Tamar, una palma nel deserto


Il Vangelo di Matteo si apre offrendo la genealogia di Gesù a partire da Abramo (Mt 1,1-16). Anche Luca ce ne dona una, che però è diversa (Lc 3,23-28) e parte da Adamo: questo significa che probabilmente nessuno dei due, quando scrive, ha certezza sui dati oggettivi e, in ogni caso, che la decisione di inserire certi nomi piuttosto che altri segue gli obiettivi che ciascuno dei due ha.

A questo punto ci incuriosisce ancora di più il fatto che Matteo decida di inserire nell’elenco maschile della genealogia ben quattro donne prima di Maria. La curiosità cresce quando ci rendiamo conto che tutte e quattro sono, in qualche modo, irregolari e offrono motivo di imbarazzo e scandalo. La prima di loro, forse, è quella più sconosciuta per noi, Tamar.

Il contesto

«Tamar» significa «palma». La sua storia è narrata nel capitolo 38 del libro della Genesi, quasi una parentesi nel racconto che, fin qui e da qui in poi, è incentrato sulle vicende di Giuseppe, penultimo e amatissimo figlio di Giacobbe.

È possibile che chi ha composto il libro volesse inserire una specie di pausa dopo la pagina nella quale si narra di Giuseppe che viene venduto dai fratelli a una carovana di madianiti (e da questi a Potifar, comandante delle guardie del faraone: Gen 37,36) e prima che la sua vicenda si sviluppi tra sogni e carriera.

Come in un film moderno, nel quale tra una vicenda e l’altra deve passare un po’ di tempo, il «regista» ci propone una divagazione con una vicenda secondaria, ma che ci conquista con la sua originalità.

La storia di Tamar, per quanto marginale, si inserisce molto armoniosamente nel contesto del racconto.

A questo punto del libro, Giacobbe ha undici figli (Beniamino non è ancora nato), alcuni dei quali, tutti figli di Lia, si mettono d’accordo per venderne uno, quello nato da Rachele, e fingere che sia morto sbranato da una bestia selvatica (Gen 36,31-33). Da un atto divisivo, verrebbe da dire, nasce ulteriore divisione, perché un altro dei fratelli, Giuda, decide di lasciare la sua famiglia e andare a vivere da solo, sposando una donna del posto, una cananea (Gen 38,1-2), scelta che fino ad allora la sua famiglia aveva evitato e che susciterà molta irritazione nel padre.

Dalla moglie, di nome Sua, nascono tre figli, Er, Onan e Sela. Al primo viene data in moglie Tamar, che resta però presto vedova (Gen 38,6-7).

Il levirato

Per capire ciò che segue dobbiamo ricordarci di una consuetudine degli ebrei, che era diventata una legge (cfr. Dt 25,5-10). Questa prevedeva che qualora un uomo fosse morto senza figli, sua moglie sarebbe dovuta essere data in sposa a un fratello, di modo che il primo figlio della nuova unione fosse ritenuto figlio del morto. Il motivo che sta alle spalle di questa legge, per noi strana, è che per il popolo ebraico la terra non apparteneva a chi la coltivava o viveva, ma a Dio che la concedeva in utilizzo agli ebrei, i quali non potevano quindi venderla o comprarla (ecco la radice di vicende come quella di Nabot, che non vuole cedere la propria vigna al re: 1 Re 21). Si tratta di leggi antiche che servivano a ricordarsi come sulla terra si fosse ospiti, e come nei suoi confronti si avesse la responsabilità di chi non è proprietario, ma amministratore.

La terra poteva, quindi, essere solo ereditata in una trasmissione da padre in figlio che serviva in ultima analisi a dire che ogni bene degli ebrei derivava in origine da Dio.

È anche questo il motivo per cui, in situazioni eccezionali in cui non ci fossero eredi maschi, ma solo femmine, la legislazione ebraica consentiva alle donne di ereditare e possedere, cosa che nelle società antiche era decisamente molto rara (Nm 27,1-7).

Non si sa quanto e fino a quando gli ebrei abbiano davvero rispettato questa regola, ma sappiamo che era nota e che serviva a spiegare alcuni passaggi di storie antiche. Agli antichi lettori della Genesi non ci sarebbe stato bisogno di spiegarla.

La discendenza di Er

Er, quindi, il primogenito di Giuda, rientra esattamente nel caso che abbiamo spiegato. Muore senza aver generato un figlio, e sua moglie, Tamar, che finora per noi è soltanto un nome (non ne conosciamo neppure l’origine), viene data in sposa al fratello più giovane, Onan, che si rifiuta di generare un figlio che poi non sarà suo, e muore a sua volta.

Ci ricordiamo qui della questione che viene sottoposta a Gesù circa i sette fratelli che, proprio nel rispetto della legge del levirato, prendono in moglie uno dopo l’altro la stessa donna, salvo morire prima di avere generato dei figli (Mc 12,20-23; Mt 22,25-28; Lc 20,29-33).
Se succedesse oggi, ci sarebbero sicuramente delle malelingue che commenterebbero che quella donna porta davvero sfortuna, senza escludere che sia stata proprio lei a ucciderli, e che sarebbe meglio starne alla larga.

Questo è precisamente quello che pensa anche Giuda (Gen 38,11), il quale decide di violare la legge, che prescriverebbe di dare Tamar in sposa al suo terzogenito, rimandando la donna da suo padre (e di fatto disconoscendola come nuora) con la scusa che Sela è ancora troppo giovane.

Non dimentichiamoci che, in quella società arcaica, non erano presi in considerazione i diritti delle persone sole e delle donne. Si era tutelati e difesi finché si stava dentro al clan patriarcale, altrimenti ci si doveva fare giustizia e difendere da sé. Quando Giuda ha deciso di andare a vivere da solo, fuori dalla famiglia del padre, ha scelto di vivere come in un Far West.

Le donne, per parte loro, erano protette sì, ma anche asservite prima al padre e poi al marito. Fuori da quella protezione, non avevano garanzie. Il mancato rispetto della legge del levirato, quindi, significa anche lasciare Tamar senza protezione, senza assistenza, senza possibilità di un nuovo matrimonio e di concepire e partorire. Viene restituita al padre, come fosse un elettrodomestico guasto, fuori garanzia, rimandato al fornitore.

C’è la vaga promessa che poi, un giorno, quando Sela sarà cresciuto, Giuda andrà a richiamarla, ma il fatto stesso di rimandarla dal padre serve a disilluderla: quando, anni dopo, sarà il momento, Giuda probabilmente non si ricorderà del suo dovere, e anzi farà di tutto per dimenticarsene.

L’inganno benedetto

In effetti, gli anni passano, ma Sela resta senza moglie e soprattutto Tamar senza marito. Nel frattempo, diventa vedovo anche Giuda. Quando va lontano da casa per tosare le pecore, Tamar lo viene a sapere e decide di agire (Gen 38,12ss).

Confidando forse nella natura maschile, o conoscendo bene il suocero, dismette i vestiti da vedova, si agghinda in modo elegante e si va a sedere sulla strada all’ingresso di un paese che Giuda avrebbe dovuto attraversare. Il messaggio è chiaro, e Giuda non se lo perde: una donna sola, ferma sulla strada, vestita bene, è una prostituta. E Giuda ne approfitta subito. Anzi, preso dalla generosità o dall’astinenza, le promette addirittura in pagamento un capretto. Ovviamente, non ce l’ha con sé, quindi le lascia un pegno, da recuperare quando sarebbe giunto con quanto pattuito: questo pegno sono il proprio cordone e bastone, oggetti personali e riconoscibili.

Una volta tornato a casa, Giuda, che almeno sui debiti si mostra onesto, manda un servo a saldare i conti, ma a questi gli abitanti del posto dicono che lì non c’è mai stata nessuna prostituta. A questo punto Giuda, per non farsi ridere dietro da tutti, suggerisce allo schiavo di lasciare perdere: lui ha provato a pagarla, ma se lei non si fa trovare, pazienza.

Qualche tempo dopo vengono a dire a Giuda che sua nuora è rimasta incinta. E lui, che pareva averla dimenticata, forse pensa di avere l’occasione di liberarsene definitivamente: dal momento che non è sposata, quel figlio non può che essere frutto di un’unione illegittima, e quindi lei deve essere condannata a morte, a meno che il padre non riconosca il figlio e sani la situazione.

Mentre però viene portata al rogo, Tamar allestisce il colpo di scena: «Conosco il padre. È il proprietario di questo bastone e di questo cordone. O suocero, tu che sei legalmente responsabile di me, controlla se riesci a sapere di chi sono» (Gen 38,25). E qui Giuda si riscatta, ammettendo la propria colpa che, per quel mondo, non è tanto quella di essersi unito a una prostituta, quanto di non aver rispettato la legge del levirato: «Lei è più giusta di me», ammette nei confronti di una donna indifesa chi aveva deciso di vivere senza leggi.

Il racconto, per togliere ogni scandalo, aggiunge che Giuda, pur riconoscendo come suoi i figli gemelli che nasceranno, non tornerà a dormire con Tamar.

Una fede coraggiosa e creativa

Il racconto potrebbe a prima vista sembrarci uno dei tanti, un po’ scandalosi e vergognosi, che punteggiano l’Antico Testamento.

Il fatto che Matteo lo abbia ripreso, tuttavia, ce lo riporta alla memoria e può anche suscitarci qualche interrogativo.

Anche le altre donne citate dall’evangelista nella genealogia di Gesù presentano tutte dei comportamenti che, in sé, potremmo trovare decisamente discutibili:  Raab, prostituta di Gerico, Betsabea, moglie rubata da Davide a un suo soldato, e Rut, la più pura che organizza, però, un inganno ai danni del suo futuro marito. Tutte, con questi comportamenti non certo perfetti, compiono la volontà di Dio, spesso con creatività (è il minimo che si può dire dello stratagemma di Tamar). Parrebbe quasi che Matteo porti esempi per giustificare Maria: è vero, Gesù non è figlio di Giuseppe, ma questo non significa che l’intenzione divina non possa passare anche da questo aspetto apparentemente discutibile, così come spesso è accaduto nella storia della salvezza.

Dio guarda cuori e intenzioni, non i comportamenti esteriori, e spesso, se si guarda oltre le apparenze, sono soprattutto le donne a essere premiate.

Quanto a Tamar, si mostra fedele al marito defunto, al suo ricordo, al comando divino, senza fermarsi alla forma, alla lettera della legge. Lei era ben disponibile a offrire un figlio a Er, ma non le è stato concesso. In fondo, era solo una donna, non aveva autonomia legale. E invece si mette in attesa paziente, sfrutta l’occasione, sopporta il rischio della vergogna, dell’umiliazione, addirittura della morte, per non venire meno alla sua fedeltà.

Confida che il Dio di cui si fida non guardi innanzitutto all’applicazione rigorosa delle leggi, ma all’intenzione che le anima. Sa che il Padre nei cieli non la guarderà con riprovazione, ma con la tenerezza sorridente di chi vede i propri figli inventarsi soluzioni impensate. Confida che quel Dio non applica in modo disumano delle regole, ma vede e ama la vita.

Angelo Fracchia
(Camminatori 03-continua)