugno scorso. Verso le due del mattino una banda di giovani in motocicletta arriva al sito aurifero nei pressi del villaggio Solhan, capoluogo del comune rurale omonimo (entità amministrativa più piccola).
Gli assalitori attaccano inizialmente la postazione dei Volontari per la difesa della patria (Vpn), una sorta di milizia di autodifesa composta di persone della popolazione. In seguito, si dirigono verso le case, sfondano le porte e uccidono direttamente chi vi abita, senza chiedere nulla e senza considerare l’età. Saccheggiano il possibile, danno fuoco ad alcune case, poi ripartono. Piazzano dell’esplosivo sul ponte della strada che collega Solhan a Sebba, a una decina di chilometri. Causerà altre vittime.
Il bilancio ufficiale è di 132 morti, ma altre voci portano il numero a 150. Molti sono anche i feriti. Si tratta dell’attacco più sanguinoso che il Burkina Faso ha subito sul suo territorio, dall’inizio degli eventi di questo tipo, nel 2015.
In quell’anno il Burkina Faso stava vivendo una transizione politica, seguita da un’insurrezione popolare che aveva deposto il presidente Blaise Compaoré, in carica da 27 anni (cfr MC febbraio 2016). Un colpo di stato del Reggimento di sicurezza presidenziale guidato dal generale Gilbert Dienderé, aveva tentato di bloccare il cambiamento nel settembre 2015, ma il movimento popolare, con l’appoggio internazionale e, soprattutto, dell’esercito, era riuscito a evitare il peggio. La transizione era ripresa e un nuovo presidente, Roch Marc Christian Kaboré si era insediato il 29 novembre. Il suo governo aveva giurato il 12 gennaio 2016. Tre giorni dopo, un attacco in grande stile era stato perpetrato da jihadisti nel cuore della capitale, facendo 30 vittime di 18 nazionalità.
Da quel giorno gli attacchi si sono moltiplicati nel Nord del paese, per poi estendersi a Est e Sud Est, senza risparmiare la capitale. Si hanno evidenze di contatti diretti tra Compaoré, quando era presidente, e gruppi jihadisti, che avrebbe preservato il paese dalle incursioni.
Solhan, come detto, è un sito aurifero, ed è sfruttato da cercatori d’oro artigianali. Sono situazioni particolari, in cui il tessuto sociale è completamente stravolto. Qui sono installati, senza controllo, decine di migliaia di cercatori d’oro, molti provenienti da paesi vicini. Nell’agosto 2020, il Consiglio economico e sociale del Burkina Faso, ha pubblicato uno studio sul «lavaggio di denaro sporco e finanziamento del terrorismo», con focus sul paese.
Oltre a ricevere finanziamenti dall’estero, i gruppi jihadisti si autofinanziano sfruttando le risorse del territorio che occupano, come le miniere artigianali, o imponendo tasse e balzelli alla popolazione. Dallo studio risulta che dal 2016 al 2020 i terroristi hanno raccolto più di 140 miliardi di dollari, solo tramite gli attacchi o balzelli a siti auriferi artigianali, come quello di Solhan. Normalmente i siti nei quali i cercatori non pagano, vengono attaccati.
Il governo, il 7 giugno, ha disposto la chiusura di tutti i siti auriferi artigianali delle province di Oudalan e Yahga (qui si trova Solhan).
Nella regione sono presenti gruppi jihadisti legati alle due principali formazioni: il Gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani (Gsim), legato ad Al Qaeda, e lo Stato islamico nel grande Sahara, legato all’Isis. Si tratta di due coalizioni di una galassia di gruppi che talvolta si scontrano tra loro.
L’attacco di Solhan, che non è stato l’ultimo, secondo il governo è stato perpetrato da un gruppo burkinabè, denominato Mouhadine, che significa «Genti solidali», attivo dal 2019 in Burkina, ma anche Niger e Benin. Le forze di sicurezza avrebbero arrestato due elementi del gruppo.
Il presidente Kaboré – rieletto per un secondo mandato nel novembre 2020 – ha pure tentato di avviare una tre giorni (17-19 giugno) di «Dialogo politico», con tutti i partiti del paese. Ma alla fine l’opposizione si è sfilata, e per voce del Capofila dell’opposizione politica (è una figura istituzionale), Eddie Komboigo, ha indetto manifestazioni di protesta contro l’insicurezza e in memoria delle vittime, a inizio luglio.
Intanto, alcuni politici legati al partito di Blaise Compaoré, il Cdp (Congresso per la democrazia e il progresso), vogliono organizzarsi per il ritorno dell’ex presidente e la riconciliazione nazionale. Ma prima, occorre fare verità sul passato, a partire dall’assassinio di Thomas Sankara.
Marco Bello
Soldati francesi in Burkina (Photo by Fred Marie / Hans Lucas / Hans Lucas via AFP)
Il popolo di Cabo Delgado vuole la Pace
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Testo di padre Edegard Silva Junior a nome della diocesi di Capo Delgado, Mozambico |
La provincia di Cabo Delgado, nell’estremo nord-est del Mozambico, ha come capitale Pemba, situata a circa 2.600 km a nord di Maputo. La Provincia ha una superficie di 82.626 km2 e una popolazione di 2,3 milioni di abitanti. È divisa in 17 distretti e cinque comuni. È in questa regione, una delle più povere del paese, che dall’ottobre 2017 è in corso una guerra che ha lasciato più di 1.500 morti e migliaia di sfollati.
Contestualizzare la guerra
Il primo attacco da parte di gruppi armati, precedentemente sconosciuti nella provincia di Cabo Delgado, ha avuto luogo il 5 ottobre 2017, nella città di Mocàmboa da Praia. Nel novembre dello stesso anno, alcune moschee sono state chiuse perché, inizialmente, si sospettava che gli attacchi fossero stati pianificati in loro. Tuttavia, le motivazioni di questa guerra e i suoi rappresentanti non sono mai stati sufficientemente presentati. A causa della realtà in cui viviamo, presupponiamo le ragioni, ma si rende necessaria una spiegazione da parte dello Stato. Dopo quel primo attacco, la situazione sembra aver perso “controllo”.
La regione colpita da una violenta aggressione comprende nove comuni o distretti: Palma, Mocàmboa da Praia, Nangade, Mueda, Muidumbe, Macomia, Meluco, Quissanga e Ibo Island. Circa 600.000 persone vivono in questa zona. Sono piccoli semplici agricoltori, artigiani, per lo più senza alcun coinvolgimento ideologico o senza alcun conflitto religioso. Tutti questi luoghi hanno sofferto e continuano a soffrire di attacchi da parte di insorti o terroristi. È necessario chiarire che non si tratta di una guerra tribale o di gruppi etnici.
Il Vescovo della Diocesi di Pemba, Dom Luiz Fernando Lisboa, C.P., ha assicurato la presenza di missionari in tutte le comunità di questa regione. Attualmente, la Diocesi ha mantenuto sacerdoti e religiosi in tutti questi distretti. Questi missionari hanno seguito da vicino la situazione della guerra e il dramma vissuto dalle comunità.
Gli attacchi o le azioni terroristiche sono aumentati gradualmente. Le strategie sono cambiate nel tempo. Inizialmente, usavano armi più leggere e attaccavano in piccoli gruppi. Quando gli insorti arrivano nei villaggi, in realtà attaccano persone innocenti e indifese. Le vittime sono i poveri che vivono molto semplicemente, in case di fango, coperte di paglia. Abbiamo una strategia: quando arrivano, se c’è tempo, qualcuno della comunità fa suonare la campana per segnalare il pericolo alla popolazione (ma non sempre questa tattica è efficace e di successo). A quel punto, ogni famiglia sa già dove correre, sempre dirigendosi verso la boscaglia. Loro bruciano le case e tutto quello che c’è dentro. È anche successo che alcune persone sono state bruciate vive o addirittura decapitate. All’inizio degli attacchi, questo è stato fatto usando soprattutto il machete (strumento molto comune nelle attività rurali).
Da queste parti, tutti i villaggi sono interconnessi con membri della famiglia e conoscenti presenti nei vari distretti. Anche con poche risorse, la comunicazione avviene rapidamente. In questo modo, quando si verifica un attacco, la notizia si diffonde in ogni villaggio. Questo fa vivere l’intera popolazione nella paura, incidendo fortemente sulle loro abitudini quotidiane. Ad esempio, l’orario delle celebrazioni nelle chiese e quello delle scuole sono cambiati. Le persone si chiudono in casa presto, e spesso hanno anche paura di andare a lavorare da soli in giardino o nei campi. Lo scenario è spaventoso: tutti vivono nel terrore, sempre in attesa di dove e come sarà il prossimo attacco.
Come ogni guerra, le tattiche degli attacchi sono cambiate. Dall’attacco ai villaggi, sono passati ad attaccare auto, pullmini e autobus sulle strade. Se prima la nostra paura era limitata solo a rimanere nei villaggi, ora questa paura si estende al viaggiare, data la necessità di prendere trasporti per muoverci. Diversi attacchi sono stati segnalati con molti morti e con auto bruciate.
Abbiamo realizzato, valutando le tattiche e rapporti, che il gruppo degli insorti sta aumentando. Abbiamo sentito parlare di reclutamento giovani attraverso l’offerta di denaro. In una realtà di disoccupazione e abbandono, molti tendevano ad accettare questa proposta.
Sottolineiamo che finora non abbiamo informazioni chiare su chi è responsabile, né che ci sia un’azione chiara del governo per controllare le azioni terroristiche. Di conseguenza, ci rendiamo conto che, da un «piccolo esercito» armato di machete stiamo passando ad un terrorismo armato di armi pesanti e moderne. Basti dire che in uno degli attacchi al distretto di Mocàmboa da Praia, i terroristi sono entrati via terra e via mare armati con un forte arsenale di guerra, e lo stesso è accaduto nel distretto di Quinga.
Gli attacchi aumentarono e circolarono informazioni che l’interesse del gruppo sia quello di attaccare gli uffici distrettuali, in particolare gli edifici pubblici. Così, ogni giorno c’era una successiva ondata di attacchi contro “edifici ufficiali”. Molte cose sono state distrutte e bruciate: tribunali, scuole, ospedali, banche, case, uffici, sedi amministrative. Purtroppo, la gente è stata lasciata nella boscaglia senza acqua né cibo. In tutti i distretti, il commercio è stato compromesso in quanto la strategia degli insorti è quella di bruciare ogni piccolo negozio. Alla fine del 2019 e nella prima metà del 2020, alcuni chiese cattoliche sono state violate e bruciate.
Tuttavia vogliamo far notare che pastoralmente la diocesi di Pemba è presente nella regione settentrionale con un team di 35 missionari:missionariesacerdoti mozambicani e missionari e provenienti da dieci paesi diversi. Queste presenze garantiscono l’assistenza religiosa e sociale in queste località. Nei nostri incontri con gli operatori pastorali o attraverso i social network ci chiediamo sempre: chi sono questi malfattori? Cosa vogliono? Perché uccidono gli innocenti? Pensiamo che questa guerra abbia un “volto nascosto” (un occulto esplicito). Abbiamo iniziato a parlare delle possibili “ipotesi” che configurano questo “volto”.
C’è una chiara identificazione dei responsabili di questiconflitti?
Abbiamo qualche ipotesi per spiegare questa guerra che va avanti da quasi tre anni. Alcuni parlano in diversi scenari per capire questa situazione. D’altra parte, la popolazione si sente inquieta di fronte a una certa “indifferenza” del governo mozambiano sulla realtà degli attacchi. C’è poca copertura mediatica giornalistica. Questo è in una regione in cui il governo ha una delle sue più grandi basi politiche. Oltre a questi attacchi, la regione di Cabo Delgado ha affrontato, allo stesso tempo, altre calamità. Tra questi, il ciclone Kenneth e le forti piogge iniziate nel dicembre 2019 che hanno lasciato la regione isolata per quasi cinque mesi.
Ma quale organizzazione terroristica ha dato sostegno economico e militare a questa guerra, il cui costo è sempre molto alto? Chi ha allenato gli insorti con tattiche militari? In realtà, non abbiamo parole ufficiali in grado di rispondere a queste domande. Assumiamo che sia la presenza di gruppi che sostengono la radicalizzazione islamica, compreso il gruppo Al-Shabab.
A un certo punto, l’orientamento era quello di non formalizzare gli attacchi come derivati da motivi religioso, anche perché questa guerra, come tutte le altre, sembra essere più motivata da interessi economici che religiosi.
Nell’attacco di Quissanga, sono stati trasmessi alcuni video e, in essi, i terroristi parlano chiaramente degli obiettivi religiosi e del loro desiderio di attuare lo Stato islamico nella regione. Questi filmati sono stati registrati da discorsi e dall’innalzamento della bandiera di questo movimento. In un mondo segnato da “fake news“, dobbiamo controllare e mettere in discussione alcune immagini che ci arrivano attraverso i social network, ma comunque quelle immagini ci hanno fatto molto preoccupare.
Un altro punto è che non ci sembra molto chiaro che c’è un legame tra questa guerra e le precedenti. Se guardiamo alle “tre guerre” affrontate dal Mozambico, questa ha un volto molto specifico, perché sembra puntare più alla concentrazione di ricchezza della regione e al suo possibile controllo.
C’è qualche motivazione di un ordine religioso o economico?
Da un punto di vista religioso, gli ultimi attacchi portano alcuni elementi. Ci saranno un sacco di informazioni che non sapremo fino a dopo la guerra. Ci sarà bisogno di fare un discorso più accurato e ascoltare le persone. In questo momento è impossibile saperlo, perché molti villaggi sono abbandonati e in molti ci è proibito entrare.
Alcune morti che si sono verificate sono legate al rifiuto di aderire alla proposta religiosa dello Stato islamico. Al più presto, dovremmo chiarire l’attacco alla Comunità di Xitaxi. In questa comunità, l’8 aprile, c’è stato il massacro di 52 giovani. Si sostiene che questi giovani si siano rifiutati di accettare le proposte dei terroristi di entrare nei loro ranghi. C’è stata anche la violazione e la profanazione di diverse chiese cattoliche. Tuttavia, è necessaria molta cautela prima di affermare che gli attacchi sono mirati alla creazione dello Stato islamico in questa regione.
Un altro aspetto molto chiaro per noi: la provincia di Cabo Delgado è una delle più ricche del paese. Questa regione è ricca di gas naturale. È la provincia dove la Total ha fatto il più grande investimento in Mozambico, per la costruzione della “Città del Gas”, sulla penisola di Afungi. Le risorse petrolifere di Cabo Delgado sono sfruttate dalle multinazionali, mentre la popolazione vive in povertà, senza accesso all’istruzione, all’assistenza sanitaria e al lavoro. Così, possiamo dire che questa disuguaglianza economica può favorire i predicatori del fondamentalismo islamico, che hanno visto qui un terreno fertile per la sua espansione o anche gruppi locali che vogliono garantirsi una fetta. Si parla di un controllo della regione in considerazione della ricchezza del suo suolo e del suo oceano. Di conseguenza, attaccare i villaggi sarebbe un modo per spopolare la regione al fine di avere un migliore “controllo” di queste ricchezze. Ci può anche essere un interesse religioso, la cui missione sarebbe quella di impiantare lo Stato Islamico. Ma queste sono solo ipotesi.
Diritti umani più minacciati
La Chiesa cattolica ha sempre difeso i diritti umani. La Dottrina Sociale della Chiesa riprende e contribuisce alla formulazione di questi diritti basata sulla Parola di Dio. Pertanto, la nostra missione è anche quella di difendere i diritti umani. Non si tratta di prendere ogni articolo in dettaglio. Citiamo solo i primi: “ogni essere umano ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza personale”. Vedere che questo articolo è costituito proprio da ciò che è stato preso da noi. Per questo motivo, questa diocesi, con i suoi missionari e animatori, ha sofferto e pianto di vedere tante morti, ingiustizie con i poveri, soprattutto perché questa guerra ha causato più di 1.000 morti e più di 200.000 persone sono state sfollate. A questo quadro si aggiunge il numero di persone torturate, sottoposte a crudeli punizioni, detenute e prigioniere. Siamo anche preoccupati per il numero di persone rapite, violando così la sopracitata Dichiarazione dei diritti dell’uomo.
Conseguenze immediate di questi eventi
Abbiamo sperimentato molte conseguenze, tra queste: a) villaggi abbandonati; b) la fame che è aumentata, perché la terra non viene coltivata; c) la perdita del poche risorse (case, vestiti, cibo, ecc.); d) la destrutturazione delle famiglie, costringendone i membri a disperdersi ovunque; e) la vita comunitaria è distrutta: nessuno sa dove siano i catechisti, gli animatori, i ministri di molte comunità; f) l’anno scolastico è stato compromesso; g) la paura attanaglia le persone e c’è sfiducia e diffidenza per l’arrivo di qualsiasi persona sconosciuta nel villaggio.
Gli agenti pastorali
Pensando alla sicurezza e garantendo la presenza dei missionari e dei missionari, Don Luiz Fernando ha riunito gli agenti pastorali nella diocesi. A giugno, i missionari della regione settentrionale hanno inviato un messaggio alle comunità: “Come molti di voi, la maggior parte dei missionari ha dovuto lasciare i propri luoghi di missione. Speriamo di essere di nuovo insieme presto. Questa semplice lettera è quella di dire a tutti che noi Missionari e Missionari preghiamo ogni giorno per tutte le persone e le comunità! Che cii manca tantissimo lo stare con voi! Che speriamo che tutto questo passi presto in modo da poter servire di nuovo tutti, come abbiamo sempre fatto!
La nostra preghiera in questo momento ha sempre due intenzioni: per la fine di questa sofferenza che si è diffusa ovunque e per PEACE in CABO DELGADO! Pregate anche voi per queste intenzioni: che gli attacchi finiscano presto e tutti possano tornare al loro lavoro e alle loro celebrazioni“.
Necessità di misure nazionali e internazionali
A nostro avviso, è più che necessario far conoscere questa guerra sulla scena internazionale in modo che le persone e le organizzazioni internazionali abbiano accesso alle informazioni e alle situazioni del paese. Un altro passo è il coraggio di denunciare, in un linguaggio ecclesiale, come esercizio di profezia.
Da un punto di vista politico/militare, alcuni parlano di cooperazione tra paesi alleati che agiscono in questa regione. Tuttavia, abbiamo poche informazioni sulle azioni che vengono eseguite dalla forza di sicurezza. Ogni tanto sentiamo che l’esercito ha combattuto i terroristi, tuttavia, in un’altra parte della regione, siamo colti alla sprovvista dalla notizia di ulteriori attacchi.
Rapporti dei fatti indecisi e informazioni di parte
Questa guerra ha generato grande angoscia emotiva, sia nel nostro vescovo, come nei missionari e residenti situati nella regione settentrionale e in tutta la diocesi. Le nostre attività quotidiane si rivolgono alle azioni più urgenti: aiutare le persone in fuga dalla guerra, sostenere e confortare i familiari che hanno perso le loro famiglie, fornire cibo, organizzare luoghi di accoglienza. In questo senso, è importante riconoscere l’efficace lavoro della Caritas diocesana in collaborazione con le nostre attività. Inoltre, dobbiamo riconoscere le azioni di molte organizzazioni internazionali: le Nazioni Unite (ONU), il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (UNICEF), tra gli altri.
Questo atteggiamento serve a dire che la nostra attenzione si rivolge puntualmente a questa situazione. Tuttavia, siamo stati costantemente bombardati da rapporti totalmente stravolti, bugiardi, con notizie di tendenziose che attaccano soprattutto la persona di Dom Luiz Fernando. Il Vescovo di Pemba è stato vittima di calunnie e di dure e menzogne. In un primo momento, diversi settori della diocesi hanno cercato di rispondere. Poi facciamo conoscere gli articoli e li lasciamo liberi per le dimostrazioni. Uno di questi articoli che ha calunniato Dom Luiz ha stimolato l’iniziativa di diverse organizzazioni, a Maputo, la capitale del paese, per creare una campagna di sostegno con firme digitali. In cinque giorni, questa petizione aveva migliaia di firme.
Solidarietà internazionale
Sappiamo che il continente africano non suscita l’interesse di molti paesi, né dei media tradizionali. Pertanto, uno degli ordini del giorno che dobbiamo assumere nelle nostre azioni pastorali e nei media che abbiamo è quello di diffondere tutto ciò che possiamo sull’Africa, in particolare la situazione di Cabo Delgado in Mozambico. Qualsiasi azione di solidarietà – che sia il gesto minimo, o un’azione politica – organizzata dal punto di vista politico – in questo momento è di fondamentale importanza. Auguriamo urgentemente pace a Cabo Delgado; speriamo che le persone tornino alle loro case, villaggi e comunità, che i nostri missionari possano tornare all’opera di evangelizzazione in un ambiente sicuro, rispettando e valorizzando le singolarità del nostro popolo africano. In questo momento di fragilità, quando i missionari sono lontani dalla missione come misura di sicurezza, qualche parola o azione che viene da qualsiasi organizzazione, ecclesiale o sociale, è un gesto evangelico. Ogni azione di solidarietà dimostra la nostra umanità, ogni gesto di condivisione mostra il Vangelo vissuto nella pratica, incarnato nell’esperienza del popolo.
Papa Francesco e la solidarietà ecclesiale
In questo clima di guerra e Covid-19, attività pastorali poi nelle dinamiche della “nuova normalità”. È un tempo di tristezza, di famiglie separate, di comunità tutte distrutte… in questo momento la solidarietà, le parole di conforto e di incoraggiamento sono importanti per noi per continuare il nostro cammino. Essi vengono attraverso diverse “porte” e provengono da vari luoghi.
Tra questi gesti di solidarietà, si evidenzia quella di Papa Francesco. Questo riconoscimento del Papa è importante per noi perché indica che non siamo soli in questa ardua missione. Nella recita dell’Angelus della Domenica di Pasqua, il 12 aprile 2020, Francesco ha menzionato la guerra di Cabo Delgado. Cinque mesi dopo, in occasione della sua visita in Mozambico a Maputo, ripete ancora una volta la sua preoccupazione.
Più tardi, Don Luiz scrive personalmente a Papa Francesco riportando ciò che sta accadendo. Il 19 agosto 2020, alle 11:29, Dom Luiz riferisce:“Con mia grande sorpresa e gioia, ho ricevuto una chiamata da Sua Santità, Papa Francesco, che mi ha molto confortato. Ha detto che è molto vicino al Vescovo e a tutto il popolo di Cabo Delgado e segue con grande preoccupazione la situazione vissuta nella nostra Provincia e che ha pregato per noi”. Don Luiz continua e descrive il suo colloquio con il Papa: “finalmente, il Papa ha detto che è con noi e ci ha incoraggiato: adelante!”, che significa: in avanti! coraggio!…
Nella stampa spesso media e calunniosa, c’erano anche coloro che dubitavano della veridicità della telefonata. Per queste menti, la risposta è arrivata in soli quattro giorni quando, nella recita dell’Angelus del 23 agosto 2020, Papa Francesco ha detto: “Vorrei ribadire la mia vicinanza al popolo di Cabo Delgado, nel Mozambico settentrionale, che soffre a causa del terrorismo internazionale. Lo faccio nel ricordo vivente della mia visita in quell’amato paese circa un anno fa”.
Pertanto, in questo momento di sofferenza, in cui la fragilità umana aflora, ogni parola o gesto ha un grande significato. Vorremmo finire dicendo che questo racconto è riassunto in una parola così semplice e piccola, ma al momento è ancora lontano da una pratica: vogliamo PEACE! La gente di Cabo Delgado vuole PEACE! La gente vuole tornare alle proprie comunità e vivere in PEACE! I missionari vogliono tornare nelle parrocchie e vivere in PEACE!
Secondo ACLED, acronimo di Location of Armed Conflicts and Event Data, dal 2017 ci sono stati 823 conflitti armati in Mozambico, 534 dei quali si sono verificati a Cabo Delgado (396 direttamente contro i civili). Durante questo periodo, dei 1678 ucciso nei conflitti nel paese, 1496 erano nella provincia di Cabo Delgado.
Padre Edegard Silva Jànior, è un missionario brasiliano salettiano che lavora nella Missione di Muidumbe nella diocesi di Pemba. Il sacerdote ha inviato queste informazioni a nome della Diocesi in modo che il mondo conosca la situazione di Cabo Delgado e mostri solidarietà con quella gente.
Meno noti dei terroristi di Boko Haram, uccidono più di loro. Gli islamisti fulani, nella cintura centrale del paese, fanno migliaia di vittime, anche per motivi religiosi. Nell’impunità e nell’indifferenza del mondo.
In un rapporto dello scorso settembre, la Croce rossa internazionale ha illustrato cifre da guerra: nell’ultimo decennio gli attacchi del noto gruppo islamista Boko Haram hanno provocato, soprattutto nel Nord, 27mila morti, 22mila dispersi, di cui più della metà minorenni, e più di 2 milioni di sfollati.
Delle 2mila vittime del 2018 contate dal Gti, però, ben 1.158 sono attribuite non a Boko Haram, ma agli estremisti fulani.
Se gli sforzi dell’esercito nigeriano, infatti, ottengono finalmente qualche vittoria contro Boko Haram, cresce però il pericolo dei pastori islamisti che, nella cintura centrale del paese, uccidono impuniti.
Un problema che affligge gli agricoltori cristiani almeno dal 2013, ma di cui il mondo si è accorto solo nell’aprile 2018, dopo l’attacco alla chiesa di Sant’Ignazio nel villaggio di Mbalom, nello stato di Benue. Quel giorno sono stati trucidati 17 parrocchiani e due sacerdoti.
Storia di un popolo
I Fulani sono un popolo semi nomade dedito alla pastorizia, presente in larghe parti dell’Africa occidentale, dalla Mauritania al Camerun. Dei circa 20 milioni totali, 14 milioni vivono nella sola Nigeria.
Si tratta di un’etnia con una lunga storia alle spalle: è possibile trovarne menzione già in antichi scritti arabi.
Molti di loro hanno iniziato a dedicarsi all’allevamento del bestiame tra il XIII e il XIV secolo. La tribù ha vissuto il suo momento di maggiore espansione prima del periodo coloniale, tra il XVIII e il XIX secolo, assumendo il nome di califfato di Sokoto, e si ritiene che si debba a essa la diffusione dell’Islam nell’Africa occidentale. Con l’arrivo dei colonizzatori francesi e britannici, tuttavia, l’impero fulani è collassato.
Sebbene vi siano anche dei Fulani sedentari, la cultura tradizionale è stata preservata principalmente dai nomadi.
Radicalizzati e armati
I mandriani fulani in Nigeria hanno sempre fatto pascolare liberamente il loro bestiame nel Nord del paese e nella cosiddetta Middle Belt, la cintura di stati che si frappone tra il Nord a maggioranza musulmana e il Sud a maggioranza cristiana.
Alcuni attribuiscono l’escalation di violenza degli ultimi anni a fattori di tipo etnico o economico. Certamente le tensioni tra agricoltori e pastori, aggravate dalla diversa appartenenza etnica, sono sempre state presenti. È anche vero che i cambiamenti climatici e la riduzione delle terre da pascolo stanno spingendo i Fulani a spostarsi in zone nuove. Ma negli ultimi anni gli attacchi si sono fatti sistematici, più feroci e, soprattutto, con una connotazione religiosa.
Gli obiettivi, infatti, sono spesso cristiani, così come le aree sono quelle a maggioranza cristiana.
Don Polycarp Lamma, della diocesi di Jalindo, non ha dubbi sul fatto che le violenze siano religiosamente motivate: «Quando attaccano, gridano “Allah u Akbar”. Se volessero semplicemente attaccare un diverso gruppo etnico, perché gridare una simile frase? Vogliono attaccare i cristiani».
Sebbene il Gti spieghi che gli eventi attribuiti agli estremisti fulani riflettono l’uso del terrorismo come una tattica utilizzata nel conflitto tra pastori e agricoltori, e che non ci sia un vero e proprio gruppo unico e organizzato, è innegabile che molti tra di loro si sono radicalizzati e, soprattutto, si sono dotati di armi di ultima generazione che prima non possedevano.
«Prima i Fulani portavano le mandrie assieme alle loro famiglie e avevano con sé dei semplici bastoni – ci racconta mons. William Amove Avenya, vescovo di Gboko, nello stato a maggioranza cristiana di Benue -, oggi sono armati di fucili Ak 47. Armi costose che non possono permettersi. Chi le fornisce loro? Poi, in quelle aree ci sono check point ogni due chilometri. Perché nessuno li ferma?».
Nonostante i ripetuti massacri, nessun colpevole è stato fino a oggi indagato, arrestato o condannato.
Secondo alcuni, il principale motivo di questa assenza di misure di contrasto alla violenza, sta nell’appartenenza dell’attuale presidente Mohammed Buhari proprio all’etnia fulani.
A lui si unisce anche monsignor Peter Iornzuul Adoboh: «È triste, ma dobbiamo constatare che è come se vi fosse un ordine da parte del governo federale di non intervenire. E così i Fulani uccidono, distruggono e poi fuggono, mentre nessuno fa niente. Anzi, se la polizia trova la gente locale con le armi che cerca di difendersi, generalmente arresta questi anziché i Fulani. I mandriani si sentono forti, perché c’è un loro uomo al potere che li protegge».
Se il Gti parla di 1.158 vittime degli estremisti fulani nel 2018, e Amnesty international cita, per lo stesso anno, 2.000 morti e 182mila sfollati, Intersociety sostiene addirittura che i morti siano 2.400, a testimonianza di quanto sia ancora difficile da descrivere e monitorare il fenomeno.
Intersociety aggiunge che tra il giugno 2015 e il dicembre 2018, gli estremisti fulani hanno ucciso non meno di 6mila cristiani e incendiato o distrutto più di mille chiese. Una tendenza che purtroppo non pare invertirsi nel 2019: nei primi quattro mesi dell’anno, infatti, i fondamentalisti hanno massacrato tra i 550 e i 600 cristiani, e distrutto centinaia di abitazioni e dozzine di chiese. Un numero superiore anche alle vittime di Boko Haram che, nello stesso periodo, ha ucciso «solo» 200 cristiani.
Difficile sostenere la tesi secondo la quale quello religioso non sia almeno uno dei fattori all’origine delle violenze. Così come riteniamo sia improprio descrivere quanto accade oggi in Nigeria come un «conflitto etnico tra pastori e agricoltori».
Il numero delle vittime – che si contano anche tra i Fulani – è troppo sbilanciato da una parte.
«I mandriani arrivano di notte, mentre la gente dorme – spiega mons. Adoboh -. Le abitazioni dei contadini in genere sono isolate, perché circondate dai terreni e, dunque, gli assassini possono agire indisturbati.
Lo schema è semplice: danno fuoco alla casa costringendo gli abitanti a uscire. Poi li massacrano. Adulti, bambini, donne incinte, anziani. Sono davvero scene orribili. I contadini cristiani non hanno le armi per difendersi, mentre i fulani sono armati fino ai denti».
Sì perché a inizio 2018, mentre le violenze dei Fulani si facevano più numerose e cruente, il governo nigeriano ha disposto il sequestro o la consegna volontaria di tutte le armi da fuoco personali. Un passo mirato a rastrellare le armi in vista delle elezioni generali del febbraio 2019, e a ridurre le violenze. Un provvedimento comprensibile in un paese come la Nigeria, nella quale circola gran parte degli otto milioni di armi dell’intera Africa occidentale, e dove il 59% dei loro detentori sono civili, solo il 38% membri delle forze armate governative, il 2,8% poliziotti.
Il problema, però, è che tale misura non è applicata ai Fulani.
«Viviamo nel terrore. I Fulani sono ancora qui e rifiutano di andarsene. E noi non abbiamo armi per difenderci», scriveva nel gennaio 2018 su Twitter padre Joseph Gor, ucciso poi mentre celebrava la messa assieme a padre Felix Tyolah e a 17 fedeli il 24 aprile a Mbalom.
La piccola chiesa di Sant’Ignazio a Mbalom è stata colpita mentre i vescovi della Nigeria si trovavano a Roma per la visita ad limina apostolorum. Ma anche a distanza l’episcopato si è fatto sentire attraverso un comunicato ufficiale nel quale ha apertamente messo sotto accusa la mancanza di azione da parte del governo. «Il fatto che sia stato teso un agguato ai due sacerdoti, assieme ai loro parrocchiani, proprio durante la celebrazione della santa messa di mattino presto, suggerisce che il loro omicidio sia stato accuratamente pianificato. Questo atto malvagio non può essere definito un attacco per vendetta (come spesso è stato sostenuto in questi casi). Per quale motivo sono stati attaccati? Perché nessuno è intervenuto?».
All’indomani del tragico attacco a Mbalom, mons. Wilfred Chikpa Anagbe, vescovo di Makurdi, ha dichiarato ad Acs: «C’è una chiara agenda, un piano per islamizzare tutte le aree a maggioranza cristiana della Middle Belt nigeriana».
Lo stato di Benue, tra i pochi nell’area a maggioranza cristiana è, infatti, quello più colpito dalle violenze. Tra i cristiani è forte il sospetto che vi sia un piano per espandere l’influenza islamista nella cintura centrale e nella Nigeria meridionale.
Impunità
Più volte i vescovi hanno richiamato le autorità federali al proprio dovere. Anche il 22 maggio 2018, la giornata in cui si sono celebrati i funerali delle vittime di Mbalom e si sono tenute in tutto il paese marce di protesta pacifiche per chiedere al governo di porre un freno agli attacchi. Quel giorno i vescovi hanno intimato al presidente Buhari di fare il proprio dovere. Primo fra tutti, l’allora arcivescovo di Abuja, il card. John Onaiyekan, che, in un messaggio al presidente, ha affermato: «Proteggi le nostre vite oppure fatti da parte. I nigeriani continuano a venire uccisi e molti di noi si stanno chiedendo se esiste ancora un governo nella nostra nazione».
Eppure la risposta è stata debole. La proposta di Buhari è stata semplicemente quella di creare delle aree per permettere ai Fulani di far pascolare le proprie mandrie; aree, peraltro, che dovrebbero essere sottratte ai contadini. Vi è stata perfino una campagna dal provocativo slogan: «Meglio vivi senza la terra, che morti con la terra».
Intanto si aggrava di giorno in giorno il bilancio delle vittime. Nella notte del primo agosto scorso un gruppo di uomini armati ha ucciso un sacerdote, don Paul Offu, parroco di Saint James the Greater (Ugbawka) nella diocesi di Enugu. È stato il sito web della diocesi a riferire che, con tutta probabilità, è stato ucciso da mandriani fulani.
Stessa sorte era toccata precedentemente, sempre nell’area di Enugu, a padre Clement Rapuluchukwu Ugwu, parroco di San Marco. Il sacerdote, rapito nella notte del 17 marzo 2019, è stato poi trovato morto nella boscaglia dai suoi parrocchiani.
Il 15 luglio 2019 una donna incinta è stata brutalmente uccisa assieme ad altri due cristiani ad Ancha, nello stato nigeriano di Plateau. Cinque giorni dopo, il 20 luglio, nella diocesi di Jalindo nello stato di Taraba, il giovane agricoltore cristiano Solomon Yuhwam è stato ucciso nella sua abitazione da mandriani fulani. Nel marzo del 2014 era riuscito a salvarsi – fingendosi morto – da un altro attacco fulani che era invece costato la vita a suo fratello e a tanti altri cristiani del suo villaggio.
La lista è lunga, così come è elevato il numero di cristiani che fuggono dalle proprie case, spingendo le diocesi dell’area ad aprire campi di accoglienza.
Eppure sembra che nessuno possa o voglia fermare le violenze, nonostante i ripetuti appelli, anche all’Occidente, da parte dei vescovi nigeriani. «Non commettete lo stesso errore che è stato fatto con il genocidio in Ruanda – ha più volte ribadito monsignor William Amove Avenya, vescovo di Gboko -. Era sotto gli occhi di tutti, ma nessuno lo ha fermato».
Marta Petrosillo
Burkina Faso: Tra jihad e fibra ottica
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Il (Burkina Faso) paese che ha vissuto negli ultimi anni un’insurrezione popolare, un tentativo di colpo di stato e tre attentati sanguinari nella capitale, si confronta oggi con un incremento di attacchi terroristici sul suo territorio. Il tema della sicurezza domina il dibattito politico, mentre la società civile si divide e non riesce a giocare il ruolo di guardiana del potere. La vita quotidiana è influenzata dall’incertezza e da un nemico invisibile. E c’è chi dice che nell’ombra trami l’ex presidente-dittatore Blaise Compaoré.
Testo e foto di Marco Bello
Percorriamo la strada che dalla capitale Ouagadougou porta a Ouahigouya, nel Nord. Lungo tutti i suoi 180 km, vediamo di lato un fossato scavato e poi ricoperto. Ogni tanto spuntano dal terreno grossi cavi neri chiusi con un tappo colorato. È una visione che contrasta con la brousse, la campagna saheliana. Quel cavo è la fibra ottica che porta dati e connessione internet anche nei luoghi più remoti dell’Africa. È arrivata anche qui e presto sarà operativa.
Ma nel Burkina Faso di oggi, proprio Ouahigouya, città a 70 km dal confine con il Mali, è anche il limite della cosiddetta «zona rossa». Nella cartografia della sicurezza, la mappa aggiornata dall’ambasciata di Francia (in questo caso), il paese è diviso in zone: giallo, arancio e rosso. Il giallo corrisponde a «vigilanza rafforzata»; l’arancio a «zona sconsigliata, salvo per ragioni imperative»; mentre il rosso è «formalmente sconsigliata». Per il Burkina quest’area «proibita» agli stranieri coincide con tutta la banda di frontiera con il Mali, il Niger e parte del Benin. In queste zone, è più probabile che i jihadisti (terroristi islamisti, come li chiamano qui), i banditi e molti altri gruppi compiano attacchi o rapimenti.
Ebbene sì, il tranquillo Burkina Faso, terra di tolleranza e di convivenza pacifica tra etnie (ben 60) e religioni1, si sta trasformando in un territorio di conflitto, seguendo il contagio dei paesi vicini, Mali e Niger in prima battuta, in un’area, quella dell’Africa dell’Ovest, che è ormai tutta piuttosto instabile.
(Photo by ISSOUF SANOGO / AFP)
Come cambia la vita
A Ouahigouya, frontiera della zona rossa, incontriamo Adama Sougouri, direttore della radio comunitaria «La Voix du Paysan» (la voce del contadino). La radio trasmette in otto lingue locali e porta avanti un lavoro educativo, oltre che informativo, tipico di un media di comunità. «Il problema dell’insicurezza ha cambiato il modo di vivere qui nel Nord – ci racconta il direttore -. Quando è cominciato, ci dicevamo che da noi non sarebbe successo come in Mali, con i rapimenti e gli attentati. L’esercito aveva rinforzato i presidi, ma d’improvviso la nostra regione è stata messa in zona rossa a livello internazionale e questo ha giocato molto sull’organizzazione della vita e in particolare sull’economia». Questa, fino a poco tempo fa, era una zona di passaggio dei turisti per andare a visitare i famosi «Paesi Dogon» in Mali. Hotel, ristoranti e anche molti artigiani, giovani in particolare, e commercianti vivevano di turismo. Oggi il settore è in ginocchio. Anche l’associazionismo che viveva di partenariati con Ong e associazioni europee ha visto una drastica riduzione dei propri progetti, «perché gli stranieri qui non vengono più».
A livello sociale il clima d’insicurezza ha creato la «paura del prossimo», continua Sougouri. «Questa situazione è vissuta come un’incertezza, non si capisce cosa potrebbe succedere da un momento all’altro. Oggi ci sono località nel Nord dove due vicini che si conoscono bene, non hanno più fiducia uno dell’altro. Perché qualcuno è stato scoperto a trattare con questi sedicenti ribelli o jihadisti. Tutti hanno paura di tutti». Ma c’è anche chi approfitta di questa situazione: gruppi di banditi che vivono di saccheggio.
«Alcune scuole sono state chiuse perché gli insegnanti sono stati prima minacciati, accusati di insegnare il francese ai bambini, e poi uccisi a sangue freddo». Stessa sorte è successa ad amministratori e funzionari comunali, sgozzati nelle loro povere sedi comunali.
«Non sappiamo se siano jihadisti o criminali comuni. Per tutto quello che succede usiamo la parola terrorismo. Ma è questa la strategia reale dei jihadisti?». Si interroga il direttore: «Creare una situazione di paura, di psicosi nella popolazione, per poi mettersi di lato e guardare la nostra società disgregarsi».
(Photo by Ahmed OUOBA / AFP)
Il grande Nord
Con un pick-up sfrecciamo sulla pista di laterite che da Ouahigouya conduce a Titao, a Nord Est. Penetriamo ancora di più in «zona rossa», ma vediamo solo il verde del sorgo e del miglio dei campi, che, grazie a un’ottima stagione delle piogge, è cresciuto rigoglioso. Incrociamo, nell’altro senso di marcia, due camionette zeppe di militari della gendarmerie, in assetto da combattimento, con elmetti, kalashnikov e le mitragliatrici sul tettuccio, pronte – sembrerebbe – a sparare. Deve essere, pensiamo, una pattuglia di stanza nel comune di Titao, che ha finito il turno ed è stata rimpiazzata.
Giungiamo nel villaggio di You. Qui un gruppo di donne ci accoglie festanti, perché un progetto della Ong Cisv, finanziato dal Fondo Fiduciario di emergenza dell’Unione europea2 ha consegnato loro delle capre. Potranno farle riprodurre e vendere i piccoli, godendo così di un piccolo reddito per lottare contro la fame. Incontriamo poi degli agricoltori, scelti tra i più poveri del villaggio, ci assicurano quelli di Cisv. Sono in un campo di niebé (fagiolo autoctono). Lo stesso progetto li ha aiutati a strappare questa terra all’erosione, grazie a tecniche locali e ha insegnato loro come coltivare con metodi più naturali, agroecologici.
La gente è serena, contenta della visita. Non si avverte la tensione tipica da «zona rossa».
Alcuni giorni dopo la nostra visita, il 23 settembre, a un’ottantina di chilometri più a Nord, un’auto dell’impresa che sfrutta la miniera d’oro di Inata, la ghanese Balaji Group, verrà fermata da una quarantina di motociclisti armati sull’asse Tongomayel – Djibo. I tre occupanti, un burkinabè, un indiano e un sudafricano verranno rapiti. I gendarmi lanciati all’inseguimento lasceranno tre morti sul terreno. Alcuni giorni dopo interverranno pure i Mirage francesi (aerei da caccia), dell’operazione Barkhane3, a bombardare la zona. Ma è difficile colpire delle motociclette nel deserto. E ormai il gruppo riparerà nel vicino Mali.
(Marco Bello 2018)
Fronte dell’Est
Da agosto sono cominciati attacchi nelle regioni ad Est del Burkina Faso, tanto da far scrivere ad alcuni media che è nata una nuova cellula jihadista in questa zona.
Il culmine si ha il 17 settembre, con il rapimento di padre Pierluigi Maccalli, missionario italiano della Sma di Genova, in una località nigerina, nei pressi della frontiera con il Burkina. Era nella sua parrocchia, dove lavorava dal 2007. L’ipotesi più accreditata è che il padre sia stato rapito dal gruppo che imperversa nell’Est del Burkina, in fuga dalle forze di sicurezza. Può essere stato portato nella foresta della Tapoa (Burkina), oppure verso il Mali lungo un corridoio Sud-Nord sulla frontiera Burkina-Niger.
Ricordiamo che numerosi sono i gruppi integralisti di base nel vicino Mali (cfr. MC ago-set 18 e giugno 17), alcuni legati ad Al Qaeda e altri all’Isis. Il gruppo che più ha influenzato il Burkina è il Fronte di liberazione di Macina, di Amadou Koufa, che ha pure ispirato la nascita del primo gruppo jihadista burkinabè, Ansarul Islam, nato proprio a Djibo, nel Nord. I tre attacchi eclatanti a hotel, ristoranti e, l’ultimo, all’ambasciata francese e allo Stato maggiore dell’esercito (marzo 2018) sono stati compiuti da altri gruppi della galassia maliana, come Al Murabitun. Qualcuno teme anche l’arrivo in Burkina di Boko Haram, il gruppo estremista nato nel Nord della Nigeria e in guerra aperta con Niger, Ciad e Camerun (cfr. MC ottobre 16). Gruppo che però agisce in modo geograficamente circoscritto, la cui presenza qui pare improbabile.
(Marco Bello 2018)
Che fa il governo?
«L’opposizione critica il governo sulla questione della sicurezza, ma in realtà questo non può fare di meglio, per i mezzi che ha. Ha pure organizzato una sezione speciale all’Assemblea Nazionale (parlamento, ndr) per valutare il budget militare che penso sarà aumentato sostanzialmente», commenta Germain Nama, direttore del giornale «L’Evénement» e giornalista impegnato per i diritti umani.
«Ma la questione della sicurezza non è solo una questione militare, perché si tratta di una guerra asimmetrica, con attacchi terroristici. Contano molto i mezzi tecnologici moderni, così come i servizi di sicurezza, per cui lo stato deve investire in questi aspetti».
Da notare che l’intelligence del regime di Compaoré, che era piuttosto forte e radicata, è stata smantellata, e ora costituisce uno degli aspetti deboli delle istituzioni.
Continua Nama: «Simon4 (Compaoré, ndr), è venuto qui in redazione e lo abbiamo intervistato. Quando gli abbiamo chiesto se la natura di questo terrorismo è, secondo lui, la stessa di quella del Nord o se ci sono nigeriani, ha detto che non ci sono elementi per dirlo. È poi stata diffusa quella rivendicazione poco credibile. Occorre essere prudenti». Si riferisce a un video mal fatto, che è circolato sui social in Burkina, nel quale alcuni uomini vestiti da jihaidisti, affermano di appartenere a una sedicente cellula legata ad Al Qaeda e rivendicano gli attacchi nell’Est del paese.
(Marco Bello 2018)
Richieste sociali
Se la questione degli attacchi e della sicurezza occupa molto il dibattito nazionale, un altro aspetto importante sono le rivendicazioni della società civile. Una parte di essa, quella dei lavoratori organizzati, ha visto, negli ultimi tre anniuno, un particolare slancio rivendicativo.
Incontriamo Mamadou Barro, già segretario generale della Federazione dei sindacati nazionali dei lavoratori dell’educazione e della ricerca, il maggiore sindacato degli insegnanti. «Sul piano sociale, le richieste sono molto forti. Nei settori strutturati, come quello dei salariati, sia della funzione pubblica che del privato, molti scioperi si sono susseguiti. Per noi è l’espressione delle frustrazioni, contenute e soffocate o represse durante gli anni del regime autocratico, quasi dittatoriale, di Blaise Compaoré». Mamadou Barro si collega al passato regime, quello di Blaise Compaoré, durato 27 anni e caduto sotto la rivolta popolare dell’ottobre 2014. «L’insurrezione ha indebolito chi detiene il potere, sono stati creati molti sindacati negli ultimi tre anni. Anche in settori che non avevano mai avuto un sindacato».
Continua il sindacalista: «Ma anche i settori non strutturati, come quelli dei contadini, cercatori d’oro artigianali, abitanti dei quartieri, stanno facendo rivendicazioni sulla sistemazione del territorio, la bonifica delle strade e l’accesso ai servizi sociali di base».
«Il fallimento del regime precedente è anche di questo attuale, perché, se prendete gli uomini ai vertici di oggi, hanno tutti avuto ruoli di primo piano ieri. Rifiutando di tenere in conto le richieste della cittadinanza per il miglioramento delle condizioni di vita in termini di lavoro, accesso ad elettricità, acqua, scuola di qualità, cure mediche, i dirigenti di oggi decidono di continuare su una linea fallimentare».
Secondo la lettura di Barro, l’insicurezza viene utilizzata in modo strumentale dal governo del presidente Roch Marc Christian Kaboré: «In questo contesto si inserisce la separazione che il potere cerca di creare tra le problematiche di sicurezza e le richieste sociali: sapendo di non avere risposte alle questioni sociali, allora agita la questione dell’insicurezza come la via per la quale si deve fare l’unione sacra». Ovvero uniamoci per far fronte all’insicurezza e dimentichiamoci gli altri problemi.
«E diventa quasi un ricatto: se parlate di un problema, se siete contro il governo, significa che non amate la nazione in pericolo, attaccata dagli integralisti».
Secondo Germain Nama, questo governo è comunque riuscito a dare qualche risposta. Almeno nel campo della sanità, con la legge che rende gratuite le cure per le donne incinte e i bimbi sotto i 5 anni (una prima assoluta) e la costruzione di dispensari nelle province. Altro campo è quello dell’educazione, con al costruzione di infrastrutture scolastiche. Anche diverse strade cittadine sono state asfaltate.
(Marco Bello 2018)
Giustizia: a piccoli passi
Per quanto riguarda i dossier pendenti in Giustizia, alcune importanti novità sono state confermate dal processo sul tentato golpe del 16 settembre 2015. In particolare è stato confermato che Blaise Compaoré, in esilio in Costa d’Avorio, era dietro all’operazione.
Altri dossier importanti in fase istruttoria sono quello sull’insurrezione del 2014 e le sue vittime, che vede imputato il regime Compaoré; il dossier sull’assassinio di Thomas Sankara e i suoi compagni (15 ottobre 1987); il dossier sull’uccisione cruenta del giornalista Norbert Zongo (13 dicembre 1998), per il quale è incriminato François Compaoré, fratello del presidente, e altri.
«Mi sembra che le cose vadano avanti, in qualche caso si aspetta di terminare l’istruttoria, in altri, come per Zongo, si attende l’estradizione di François, arrestato in Francia». Ma la popolazione soffre anche per la crisi economica che morde il Burkina Faso, uno dei paesi più poveri del mondo. «I veri problemi non sono affrontati», denuncia il quadro burkinabè di una Ong internazionale. «La mancanza di lavoro per i giovani, un’economia che sta peggiorando, causando un deterioramento delle condizioni di vita di tutti. Ho l’impressione che la linea di questo governo non sia di rottura con il passato regime».
Nama ricorda che «i commercianti non sono contenti, perché dicono che i soldi non circolano, mentre prima (dell’insurrezione del 2014, nda) c’erano più soldi e più lavoro. Forse prima erano soldi sporchi …».
Anche un falegname della capitale Ouagadougou ci dice che si lavora molto di meno e lui ha dovuto licenziare diversi aiutanti, e rimanere solo con suo figlio. L’economia in effetti ha subito un rallentamento dopo il cambio di regime.
(Marco Bello 2018)
Dov’è finita la società civile?
Che ne è stato del movimento della società civile che ha condotto l’insurrezione e poi si è opposta al colpo di stato del 2015? Le premesse erano che la presa di coscienza cittadina, incanalata attraverso un certo tipo di associazioni, avrebbe esercitato un potere di «controllo» sull’operato del governo.
Ma la società civile, almeno la componente che aveva guidato l’insurrezione, ha perso credibilità. «Molti leader sono caduti per soldi o potere», ci dice il quadro dell’Ong. «I movimenti più a sinistra hanno rimproverato ai gruppi di spicco, in particolare il Balai Citoyen5, di aver accettato i militari al potere. I capi di Balai sono poco critici del potere attuale, proprio perché hanno questo “peccato originale”. Se avessero tenuto le distanze, avrebbero potuto rimanere credibili e denunciare ancora l’operato di questo governo».
Il sindacalista Mamadou Barro è ancora più netto: «Non è più un segreto oggi: sono i dirigenti di Balai Citoyen che hanno convinto Isaac Zida a prendere il potere». Il 31 ottobre 2014, dopo la fuga di Blaise Compaoré, si era creato un momentaneo vuoto di potere. Il tenente colonnello Zida, che era il numero due della guardia presidenziale, i fedelissimi dello stesso Compaoré, si è imposto presentandosi sulla piazza dell’indipendenza, circondato dai responsabili di Balai Citoyen. «Zida non avrebbe avuto il coraggio di presentarsi in quella piazza, se non fosse stato circondato dai beniamini della stessa. Il loro obiettivo era quello di mettere in piedi un regime militare, ma penso che neppure le potenze imperialiste (Francia, Stati Uniti, nda) fossero per questa soluzione. C’era gente che lo ha contestato, molti manifestanti erano contro alla sua presa di potere». Le potenze straniere hanno fatto sì che si creasse un governo di transizione con un presidente, Michel Kafando, che non è un militare. Però Zida è riuscito a rientrare dalla finestra, diventando ministro della Difesa. Poi, dopo un anno di transizione, con la scusa di una missione in Canada, è rimasto in quel paese, e da allora non è mai più tornato. La giustizia del Burkina lo cerca perché avrebbe fatto sparire molti fondi dello stato.
Oggi Balai Citoyen cerca di tenere vivo l’interesse organizzando incontri e dibattiti. Come le 72 ore organizzate proprio a Ouahigouya a inizio dello scorso ottobre.
«Hanno una struttura, ma non sono più così popolari – continua Barro -. Inoltre penso che gli Stati Uniti in qualche modo li finanzino, perché realizzano attività che senza fondi esterni non sarebbero possibili». Il sindacalista ci tiene a sottolineare la differenza tra il suo movimento e il Balai: «Cinquantotto anni dopo l’indipendenza, non riusciamo a liberarci, ma la coscienza è aumentata e molti, in particolare tra i giovani, hanno capito che ci vuole la rottura antimperialista. Finché non la facciamo non avremo uno sviluppo. Nel nostro paese c’è un movimento che ha delle forze e propone un altro modo di concepire il nostro destino nazionale, diverso dal medicare gli aiuti. E il Balai Citoyen non fa parte di questo movimento. Non possono neppure, perché ricevono finanziamenti dai paesi imperialisti».
Scopriamo che Balai Citoyen è il principale partner burkinabè del progetto «Justice and Security Dialogues» della statunitense United States Institute of Peace (Usip). Si tratta di un istituto nazionale indipendente fondato dal Congresso (il parlamento statunitense), che lavora in diversi paesi nell’ottica della riduzione dei conflitti come strategia per la sicurezza Usa. Di fatto è l’ente governativo Usa per la promozione della pace.
Salita all’onore delle cronache nei giorni dell’insurrezione, Balai Citoyen è in realtà una organizzazione piuttosto giovane, nata sull’onda delle manifestazioni del 2013. Altre sono le associazioni che hanno portato all’insurrezione di fine ottobre 2014. «Loro erano nei momenti giusti nei posti chiave», dice il sindacalista, che ricorda invece l’Organisation démocratique de la jeunesse (Organizzazione democratica della gioventù) come attore importante. «Quelli di Balai sono arrivati all’ultimo momento, mentre altri gruppi, come Cgtb6 (Confédération générale du travail du Burkina, ndr) e Mbdhp7 (Mouvement burkinabè des droits de l’homme et des peuples), hanno portato avanti la lotta per anni», ci conferma il quadro dell’Ong. Un movimento sociale che ha radici fin dalla fine del 1998, quando, l’indignazione per l’assassinio di Norbert Zongo causò l’inizio di un percorso di lotta per lo stato di diritto nel paese.
(Marco Bello 2018)
Il nemico che non vedi
In Burkina Faso, oggi si ha l’impressione che né la gente né le istituzioni siano abituate a questa situazione e che le misure di sicurezza non facciano parte del loro modo di essere. Anche se i muri si alzano e cingono di filo spinato. Fatto quasi inesistente anche solo pochi anni fa. Si percepisce una certa paura, mentre la gente cerca di condurre la sua vita in modo normale, con tanto di birra alla buvette (bar di strada) dopo il lavoro e il sabato sera. Eppure si capisce che il contesto non è più lo stesso di pochi anni fa nel paese degli uomini integri. C’è un nemico invisibile, che talvolta si materializza e fa parlare di sé. Intanto la fibra ottica è arrivata in zona rossa.
Marco Bello (fine prima puntata – continua)
Nord Burkina Faso, villaggio di You, provincia Loroum. Copyright Marco Bello 2018
Note
(1) In Burkina Faso si contanto 60 etnie, di cui le maggioritarie sono: mossì, gourmanché, fulbé (peulh), bobo e bissa. Anche a livello religioso c’è sempre stata ottima coabitazione: 60% musulmani, 19% cattolici, 5% protestanti, più culti tradizionali.
(2) Fondi fiduciari di emergenza dell’Ue: si tratta di un pacchetto di aiuti stanziati all’incontro della Valletta (novembre 2015), per alcuni paesi africani. L’obiettivo dichiarato è la stabilità e la migliore gestione delle migrazioni.
(3) Operazione militare francese anti terrorismo attiva in 5 paesi: Mali, Burkina Faso, Niger, Ciad e Mauritania, dal 1 agosto 2014.
(4) Simon Compaoré, già ministro dell’Interno e della sicurezza, figura di spicco del vecchio e del nuovo regime e oggi ministro alla Presidenza della repubblica.
(5) Balai Citoyen (scopa cittadina), movimento della società civile, nato nel 2013, ha acquisito notevole visibilità durante l’insurrezione popolare, grazie a un’accorta strategia comunicativa.
(6) Cgtb, Confederazione generale del lavoro, è una confederazione sindacale, creata nel 1988, raggruppa 12 sindacati nazionali e 70 sindacati d’impresa.
(7) Mbdhp, Movimento burkinabè per i diritti dell’uomo e dei popoli, fondato nel 1989, è la maggiore associazione per la difesa dei diritti in Burkina Faso.
Nord Burkina Faso, villaggio di You, provincia Loroum. Copyright Marco Bello 2018
Bangui, ferita, in cerca di eroi
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Testo di Federico Trinchero – Notiziario da Bangui |
«Nei momenti più difficili emergono degli eroi e non dubito che degli eroi esistano nella Repubblica Centrafricana per alzarsi, come un solo uomo, per dire no alla violenza, no alla barbarie, no alla distruzione di se stessi». È questo l’appello che l’arcivescovo di Bangui, il cardinal Dieudonné Nzapalainga, ha rivolto alla capitale e all’intera nazione in questi giorni drammatici, carichi di tensione e di tristezza.
Cos’è successo a Bangui? La mattina del primo maggio, durante una celebrazione nella parrocchia di Notre Dame de Fatima (a poca distanza dal nostro convento), un gruppo armato proveniente dal quartiere Km5 (un’enclave a maggioranza musulmana, da anni il focolaio principale delle tensioni della capitale) ha aperto il fuoco sulla gente in preghiera provocando morti e feriti. L’incursione è avvenuta come rappresaglia in reazione ad un tentativo da parte delle forze dell’ordine di catturare alcuni elementi di questo gruppo armato che, di fatto, tiene in ostaggio la capitale e alcuni stessi musulmani del quartiere.
I fedeli a Fatima avevano appena proclamato la loro fede e stava per iniziare l’offertorio. Ma la Messa è continuata con il sacrificio di sedici cristiani, tra i quali un sacerdote, l’abbé Albert Tungumale Baba. Lo scontro è poi continuato – per giorni – in altri quartieri della città provocando altri morti, altri feriti e la distruzione di due moschee. L’episodio di Fatima, che ha ferito e lasciato quasi incredula l’intera città, è avvenuto inoltre a poche settimane dell’uccisione a Séko (nel centro del paese) di un altro sacerdote, l’abbé Désiré Angbabata, insieme a undici suoi parrocchiani.
L’abbé Albert, settantun anni e tra i sacerdoti più anziani del clero di Bangui, era un pastore stimato e conosciuto per la sua semplicità e simpatia, e soprattutto per la sua opera discreta e infaticabile in favore della riconciliazione tra cristiani e musulmani. Durante le fasi più acute della guerra aveva accolto per diversi anni, nella sua parrocchia vicinissima al Km5, migliaia di profughi provenienti dai quartieri vicini. L’abbé Albert, inoltre, era a tutti noto per il suo grande amore per il sango, la lingua nazionale del Centrafrica, non particolarmente ricca di vocaboli. L’abbé Albert riusciva a tradurre ogni parola (senza usare il francese), con soluzioni geniali o giri di parole divertenti. Una volta, mentre eravamo in macchina insieme, tradusse pure il mio nome, decretando che mi si doveva chiamare Bwa (che in sango significa sacerdote) Federiki.
In un’intervista l’abbé Albert aveva detto che solo Dio può ormai salvare il Centrafrica. Non aveva tutti i torti. A salvare il Centrafrica ci hanno provato, e ci stanno ancora provando, in tanti: l’esercito nazionale, le truppe dell’Unione Africana, la missione francese (che ha comunque il grande merito di aver impedito che il conflitto diventasse un massacro), i soldati dell’Unione Europea, poi la Minusca, la grande missione dell’ONU (che, pur con tutti suoi limiti, resta al momento l’unica soluzione possibile) e ora sono all’orizzonte anche i russi. Ci ha provato pure papa Francesco che, con la sua visita nel novembre del 2015, era riuscito a regalare una tregua sufficiente per eleggere democraticamente un nuovo presidente. Con il tempo, purtroppo, l’effetto di quella visita è come svanito e l’occasione di voltare pagina è stata per l’ennesima volta sprecata. Gli scontri si sono moltiplicati su tutta l’estensione del paese e quella pace, che avevamo appena accarezzato, sembra quasi più lontana di prima.
Perché è iniziata questa guerra? E perché sembra impossibile arrestarla? Le guerre sono sempre complesse, iniziano per tanti motivi ed evolvono nel tempo. Anche per chi abita qui da anni, è difficile spiegare le vere ragioni del conflitto e, ancor di più, suggerire la soluzione giusta per spegnere l’incendio evitando che si propaghi ora qui, ora là – quasi come i fuochi della savana – lasciando solo morti, distruzione, paura e scoraggiamento. Attualmente i due campi avversari non sono neppure così nettamente distinguibili, come nei primi anni della guerra, tra Seleka (la coalizione delle milizie a maggioranza musulmana, tra cui anche mercenari di altri paesi) e gli anti-balaka (le milizie di autodifesa, sorte a difesa della popolazione del paese, a maggioranza cristiana, ma dalle quali i vescovi hanno sempre preso le distanze). La Seleka è ufficialmente sciolta. Ogni gruppo di ribelli ha il suo capo, i suoi obiettivi e la sua zona d’influenza. Non c’è più quella guerra casa per casa, quartiere per quartiere che Bangui aveva conosciuto nel 2013 e nel 2014. Ora si tratta di battaglie che hanno per protagonisti gruppi di autodifesa, i soldati dell’Onu o le forze dell’ordine. Tre quarti del paese sono come fuori dal controllo dell’autorità dello Stato.
La guerra in Centrafrica, iniziata di fatto già nel 2012, non è uno scontro confessionale o etnico. Si tratta piuttosto dell’ennesimo conflitto per la conquista del potere e per lo sfruttamento delle ricchezze di cui abbonda il sottosuolo. Purtroppo, l’elemento confessionale si è inserito violentemente, avvelenando quella convivenza tra cristiani e musulmani che faceva del Centrafrica – in un tempo ormai lontano – un esempio di coabitazione pacifica. Seko e Fatima confermano che per ritornare alla situazione precedente la strada è ancora lunga.
Durante l’omelia, in occasione dei funerali del sacerdote ucciso e di alcune delle vittime, il Cardinale di Bangui ha messo tutti con le spalle al muro denunciando l’inerzia del governo, la lentezza dell’Onu e il rischio che i cristiani cedano allo sconforto o, peggio ancora, alla logica della violenza e della vendetta. C’è un nemico insidioso che sta distruggendo il Centrafrica. E questo nemico, ha scandito il Cardinale, è il diavolo. Solo le armi della fede possono vincerlo.
Bangui, ferita al cuore della sua fede, non è arrabbiata con Dio. È arrabbiata piuttosto con quegli uomini che non vogliono la pace e, quasi obbedendo a un’agenda nascosta, si ostinano a bloccare il paese, come se fosse ineluttabilmente condannato alla miseria e alla guerra. Bangui e tutto il Centrafrica sono in cerca di eroi – tra i governanti, i soldati, i giovani – che si alzino come un solo uomo e dicano no alla guerra e sì alla pace.
Bwa Federiki Notiziario dal Carmel di Bangui n° 21 – 8 Maggio 2018
Somalia, terra di martirio. La beatificazione di suor Leonella Sgorbati
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Testi di Enrico Casale e Marco Bello |
La Cattedrale di Mogadiscio dedicata alla Consolata così come è oggi dopo essere stata bombardata.
Il 26 maggio prossimo, a Piacenza, sarà beatificata suor Leonella Sgorbati, missionaria della Consolata. Il 17 settembre 2006 a Mogadiscio suor Leonella è stata freddata con sette colpi sparati a bruciapelo da due killer che non sono mai stati né indagati né giudicati. Con lei è morto anche il somalo musulmano Mahmmed Mahmud, sua guardia del corpo. Suor Leonella aveva 65 anni, di cui 36 passati al servizio in Kenya e poi in Somalia. Infermiera e formatrice di infermieri, aveva cercato di seminare la pace nel cuore di ragazze e ragazzi senza speranza nel futuro. Ci piace credere che ci sia riuscita, anche perché la scuola da lei fondata continua a funzionare. Vogliamo ricordare in queste pagine la sua storia, intimamente legata alla Somalia, il non-paese, che tuttavia esiste. Anche se ce lo siamo dimenticato.
Al termine del dossier: link ai video su suor Leonella.
Il paese inesistente.
La situazione oggi e le forze in campo
Eccetto le due zone autonome non riconosciute, Somaliland e Puntland, la Somalia resta altamente instabile. Il governo è debole e sostenuto (poco) dall’estero. Chi comanda sono i clan e i miliziani jihadisti. Restano presenti sul terreno eserciti di diverse aree del mondo. Mentre il turco Erdogan aumenta i suoi legami (e la sua influenza).
Jazera Beach, la spiaggia di Mogadiscio oggi – AFP PHOTO / Mohamed ABDIWAHAB
Quella somala è la storia di un fallimento nazionale e internazionale. Dal 1991, con la caduta del presidente dittatore Mohammed Siad Barre, il paese del Corno d’Africa vive in una costante instabilità politica e militare. La vecchia Somalia, diventata indipendente nel 1960, è ormai spezzata in tre tronconi. Al Nord, il Somaliland che si è dichiarato indipendente ed è politicamente stabile, ma che finora non è stato riconosciuto a livello internazionale. Nel centro, la regione del Puntland che, sebbene ancora formalmente legata a Mogadiscio, è diventata autonoma, con una propria struttura amministrativa e militare. Infine, il Sud dove le fragili istituzioni di Mogadiscio sopravvivono grazie all’aiuto della comunità internazionale. Le rivalità tra i clan e, soprattutto, la forza di al Shabaab, una milizia legata ad al Qaeda che controlla ampie parti del territorio, mina la possibilità di una ripresa per il paese. A ciò si aggiunge una nuova minaccia: la nascita delle prime cellule dell’Isis formate da ex miliziani fuoriusciti da al Shabaab e da guerriglieri.
Un vento di speranza
Il 16 febbraio 2017, poco più di un anno fa, sulla Somalia soffiava un vento di speranza. Dopo un complesso processo elettorale (che non prevedeva il suffragio universale, ma il voto di grandi elettori espressione dei clan) è stato eletto presidente Mohamed Abdullahi Mohamed, detto Farmajo. La fiducia riposta in lui si basava su un curriculum di tutto rispetto. Ambasciatore della Somalia negli Stati Uniti d’America dal 1985 al 1989, dall’ottobre 2010 al giugno 2011 aveva ricoperto la carica di primo ministro. Non solo, ma, da anni, Farmajo possiede la doppia cittadinanza somala e statunitense, un dettaglio che gli garantisce un sostegno aperto da parte del governo di Washington.
La sua elezione ha quindi destato molte aspettative nella popolazione che ha visto in lui la personalità in grado di portare il paese fuori dalla palude politico-militare in cui è impantanato. Ma il compito è, in realtà, molto difficile. Oggi, la Somalia è uno dei paesi più poveri del mondo: il 43% della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno e dipende quasi totalmente dagli aiuti umanitari, il cui flusso però è compromesso dall’insicurezza generale e dai continui furti. La siccità, una successione di raccolti poveri e un rapido aumento dei prezzi dei prodotti alimentari e del carburante hanno aggravato la condizione socioeconomica somala causando varie crisi alimentari. Attualmente, più di sei milioni di somali, su un totale di circa 14 milioni, necessitano di cibo e un milione è fuggito all’estero per cercare scampo.
«Il presidente Formajo – spiega mons. Giorgio Bertin, vescovo di Gibuti e amministratore apostolico di Mogadiscio – sta facendo del suo meglio. A volte, però, ho l’impressione che le istituzioni statali stiano in piedi solo grazie all’appoggio esterno. Il sostegno estero è comunque relativo perché i partner internazionali hanno loro agende che non sempre coincidono con quella somala. Il presidente dovrebbe impegnarsi maggiormente a sganciarsi dai meccanismi interni ed esterni che lo vincolano, per cercare l’unica cosa che conta veramente: l’appoggio della popolazione più che l’appoggio internazionale».
Sospetti Al Shabaab – UN Photo/Tobin Jones
Eserciti stranieri
Attualmente c’è una massiccia presenza militare straniera nel paese. Dal 2007, l’Unione africana, con l’autorizzazione delle Nazioni unite, mantiene una forza composta da 21mila soldati e 550 poliziotti. Ne fanno parte reparti di Burundi, Etiopia, Ghana, Gibuti, Kenya, Nigeria, Uganda e Sierra Leone. Il ruolo di Amisom, questo il nome della missione, è stato fondamentale nel contrastare il diffondersi delle milizie jihadiste. Ma la missione ha comunque pagato un prezzo altissimo in vite umane. I dati ufficiali non sono mai stati diffusi, ma si stima che nei combattimenti siano morti almeno duemila soldati.
Anche l’Unione europea mantiene un proprio contingente nel paese con il compito di formare i militari del neonato esercito somalo. Questa missione, denominata Eutm Somalia, è comandata da un generale italiano e fa perno su un nucleo di soldati italiani. Nel paese ci sono anche altre presenze militari. Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, nello scorso autunno ha portato il contingente a stelle e strisce a 500 uomini, il numero più elevato dal 1992 quando le truppe americane parteciparono all’operazione «Restore Hope». La Gran Bretagna ha poi una propria base a Baidoa nella quale le truppe speciali formano i soldati di Mogadiscio.
Arrivano i turchi
Sullo scenario somalo è comparso recentemente anche un nuovo attore: la Turchia. A ottobre, Ankara ha inaugurato in Somalia la sua più grande base militare all’estero. Nella grande struttura, che a regime ospiterà più di diecimila soldati, i militari turchi addestreranno i colleghi somali. Costata cinquanta milioni di dollari, la caserma è più di un’installazione militare. Essa è il segno del forte sostegno che il governo di Ankara offre a quello di Mogadiscio.
Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha recentemente rafforzato i legami con la Somalia sulla base della comune adesione agli ideali dell’islam politico. Erdogan ha visitato Mogadiscio due volte. Nel 2011 è stato il primo leader non africano in vent’anni a visitare la nazione devastata dalla guerra. Negli ultimi tempi è nata una collaborazione che ha avuto forti ricadute sul terreno. Aziende pubbliche e private turche hanno costruito scuole, ospedali e infrastrutture. Il governo di Ankara ha offerto molte borse di studio e ad alcuni ragazzi somali è stata offerta la possibilità di studiare in Turchia. Anche l’interscambio commerciale è in rapida crescita. Nel 2010 le esportazioni turche in Somalia ammontavano a 5,1 milioni di dollari, nel 2016 a 123 milioni. Nel giro di sei anni la Turchia è passata dal 20° al 5° posto tra i principali esportatori in Somalia.
Guy Oliver/IRIN
E l’Italia?
L’impegno turco supera ormai di gran lunga quello dell’Italia, ex potenza coloniale che, fino alla caduta di Siad Barre, ha avuto un solido rapporto con la Somalia. Attualmente, secondo quanto riporta il quotidiano finanziario «Il Sole 24 Ore» (del 18/01/2018, ndr) dei 165 milioni stanziati da Roma il 21 dicembre 2017 per la cooperazione internazionale, 13 sono destinati a cinque progetti che verranno realizzati in Somalia. Il primo prevede lo stanziamento di 3,7 milioni di euro al Fondo fiduciario delle Nazioni unite che promuove iniziative per il consolidamento dello stato di diritto in Somalia. In questo contesto, per esempio, «è prevista la ristrutturazione dell’edificio della Corte suprema e la costruzione della prigione dello stato regionale di Galmudug per migliorare le condizioni delle struttura nazionale giudiziaria». «Il secondo progetto stanzia 3,2 milioni di euro per finanziare il programma Farms Ifad e, in particolare, per migliorare in modo sostenibile la sicurezza alimentare della comunità del Puntland», con particolare attenzione agli sfollati. «Il terzo progetto contribuisce ad affrontare le sfide legate alla ricostruzione e allo sviluppo infrastrutturale della Somalia distrutte dal conflitto. E lo fa con uno stanziamento di un milione di euro a favore del Somalia Infrastructure Trust Fund della Banca africana di sviluppo. Il quarto progetto stanzia tre milioni per lo sviluppo di filiere produttive agro tecnologiche nelle regioni centrali e meridionali del paese». L’ultimo progetto, due milioni di euro, andrà ad «agevolare e sostenere gli sforzi del governo somalo e delle autorità regionali nella lotta alla disoccupazione e contribuire così alla stabilizzazione della regione del Corno d’Africa».
Rovine dell’hotel Al-Uruba – AU-IST/Tobin Jones
I fondamentalisti
Nonostante questi sforzi in campo politico, militare ed economico, continua nel paese la forte instabilità. Al Shabaab non controlla più le grandi città costiere, ma ha comunque una solida presenza nelle province dell’entroterra. Governata a lungo da Abdi aw-Mohamed, alias Godane (ucciso da un bombardamento Usa nel 2014), nel 2015 la milizia islamica è stata scossa da faide interne che sembravano averne minato la solidità e la capacità operativa. In quei giorni si pensava che i jihadisti fossero stati sconfitti e che si potesse, in qualche modo, riportare la pace in Somalia. Sotto la direzione di Abu Ubaidah però le formazioni islamiche hanno ripreso la loro compattezza e sono tornate ad organizzare attacchi contro le forze dell’Amisom, le ambasciate, i luoghi frequentati da stranieri.
A fianco di al Shabaab, hanno preso vita anche alcune cellule legate allo Stato islamico. Guidate da Abdulqadr Mumin, ex predicatore in Gran Bretagna e Svezia, per il momento hanno piccole dimensioni, ma si sono dimostrate capaci di unire i clan e i sub-clan più piccoli e da sempre esclusi dalla politica somala. Di esse fanno parte, oltre agli ex militanti di al Shabaab delusi, anche miliziani stranieri provenienti dal Medio Oriente dopo la sconfitta dell’Isis in Iraq, Libia e Siria.
«Sì, l’Isis è presente in Somalia – conferma mons. Giorgio Bertin -. Anche la stampa locale ne ha parlato. Le cellule avrebbero base soprattutto nel Puntland, la regione semiautonoma». La presenza dei miliziani di al Baghdadi desta preoccupazione perché in un video reso pubblico a dicembre i jihadisti invitano a «dare la caccia» ai non credenti e ad attaccare le chiese e i mercati. Gli Usa hanno lanciato raid con droni partiti dalle basi in Etiopia, contro gli affiliati dell’Isis facendo numerose vittime.
Ma gli attentati da parte degli islamici continuano, soprattutto a Mogadiscio, la capitale. Basta ricordare l’attacco del 14 ottobre 2017, uno dei più sanguinosi degli ultimi anni, con oltre 300 vittime. «Gli attacchi sono numerosi – afferma mons. Bertin -. Per la popolazione locale la situazione è meno drammatica. Lo è soprattutto per gli stranieri che vedono colpiti i loro luoghi di ritrovo e per questo motivo hanno bisogno di protezione. Quello che è auspicabile è che la popolazione si ribelli a questi attentati e che sia sempre più unita alle forze di sicurezza, e a quelli che cercano di riportare un po’ di legge e ordine in Somalia».
Enrico Casale
Ethiopian National Defence Forces in Hudur, capitale di Bakol Somalia – AU UN IST/Mohamud Hassan
Dall’indipendenza a Formajo
Cronologia essenziale
Il presidente della Somalia Mohamed Abdullahi Mohamed – AFP PHOTO / SIMON MAINA
1960, 1 luglio – Proclamazione dell’indipendenza. Aden Abdullah Osman Daar viene eletto presidente.
1969, 21 ottobre – Colpo di stato dell’esercito, il Consiglio rivoluzionario supremo designa Mohamed Siad Barre, comandante in capo dell’esercito e ispiratore del colpo di stato, come presidente. È rieletto nel 1979 per la seconda volta, e nel 1986 per il terzo mandato.
1988, aprile – Firma di un accordo di pace con l’Etiopia, dopo la guerra dell’Ogaden del 1977-1978.
1989, 9 luglio – Il vescovo cattolico mons. Pietro Salvatore Colombo viene ucciso con un solo colpo di pistola al cuore, nei pressi della cattedrale. L’assassino resterà sconosciuto. Nel 1991 non c’è più nessuno a custodire la cattedrale che durante la guerra civile – iniziata quell’anno e ancora in corso – sarà saccheggiata, bombardata, distrutta e le tombe dei vescovi violate per opera di forndamentalisti islamici.
1989, 14 luglio – Manifestazione dopo l’arresto di capi spirituali musulmani radicali (450 morti).
1990, 6 luglio – Allo stadio di Mogadiscio la guardia presidenziale spara sulla folla che contesta il discorso di Siad Barre. Le vittime sono 62.
1990, agosto – Alleanza di diverse fazioni ribelli, inizia un’offensiva per rovesciare il presidente.
1991, 26 gennaio – Il presidente Mohamed Siad Barre viene destituito. Al suo posto Ali Mahdi Mohamed.
1991, 18 maggio – Il Nord si dichiara indipendente con il nome di Somaliland e capitale Hergheisa.
1991, 18 novembre – Il presidente Ali Mahdi Mohamed viene rovesciato dal generale Mohamed Farah Aidid.
1992, 3 dicembre – Inizia l’operazione militare Restor Hope, eseguita dagli Usa sotto l’egida delle Nazioni Unite.
1993, 23 marzo – Risoluzione dell’Onu che crea l’Operazione delle Nazioni Unite in Somalia (Onusom II).
1993, 3 ottobre – Nella battaglia di Mogadiscio vengono uccisi 18 militari statunitensi e un casco blu per la caduta di un elicottero abbattuto dai miliziani. I morti somali sono centinaia. È il fallimento di Restor Hope.
1994, 20 marzo – La giornalista Ilaria Alpi e l’operatore Miran Hrovatin, entrambi italiani, sono assassinati a Mogadiscio. Stavano conducendo un’inchiesta sui rapporti tra funzionari italiani e Siad Barre, alla fine degli anni Ottanta. Lavoravano anche su una pista di traffici illeciti di armi e rifiuti.
1994, 29 marzo – L’ultimo militare statunitense lascia il paese. Un anno dopo finisce la missione Onusom II.
1996, 1 agosto – Muore il presidente Aidid, gli succede il figlio Hussein Mohamed Farah.
1998, 1 agosto – Il Puntland, nel Nord Est, si dichiara regione autonoma.
2003, 5 ottobre – La missionaria laica Annalena Tonelli viene assassinata con un colpo alla nuca, a Borama, nel Somaliland, dove dirige un centro medico.
2004, agosto – Inaugurazione a Nairobi di un parlamento di transizione in esilio. A dicembre Abdullahi Yusuf Ahmed è eletto presidente di transizione.
2006, febbraio – Prima sessione del parlamento di ritorno dall’esilio, a Baidoa.
2006, febbraio – Scontri a Mogadiscio tra «i signori della guerra» e i miliziani delle corti islamiche. Vinceranno questi ultimi.
2006, 4 settembre – Firma di un accordo di pace provvisorio tra il governo di transizione e le corti islamiche. I negoziati falliranno a novembre.
2006, 17 settembre – Assassinio di suor Leonella Sgorbati, missionaria della Consolata, a Mogadiscio. I responsabili non saranno mai giudicati.
2006, dicembre – L’Etiopia entra in guerra contro le corti islamiche e conquista Mogadiscio insieme al governo di transizione.
2007, gennaio – Gli Usa iniziano dei raid aerei nel Sud del paese contro i jihadisti.
2007, febbraio-aprile – L’Onu autorizza una missione africana per il mantenimento della pace, Amisom. Il governo si installa a Mogadiscio, dove continuano i combattimenti.
2008, agosto – Gli islamisti riprendono Kisimayo.
2009, aprile – Imposizione della Sharia, la legge islamica.
2009, settembre – I miliziani di al Shabaab dichiarano la loro alleanza ad Al Qaeda. Continuano gli attentati contro membri del governo e del parlamento, l’Amison e anche la moschea di Mogadiscio.
2011 – L’Onu decreta lo stato di «emergenza fame» in diverse regioni somale.
2012, settembre – Hassan Cheikh Mohamoud è eletto presidente dai deputati e subito scampa a un attentato.
2017, febbraio – Mohamed Abdoullahi Formajo eletto presidente. A ottobre un attentato a Mogadiscio causa oltre 300 vittime.
Ma.Bel.
Forze della Missione dell’Unione Africana in Somalia (AMISOM) a Kismayo – Phil Moore/IRIN
Leonella Sgorbati,
formatrice di pace in mezzo alla guerra. La suora con il cuore «extra large»
Se lo aspettava, in fondo al suo cuore, il martirio. Il rischio era grande, eppure ogni giorno andava nell’ospedale spinta dall’amore per i suoi studenti e dalla fede in Dio. Pur molto amata in Kenya, dove aveva insegnato e curato per 30 anni, aveva scelto di stare a Mogadiscio per
costruire con le ragazze e i ragazzi che formava come infermieri un futuro migliore. Perché ci credeva, suor Leonella, che un giorno anche la Somalia avrebbe visto la pace.
Sono le 12,30 di domenica 17 settembre 2006. Suor Leonella Sgorbati, 65 anni, sta attraversando la strada che separa l’Ospedale Sos, dove lavora, dal Villaggio Sos, dove vive con altre quattro consorelle, missionarie della Consolata. Torna a casa dopo la consueta mattinata di lezione. A Mogadiscio la situazione è molto difficile e gli stranieri sono presi di mira. Le sorelle non si allontanano mai dai due compound, eccetto che per recarsi all’aeroporto quando devono uscire dal paese. Anche per attraversare quell’unica strada, le suore hanno la scorta.
Nel breve tempo dell’attraversamento, due uomini compaiono da dietro un taxi e fanno fuoco su suor Leonella e Mohammed Mahmud, la sua guardia del corpo, che muore subito. Suor Leonella viene trasportata all’ospedale, dove muore poco dopo con sette proiettili in corpo. Le sue ultime parole sono: «Perdono, perdono, perdono».
A quasi dodici anni da quel giorno, grazie a un grande lavoro delle sue consorelle, la missionaria sta per essere beatificata, il 26 maggio a Piacenza. «Nel marzo dell’anno scorso è stato riconosciuto il martirio di suor Leonella – ci racconta suor Renata Conti, postulatrice generale -. Nel Capitolo del 2011 decidemmo di iniziare la causa di beatificazione. Abbiamo così raccolto la documentazione e realizzato un’inchiesta diocesana approfondita, ascoltando molti testimoni. Il presidente della commissione d’inchiesta era monsignor Giorgio Bertin, vescovo di Gibuti e amministratore apostolico della Somalia. I risultati ci hanno dato ragione e papa Francesco ha emesso il decreto di beatificazione lo scorso 8 novembre».
Infermiera e formatrice
Giunta in Kenya nel 1970, infermiera, lavora nel Consolata Hospital a Mathari, Nyeri e al Nazareth Hospital in Kiambu nei pressi di Nairobi. Si rimette poi a studiare ottenendo due diplomi di livello universitario e diventando formatrice di infermieri. Un passaggio fondamentale della sua esistenza. «Il lavoro in ambito sanitario le fece, ben presto, capire quanto fosse fondamentale preparare personale qualificato che, poco per volta, potesse assumere i ruoli fino allora portati avanti dalle suore. Per fare questo, era necessario istituire delle scuole per infermieri. Suor Leonella sognava in grande: non si sarebbe mai accontentata di qualsiasi risultato, voleva raggiungere alti livelli di qualità. Non era facile, oggettivamente, sebbene fosse entusiasta e capace, alle volte doveva piegarsi di fronte alla difficoltà o impossibilità», scrive suor Renata in un documento sulla vita della beata. «Assunta la direzione della scuola per infermieri a Nkubu, nel Meru (Kenya), una delle sue prime preoccupazioni fu quella di conciliare le regole con la formazione: era infatti chiara per lei l’esigenza di un sistema di insegnamento che includesse una formazione integrale dei giovani. Era proprio il suo punto fermo, ci teneva che gli studenti crescessero umanamente e spiritualmente, che diventassero dei professionisti competenti, ma anche degli operatori sanitari con un cuore accogliente, al servizio della persona che avevano davanti».
La superiora col sorriso
Dal 1993 al 1999 è superiora regionale delle missionarie della Consolata in Kenya, rieletta per due mandati consecutivi. È molto amata, per il suo sorriso accogliente e per un cuore grande. Durante le visite come superiora spesso cita l’Allamano: «Bisogna avere tanta carità da dare la vita. Noi missionari siamo votati a dare la vita per la missione».
Scrive su una circolare per le consorelle del Kenya: «Noi, sia individualmente, che come comunità, dobbiamo renderci disponibili al processo dell’incarnazione del Figlio in noi per poter essere la consolazione del Padre. Cosa significa questo in pratica? Significa accogliere che il Figlio sia libero in ciascuna di noi, in me, libero di perdonare attraverso la mia persona a chi mi reca offesa, libero di spezzare il pane della bontà, della comprensione nella comunità, libero di farmi percorrere l’itinerario che il Padre ha fatto fare a lui, con le scelte che il Padre indica. […] Libero di amare attraverso di me con l’amore più grande, l’amore che va fino alla fine, che è più forte dell’odio e dell’inferno, nella verità, nella pratica di ogni giorno e di ogni momento».
Una scuola per la Somalia
Nel 2001 viene chiamata in Somalia, per fondare una scuola per infermieri sul modello di quella che ha diretto in Kenya.
Il paese ha già vissuto 10 anni di guerra. «L’ospedale Sos era l’unica struttura sanitaria di Mogadiscio che lavorasse in ambito pediatrico a titolo gratuito. Era stata questa Ong (Kinderdorf International) a progettare la scuola per infermieri e a coinvolgere le missionarie della Consolata nella partecipazione e realizzazione del Somali Registered Community Nursing», scrive suor Renata. «La gente la voleva fortemente: erano dieci anni che non si formavano infermieri e medici in Somalia».
Ma il paese è allo sbando e il fondamentalismo musulmano ha oramai preso piede e ogni attività condotta da stranieri, per di più cristiani, è guardata con sospetto. Continua suor Renata nel suo scritto: «In Somalia, al di là della fatica, le sfide erano molteplici su tutti i fronti: anzitutto, il metodo formativo di suor Leonella doveva essere adeguato alla nuova situazione di insegnamento come esigevano le autorità civili. Era, inoltre, indispensabile una formazione integrale che servisse a far crescere i giovani umanamente, in modo da poter servire meglio la vita fragile e ferita dei malati. Come proporre, però, i valori su cui lei aveva sempre fatto leva, in un ambiente musulmano? Si dovevano ricercare elementi comuni tra cristianesimo e islam. Era necessario dimostrare che le nozioni scientifiche che lei promulgava non erano contro il Corano. Bisognava convincere i ragazzi, e l’ambiente in generale, che lei non faceva proselitismo, anzi, che rispettava e valorizzava il dialogo interreligioso. Eppure, c’era chi non ci credeva e pensava che suor Leonella usasse la scuola per convincere i giovani a farsi cristiani».
Una presenza costante
Le missionarie della Consolata erano arrivate in Somalia nel 1924, inviate, in quel tempo, dal fondatore Giuseppe Allamano in persona, che aveva detto al primo gruppo: «Partite, andate tra musulmani; sarà un campo duro, arido, non importa, lavorate, seminate, non aspettate frutti per cinquant’anni, poi il seme frutterà». Da allora c’era sempre stata una presenza costante, divenuta l’unica cattolica ufficiale. Ma nel 1991, a causa della guerra, le religiose hanno dovuto ridurre drasticamente le attività. Vi è rimasto un piccolo gruppo, di quattro, talvolta cinque sorelle, che lavorano come volontarie all’ospedale Sos Kinderdorf International, Ong presente nel paese dal 1983, che opera in favore dei bimbi senza famiglia o in difficoltà. «Una presenza che la Santa Sede di chiedeva di mantenere», spiega suor Renata.
L’assassinio di suor Leonella e della sua guardia del corpo spezza questa continuità. «Noi saremmo rimaste – ci racconta suor Renata – ma l’Ong ci impose di andare via. Il giorno stesso del viaggio della salma di suor Leonella a Nairobi, le nostre sorelle dovettero partire. E non siamo mai più tornate. Tuttavia diciamo che per noi la Somalia non è “chiusa”, ma “sospesa”; ci fosse uno spiraglio di luce potremmo eventualmente tornare».
Quando è arrivata in Somalia suor Leonella non c’erano scuole per infermieri in tutto il paese. Lei ne ha creata una di buon livello e riconosciuta dall’Oms sia per ragazzi che ragazze.
«Inoltre, lei era simpatica, gioviale, capace di farsi voler bene. I giovani, i suoi allievi la adoravano. E anche questo era mal visto, perché i radicali musulmani dicevano che convertiva i ragazzi al cristianesimo. Era una novità formare anche le ragazze. Di fatto si dava una speranza a questa gioventù, ma questo non è piaciuto ai fondamentalisti islamici perché formare i giovani è, per loro, un rischio». Con tutta probabilità è questo il motivo per cui è entrata nel mirino di qualche gruppo islamista.
Pressioni e intimidazioni
«In quel paese non era permessa l’evangelizzazione, si poteva solo testimoniare il Vangelo con la vita. La Somalia era, ed è, per il 99.99% musulmana con forze interne tendenti all’estremismo islamico. Vi erano manifestazioni frequenti e reazioni impreviste e violente nei confronti dei pochi cristiani, e questi erano costretti a visitare le suore di nascosto perché avevano molta paura di venire scoperti. I fondamentalisti cercavano, con tutti i mezzi, di forzare le sorelle, quattro in tutto, ad abbracciare la loro fede. Suor Marzia Feurra (superiora della comunità, oggi in missione a Gibuti, ndr) più volte fu assediata dai fondamentalisti perché diventasse musulmana: non potevano accettare che la loro gente fosse curata e aiutata da cristiani.
Sul giornale locale scrissero molte volte contro l’Ong Sos e contro le suore, avvertendo la gente di guardarsi bene da loro perché stavano cercando di fare proseliti. La gente, però, non dava peso a quanto veniva scritto, sapeva che era solo propaganda, ed ebbe sempre una grande fiducia nelle sorelle. Tutto questo e altro ancora, richiedeva una prudenza non comune perché non si era mai sicuri se il fratello che ti stava dinanzi era un amico o un nemico», racconta suor Renata.
Inoltre nel periodo in cui suor Leonella viene uccisa, c’è molta tensione a livello mondiale. Il 12 settembre, 5 giorni prima dell’uccisione, papa Benedetto aveva pronunciato il discorso di Ratisbona, nel quale una citazione dell’imperatore bizantino Manuele II il Paleolgo1, è stata ritenuta particolarmente offensiva per i musulmani, e in un clima già incendiario, ha creato reazioni a livello planetario. Dall’indignazione di alcune cariche islamiche ufficiali, alle manifestazioni di piazza, a violenze contro chiese e strutture cattoliche nel mondo, fino a minacce di morte verso il papa stesso.
Ratzinger esprimerà poi «vivo rammarico» per quelle reazioni sottolineando che: «Il mio era un invito al dialogo franco e sincero». Ma il danno è compiuto e chi vuole approfittare della situazione internazionale, e soprattutto dell’impunità che garantita da questa tensione, lo ha già fatto.
«“Noi dobbiamo dimostrare ai cristiani chi siamo”, dicevano nelle moschee. Ma gli unici cristiani in Somalia erano le nostre sorelle», ricorda suor Renata.
Una presenza che continua
Un fatto importante è che la scuola per infermieri fondata e organizzata da suor Leonella è ancora funzionante. «Il livello è un po’ sceso, ma continua a formare giovani», assicura la postulatrice. «È gestita oggi da ragazzi e ragazze che suor Leonella ha formato e fatto crescere. Lei aveva questo approccio: formare le persone locali affinché prendano in mano le opere». Una visione lungimirante dunque, che non si ferma al tempo di una presenza esterna, ma vuole gettare radici profonde.
Perché il martirio
Suor Simona Brambilla, superiora delle Missionarie della Consolata, ricorda così la beata: «Rivisitare il percorso di suor Leonella fino al suo martirio e oltre, significa venire a contatto col mistero della vita di una persona amata e amante. Significa affacciarsi su una vita che è porta tra cielo e terra, tra grande e piccolo. Significa essere ammesse a varcare, con trepidazione e gratitudine, una soglia sacra, una porta di Dio. Questo è il senso del nostro celebrare suor Leonella: celebrare un mistero di amore e dolore, di vita e di morte, intrecciate in un sacro, fecondissimo abbraccio; celebrare la consegna totale di Leonella al suo sposo, ma anche di Dio alla sua sposa.
Così, suor Leonella consegnava la sua vita: “La tua vita, il tuo amore, il tuo sangue… riceva la mia vita, il mio amore, il mio sangue… mi sento povera, incapace, accoglimi ugualmente, sono certa del tuo amore e della tua accoglienza”».
Chiediamo a suor Renata i suoi sentimenti sulla beatificazione: «Sono molto felice perché io ci credo a questo martirio. Non è stato un incidente. Suor Leonella si è preparata a questo evento, per tutta la vita. Nel cuore ha sempre avuto un’adesione costante al Signore, anche con alti e bassi come ognuno di noi. Era una persona molto radicale, nelle sue scelte». Il governo italiano di allora a non ha fatto nulla per scoprire la verità sull’assassinio della connazionale. Il ministro degli Esteri era Massimo D’Alema. Ricorda suor Renata: «Non fecero assolutamente niente. All’inizio dell’inchiesta ecclesiastica, avevo tentato andando alla Farnesina, ma mi hanno detto: “È meglio che non indaghi, è meglio non esporsi”. Inoltre non c’è stato nessun processo in loco. Abbiamo accolto questo fatto con dispiacere, ma non c’è stato alcun intervento da parte ufficiale».
Le spoglie di suor Leonella sono portate a Nairobi, dove il 21 settembre 2006, viene celebrato il funerale alla presenza di tantissima gente, autorità, missionarie e missionari, operatori dell’Ong, amici.
«Suor Leonella è morta inseguendo la visione di una Somalia stabile e pacifica – dice monsignor Giorgio Bertin durante l’omelia per il suo funerale2. «Lei era convinta che una nuova Somalia, guarita dal flagello della guerra civile è possibile. […] La sua vita, il suo sorriso e la sua innocenza ci dicono che un mondo nuovo è possibile, una nuova Somalia è possibile. Lei fu ispirata dalla convinzione che il nuovo mondo che Gesù è venuto ad annunciare è già cominciato qui sulla Terra. E non è una coincidenza che morì insieme a un uomo musulmano. […] Vivere insieme, nonostante le differenze, richiede la conversione del cuore, speranza, determinazione e perseveranza».
Marco Bello
Note
(1) «Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava».
(2) Agenzia Cisa, 21 settembre 2006.
«Ho vissuto con una santa»
Il ricordo di suor Marzia, che è stata in Somalia con suor Leonella
Funerale e sepoltura di sr Leonella Sgorbati
Suor Leonella era una persona del tutto normale, con le sue doti e le sue fragilità. Amava la sua vocazione e la sua famiglia religiosa, metteva tutto il suo entusiasmo nel realizzare la missione che Dio le aveva affidato e pur di realizzarla non guardava al sacrificio.
Amava le sorelle, ed era sempre presente alle attività comuni, la ricreazione per lei era sacra.
Anche nei momenti di tensione per la difficile situazione che stavamo vivendo a causa della guerra, lei aveva sempre quel senso di «humor» e cercava di tirarci fuori.
Penso che facesse la differenza l’intensità d’amore con cui lei agiva, facendo sì che le cose ordinarie diventassero straordinarie.
Suor leonella aveva un fuoco dentro che la divorava e questo si percepiva nel suo comportamento: voleva aiutare tutti, salvare tutti, si prendeva a cuore i problemi di ognuno e scherzosamente diceva che avrebbe voluto ritirare tutti i fucili della Somalia.
Aveva un carattere molto forte e volitivo con la sua tenacia e costanza riusciva a superare tante situazioni difficili e di rischio. La chiamavamo il «vulcano», sempre in eruzione. Aveva idee e progetti nuovi da presentare, tutti molto belli e utili per la gente, ma dovevamo fare i conti con la situazione che stavamo vivendo, che non ci permetteva di espanderci perché eravamo persone non gradite, e in tanti modi eravamo tenute d’occhio e sotto controllo.
Molte volte ci siamo trovate in situazioni veramente difficili e queste richiedevano da noi un discernimento non facile: «Partire o restare?». Partire voleva dire mettere in salvo la nostra vita che ha il suo valore. Restare voleva dire rischiare, ma di fronte alle necessità della gente nessuna di noi si sentiva di lasciare la missione, perché l’ospedale SOS era l’unico centro che aiutava i poveri e salvava tante vite.
Al mattino arrivando in ospedale si vedeva molta gente che pazientemente aspettava il proprio turno per essere visitata: donne a rischio della vita per i parti difficili, bambini disidratati e denutriti ecc. Di fronte a queste emergenze dimenticavamo tutti i nostri problemi ed eravamo felici di stare con la gente e donare loro un aiuto concreto. Ci dava tanto coraggio la parola del nostro padre fondatore, il Beato Allamano, che incoraggiava la fedeltà alla missione anche a costo della vita.
Quando suor Leonella è giunta in Somalia la situazione religiosa e politica andava sempre più deteriorandosi, e la lotta tra i gruppi si faceva sempre piu serrata, creando sempre nuovi focolai di guerra che davano tanta insicurezza.
Al contrario del Kenya, un paese libero dove la chiesa è una forza, la Somalia è un paese chiuso e a rischio, dove tutto è sotto controllo e la piccola chiesa viveva come nelle catacombe. Nessun segno religioso, tutto era stato distrutto, la cattedrale bruciata e le chiese rase al suolo.
L’unico Tabernacolo presente in Somalia era in casa delle suore e noi eravamo l’unica presenza di chiesa, anche se avevamo la messa solo ogni tre mesi, perché era impossibile la presenza di un sacerdote, la presenza di Gesù Eucaristia ci dava tanta energia e tanta forza per continuare il cammino.
Il pensiero di tenere questa piccola presenza di Chiesa Cristiana in un paese totalmente musulmano ci dava tanta speranza e ci aiutava a superare le tante difficoltà di ogni giorno.
Per suor Leonella la Somalia ha avuto un impatto molto forte. Per lei questa impotenza è stata come un martirio, ma non si è mai scoraggiata, mai ha ceduto le armi, e anche se con tanta fatica, ha sempre cercato di ubbidire alla limitazione dell’ambiente perché Gesù Eucaristia era la sua forza.
suor Marzia Feurra
Annalena Tonelli
Gli italiani uccisi in Somalia, terra dell’impunità
Quattro omicidi. Quattro italiani. Tanti sospetti. Mons. Salvatore Colombo, Annalena Tonelli, Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sono le vittime di quattro casi che collegano in modo misterioso e drammatico l’Italia alla Somalia.
Monsignor Salvatore Colombo
Quella di mons. Salvatore Colombo è una storia dimenticata. Vescovo di Mogadiscio, viene assassinato il 9 luglio 1989. L’assassino è rimasto senza nome né volto, e non si sa perché abbia ucciso il prelato e se, dietro quell’omicidio, ci fossero mandanti eccellenti. È stato il regime a ucciderlo? Oppure c’erano altri interessi? Una possibile pista, ricostruita da «Avvenire», potrebbe essere quella delle tante ombre della cooperazione italiana in Somalia. Un ex agente dei servizi segreti italiani Aldo Anghessa è perentorio: «Monsignor Colombo era contro la Giza, cioè una delle maggiori imprese italiane in affari con il regime di Barre». Questo lo portò a scontrarsi contro i poteri forti di Mogadiscio. Il vescovo inoltre si rifiutava di distribuire gli aiuti della Caritas come chiedeva Barre, che pretendeva andassero a chi diceva lui. Anche questo potrebbe avergli attirato le ire del dittatore somalo. Nessuno ha mai indagato. E oggi, dopo la distruzione della cattedrale di Mogadiscio e dei suoi archivi, ricostruire la vicenda e risalire ai colpevoli è diventato impossibile.
Su di lui si può leggere: Massimiliano Taroni. Mons. Salvatore Colombo, vescovo dei poveri e martire della carità, Ed. Velar, 2009.
Anche il caso di Annalena Tonelli rimane (in parte) irrisolto. Forlivese, laureata in legge a Bologna, si trasferisce a Nairobi a 26 anni come missionaria laica. Da quel momento non lascia più l’Africa e lavora per aiutare poveri e ammalati. «Il mio primo amore – dirà – furono i malati di Tbc, la gente più abbandonata, più respinta, più rifiutata». La Tonelli studia una cura per guarire la Tbc in sei mesi contro i 12 o i 18 necessari fino ad allora, ma gli ammalati devono rimanere nel luogo di cura, non a casa. Lei mangia pochissimo, dorme quattro ore a notte, possiede due tuniche e uno scialle e si concede solo, ogni tanto, un po’ di caffè. Di fronte all’emergenza Aids, inizia a occuparsi anche dei malati colpiti da quel virus. Si attira le invidie dei capi locali. Alcuni di essi organizzano manifestazioni contro di lei perché «accoglie i malati di Aids e contagia una comunità di puri». La accusano poi ingiustamente di prendere i contratti dell’Onu senza coinvolgerli e consultarli. Nonostante i tentativi di riappacificazione, le tensioni rimangono. Il 5 ottobre 2003, Annalena viene uccisa con un colpo di fucile nel suo ospedale di Borama, in Somaliland.
Oscuri anche i motivi della morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, giornalista e cineoperatore della Rai, freddati il 20 marzo 1994 a Mogadiscio. Da allora processi, commissioni parlamentari e inchieste giornalistiche non sono riusciti a fare chiarezza sulla vicenda. Ciò che si sa è che i due giornalisti del Tg3 erano in Somalia per seguire il ritorno in patria del contingente italiano inviato in missione di pace nel Corno d’Africa. La Alpi però stava indagando su un traffico di armi e rifiuti tossici che coinvolgeva «i signori della guerra» locali e navi provenienti dall’Italia. Nel caso si mescolano interessi italiani e somali, depistaggi. Le note del Sismi (servizi segreti italiani) del 1994 confermano i risultati di molte inchieste giornalistiche svolte negli anni: «Ilaria Alpi è stata uccisa perché indagava su un traffico di rifiuti e armi. I mandanti vanno ricercati tra militari somali e cooperazione». Sono passati ormai 24 anni e ricostruire una verità giudiziaria è sempre più complesso. Non rimane che tessere le fila di un contesto politico e militare per ottenere almeno una verità storica.
Enrico Casale
20 ottobre 2017. preghiera in piazza dopo l’attacco terroristico del 14 ottobre che ha lasciato 276 persone uccise e oltre 300 ferite – AFP PHOTO / Mohamed ABDIWAHAB
Un sacerdote a Mogadiscio
Incontro con il cappellano militare degli italiani
È un’eccezione: oggi un prete cattolico in Somalia può essere solo quello dell’esercito. Padre Stefano Tollu spiega la sua scelta e ci racconta, da una posizione di osservazione privilegiata, la vita nella capitale somala e gli incontri clandestini con i rarissimi cristiani di quel paese. Una comunità che si autodefinisce «in via di estinzione».
È l’unico sacerdote cattolico a Mogadiscio. Un prete in un mondo musulmano. Non è un parroco e neppure un religioso. È il cappellano del contingente militare italiano di Eutm, la missione di formazione e addestramento delle forze armate somale. Padre Stefano Tollu non è però estraneo all’Africa. Per anni ha servito come salesiano in Angola e Kenya. Oggi la sua missione è, forse, più difficile di quella svolta un tempo: offrire assistenza spirituale ai militari e al personale delle organizzazioni internazionali in un contesto particolare come quello somalo. Un ambiente complesso nel quale ha avuto occasione di incontrare anche il leader della piccola comunità cristiana locale che vive nascosta.
Missionario con le stellette
La strada di padre Tollu dall’Angola alla Somalia non è stata facile né lineare. È lui stesso a raccontarla: «Nasco come salesiano di don Bosco e, dopo gli studi di filosofia, ho vissuto undici anni in Angola e Kenya dove mi sono formato teologicamente e pastoralmente. Nel 2015, al mio ritorno in Italia, ho preso la scelta sofferta di non continuare a servire il Signore nei salesiani. È emersa la possibilità di svolgere il servizio presso l’Ordinariato militare. Ho accettato. Nel 1991-92 avevo svolto il servizio militare di leva negli alpini. Quello è stato un momento fondante della mia personalità e della mia spiritualità. Allo stesso tempo, ho sempre avuto amici nelle forze armate. Come capellano lavoro tra professionisti, spesso messi alla prova da situazioni complesse, alle quali rispondono con sacrificio e dedizione, non sempre riconosciute».
Non porta armi, non ha una preparazione militare. Il suo è un servizio spirituale. «L’esperienza missionaria mi ha aiutato molto – continua -, poiché mi ha dato la capacità dell’ascolto e della temperanza, ma anche la propensione all’elasticità e all’incontro verso l’altro. In questa nuova dimensione ho scoperto una purificazione interiore del mio servizio sacerdotale, laddove è aumentata la mia attenzione non al “fare”, ma all’essere strumento del Signore. È stato per me traumatico il non sentirmi compreso in questa mia scelta. Tante persone che per anni mi sono state vicine sono rimaste sorprese dal mio andare con i militari. Sono stato etichettato come “prete guerrafondaio” o traditore, parole forti che mostrano come non sia compreso il nostro servizio da tanti fratelli cristiani. Ho scoperto però in queste sofferenze, grazie alla preghiera e alla sana solitudine, la forza necessaria per camminare in questa nuova strada della mia vocazione».
Padre Stefano incontra i militari, li visita nei loro uffici, parla e scherza. Entra in confidenza con loro. E i militari si aprono a lui. Gli raccontano i loro problemi spirituali e personali. Nella sua diversità si sente sempre missionario «poiché sono in costante movimento, andando alla ricerca dell’altro, del fratello, porgendogli e condividendo con lui il Signore, nella mia fragile povertà umana». Lo scorso anno gli viene offerta la possibilità di tornare in Africa al seguito della missione italiana in Somalia. Padre Tollu accetta.
Soldati dell’AMISOM – AU UN IST/Ilyas A. Abukar
Somalia blindata
«L’opportunità di svolgere la mia missione all’estero mi fa sentire a casa – osserva -. Sono al servizio del contingente italiano, ma con il permesso del mio vescovo e delle forze armate, mi sono messo a disposizione del personale non italiano, assistendo anche i lavoratori ugandesi presenti nella nostra base, i soldati del Burundi della base accanto alla nostra, i lavoratori di Fao, Nazioni Unite e Ong. Le mie messe sono una bellissima Babilonia di preghiere in italiano, francese, inglese, kirundi, swahili e altre lingue ancora».
A Mogadiscio è l’unico sacerdote cattolico. In tutta la Somalia, compresi i pastori protestanti, i religiosi cristiani sono quattro o cinque. «Il cappellano militare del contingente del Burundi, padre Albino, lavora nel Nord della Somalia – osserva padre Stefano -. In sei mesi ci siamo visti due volte. Con piacere accompagno i suoi ragazzi di nazionalità burundese ed è una bellissima testimonianza di unità della Chiesa. Ho avuto il piacere di celebrare l’Eucarestia del Natale con il pastore Rodriguez, battista, cappellano degli Usa. Lui si trova a Gibuti e, nell’impossibilità di seguire i suoi connazionali qui a Mogadiscio, ha chiesto la mia disponibilità. La risposta era scontata poiché, prima ancora che me lo chiedesse, mi ero messo a disposizione di tutti». Difficile invece per lui incontrare i musulmani. «La realtà islamica è frammentata con leader legati a diverse scuole coraniche – chiarisce -. Non ho avuto il piacere di incontrarli. Mi auguro che, nel futuro, una volta liberato il paese dalle infiltrazioni terroristiche, si possano creare le condizioni per corrette e benevoli relazioni con i fratelli di fede islamica».
Il primo ministro della Somalia, Abdiweli Sheikh Ahmed, ferma un accordo col governo del Puntland il 14 ottobre 2014 – Unisom
Cristiani nascosti
Più complessa invece la relazione con i somali. La situazione di insicurezza in cui versa il paese, i continui attentati (3-4 volte a settimana a Mogadiscio) impediscono un ruolo strutturato all’esterno della base. «Quando esco con i militari, accompagnandoli nei luoghi dove svolgono l’addestramento delle truppe somale – osserva -, lo faccio sempre rispettando le norme di sicurezza. Giubbotto antiproiettile, elmetto e un soldato che rimane sempre al mio fianco. Raramente posso uscire e, quando ciò accade, è per condividere un pezzetto della quotidianità di una parte dei miei ragazzi».
La Somalia però lo ha impressionato. Così diversa dal Kenya e dall’Angola che ha conosciuto in passato eppure non così disastrata come viene presentata all’estero. «Quando ho attraversato Mogadiscio ho avuto la sensazione di una città spaventata, con la popolazione abituata a convivere con la paura, con l’insicurezza, con la non progettazione del futuro – racconta -. Rispetto a Luanda, capitale dell’Angola, tuttavia, ho notato maggiore pulizia e una migliore organizzazione. Un esempio: nella favelas della Lixeira dove ho vissuto per anni c’era un solo dentista per un milione di persone. Qui ne ho visti svariati. Allo stesso tempo, la militarizzazione della città, in risposta alle orribili azioni di al Shabaab, mi rattrista».
Nei suoi giorni nella capitale somala ha avuto l’occasione di fare un’esperienza unica per un sacerdote: incontrare i cristiani somali che, pur perseguitati, continuano a professare la loro fede in clandestinità e fra mille pericoli. Ho potuto conoscere Mosè – racconta padre Tollu -: è un cristiano cresciuto nella realtà del Protettorato italiano e poi nella Somalia indipendente, ma ancora molto legata al nostro paese. In molti lo considerano il portavoce dei cattolici somali. Lui definisce la sua comunità come una realtà in via di estinzione». Da una ventina di anni a questa parte ha infatti preso piede una versione intollerante della fede coranica. Al Qaeda e la sua filiale locale, al Shabaab, sono una minaccia continua per i musulmani non fondamentalisti e per i cristiani. Negli ultimi mesi si è poi affacciato anche lo Stato islamico che ha creato le prime basi nel Puntland. Un ulteriore pericolo per i cristiani locali. Il rischio arriva anche all’interno delle stesse famiglie dei cristiani. È ancora padre Tollu a parlare: «Mosè mi ha raccontato che “quelli nati dagli anni ‘90 in poi”, così li ha chiamati, sono diventati intolleranti e non comprendono i loro vecchi che professano il cristianesimo. Allora gli anziani fuggono, si allontanano dai loro figli e dai loro nipoti, perché potrebbero far loro del male». Mosè ha mostrato a padre Tollu una lista di cristiani morti recentemente, alcuni per cause naturali, altri per cause violente. «Gli ho promesso di ricordarli nella Santa Messa – dice padre Tollu -. Mosè, triste in volto, mi ha risposto: “Ecco lui e lei sono stati uccisi dai figli dei loro figli. Ormai la violenza è nelle case e noi, che siamo rimasti in pochi, rischiamo la vita ogni giorno”».
I pochi fedeli cattolici non possono avere un’assistenza spirituale continua. «Al momento – conclude – non esistono le condizioni di sicurezza per un sacerdote per svolgere serenamente il suo servizio a Mogadiscio. Mi auguro che in futuro, una volta liberato il paese dalle infiltrazioni terroristiche, si possano ricreare le condizioni minime per la presenza cristiana nella città. Ho promesso di pregare per loro durante la Messa. Siamo uniti nella preghiera quotidiana, fratelli in Cristo perseguitati e obbligati a nascondere la nostra fede».
Enrico Casale
Bambini somali a scuola nel campo di rifugiati di Dollo Ado, Ethiopia. – J. Ose/UNHCR
Video su suor Leonella Sgorbati
Iran: la situazione nella repubblica islamica sciita
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Testi di Maria Chiara Parenzo |
Impegnato nella tragica guerra della?Siria e in quella dimenticata dello Yemen, il governo sciita di Teheran ha problemi anche al proprio interno. Con una lotta senza esclusione di colpi tra conservatori radicali (legati alla Guida suprema Khamenei) e conservatori riformisti (vicini al presidente Rouhani). Nel frattempo, la schiera dei nemici esterni si compatta: Israele, Arabia Saudita e il presidente statunitense Donald Trump non fanno nulla per favorire il dialogo. A pagare il conto di questa situazione è il popolo iraniano.
Teheran. Per giorni – è dicembre 2016 – il reporter della televisione iraniana al seguito dell’esercito siriano tiene i telespettatori con il fiato sospeso: si sta riconquistando la città di Aleppo con un combattimento casa per casa. Man mano che la città viene liberata si rivelano i crimini perpetrati dai terroristi: case saccheggiate, cadaveri abbandonati qua e là, o deposti in fosse comuni. I telespettatori inorridiscono. Quando l’ultimo bastione di resistenza cade, in città è festa grande. Nelle immagini vediamo la gioia delle persone rimaste intrappolate nei quartieri occupati che possono riabbracciare i propri famigliari, ma anche la disperazione di quelli che ritornano alle proprie case devastate, le testimonianze delle atrocità commesse dalle milizie a danno dei civili. Poi vediamo immagini di come, lentamente, la vita in città tenta di riprendere il suo corso normale.
Qualche giorno dopo mi trasferisco in Italia per il periodo natalizio e lì la musica cambia completamente. È quasi unanime il coro di denunce per gli orrori commessi dall’esercito di Bashar Assad durante la riconquista di Aleppo. Ci si rammarica che la comunità internazionale non abbia saputo fermare la strage. Non ho mai sentito i media iraniani parlare del governo siriano in termini negativi, ma mi è noto che il regime guidato da Assad si è macchiato di pesanti crimini di guerra. Poi si accusa l’aviazione russa di aver dato una mano ad Assad e di aver colpito indiscriminatamente obiettivi militari e civili. Anche questi fatti cui la Tv iraniana non ha mai fatto cenno, mi sembra del tutto plausibile. Basta ripensare a come l’esercito russo ha condotto la guerra nel Caucaso.
Scopro, in compenso, che il pubblico italiano non ha molta consapevolezza di un’altra guerra sanguinosa, quella in corso in Yemen dal 2015. Quando ne parlo con alcuni amici vedo il vuoto nei loro occhi: sì, forse qualcosa abbiamo sentito, non so. Invece, la Tv iraniana trasmette quasi quotidianamente immagini di persone che vagano tra le macerie delle loro case, di morti, di bambini feriti, o di madri disperate perché non hanno cibo per i loro figli. Causa di tante sofferenze sono i bombardamenti effettuati da una coalizione di stati guidata dall’Arabia Saudita, con l’appoggio logistico e tecnico di Usa e Regno Unito, e le bombe italiane. Anche in questo caso, non ho motivo di dubitare che le immagini descrivano una situazione reale.
È Iran contro Isis
Questa sensazione di vivere in una realtà doppia si ripete l’anno dopo. Questa volta si tratta della guerra all’Isis. Scopro che gli italiani ne hanno un’idea vaga. Sebbene tutti temano attacchi in casa propria, non s’interessano molto a ciò che succede su un terreno lontano. Chi ha combattuto l’Isis? I più nominano la Russia, l’America, i paesi arabi, qualcuno dei più informati parla di curdi, milizie sciite, Iran.
Se, invece, si fa la stessa domanda a un iraniano la risposta arriva rapida e sicura: l’Iran, innanzitutto. Da subito l’Iran ha sentito di vitale importanza difendersi da questa minaccia, sia per la vicinanza dello Stato islamico ai confini nazionali, sia per la particolare ferocia con cui il gruppo attaccava le comunità e i luoghi di pellegrinaggio sciiti. Dove arrivava l’Isis l’uccisione degli sciiti era sistematica, tanto da far parlare di genocidio, come per altre comunità non islamiche. Non penso che tutti gli italiani lo sappiano. Invece, tutti in Iran sanno che contro questa minaccia il loro paese si è impegnato in un confronto serrato sul terreno. Ci sono state campagne di reclutamento di uomini da inviare a difendere i luoghi santi in Iraq e in Siria (questa era la motivazione ufficiale). I volontari ricevevano lauti stipendi, agli afghani irregolari veniva, inoltre, assicurato il permesso di soggiorno al loro rientro. Hanno cominciato a riportare i «martiri» dalla Siria, dall’Iraq. Poster con le facce dei combattenti caduti sono comparsi nei quartieri dove abitavano i loro famigliari, come è usanza qui in Iran in segno di lutto. Quando dici a un iraniano che anche gli Stati Uniti hanno combattuto l’Isis ti guarda incredulo. La narrativa ufficiale in Iran è che l’Isis è stato creato dagli Usa e sui media nazionali non si fa certo menzione del contributo americano alla lotta.
Pubblici diversi hanno, dunque, percezioni diverse del reale. Non sappiamo quello che non vediamo e udiamo, e viceversa. Il reale che conosciamo attraverso i mass media è più o meno parziale e ci condiziona tutti. Lo stesso vale per la questione del nucleare iraniano, che da noi ha tenuto banco a più riprese. Proviamo a vedere come l’hanno vissuta gli iraniani1 e come essi vivono la nuova crisi nei rapporti tra Iran e Usa.
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La questione del nucleare
Se la necessità di combattere l’Isis, in quanto massima espressione dell’odio dell’estremismo sunnita verso gli sciiti, era condivisa e sentita vitale, la questione del nucleare ha avuto e ha per gli iraniani un’importanza di gran lunga minore. Fin dal suo nascere è rimasta marginale, lontana dalle preoccupazioni quotidiane della gente. D’altra parte l’Iran non ha mai avuto i problemi energetici dell’Italia. Fino a circa dieci anni fa gas, elettricità, benzina godevano di sovvenzioni statali, poi eliminate e sostituite da un sussidio fisso versato mensilmente a ogni persona. Da allora il loro prezzo è rincarato, ma rimane ancora molto inferiore ai livelli europei, soprattutto quello di gas e benzina (venduta oggi a circa venticinque centesimi di euro). Né la gente sente la necessità di avere una bomba atomica. Le armi di distruzione di massa sono ritenute un abominio.
Partita in sordina negli anni Novanta, la questione del nucleare iraniano cominciò a salire di tono durante la presidenza di Mahmud Ahmadinajad (2005-2013), soprattutto per voce dello stesso presidente, che ne fece uno dei cavalli di battaglia nelle sue polemiche contro l’Occidente: il popolo iraniano, affermava, ha il diritto di produrre energia nucleare a scopi pacifici, come avviene in altri paesi del mondo. Il presidente batteva su questo tasto e la gente condivideva le sue argomentazioni. Con un senso di orgoglio nazionale si pensava: se gli altri sì, perché non noi. Inoltre, erano allettanti le promesse di avere un’energia elettrica quasi a costo zero grazie al nucleare. Tuttavia, quando cominciarono ad arrivare le sanzioni e a peggiorare i rapporti commerciali con l’estero, quando il prezzo del dollaro cominciò a salire e l’inflazione a galoppare, deprimendo pesantemente la loro già precaria economia domestica, gli iraniani capirono che il costo da pagare era troppo alto, tanto più per qualcosa di cui non si sentiva così bisogno.
Per questo motivo, quando la presidenza Rouhani nel 2013 inaugurò un nuovo corso, quello del dialogo, il sostegno popolare fu ampissimo. Un esito positivo dei negoziati avrebbe fatto ripartire l’economia e restituito un futuro a tante famiglie in difficoltà. Così, almeno, si credeva.
Questa grande speranza conviveva, però, con il grande timore che i negoziati finissero in nulla. Si sapeva, infatti, che incontravano una forte opposizione all’interno dell’apparato del regime, tanto che molti ne davano per scontato il fallimento. La Guida suprema Ali Khamenei aveva a più riprese messo in guardia contro l’inaffidabilità dei negoziatori occidentali, soprattutto degli Stati Uniti, da cui niente di buono poteva arrivare. Del tutto contrarie ai negoziati erano le «Guardie (guardiani, pasdaran) della rivoluzione», qui comunemente dette Sepah2, alle cui tasche aveva fatto bene il regime sanzionatorio. Le sanzioni, infatti, non interrompono il commercio di una nazione con gli altri paesi, ma impediscono che si sviluppi in maniera naturale, coinvolgendo, cioè, tutto il corpo sociale, il settore privato, come quello pubblico, il piccolo imprenditore, come la grande impresa; quindi, ne alterano la natura, privandolo della sua parte «sana» e lasciandolo nelle mani di chi è così potente da aggirarle e operare nell’ombra. Le sanzioni nei confronti dell’Iran hanno impoverito le persone normali e arricchito le organizzazioni che appartengono allo «Stato profondo», innanzitutto i Sepah e i Basij (un corpo paramilitare formato da volontari), che da loro dipendono. I Sepah sono uno stato nello stato, rispondono solo alla Guida suprema e operano, quindi, al di fuori dei normali meccanismi di controllo dello stato, in una zona grigia, inarrivabile, intoccabile. In un mercato bloccato dalle sanzioni, essi hanno continuato a vendere e importare attraverso canali terzi, ottenendo una sorta di monopolio per i propri affari. Le sanzioni, dunque, non fanno che aumentare la poca trasparenza di un sistema economico già di per sé opaco per vizio d’origine3.
Considerata l’opposizione di forze così potenti, grandi furono la sorpresa e la soddisfazione della gente alla notizia che si era finalmente approdati a un accordo sul nucleare (14 luglio 2015): sembrava di avere vinto una battaglia, non tanto contro un nemico esterno, ma contro il regime interno. Ci furono manifestazioni pubbliche di tripudio. Negli anni l’accordo aveva finito per assumere un significato eccezionale, era considerato la panacea per le moribonde finanze del paese. Ci si aspettava una rapida ripresa dalla stagnazione.
In realtà non è stato così. La ripresa dei rapporti commerciali con i paesi occidentali è stata lenta e, se i dati dicono che l’interscambio è andato aumentando (quello tra Iran e Ue è cresciuto del 79% nel primo anno dall’entrata in vigore dell’accordo4), l’effetto ancora non si è visto granché sulla tavola degli iraniani, anche perché una vera normalizzazione non si è verificata. Altre sanzioni rimangono in essere e il sistema bancario per le transazioni con l’Iran non ha ripreso a funzionare correttamente. Dopo un breve momento di euforia iniziale, che lo aveva fatto risalire rispetto al dollaro, il rial, la valuta iraniana, ha ripreso a svalutarsi, toccando nuovi record alla fine dello scorso anno.
Quindi, per il momento, le tasche degli iraniani rimangono vuote. Tanto vuote che all’inaugurazione del nuovo anno iraniano, il 21 marzo 2017, quando si trattava di lanciare, com’è suo costume, lo slogan che intendeva ispirare l’operato del popolo nell’anno entrante, Khamenei ha pronunciato: «economia di resistenza». A sentire il nuovo motto, la gente si è preoccupata: ahi, la Guida invitava a stringere i denti e tirare la cinghia, ergo nell’anno ci sarebbero stati nuovi aumenti, nuove tasse. E, puntualmente, a dicembre, il governo ha annunciato aumenti di tasse e del prezzo di alcuni beni di prima necessità. La resistenza, però, non riguarda tutti, perché lo «Stato profondo», come si è detto, prospera e quando ha poca liquidità, come in questo periodo di prezzi petroliferi bassi e alti costi di una politica estera espansionistica, mette sotto torchio il comune cittadino, che è chiamato, appunto, a resistere.
Contro Donald Trump e l’Arabia Saudita
Forse anche perché non se ne sono sentiti i benefici, la reazione della gente alla bocciatura dell’accordo su nucleare da parte della presidenza Trump è stata blanda. In compenso la bocciatura ha fatto segnare un punto a favore di Khamenei, che aveva messo in guardia contro l’impossibilità di veri negoziati con gli Usa. Sì, perché l’Iran non è venuto meno agli impegni presi, come hanno confermato tutte le altre parti in causa.
Come spiegano gli iraniani l’ostilità del governo americano nei confronti del loro paese? Sull’argomento condividono quanto affermato dal loro ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif, in occasione della visita di Trump in Arabia Saudita: «L’Iran, che ha appena tenuto delle vere elezioni, è attaccato dal presidente degli Stati Uniti in questo (riferendosi a Riyadh, nda) bastione della democrazia e della moderazione. Si tratta di politica estera o di succhiare 480 miliardi di dollari ai sauditi?»5.
Lasciando stare le «vere elezioni» (non tutti vi si possono candidare e il parlamento non è libero di decidere: comanda la Guida), ho spesso sentito esprimere la convinzione che lo spauracchio dell’Iran sia agitato ad arte per vendere più armi agli arabi.
Su un altro punto gli iraniani si trovano d’accordo col loro ministro degli Esteri: l’Arabia Saudita non può insegnare niente all’Iran in quanto a democrazia, tolleranza, rispetto dei diritti, e il fatto che quest’ultimo continui a essere designato dagli Usa «stato sponsor del terrorismo», insieme a Siria e Sudan, è dettato da ragioni politiche, non certo ideali.
Allora, chiedo io, l’Iran non pratica il terrorismo? Non esattamente, i Sepah appoggiano Hezbollah e Assad, mi rispondono (indicando così che percepiscono quell’organizzazione come un corpo estraneo, indipendente dallo Stato), ma che differenza c’è rispetto a quanto fanno altri paesi, tra cui l’Arabia Saudita? È difficile non concordare con loro, se si tiene presente che la maggior parte degli attacchi terroristici vengono dall’estremismo sunnita; che spesso colpiscono comunità sciite; che, sebbene la monarchia saudita non incoraggi esplicitamente il terrorismo, fa propria la dottrina wahhabita, nota per la sua interpretazione estremistica dell’Islam, che, tra l’altro, considera gli sciiti eretici e, quindi, anche passibili di morte. Gli stessi rapporti annuali sul terrorismo stilati dal governo americano denunciano l’utilizzo nelle scuole saudite di «libri di testo con insegnamenti che istigano all’intolleranza e alla violenza, in particolare verso chi è ritenuto politeista, apostata o ateo»6. Insomma, si fa fatica a capire perché quello iraniano debba essere ritenuto peggiore di altri regimi.
Tornando a quanto si diceva all’inizio, si può scegliere di illuminare solo una faccia della realtà e usare alcuni termini pro domo nostra. «Terrorismo» è uno di questi.
«È tutta politica», così reagiscono gli iraniani quando si parla di tali argomenti, intendendo con ciò i propri, come gli altrui politici. Sono stufi di sentire i loro rappresentanti e il clero fare predicozzi agli altri e propaganda a se stessi. La Repubblica islamica non farebbe che pensare al bene dei propri cittadini, migliorare i servizi, soccorrere nelle difficoltà, trasmettere buoni insegnamenti. Ma, se da quarant’anni si va di bene in meglio, perché la gente comune boccheggia nei lacci di una burocrazia pervasiva e arbitraria, vede prosperare una classe politica corrotta e crescere il divario tra poveri e ricchi, osserva lo «Stato profondo» utilizzare le risorse del paese per finanziare se stesso e i propri amici all’estero? Allo stesso tempo gli iraniani sono però anche stufi di vedere l’ipocrita interessamento di altri paesi ai fatti di casa loro. Non gradiscono che li si istruisca su che cosa devono fare.
Durante gli eventi del dicembre 2017 (approfondimento alla pagine 24-25, ndr), quando le proteste contro il carovita hanno portato nelle strade migliaia di persone, diverse voci si sono levate da fuori per incoraggiare gli iraniani alla ribellione. A sentire gli incitamenti di persone al sicuro nelle proprie case, chi ha vissuto la guerra contro l’Iraq si è ricordato di quando Khomeini gridava: «A Karbala! A Gerusalemme! Combattere fino alla vittoria!» e mandava migliaia di giovani a morire in Iraq, mentre lui, i suoi famigliari e gli altri membri del clero se ne stavano a casa tranquilli. Di nuovo bisogna constatare: che differenza c’è?
Subito dopo l’elezione di Trump in Iran è comparsa una serie di aneddoti che lo paragonavano ad Ahmadinejad. Gli iraniani hanno individuato negli atteggiamenti del nuovo capo della Casa bianca una grande somiglianza con quelli del loro ex presidente, uno dei politici che maggiormente solletica il loro senso dell’umorismo. Perché, fortunatamente, gli iraniani amano scherzare su se stessi. Attraverso la rete e gli sms girano decine di aneddoti, sfornati a velocità strabiliante a ogni nuova occasione, anche tragica. È un modo di esprimere critica e disappunto, tollerato (qualcuno dice addirittura utilizzato, facendo circolare aneddoti ad hoc) dal regime, forse perché vi vede una valvola per far sfogare una rabbia altrimenti troppo compressa. Ce n’è per tutto e per tutti. Solo della Guida suprema e delle organizzazioni a lui legate (Sepah, Basij) non si parla mai direttamente. La Guida è il vicario in terra dell’«Imam nascosto», offendere lui è blasfemia e merita la morte.
Maria Chiara Parenzo
Note
(1) Anche qui quando si parla di iraniani si dice, in realtà, una verità parziale. Le opinioni che trasmettiamo sono state raccolte nella fascia urbanizzata del nord dell’Iran. Sono trasversali per classe sociale (dal povero al ricco), ma non riflettono il pensiero di chi ha incarichi pubblici o appartiene al clero.
(2) Il nome completo è «Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica». «Sepah» significa corpo.
(3) Vedi anche Annalisa Perteghella, «Due anni dalla firma del Jcpoa: l’accordo funziona ma non è ancora al sicuro», 14 luglio 2017, in www.ispionline.it.
(4) Annalisa Perteghella, Tiziana Corda, «Usa e Iran: l’azzardo di Trump sul nucleare», 11 ottobre 2017, in http://www.ispionline.it.
(5) Zarif: Trump ‘succhia’ i soldi dell’Arabia saudita, 22/05/2017, in www.asianews.it.
(6) «…some textbooks continue to contain teachings that promote intolerance and violence, in particular towards those considered to be polytheists, apostates, or atheists». U.S. Department of State, «Arabia Saudita», in «Country Reports on Terrorism 2016», p. 222.
Quelli di dicembre sono stati eventi legati alla perenne lotta tra i conservatori moderati del presidente Hassan Rouhani e gli ultraconservatori vicini alla Guida suprema. Da qualsiasi parte si analizzi la situazione, un dato è certo: in Iran la gran parte dei religiosi e delle persone legate al regime vivono nella ricchezza più sfacciata. Alla faccia della Rivoluzione e del popolo.
L’hanno chiamata «la rivolta delle uova» perché proprio in quei giorni il loro prezzo era triplicato, non per motivi politici, ma per una malattia dei polli che le aveva fatte scomparire dal mercato. Un nome scherzoso per qualcosa di molto serio. La scintilla è scoccata il 28 dicembre 2017 a Mashhad, feudo di Ebrahim Raisii, religioso a capo della miliardaria fondazione benefica che custodisce il mausoleo dell’Imam Reza, nonché rivale politico del presidente Hassan Rouhani. Occasione: l’aumento del costo di alcuni generi di prima necessità, tagli di sussidi e altre misure di austerità annunciate dal governo Rouhani. Sembra ormai assodato che sia stata una mossa mal calcolata nella lotta tra Rouhani, espressione dei conservatori moderati che vorrebbero modificare il sistema per permettergli di sopravvivere, e gli ultraconservatori, concentrati tra il clero e le organizzazioni non elettive dello «Stato profondo», cui le riforme sottrarrebbero parte di privilegi e potere. La presidenza Rouhani sta cercando di rendere più efficiente e trasparente il sistema economico. Ciò vuol dire anche ridurre i privilegi di fondazioni e organizzazioni paramilitari religiose, cui la Repubblica islamica concede di vivere in un limbo dove non si pagano tasse e non si è obbligati a spiegare come si utilizzano le ingenti risorse a disposizione. Queste istituzioni, di cui non è possibile stimare con esattezza il giro d’affari, hanno una presenza pervasiva in tutti i settori economici. È, in sostanza, un sommerso autorizzato che, secondo calcoli approssimativi, controllerebbe due terzi della ricchezza del paese. Dai tempi di una Rivoluzione fatta anche nel nome degli ultimi, religiosi e personalità legate al regime hanno accumulato fortune personali notevoli, e ciò è davanti agli occhi di tutti.
Trasparenza e rabbia popolare
Lo scorso 10 dicembre i telespettatori hanno sentito per la prima volta il presidente elencare le voci di spesa contenute nella legge di bilancio. La novità, insieme all’inedita richiesta di rendicontare per il futuro l’utilizzo dei contributi governativi, è stata interpretata come un tentativo di ottenere una maggior trasparenza. Si è venuto, così, a sapere che, se da un lato si programmavano aumenti di tasse e prezzi, dall’altro si destinavano ingenti somme a fondazioni religiose e le spese militari crescevano del 20% (l’inflazione è ufficialmente intorno al 10%). I telespettatori hanno capito che, mentre avrebbero dovuto aspettarsi un peggioramento delle proprie condizioni di vita, il regime concedeva ulteriori risorse a già facoltose istituzioni parassitarie e faceva pagare loro i costi di una politica estera ambiziosa. Nei giorni di dicembre queste novità correvano su tutte le bocche, alimentando una rabbia che già covava. Così è bastato poco per portare la gente in strada. La protesta si è fatta sentire, più che a Teheran, nelle provincie, dove più basso è il livello di vita e maggiori sono le difficoltà economiche. I manifestanti, soprattutto giovani, hanno gridato la propria frustrazione contro il sistema, ma non in nome di qualcosa o qualcuno. Per quanto si è capito, si è trattato di manifestazioni spontanee, organizzate grazie al passaparola e ai social network, non un movimento con chiari obiettivi e riferimenti politici. Ad esempio, a Izeh, nel Khuzestan, i manifestanti hanno occupato stazioni di polizia e uffici governativi, ma poi li hanno evacuati, non sapendo che farne.
Il discredito dei religiosi
C’è da chiedersi: chi ha dato inizio alle proteste per fare un dispetto al presidente non ha capito che avrebbe così anche dato la stura a sentimenti che già ribollivano nella gente, rischiando di trasformare una lotta di potere interna al sistema in una rivolta contro il sistema stesso? Chi è al potere, soprattutto se da lungo tempo, acquisisce una straordinaria incapacità di capire la realtà, perfino nelle sue forme più ovvie. Ed è ovvio che la gente comune è sempre più lontana dai discorsi ufficiali, sempre meno disposta a credere agli esponenti di una classe politica e religiosa, le cui parole anno dopo anno sono state sbugiardate dai fatti. Glielo si legge negli occhi, sempre più foschi di frustrazione e ansia per il futuro. A quegli occhi la classe al potere è caduta in totale discredito, riformisti o radicali che siano. E i più discreditati di tutti sono i religiosi, ai quali piace caricare sulle spalle della gente pesi che essi, invece, non sono disposti a portare. Per fare solo un esempio, consigliano ai malati di andare a impetrare guarigione al santuario dell’Imam Reza. Se loro hanno problemi di salute, invece, intraprendono costosi soggiorni all’estero per cure mediche.
Il predicatore del venerdì a Teheran, l’ayatollah Kazem Seddiqi, ha definito i protestatari «spazzatura». Altre personalità, tra cui la Guida suprema Ali Khamenei, hanno gettato la responsabilità della rivolta sui nemici esterni: Israele, gli Usa, i paesi del Golfo. È vero che da parte di Rouhani e dei moderati si è provato a dare una valutazione più realistica di ciò che è accaduto, ma quanto ciò corrisponda a sentimenti sinceri si capirà solo alla prova dei fatti.
I pericoli
C’è da augurarsi che i pallidi tentativi di cambiamento cui si è accennato si rafforzino e portino a una seppur graduale ristrutturazione del sistema, altrimenti c’è il rischio che tra qualche tempo ci si trovi ad affrontare altre rivolte. Non c’è da augurarsi che ciò si risolva in reazioni violente. Gli iraniani temono che il loro paese, in cui convivono etnie e confessioni diverse, possa diventare teatro di sanguinose lotte intestine, dove non sarebbe certo la gente comune a vincere.
Un cattivo governo è sempre preferibile alla guerra civile e chi ha incitato gli iraniani alla rivolta, o è un irresponsabile, o, molto più probabilmente, persegue un proprio interesse.
Maria Chiara Parenzo
Tunisia: la scomparsa dei gelsomini
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Lo scorso luglio abbiamo visitato Tunisi, dove eravamo stati in diversi momenti storici del passato, compreso il 2012, per seguire l’evolversi delle dinamiche della «rivoluzione dei gelsomini». Il paese ha attraversato cambiamenti che hanno suscitato grandi speranze, soprattutto tra la popolazione giovanile. Speranze che però sono state presto deluse a causa di instabilità politica, attentati terroristici, crisi economica, corruzione e disoccupazione. In questo contesto dalla Tunisia sono partiti migliaia di giovani (foreign fighters) per unirsi al Daesh.
Luglio 2017. Arriviamo a Tunisi con un volo pieno di cittadini tunisini che tornano a casa per le vacanze. Dopo il primo scambio di battute in arabo e in francese, il tassista che ci conduce verso il centro della città inizia a parlarci in buon italiano. È vissuto in Italia per anni, a studiare e lavorare con il padre commerciante. Si tratta di un’esperienza comune a tanti suoi connazionali.
Mentre attraversiamo una parte della città, ci accorgiamo del cambiamento di questo stato arabo maghrebino che, alla fine del 2010, diede il via alle cosiddette «primavere arabe»1. È tutto in costruzione: strade, palazzi, interi quartieri. Tunisi è una metropoli, con aree satellite, intorno e verso il mare, bianchissime, pulite e moderne. L’impianto urbanistico francese, con i suoi ampi viali alberati, le sue piazze e chiese, l’appariscente e lunghissima avenue Bourguiba, che conduce fino alle porte della Medina, la rende più simile a una qualsiasi città europea che a una araba.
Sono tanti i giovani per strada, indaffarati, o in pausa in qualche bar o ristorante. La maggior parte di loro è vestita in abiti occidentali e ci stupiamo nel vedere tante ragazze ostentare con disinvoltura minigonne, calzoncini e scollature, e tenere per mano i loro fidanzati. Gruppi di amiche, o di coppie, se ne stanno per ore sedute nei dehor dei caffé, a chiacchierare, studiare e a sorseggiare tè o altre bevande. In altri paesi arabi, dove il luogo privilegiato delle donne è ancora la casa, queste sarebbero scene surreali.
La francofilia delle classi benestanti
Gli anni di protettorato francese hanno lasciato tracce, oltre che nelle strade, anche nella cultura e nelle abitudini, per non parlare delle tante «patisserie» di cui i tunisini vanno fieri. Molti si dicono contenti di essere stati «colonizzati» dai francesi (e non dagli Italiani, come successe ai libici), e ne ostentano la lingua con ottimo accento, il ritmo settimanale di lavoro (festività domenicale) e l’organizzazione scolastica. La classe medio-alta è francofona e rigetta l’identità arabo-tunisina, come ci spiegano attivisti locali. La si nota in aeroporto, in certi locali, negozi o luoghi di riferimento «europei». Ciò riconduce alla «colonizzazione del pensiero», per parafrasare Frantz Fanon di «Pelle nera e maschere bianche», e anche a un’identità di classe economica in cui le famiglie tunisine benestanti si riconoscono. Questo vale anche per libici, egiziani, e forse per tutte le classi alto-borghesi africane e mediorientali.
In realtà, negli anni del lungo mandato francese, iniziato nel 1881 (Trattato del Bardo), ci fu sempre una fortissima resistenza organizzata da studenti e intellettuali e guidata, a partire dagli anni ‘20, dal Partito della Libera Costituzione (?izb al-?urr al-Dust?r?) e poi dal Neo-Destour. Quindi l’accettazione del modello europeo, per i benestanti, è un fatto economico, più che politico, e non differenzia i ricchi tunisini da quelli palestinesi che vivono nelle ville di Ramallah, i sudafricani neri post apartheid o gli europei dei quartieri chic. L’identità di classe è transnazionale e interetnica. O meglio, multietnica.
La storia: indipendenza, dittatura, rivoluzione
Habib Bourguiba, giurista tunisino, educato in Francia, fu la figura principale nella lotta per l’indipendenza, che iniziò nel 1938 e si concluse con successo nel 1956, con la proclamazione della Repubblica l’anno successivo.
Negli anni della sua presidenza, durata dal 25 luglio 1957 al 7 novembre 1987, quando venne destituito da Zine El-Abidine Ben Ali, la Tunisia attraversò profonde e lunghe fasi di cambiamento, di «modernizzazione» e «laicizzazione». Alle donne vennero concessi diritti che neanche in Francia ancora esistevano. Fu diffuso l’insegnamento – pubblico e gratuito -, promulgato il Codice dello Statuto personale, vietata la poligamia, ridotto il potere dei capi religiosi e abolito il doppio regime, coranico e civile, sia in ambito giudiziario sia scolastico.
Lo sviluppo politico, istituzionale, economico e culturale si arrestò, tuttavia, all’inizio degli anni ‘70, dando spazio, come in altri paesi arabi, alla corruzione, al nepotismo e al clientelismo, soprattutto negli apparati pubblici e statali. Nel frattempo, Bourguiba era diventato «presidente a vita», sul modello egiziano, e aveva trasformato la repubbica in una dittatura. Il 26 gennaio 1978, passato alla storia della Tunisia come il «Giovedì nero», il sindacato (Ugtt) organizzò uno sciopero che la polizia caricò con violenza: i morti furono diverse centinaia.
Gli anni ‘80 furono caratterizzati da una profonda crisi politica ed economica e, come successe anche in Egitto e in altri stati arabi maghrebini, il radicalismo islamico crebbe e si diffuse tra quegli strati della popolazione con minori strumenti economici e culturali, ma anche come forma di reazione politica a un regime autoritario e visto come filo occidentale e troppo laico.
Di questa situazione approfittarono il generale Zine El-Abidine Ben Ali e la sua cerchia di familiari e amici, che, nel 1987, deposero il vecchio e malato Bourguiba, con un «golpe medico». La Tunisia era dunque avviata a un lungo periodo di dispotismo e dittatura, con persecuzioni di oppositori e islamisti, che riempirono le prigioni. Il generale diede vita, infatti, a un regime poliziesco e corrotto, assegnando incarichi istituzionali a familiari e collaboratori, con periodiche elezioni-truffa che gli permisero di rimanere al potere fino a quando non fu costretto alla fuga dalla rivoluzione popolare del 2011.
Mohamed Bouazizi e l’inizio della rivolta
Nella «Rivoluzione dei Gelsomini», lo scrittore Tahar Ben Jalloun racconta il sacrificio del giovane venditore e l’inizio della rivolta tunisina che, il 14 gennaio del 2011, dopo 23 anni di dittatura, porterà la fuga in Arabia Saudita del corrotto Ben Ali e a Dubai del resto della sua famiglia. Mohamed Bouazizi diventa «eroe suo malgrado», non immaginando certo l’effetto domino che il suo gesto disperato avrebbe avuto per il suo paese e per diversi altri nel mondo arabo. (Bouazizi si diede fuoco il 17 dicembre 2010 per protestare contro la revoca della sua licenza da ambulante, da parte della autorità, dando inizio alla rivolta, ndr).
La Rivoluzione si scatena, dunque, con proteste e sommosse in numerose città: disoccupazione, carovita, mancanza di prospettive, corruzione endemica, repressione, mancanza di libertà, ecc., ne sono la causa principale.
È una rivolta dei giovani, delle classi popolari, medie e degli intellettuali, e, come nelle altre «primavere» che esploderanno da lì a poco in altri paesi arabi, è organizzata soprattutto via social network. I manifestanti si danno appuntamento attraverso le reti sociali e scendono in strada, incuranti delle cariche delle forze di polizia (l’esercito, invece, si rifiuta di intervenire contro la popolazione, evitando, così, un bagno di sangue e assumendo un ruolo importante nella caduta del regime). Immagini e video delle folle e della repressione vengono diffuse in tempo reale, scatenando altre manifestazioni e la simpatia e il sostegno internazionali. Diversi blogger e internauti vengono arrestati. Un caso noto è quello di Slim Amamou, che diverrà segretario di Stato per lo sport nel governo di transizione post rivoluzione.
Potremmo dire che la «primavera» tunisina è stata autentica, spontanea e popolare, probabilmente come quella egiziana. Su quelle libica e siriana ci sono, invece, dubbi, soprattutto sulla natura interna, autoctona, delle rivolte. Ne parlammo su MC, in un dossier del gennaio 20131, e ne scriveremo di nuovo nei prossimi numeri.
Con la fuga del clan Ben Ali, nel gennaio 2011, inizia dunque una nuova fase, significativa, nella società tunisina, che vede la massiccia partecipazione di studenti, giornalisti, blogger, attivisti vari alla vita politica, sociale e culturale. A ottobre 2011 si svolgono le elezioni, le prime libere, democratiche e multipartitiche, per l’Assemblea del popolo (il Parlamento tunisino): il partito islamista Ennahda si attesta al primo posto, e farà parte di una troika (coalizione parlamentare) insieme a Etakkatol (al-Takattul) e al Partito democratico progressista.
Nel gennaio del 2014 la nuova Costituzione entra in vigore e sancisce libertà ed uguaglianza, e «nuovi diritti» per tutti i cittadini.
Il 2013, tuttavia, è contrassegnato da omicidi politici perpetrati da salafiti e manifestazioni che chiederanno le dimissioni del governo. Il 6 febbraio viene assassinato l’avvocato del Fronte popolare tunisino, Shokri Bel’id: l’omicidio provoca proteste in tutta la Tunisia, e la richiesta delle dimissioni della Troika. Le sedi di Ennahda vengono attaccate in varie città. Il fratello di Bel’id accusa il partito islamista della responsabilità morale dell’omicidio, in quanto l’avvocato denunciava da mesi una forma di «violenza politica» del governo.
Il 25 luglio è assassinato il politico Mohammad Brahmi, leader del Movimento del popolo. Al funerale decine di migliaia di persone chiedono le dimissioni del governo. Entrambi gli uomini erano membri della coalizione di sinistra, all’opposizione presso l’Assemblea Nazionale, che chiede le dimissioni dell’esecutivo e nuove elezioni. Ma bisognerà aspettare fino alla fine del 2014.
Le elezioni presidenziali del 23 novembre e 21 dicembre 2014, segnano la vittoria di Beji Caid Essebsi, del partito Nida’a Tounes, che ottiene il 37,56% dei voti, mentre Ennahda retrocede al 27,79%.
Il 2015 e il 2016 sono contrassegnati da attacchi terroristici2 che lasciano il paese sconvolto e deprivato di un’importante fonte economica: il turismo.
La resistenza della casta
I giovani che abbiamo incontrato a Tunisi, a luglio del 2017, ci hanno parlato del desiderio di cambiamento profondo, di partecipazione attiva alle sorti del paese, ma anche di un sistema di corruzione politica radicata, nonostante la fine del regime: la vecchia casta e le sue tante ramificazioni non è stata spazzata via, ma ha continuato ad occupare i posti che contano e, soprattutto, a bloccare una vera riforma dello stato. Quindi, dal punto di vista politico, anche in Tunisia, la «primavera» è sfiorita subito, ed è tornata inverno, a causa di instabilità, crisi, vecchia classe dirigente ancora al potere, attentati, disoccupazione e frustrazione dei giovani, delusione e mancanza di prospettive, che porta molti, ancora, a emigrare verso l’Europa.
Abbiamo incontrato due attivisti che sono stati tra i testimoni diretti della «Rivoluzione dei Gelsomini»: Kais Zriba, giornalista tunisino, che lavora per Inkyfada3, un noto sito giornalistico di approfondimento, e la sua compagna, Debora Del Pistornia, operatrice di Amnesty International in Tunisia, e laureata in relazioni internazionali.
«La Primavera tunisina – ci hanno spiegato – si è articolata attraverso due processi paralleli: quello rivoluzionario e quello contro rivoluzionario. È in atto un dibattito sociale molto intenso e una negoziazione tra forze contrarie».
«Qual è l’identità tunisina? – hanno raccontato Kais e Debora -Africana? Mediterranea? Francese? La questione identitaria religiosa è stata strumentalizzata a livello politico – c’è una forte islamofobia, soprattutto tra le classi alto-borghesi – che fa perdere di vista le questioni principali».
Angela Lano (quinta puntata – continua)
Note
(1) Angela Lano, E dopo la primavera arrivò l’inverno, dossier MC, gennaio-febbraio 2013.
(2) I principali attacchi terroristici risalgono al 26 giugno 2015, 4 novembre 2015 e 11 maggio 2016. La principale minaccia terroristica in Tunisia è rappresentata da al-Qa’ida nel Maghreb Islamico (Aqmi) e da estremisti libici con collegamenti al Daesh. La Tunisia ha un confine «aperto» con la Libia, dove permane una situazione instabile, dovuta a una forte presenza di bande armate e gruppi terroristici. Le forze di sicurezza tunisine sono ripetutamente oggetto di attacchi da parte dei terroristi, soprattutto nelle zone di confine.
(3) Sito: http://inkyfada.com.
Arabi e Berberi
La Tunisia è uno degli stati del Maghreb, insieme a Marocco, Algeria e Libia, e ha un’estesa superficie (40%) occupata dal Sahara. La maggioranza dell’odierna popolazione tunisina – circa 12 milioni di persone – parla una variante dialettale dell’arabo, con influenze berbere e francesi. Esistono anche etnie berbere arabizzate, soprattutto nel Sud. Altre lingue parlate sono il francese, dialetti berberi e l’italiano.
I tunisini residenti all’estero sono circa 1 milione, la maggior parte dei quali in Europa, principalmente in Francia e in Italia. Oltre il 90% della popolazione è di religione musulmana, con una minoranza di cristiani ed ebrei.
I primi, storici, abitanti furono qabilas (tribù) berbere. Nell’814 a.C. i Fenici fondarono Cartagine. Nel VII secolo d.C., quando iniziò la penetrazione araba e dell’Islam, l’area era territorio bizantino, e la popolazione locale berbera oppose parecchia resistenza ai nuovi invasori, ponendo molti ostacoli alla conversione: furono necessarie ben sei spedizioni (647, 661, 670, 688, 695 e 698-702). Con il passaggio dei Berberi all’islam, questa provincia divenne l’Ifriqiya. È interessante notare il fatto che i Berberi adottarono l’ideologia religiosa islamica kharijta, quella, cioè, dei primi ribelli anti sistema dell’islam. Le popolazioni berbere e la loro fede kharijita costituirono una costante spina nel fianco di tutti gli invasori, dagli Arabi fino agli Ottomani, organizzando rivolte periodiche contro governi imposti dall’esterno.
Nel 1881 la Tunisia divenne un protettorato francese, ma sotto l’autorità formale di un Bey (signore delle tribù). L’Italia aveva una folta colonia di contadini, soprattutto siciliani, e la Francia, accapparrandosi il dominio su quella regione del Nordafrica, impedì eventuali pretese italiane. Nel 1956 ottenne l’indipendenza.