Carbone vegetale,

risorsa o piaga?

Testo di Chiara Giovetti |


Un terzo della popolazione mondiale usa legna e carbone per cucinare e a volte anche per fornire energia alle proprie piccole e medie imprese. In Africa si tratta di un settore in forte espansione e i potenziali danni per ambiente, finanze pubbliche e lotta al terrorismo non sono da sottovalutare.

Una donna seduta su uno sgabello a bordo strada e, accanto, qualche sacco chiaro alto più di un metro, con le scritte sbiadite di questa o quella industria locale, di questa o quella agenzia umanitaria. Dentro, tanti cubi neri trattenuti da una rete di cordicelle o di foglie di palma annodate ai bordi del sacco. Oppure un uomo che spinge una bicicletta con almeno un paio di questi sacchi posati uno sopra l’altro e assicurati al portapacchi con un legaccio di camere d’aria annodate fra loro. Succede spesso di imbattersi in scene come queste lungo le strade africane, in città come nelle zone rurali. I cubi neri sono pezzi di carbone vegetale e il loro impiego più frequente è quello di fare fuoco per cucinare.

A vederli così, questi venditori improvvisati, si direbbe che quello del carbone è uno dei tanti piccoli commerci con cui molte famiglie africane si guadagnano di che sopravvivere. Ma sarebbe un’impressione errata. Aggregando tutte le donne sedute a bordo strada e gli uomini che spingono una bici nel continente, il giro d’affari del carbone vegetale appare nella sua reale dimensione: colossale. E ingenti sono i danni che rischia di infliggere all’ambiente, alle finanze pubbliche e persino alla lotta al terrorismo perché, nonostante abbia un ruolo di primo piano nelle economie del continente, il settore del carbone e della legna da ardere rimane per la maggior parte informale.

Vendita di carbone nello slum di Kibera a Nairobi (© The Seed / Pamela Adinda)

Legna e carbone vegetale in numeri

Secondo i dati del rapporto The Charcoal Transition della Fao, nel 2016 il mondo ha estratto circa 3,7 miliardi di metri cubi di legno dalle foreste del pianeta. Di questi, circa la metà sono stati usati come combustibile e sono diventati per l’83% legna da ardere e per il 17% carbone vegetale. Quest’ultimo è dunque è quantificabile 351 milioni di metri cubi, pari a in 52 milioni di tonnellate, di cui 32 milioni prodotti nella sola Africa@.

Per farsi un’idea delle proporzioni può essere utile un confronto con i volumi italiani: nel 2016 una nota del Crea (Consiglio per la ricerca nell’agricoltura e l’analisi dell’economia agraria) riportava che i boschi italiani contengono «oltre 1,2 miliardi di metri cubi di legno, con un aumento annuale di massa legnosa di oltre 36 milioni di metri cubi. Di questi ogni anno vengono tagliati oltre 10 milioni di metri cubi»@.

Sempre i dati Fao indicano che ancora oggi quasi due miliardi e mezzo di persone sul pianeta ricorrono a legna e carbone per cucinare: un terzo della popolazione mondiale. In Africa subsahariana, il dato sale di parecchio: a contare su queste fonti di energia è il 90% della popolazione. Sostengono il trend, in crescita, della produzione e del consumo principalmente due fattori: l’aumento demografico e la rapida urbanizzazione.

Trasporto di carbonea Bagamoyo, Tanzania (© AfMC / Jaime Patias)

In Tanzania, ad esempio, l’85% della popolazione urbana utilizza carbone sia per cucinare che per la fornitura di energia a piccole e medie imprese: secondo uno studio del 2007 citato nel rapporto Fao, alla fine del secolo scorso la sola città di Dar es Salaam, il centro urbano più grande del paese, era responsabile del consumo di metà del carbone a livello nazionale.

Quanto al volume economico dell’industria del carbone vegetale in Africa subsahariana, nel 2011 le proiezioni di Afrea – il programma della Banca mondiale finanziato dai Paesi Bassi che si occupa di studiare le energie rinnovabili in Africa – indicavano in 8 miliardi di dollari il valore del settore per il 2007 e ipotizzavano per il 2030 lo sfondamento della soglia dei 12 miliardi, con un totale di 12 milioni di persone impiegate nella produzione, vendita e distribuzione del carbone.

Unep, l’agenzia Onu per l’Ambiente, propone invece altri dati, partendo dal valore ufficiale della produzione di carbone (dati 2012) e usando prezzi variabili da 200 dollari per tonnellata sul mercato locale (cioè 5 dollari per un sacco da 25 chili) a 800 dollari per tonnellata sul mercato internazionale. Con queste premesse Unep arriva ad assegnare al settore un valore economico compreso fra i 9,2 e i 24,5 miliardi di dollari.

Per fornire il polso della situazione a livello dei singoli paesi, il rapporto Fao riporta ad esempio che in Tanzania il settore del carbone vegetale contribuisce all’economia nazionale per circa 650 milioni di dollari (pari a circa il 2,2% del Pil) mentre in Kenya il valore più che raddoppia toccando 1,6 miliardi (1,2% del Pil).

Si cucina col carbone nello slum di Korogocho a Nairobi (© The Seed / Purity Mwendwa)

Carbone e vita quotidiana

Guardando al quotidiano delle vite delle persone, la popolarità del carbone è facile da spiegare. Dal lato di chi lo compra, è la fonte di energia più conveniente: brucia più a lungo e produce più calore della legna, è più leggero e per questo più facile da trasportare e può essere conservato più a lungo, senza rischiare di marcire o di essere danneggiato dagli insetti.

Dal lato di chi lo produce e vende, data l’abbondante domanda, è una fonte di reddito piuttosto sicura. Standard Digital, uno dei principali quotidiani keniani, racconta la storia di Sipporah Kemunto, che vende carbone a Kisii, nel Kenya occidentale. Sipporah ha iniziato vent’anni fa con 200 scellini (circa 2 euro al cambio di oggi) prestati da un’amica, con i quali ha comprato il suo primo sacco di carbone. «Con quell’unico sacco sono riuscita a vendere dieci barattoli di carbone il primo giorno: molto al di sopra delle mie aspettative». Oggi la signora Kemunto vende un sacco a 1.100 scellini, per un guadagno fra i 500 e i 550 scellini, in un paese dove la paga giornaliera per un addetto alle pulizie, ad esempio, è di 622 scellini a Nairobi e 349 scellini in aree non urbane. Il suo lavoro l’ha costretta a molti sacrifici, come quello di svegliarsi prestissimo la mattina per fare il giro dei ristoranti suoi clienti e fornire loro il carbone, o quello di lavorare in condizioni non molto salubri. Ma grazie al carbone è riuscita a comprare due acri di terra fuori Kisii e a far studiare due figli all’università mentre il terzo sta finendo le superiori@.

Taglio della foresta nel Congo RD ( AfMC / Ennio Massignan)

Impatti del carbone

Il primo impatto connesso alla produzione di carbone vegetale riguarda il degrado delle risorse forestali – definito come riduzione della biomassa, declino della composizione e della struttura della vegetazione – se non addirittura la deforestazione. È difficile, avverte il rapporto Fao, indicare con chiarezza quanto la produzione di carbone vegetale da sola determini degrado o deforestazione. Un tentativo di fornire una stima del fenomeno è uno studio del 2013 che quantifica gli ettari di foresta persi in Africa a causa del carbone in quasi tre milioni, pari all’80% della deforestazione complessiva nelle aree tropicali. La Tanzania distrugge così ben un terzo delle sue risorse forestali, mentre lo Zimbabwe si ferma allo 0,33 per cento.

Vi è poi la questione delle emissioni di gas serra (anidride carbonica, ma anche metano e carbonio) durante tutte le fasi della filiera. Anche in questo caso si tratta di un dato stimato e si collocherebbe fra 1 e 2,4 miliardi di tonnellate di gas serra, cioè fra il 2 e il 7 per cento delle emissioni globali imputabili all’attività umana.

Altro impatto è quello sulle casse dello Stato: la Fao stima che le perdite per tasse non pagate si collochino, a livello continentale, fra il miliardo e mezzo e i 3,9 miliardi di dollari. Anche in questo caso è la Tanzania il paese dove il danno è maggiore: 100 milioni di dollari di tasse non riscosse. Un ruolo non secondario in questo meccanismo di evasione è quello della consolidata prassi della tangente, che ha anche l’effetto di aumentare il prezzo del carbone per il consumatore finale. L’incidenza delle mazzette – di solito richieste da militari e polizia durante il trasporto – sarebbe pari al 12% in Malawi e fino al 30% in Kenya.

Infine, l’ampia informalità del settore genera un sommerso che apre ampie zone di manovra per gruppi criminali e terroristici. Il rapporto di Unep e Interpol, The Environmental Crime Crisis@, stima che milizie e gruppi terroristici nei paesi africani dove sono in corso conflitti – fra cui Mali, Repubblica Centrafricana, RD Congo, Sudan e Somalia – possono guadagnare fra i 111 e i 289 milioni di dollari all’anno fra mazzette e partecipazione attiva al commercio illegale. In un posto di blocco nel distretto di Badhadhe, Somalia, i terroristi di Al Shabaab sono riusciti a raccogliere fra gli 8 e i 18 milioni di dollari in un anno, più altri 38-56 fra commercio in proprio e tangenti nei porti.

Quanto al contrabbando internazionale le osservazioni sul campo degli estensori del rapporto hanno permesso di documentare, fra Uganda, RD Congo e Tanzania, movimenti di camion che di notte portavano sacchi di carbone in punti di raccolta nei pressi di aree protette o addirittura attraverso i confini. Nel complesso, il giro d’affari del carbone illegale crea profitti fra i 2,4 e i 9 miliardi di dollari nella sola Africa orientale, centrale e occidentale.

Fornello ad uso domestico di bassa resa e grande spreco di calore (© AfMC / Ennio Massignan)

Ultimo aspetto è poi quello della salute umana: alcuni studi indicano che nei contesti domestici in cui si usano fornelli a carbone la concentrazione di Pm10 (polveri sottili) è di un sesto rispetto alle case in cui si usa legna da ardere. La transizione da legna a carbone potrebbe ridurre del 65% le infezioni respiratorie. Tuttavia, i bracieri tradizionali attualmente in uso, e sono la stragrande maggioranza, rappresentano una minaccia alla salute perché sprigionano più monossido di carbonio.

Le possibili soluzioni

Secondo il rapporto Fao, una riduzione pari all’86% nelle emissioni generate da produzione e consumo di carbone vegetale potrebbe ottenersi attraverso una serie di interventi. Fra questi vi sono l’introduzione di pratiche sostenibili nella gestione delle foreste, l’uso di biomasse alternative provenienti ad esempio dagli scarti della lavorazione del legno, l’introduzione di prodotti agglomerati (briquettes) che riutilizzino la polvere di carbone combinata con scarti della produzione agricola o con terreno e l’introduzione di fornelli migliorati, in grado di consumare meno carbone.

La riduzione più significativa tuttavia verrebbe, secondo la Fao, dal miglioramento dei sistemi tradizionali di carbonizzazione, che di solito avviene dentro fornaci con un’efficienza di conversione molto bassa. Secondo uno studio del 2016, migliorare tale efficienza dal 15 al 25% permetterebbe di ridurre del 40% la legna necessaria per produrre la stessa quantità di carbone.

Lavoro comunitario per ripiantare alberi nelle colline attorno a Morogoro, le Mukunganya Hills, durante la stagione delle piogge.  (© AfMC)

Il lavoro dei missionari della Consolata

In Tanzania, dove il problema del degrado delle risorse forestali e, a volte, addirittura della deforestazione è particolarmente serio i missionari della Consolata hanno iniziato in due località altrettanti progetti per sensibilizzare la popolazione e coinvolgerla in un’opera di rimboschimento.

  • Il primo microprogetto si svolge nel villaggio di Makota, a Ihemi, circa 50 chilometri da Iringa. La popolazione locale vive di agricoltura di sussistenza, alla quale affianca altre attività occasionali per aumentare il proprio reddito. Fra queste vi è proprio il taglio degli alberi per ottenere legname e carbone. Le attività relative al legname vengono svolte in modo incontrollato, senza pianificazione né reintegro delle piante tagliate con nuovi alberi. Per questo l’erosione del suolo e la deforestazione stanno diventando fenomeni evidenti. Il progetto in corso prevede tre seminari di formazione per la popolazione locale tenuti dai leader locali e dai funzionari dell’agenzia tanzaniana per i servizi forestali. Le persone formate parteciperanno poi alla posa di alcune piante pr ogni famiglia e se ne prenderanno cura.
  • Alle Makunganya Hills, vicino a Morogoro, vi è poi in corso da fine 2016 un progetto simile. In questa zona, le colline sono ora spoglie, sia a causa dei frequenti incendi che del taglio degli alberi per ottenere legname per costruzioni e legna da ardere. A detta del responsabile sul campo, il microclima locale è cambiato e le risorse idriche della zona si sono notevolmente ridotte. Anche qui il progetto prevede la posa di migliaia di piante e tre seminari di approfondimento per la popolazione locale sui problemi e sui rischi connessi alla deforestazione. Parteciperanno circa 500 persone e, oltre al rimboschimento, si lavorerà con la comunità locale per avviare un progetto parallelo di apicoltura.

Chiara Giovetti




Rwanda: Imprenditore sì, ma sociale


Testo di Marco Bello, foto di ARED |


Henri nasce e cresce da rifugiato. Poi ha la possibilità di studiare all’estero. Ma presto nota che la «sua» Africa sta crescendo. E torna in patria con un’idea. Vuole realizzare un business che sia pure utile per i meno fortunati. E crei posti di lavoro. Il cammino non è facile. Lui è tenace e dopo anni di lavoro la sua idea si concretizza. E adesso vuole espanderla sul continente.

Henri Nyakarundi, 40 anni, è nato in Kenya da genitori ruandesi rifugiati dapprima in Burundi. È cresciuto nel piccolo paese centrafricano fino all’età di 18 anni, quando i suoi genitori sono riusciti a mandare lui e sua sorella a studiare negli Stati Uniti, ospiti di parenti. Lì Henri ha vissuto 16 anni e ha studiato informatica.

Durante quel periodo ha iniziato a fare viaggi in Africa, per andare a trovare i genitori e parenti.

Incontriamo Henri in Italia dove è venuto a ritirare il premio «ICT for social goods» per imprese sociali nel campo delle tecnologie dell’informazione e comunicazione, organizzato da Ong2.0 (www.ong2zero.org).

«Nel 1996 sono stato un paio di mesi in Rwanda – ci racconta -. Non c’era nulla, mancava l’acqua, l’elettricità. Poi vi sono tornato nel 2001 e ho iniziato a vedere dei cambiamenti. Quando ci sono andato nel 2008 era tutto in rapida evoluzione, ed è allora che ho preso la decisione che sarei tornato nel continente dove sono nato».

Nel 2008, negli Usa inizia la crisi, ed Henri vede che invece l’Africa è in forte crescita. Henri decide di rientrare nel suo paese di origine, ma non a mani vuote: vuole portare un progetto.

 

Batterie scariche?

«Mi interessavano in particolare due settori: agricoltura ed energia. Ma il primo mi appassionava di meno. Sulle questioni energetiche ho pensato a diverse possibilità, ma non volevo fare un progetto tradizionale».

Henri ha uno spiccato senso pratico ed è capace di pensare in grande a partire da piccoli esempi concreti. «Uno dei problemi che ho sperimentato personalmente in Africa, è stato la difficoltà di caricare il telefono cellulare. Dovevo sempre andare in giro con una batteria portatile. Tutti avevano lo stesso problema, ma sul mercato avevo trovato solo quella soluzione».

Di passaggio all’aeroporto di Amsterdam Henri vede i punti fissi di ricarica per i telefoni. «Mi sono detto che sarebbe stato interessante avere quelle prese in un contesto all’aperto e magari in versione mobile, per andare ovunque, e dotati di pannelli solari per essere autonomo energeticamente, onde evitare che le infrastrutture non funzionino con regolarità come sesso succede nei paesi africani».

Henri Nyakarundi inizia così a maturare la sua idea di una centralina per la ricarica di cellulari mobile a pannelli solari: «Pensavo occorressero due o tre mesi di studio e prove, invece ci ho messo tre anni per avere il primo prototipo. Ed è stato molto più costoso di quanto avevo preventivato. Ma tutto quello che inizio lo devo finire».

Così a settembre 2009 comincia la fase di sviluppo negli Stati Uniti. Un designer e un ingegnere trasformano la sua prima idea in un trabiccolo su ruote di bicicletta. Riesce pure a reperire finanziamenti da alcune fondazioni e dal governo tedesco.

«Nel dicembre 2012 il primo prototipo era finito. Un mese dopo ho venduto tutto quello che avevo negli Usa e sono “rientrato” in Rwanda con la mia invenzione».

Un business «sociale»

L’idea iniziale è molto semplice, ma evolve rapidamente. Henri non vuole solo ricaricare cellulari dei passanti o guadagnarsi da vivere con il suo business, vede nel chiosco solare ambulante un’importante valenza sociale: la possibilità di dare lavoro a chi altrimenti non lo troverebbe.

«Uno dei maggiori problemi in Burundi, Rwanda e altrove in Africa, è la mancanza di lavoro. Soprattutto tra le donne e le persone portatrici di handicap, che vedono un tasso di disoccupazione due o tre volte più alto di quello degli uomini».

Sono tre gli elementi che mette insieme Henri: «Guardavo all’utilità sociale, volevo risolvere un problema tecnico e allo stesso tempo guadagnarci. L’idea era condividere i ricavi della ricarica tra l’agente che gestisce il chiosco e la micro impresa che lo fornisce». Dopo aver testato il prototipo, per due mesi, sul più grande mercato di Kigali, Henri capisce che non funzionerà, perché il ricavo economico è troppo basso. Occorre qualcos’altro per avere un rendimento sostenibile.

Da qui la domanda: quali altri servizi possiamo offrire che abbiano valore aggiunto per i consumatori?

«Ho osservato che molti servizi diventavano digitali, come il mobile money (cfr. MC novembre 2014), che si è diffuso rapidamente in Africa, o le ricariche dei telefoni. Sono sempre venduti con pagamento anticipato: prima paghi una ricarica, poi te la forniscono. Tutto si può vendere a partire da un telefono». In Rwanda, inoltre, molti servizi dello stato sono digitalizzati (ad esempio la richiesta di certificati di nascita, documenti vari, pagamento tasse, ecc.), e le opzioni di richiesta e pagamento di un documento si possono realizzare in chiosco di questo tipo. Così Henri produce un secondo prototipo che integra alla ricarica dei cellulari, molti servizi aggiuntivi, grazie a un computer di bordo, collegato a un server centrale.

«I nostri clienti sono quelli alla base della piramide, gli abitanti delle zone rurali e semi urbane. C’era un problema di distribuzione di servizi per questa gente, ed è questo che volevamo risolvere».

Informazione gratuita

Ma anche l’aggiunta di questi servizi digitali non basta per la sostenibilità economica. «La gente ci chiedeva se non si poteva avere il wifi, ovvero collegarsi a internet. Abbiamo passato altri due anni di sviluppo, e finalmente è nato il nuovo chiosco, che ha il wifi, permette la connessione, ma prevede anche una connessione intranet, ovvero offline, che rende accessibili contenuti digitali precaricati sul computer del chiosco».

In Africa connettersi a internet comporta ancora un costo abbastanza elevato. Non esistono i collegamenti a tempo illimitato, così tramite il chiosco, e uno smarthphone, i clienti possono connettersi oppure accedere alle informazioni disponibili.

«Informazioni sulla salute, sull’educazione e altro. La gente non consuma infoormazioni digitali perché non ha i soldi per connettersi. Invece in questo modo può avere accesso gratuitamente. Alcune informazioni vengono anche diffuse in semplice modalità audio, ovvero tramite altoparlanti, piuttosto che con connessione wifi».

Alcuni enti e Ong, come la Croce Rossa, lo stesso stato ruandese, nei suoi i ministeri della Salute e dell’Educazione, e privati, pagano la società fondata da Henri, l’Ared (Africa renewable energy distributor) per diffondere contenuti da loro forniti. L’Ared è costituita da quattro persone, di cui tre in Rwanda e una in Uganda. «In effetti è su questo aspetto che l’Ared fa i suoi introiti e rende sostenibile e redditizia l’operazione, mentre gli agenti che gestiscono i chioschi guadagnano sulle ricariche e sulla fornitura dei servizi. La nostra idea, inoltre, è non far pagare il consumatore per l’accesso all’informazione, ma far pagare le compagnie che vogliono diffondere quell’informazione». A questo punto un dubbio può venire sulla pluralità e neutralità dei contenuti diffusi: di fatto qualcuno paga per diffonderli, saranno in qualche modo promozionali o comunque con un certo orientamento.

Soluzione: microimpresa

Oltre ai prodotti «servizi», «informazioni» e «internet», il chiosco genera il prodotto «lavoro». «Crediamo nella micro imprenditoria che pensiamo sia il futuro, e i nostri agenti di chiosco sono dei microimprenditori. È chiaro che la microimpresa non risolverà tutti i problemi, ma dobbiamo considerare che la creazione di lavoro sta diminuendo a causa della tecnologia. Abbiamo pensato di minimizzare il rischio assistendo la persona che vuole intraprendere questo percorso. Per questo motivo selezioniamo gli agenti, li formiamo per tre giorni, e poi diamo loro un chiosco in gestione e li supportiamo in modo continuativo.

Per il chiosco l’agente paga un forfait iniziale di 40 dollari se uomo, 20 se donna e 10 se portatore di handicap. Dopo di che solo un affitto di 1,50 dollari al mese. Inoltre forniamo loro delle uniformi e un’applicazione per il loro cellulare.

È un partenariato tra Ared e la persona che lavora al chiosco. L’operatore riesce a guadagnarsi la vita grazie a questo lavoro. È un modello di business che facilita l’ingresso in impresa a persone che non hanno i fondi per iniziare un’attività propria. Si tratta di un franchising. Qualcuno mi ha detto di esser riuscito a mandare i figli a scuola grazie a questo lavoro. Qualcun altro è riuscito a sposarsi».

Un’esperienza interessante Ared la fa con la Croce Rossa nei campi profughi dei burundesi, rifugiati in Rwanda a causa della crisi nel loro paese. «Ci hanno trovati su internet, avevano bisogno di una soluzione far caricare i telefoni nei campi. Così abbiamo iniziato un partenariato e offerto tutti i nostri servizi. Abbiamo scoperto che nei campi profughi c’è un’altissima densità di telefoni cellulari».

Il capitale umano

Chiediamo a Henri come scelgono le persone alle quali affidare i chioschi. «Abbiamo fatto esperienza sulla selezione degli agenti. Intanto prediligiamo le donne e le persone con handicap. Poi devono avere dai 25 anni in su, sapere leggere e scrivere e passare un test attitudinale per capire se hanno le caratteristiche imprenditoriali. Chi è selezionato deve procurarsi il permesso di lavorare nella zona prescelta, poi gli si affida il chiosco».

Il chiosco, che ha oggi un valore di circa 1.200 dollari resta di proprietà dell’Ared. «Il valore aggiunto non è il chiosco in sè, bensì i servizi che forniamo. Venderlo sarebbe troppo caro per i nostri agenti, e inoltre dovrebbero fare manutenzione, che invece resta a nostro carico. Vendiamo il modello di business: il franchising. Per questo motivo abbiamo creato molti servizi con l’obiettivo di produrre abbastanza reddito per noi e per gli agenti».

Next step (prossimo passo)

Il passo successivo è la raccolta di informazioni e dati a partire da questi clienti. Le informazioni raccolte saranno memorizzate nel chiosco e inviate al computer centrale.

«Una cosa che vogliamo integrare è l’Iot, (l’internet delle cose o internet of things, è un sistema di sensori e di elaborazione dei dati forniti dagli stessi, di cui si parla molto, ndr). Attualmente uno degli ostacoli è come fare il monitoraggio dei chioschi quando sono sul terreno. L’operatore lavora bene? Fornisce tutti i servizi al cliente? Stiamo incorporando l’Iot sul chiosco per ottenere molte informazioni e sapere cosa succede esattamente, in ogni momento. Stiamo integrando anche il Gps, altri sensori ambientali, che ci dicono quante persone ci sono intorno al punto vendita. Riusciremo a fare il monitoraggio dell’attività da remoto oltre che ad accumulare informazioni».

Espansione territoriale

Henri Nyakarundi vede un grande futuro per il suo chiosco. Si spinge a valutare una potenzialità di 50-100.000 chioschi in 20 paesi africani. E ha già in testa una ben precisa strategia di espansione.

«Attualmente abbiamo 30 chioschi in Rwanda e 5 in Uganda, dove abbiamo appena cominciato. Per quattro anni abbiamo testato i modelli e la tecnologia. Ora tutto è pronto e vogliamo espanderci. La strategia che seguiremo per i nuovi paesi è quella di lavorare con partner locali. Vogliamo realizzare una licenza della tecnologia che venderemo nei paesi. Questo ci fa guadagnare meno ma ci permette di espanderci più rapidamente. Il Rwanda è il solo paese in cui controlliamo tutta la catena di valore. In Uganda, ad esempio, abbiamo diviso il territorio in 5 aree geografiche, ognuna seguita da un responsabile. È lui che fa selezione, formazione e monitoraggio degli agenti. Noi ci occupiamo della tecnologia, e dell’adattamento al contesto. Dividiamo i guadagni tra noi, il responsabile di area e l’agente che gestisce il chiosco. È un modello di espansione attraverso il partenariato».

Il prossimo mercato che attrae Henri è la Nigeria. «Grande e difficile. C’è una grande corruzione. Se riesci lì, riesci ovunque».

Marco Bello

 




La Cina in Africa: che cosa è cambiato /1


Colonizzatrice, sfruttatrice e insaziabile divoratrice di risorse del sottosuolo o amica degli africani, partner alla pari e addirittura benefattrice? La presenza della Cina in Africa è complessa e sfaccettata.

Negli ultimi quindici anni le relazioni fra la Cina e l’Africa hanno avuto una decisa impennata. A testimoniarlo sono i dati sia sul commercio sino-africano che sugli investimenti di Pechino in Africa. Secondo uno studio di McKinsey pubblicato nel giugno scorso, Dance of the lions and dragons@, il commercio fra il continente africano e il colosso asiatico è aumentato a ritmo del 21% annuo dai 13 miliardi del 2001 ai 188 del 2015, facendo della Cina il primo partner commerciale dell’Africa. Il commercio con l’India, che dell’Africa è il secondo partner, arriva a 59 miliardi, un terzo. Quanto all’investimento diretto all’estero (Ide) dalla Cina all’Africa, esso è passato dal miliardo del 2004 ai 35 del 2015, aumentando del 40% annuo.

Ma la presenza cinese in Africa ha molto più di quindici anni. Senza scomodare l’ammiraglio Zheng He e le imprese della flotta imperiale cinese che raggiunse le coste del Kenya, della Tanzania e della Somalia nel quindicesimo secolo, le relazioni sino-africane nell’epoca contemporanea sono vecchie di oltre mezzo secolo. Secondo Liu Youfa, ex vicepresidente del China Institute of International Studies, tre sono gli eventi che aiutano a sintetizzarne l’evoluzione@.

  • In primo luogo, la costruzione nel 1970 della ferrovia TanZam che collega il porto di Dar Es-Salaam in Tanzania alla cintura del rame in Zambia. Le negoziazioni per la costruzione della TanZam cominciarono nel 1966, dopo che i due paesi africani avevano chiesto il sostegno di Banca mondiale, Stati Uniti e altri paesi occidentali, rimanendo però inascoltati.
  • Il secondo evento – chiave, continua Liu Youfa, è l’approvazione, il 25 ottobre 1971, della risoluzione 2758 dell’Assemblea generale Onu, che riconosceva la Repubblica Popolare Cinese di Mao Zedong – e non i rappresentanti di Chiang Kai-shek e di Taiwan – come governo legittimo della Cina e membro del Consiglio di Sicurezza. In quell’occasione, dei 76 voti a favore della Cina popolare 26 erano africani e Mao ebbe modo di commentare: «Sono i nostri amici africani che ci hanno portato all’Onu».
  • Il terzo e ultimo passaggio fondamentale è la creazione del Forum sulla cooperazione sino-africana (Focac) nel 2000, nell’ambito del quale i rapporti politici ed economici fra il regno di mezzo e il continente nero hanno preso una forma via via più strutturata.

Quella dell’ultimo ventennio, dunque, è un’esplosione economica che affonda le sue radici in un lungo lavoro diplomatico e strategico e che oggi sembra alle soglie di un ulteriore cambiamento.

La base militare a Gibuti e le infrastrutture

Il più recente e macroscopico segno di questo cambiamento è probabilmente l’apertura, lo scorso luglio, della prima base militare della Cina al di fuori del proprio territorio. Per lo storico passo il gigante orientale ha scelto Gibuti, piccolo paese del Corno d’Africa affacciato sullo stretto che collega il Mar Rosso con il golfo di Aden e che già ospita le basi militari di Italia, Stati Uniti, Francia e Giappone. È una base navale il cui scopo, a detta di Pechino, è quello di fornire supporto alle missioni umanitarie e di peacekeeping e di contribuire agli sforzi internazionali di lotta alla pirateria nella zona. Ospiterà, certo, dei militari e sarà utile per attività di cooperazione militare, esercitazioni congiunte, evacuazione e protezione di Cinesi all’estero. Ma, hanno insistito i media cinesi, la Cina non persegue espansionismo militare né si impegnerà in corse agli armamenti. Lo sviluppo militare della Cina, taglia corto il Pla Daily, quotidiano delle forze armate cinesi, mira a proteggerne la sicurezza, non a controllare il mondo.

Le precisazioni sono una risposta agli altri attori internazionali come gli Stati Uniti – che hanno espresso preoccupazione per la mossa cinese – e l’India, altro gigante asiatico che rivaleggia con la Cina e che teme di esserne pian piano accerchiata. È, questa, la teoria del «filo di perle» che attribuisce alla Cina la volontà di creare una serie di presenze nei punti chiave del percorso marittimo immaginario che va dal territorio cinese alla città sudanese di Port Sudan, sul Mar Rosso, circondando, appunto, l’India.

Ma anche prima di questo passo, il quale, al netto delle preoccupazioni di Usa e India, resta comunque epocale, che la Cina avesse cambiato marcia era piuttosto chiaro. Lo scorso maggio c’è stato a Pechino il primo incontro di presentazione dell’iniziativa Una cintura, Una strada (One Belt, One Road, Obor), che prevede la ricostituzione della via della seta. Anzi, delle vie della seta: quella terrestre, che interessa principalmente Asia ed Europa, e quella marittima, che tocca anche l’Africa orientale. Le manifestazioni di interesse da parte dei paesi potenzialmente coinvolti sono state tante, e tanti sono anche i dubbi sulla praticabilità e sostenibilità di un’opera così mastodontica.

Nuovo treno merci sulla nuova ferrovia costruita dai cinesi in partenza da Mombasa

Intanto, però il lancio esplorativo del programma mette in una diversa prospettiva due infrastrutture che in Africa sono state già realizzate. Se n’è parlato molto nell’ultimo anno: sono la ferrovia che collega il porto kenyano di Mombasa con la capitale Nairobi e quella che connette Gibuti alla capitale etiope Addis Abeba.

La linea ferroviaria kenyana, riporta la Bbc, è stata inaugurata lo scorso maggio con diciotto mesi di anticipo, è lunga 470 chilometri ed è la prima fase di un più ampio progetto che prevede in Kenya un totale di 840 chilometri sino alla città frontaliera occidentale di Malaba. Costruita dall’azienda cinese China Road and Bridge Corporation (Crbc), ha avuto un costo di 3,8 miliardi di dollari finanziati all’85 per cento dalla Banca per l’import export cinese (China Exim Bank) con un prestito agevolato che concede al Kenya di cominciare a ripagare il debito fra dieci anni con i proventi generati dalla ferrovia. Il tratto kenyano dovrebbe essere il primo di un complessivo progetto regionale che collegherebbe l’oceano Indiano con il Sud Sudan.

Quanto alla linea Gibuti-Addis, è la prima ferrovia elettrica del continente e permetterà di impiegare dieci ore invece che tre giorni per trasportare merci sui 756 chilometri che separano le due città. Anche in questo caso, finanziatori e costruttori sono cinesi: l’Exim Bank ha concesso i prestiti e due costruttori – diversi da quelli della Mombasa-Nairobi – hanno realizzato la ferrovia, che dovrebbe cominciare le operazioni questo mese dopo un anno di test e verifiche.

Ma le due strade ferrate non sono certo le sole opere a cui la Cina è o è stata alacremente intenta negli ultimi anni. Sempre cinese è il ponte che collegherà la capitale mozambicana di Maputo al distretto di Catembe e che, con i suoi oltre tre chilometri, sarà il ponte sospeso più lungo del continente. Il costo sarà di circa 750 milioni di dollari e il progetto comprende anche la costruzione di due strade per migliorare i collegamenti del Mozambico con lo Swaziland e il Sudafrica, incentivando così turismo e commercio. I nomi del finanziatore e del costruttore? Sempre gli stessi: Exim Bank e Crbc.

Vale la pena di citare poi la cittadella di Kilamba, a trenta chilometri dalla capitale dell’Angola, Luanda, un complesso abitativo composto da 710 edifici di diverse altezze e con più di ventimila appartamenti, oltre ai servizi come asili, scuole, negozi. Costruita con fondi e da aziende cinesi e inaugurata nel 2011, è stata oggetto di alcuni reportage che la descrivevano come una città fantasma, almeno fino all’anno scorso. Oggi fonti ufficiali quantificano in ottantamila gli angolani residenti nella cittadella; la lentezza con cui le case vengono vendute pare dipendere più che altro dai prezzi – fino a qualche mese fa decisamente troppo alti anche per i luandesi di classe media -, dalle difficoltà nell’ottenere un mutuo e dalla inefficienza e disorganizzazione con cui l’assegnazione delle case viene gestita dagli enti angolani.

Ma andiamo oltre le singole opere. Nel 2016, si legge nel rapporto di Fdi Intelligence, la sezione del Financial Times che si occupa di investimenti diretti all’estero@, la Cina è stata il primo paese per capitali investiti in Africa: oltre 36 miliardi di dollari e quasi 40 mila posti di lavoro creati. Ha così soffiato il primato all’Italia che l’anno precedente, soprattutto grazie al progetto Eni per l’estrazione di gas dal giacimento di Zohr, al largo dell’Egitto, faceva da capofila con 7,4 miliardi di dollari.

Per numero di progetti, restano in testa gli Stati Uniti: 83 progetti (dieci in meno dell’anno precedente), contro i 71 della Francia e i 62 della Cina, che li ha però raddoppiati rispetto al 2015. Considerando i paesi come aggregati, è l’Europa occidentale a posizionarsi al primo posto, con 224 progetti, pur registrando un calo rispetto ai 282 del 2015.

Invasione cinese? Non proprio.

La base di Gibuti, le grandi opere e numerosi articoli e reportage hanno contribuito a creare la sensazione di un’invasione dell’Africa da parte della Cina. I volumi sono certo impressionanti, ma vanno contestualizzati. Anche perché l’analisi dei numeri sulla Cina si scontra con due difficoltà: la prima è che i dati forniti da Pechino non sono né chiari né trasparenti. Ad esempio, osserva David Dollar della Brookings Institution di Washington, metà del complessivo investimento cinese all’estero risulta diretto a Hong Kong e, a seguire, alle isole Cayman e Virgin. Nessuno dei tre luoghi è probabilmente la destinazione finale degli investimenti@. Inoltre, diverse ricerche prendono in considerazione gli impegni annunciati dalla Cina, che non sempre però si trasformano in effettivi flussi di denaro. La seconda difficoltà è che l’elaborazione di questi dati da parte dei media non sempre sfugge al sensazionalismo.

La Cina ha certamente fatto un balzo notevole nell’ultimo decennio. Come sottolinea a pagina 20 lo studio McKinsey sopra citato, Pechino è già il maggior partner economico dell’Africa: si trova nelle prime quattro posizioni in cinque ambiti fondamentali: commercio, investimenti, progressione degli investimenti, aiuto allo sviluppo e finanziamento di infrastrutture. Sempre David Dollar nel 2016 proponeva tuttavia una lettura cauta: l’investimento della Cina in Africa è sia grande che piccolo. È piccolo, scrive lo studioso, nel senso che la Cina è arrivata più tardi in Africa e rappresenta solo una piccola parte dello stock totale degli investimenti stranieri nel continente. Alla fine del 2011, questo totale era di 629 miliardi, del quale la quota cinese era pari al 3,2%. I paesi europei, guidati da Francia e Regno Unito, sono di gran lunga i maggiori investitori nel continente. L’investimento della Cina in Africa è tuttavia anche grande in senso relativo. A fine 2013, la Cina aveva un investimento diretto estero in Africa (32 miliardi di dollari) comparabile a quello che aveva negli Stati Uniti (38 miliardi). Pertanto, dal momento che l’investimento diretto tende di norma ad andare verso le economie più avanzate, l’attenzione relativa della Cina all’Africa è grande@.

Lo stock di investimenti diretti esteri in Africa l’anno scorso si aggirava intorno agli 836 di cui 49 miliardi dalla Cina secondo le stime di McKinsey. Se la stima fosse confermata, la quota cinese di investimenti in Africa salirebbe a poco meno del 6%. L’ultimo dato disponibile per gli Stati Uniti è quello del 2015, pari a 64 miliardi di investimenti in Africa: l’8,3% del totale.

La China Africa Research Initiative (Cari) della Jonhs Hopkins University è un’altra delle fonti che tende a ridimensionare i dati. Un esempio? Il fact checking della Cari su un articolo apparso lo scorso maggio sul New York Times dal titolo «La Cina è la nuova potenza coloniale mondiale?», nel quale il quotidiano statunitense sosteneva che nel 2016 la Cina avrebbe riservato un fondo di sessanta miliardi di dollari per finanziare infrastrutture in Africa principalmente attraverso prestiti cinesi. «Non esiste nulla del genere», puntualizza Cari. «L’articolo potrebbe riferirsi agli impegni presi dalla Cina nell’incontro del Forum Africa Cina del 2015» e – a leggere i documenti ufficiali del Forum – è chiaro come i sessanta miliardi non costituiscano un unico fondo ma comprendano prestiti, donazioni e investimenti e, soprattutto, non sono concentrati sulle infrastrutture.

Chiara Giovetti
(continua in gennaio 2018)

Archivio MC:

Di relazioni Cina Africa abbiamo parlato nel dossier MC dicembre 2007 e nel numero monografico MC ottobre 2010.




Le Società Benefit: una realtà in crescita


Una grande ambizione: essere un nuovo modello economico alternativo alla vecchia concezione di impresa orientata solo al profitto. Dal vecchio modello industriale e societario prendono l’obiettivo di generare utili e ricchezza, e dal mondo del no profit quello di essere impegnate al servizio del bene comune. È solo un cambio di pelle o una risposta genuina ai bisogni del nostro tempo?

Oltre la metà della popolazione mondiale oggi possiede un buon tenore di vita, ma vive in un mercato saturo che porterà il suo benessere a diminuire. Al contempo, quasi tre miliardi di persone hanno ancora bisogno di tutto. In Italia, nel prossimo quinquennio, mancheranno poco meno di 100 miliardi di Euro per coprire la spesa sanitaria e i bisogni sociali. Lo stato se n’è sempre occupato da solo o sostenendo privati che non hanno rischiato di tasca propria: perciò, se alla fine il modello non è stato efficiente, chi ci ha rimesso è sempre stato «solo» il contribuente.

Mentre i bisogni della popolazione crescono e aumenta la domanda sociale, i governi si trovano in una crescente condizione di ristrettezza di risorse. Ma i bisogni insoddisfatti sono un problema irrisolto che non conviene a nessuno e allora si devono cercare altre risorse. Questo richiede un approccio nuovo che non sia il solito aumento delle tasse. Nel mondo ci sono imprenditori e finanzieri che hanno iniziato a ragionare sulla possibilità che il connubio impresa-finanza possa essere utilizzato anche per generare maggior benessere sociale e soddisfare gli interessi di tutte le parti: secondo loro l’impresa può creare risorse e generare impatto sociale e la finanza può essere un vero moltiplicatore di ricchezza.

Nasce la «Società Benefit»

Alle svariate «forme giuridiche d’impresa» esistenti se n’è quindi aggiunta una nuova: la Benefit Corporation (società Benefit – B Corp). Le sue origini risalgono al 2006 e hanno portato alla formalizzazione nel 2010, negli Usa, della forma giuridica delle B Corp, che ora esiste in 31 stati degli Usa, e che ha stimolato la recentissima nascita in Italia delle «Società Benefit». Nel 2014 le prime B Corp italiane certificate (da B Lab, una organizzazione no profit a cui tutte le società Benefit fanno riferimento, vedi www.bcorporation.eu) hanno promosso un progetto politico e giuridico la cui disciplina è entrata in vigore a partire dal 1 Gennaio 2016.

Il 26 febbraio dello stesso anno le prime cinque aziende italiane hanno trasformato la propria forma giuridica da mera società for profit a società Benefit e da allora decine di altre aziende italiane si sono trasformate (alla data odierna sono più di 80). Attualmente nel mondo sono oltre 2.000 le B Corp certificate e si stima che altre 50.000 stiano valutando la propria identità per ottenere la certificazione. Città come New York City hanno addirittura dato vita a progetti come il Best for NYC, per incoraggiare imprenditori sociali a stabilire le loro attività sul proprio territorio, per il miglioramento dell’intera città e delle proprie attività di welfare.

Primi in Europa

Una volta tanto l’Italia ha fatto scuola e ha introdotto, prima in Europa e prima al mondo fuori dagli Usa, le società Benefit per consentire a imprenditori, manager, azionisti e investitori di distinguersi sul mercato attraverso una forma giuridica virtuosa e innovativa. Tali società rappresentano l’evoluzione del concetto stesso di azienda poiché, mentre le società tradizionali esistono con l’unico scopo di creare profitto e distribuire dividendi agli azionisti, le società Benefit integrano nella propria ragione sociale, oltre agli obiettivi di profitto, lo scopo di avere un impatto positivo sulla società e sull’ambiente.

A differenza delle altre organizzazioni non profit (Onlus, Aps/Associazioni di promozione sociale, Imprese Sociali, ecc.) le società Benefit mantengono sì lo scopo di lucro, ma a questo aggiungono il perseguimento di uno o più effetti positivi o la riduzione di effetti negativi su persone, comunità, territorio e ambiente, beni e attività culturali e sociali, enti e associazioni e altri portatori di interesse. Il tutto in modo responsabile, sostenibile e trasparente con una gestione che richiede ai manager un serio bilanciamento tra l’interesse dei soci e l’interesse della collettività.

Un profitto condiviso

Il profitto come obiettivo primario è sempre stato il criterio dominante nei processi decisionali ma molti ora vedono questo come un ostacolo nella creazione di valore a lungo termine per tutti gli stakeholder (o attori, secondo la Treccani: «Chi ha interessi nell’attività di un’organizzazione o di una società, ne influenza le decisioni o ne è condizionato»), inclusi gli azionisti stessi, i cosiddetti shareholder. Gli azionisti sono sempre più coscienti che non si può più solo speculare sul breve termine e che comportamenti non in linea con l’aspettativa dei clienti alla lunga penalizzano, perché questi non comprano più né prodotti né servizi. Il meccanismo è analogo a quanto è successo nel biologico, dove c’erano individui che volevano un prodotto più sano e più rispettoso dell’ambiente e, mentre all’inizio questo rappresentava solo una nicchia, oggi è diventato un vero settore di mercato.

Le società Benefit pertanto vanno oltre un semplice modello di breve periodo e prendono in considerazione tutte le parti interessate nelle loro decisioni: ciò garantisce loro la flessibilità necessaria a creare valore per tutti gli stakeholder nel lungo periodo, anche a fronte di cessioni parziali e acquisizioni, entrata di nuovi manager, capitali, passaggi generazionali o quotazioni in borsa.

Non i migliori del mondo ma migliori per il mondo

Non appare trascurabile anche il fatto che i nuovi talenti per lavorare scelgono le aziende che hanno un impatto sociale positivo. È un fatto importante che il 77% dei millenials affermi che «lo scopo dell’azienda è parte fondamentale del motivo per cui hanno scelto di lavorare in essa». I millennials (generazione nata tra i primi anni ‘80 e il 2000, ndr) costituiscono da soli oltre il 50% della futura forza lavoro, che diventerà il 75% entro il 2025.

Inoltre, le informazioni non finanziarie sono diventate fondamentali poiché la maggior parte degli investitori ritiene che le imprese non siano adeguatamente trasparenti in merito ai rischi non finanziari e quasi la metà degli investitori esclude determinati investimenti sulla base di informazioni non finanziarie (come impatto sull’ambiente, inquinamento e riciclo, trattamento dei dipendenti in particolare le donne, uso di materie prime certificate, non essere associati con produzione e vendita di armi, ecc.). In fondo non si vuole un’azienda che sia «la migliore del mondo» ma «migliore per il mondo».

Ridefinire il «valore»

Aristotele pensava che ci fosse un «giusto prezzo per ogni cosa» e Marx pensava che il valore fosse generato dal lavoro ma, più di recente, la maggior parte degli economisti ha accettato che l’unico concetto di valore che abbia senso nasce dall’interazione tra domanda e offerta sui mercati: «qualcosa ha valore solo se qualcuno è disposto a pagare per essa». Tale definizione di valore costringe gli economisti a osservare il comportamento reale, piuttosto che cercare di scoprire realtà nascoste. Molti elettori sono disposti a pagare le tasse per le forze di polizia e le scuole primarie e molti governi sono in grado di fornire questi servizi. Molti donatori sono disposti a finanziare l’assistenza sanitaria per i bambini nei paesi in via di sviluppo e molte associazioni locali sono in grado di fornire tale assistenza. In questi ambiti, analizzare il valore sociale non è difficile, perché i legami tra ciò che vogliono i finanziatori e ciò che i fornitori possono offrire è chiaro. Ma, per altre questioni sociali i legami tra domanda e offerta sono carenti e, in alcuni casi, la domanda effettiva può mancare perché finanziatori, politici o privati cittadini non percepiscono un bisogno come sufficientemente urgente da giustificare l’impiego delle loro risorse.

Consorzio Auxilium

A Torino, nel 2016, è nato il Consorzio Auxilium, facente capo a una generazione di imprenditori che credono nelle società Benefit e che desiderano, al contempo, promuovere un approccio culturale al tema del valore di impresa che non sia basato solo in termini di profitto.

Attraverso gli strumenti legali e finanziari messi a disposizione dal mondo delle Sb, essi hanno la possibilità di spiegare ai stakeholder e ai shareholder come le risorse investite in tali aziende possono contribuire al raggiungimento di risultati coerenti con la propria mission, generando al contempo un impatto sociale positivo.

Al Consorzio si aderisce per spirito mutualistico e di interesse reciproco, ma anche con l’obiettivo dichiarato che una percentuale del fatturato generato per mezzo degli scambi promossi dal Consorzio sia destinata ad alimentare attività sociali di vario genere, a partire dall’ambito locale. Nel suo primo anno di vita il Consorzio ha dato lavoro a famiglie «trovate» davanti ai supermercati della Città, promosso corsi di italiano per l’integrazione degli stranieri, attivato progetti di formazione, finanziato progetti di cooperazione sociale e internazionale… e siamo solo all’inizio.

Paolo Rossi*

* Ha una laurea in Economia e master in Sviluppo umano e ambiente, con esperienze di studio, volontariato e lavoro all’estero; è presidente della Col’Or Ong, impegnato nel Consorzio Auxilium e assegnista di ricerca presso l’Università del Piemonte Orientale.

Bibliografia e Sitografia

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Becker Henk. A. e Vanclay F. (a cura di), The International Handbook of Social Impact Assessment, Edward Elgar Publishing, Cheltenham, UK, 2006
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Chouinard Y. E Stanley V., The Responsible Company: what we’ve learned form Patagonia’s firts 40 years, Patagonia Books, Ventura, CA, USA, 2011
Dewey J., Teoria della Valutazione, Università di Chicago, 1939
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Lazzaroni M., Agora partnership: structuring a seed stage investment in Nicaragua, INCAE Business School, 2005
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http://www.youtube.com/user/bcorporstions
http://www.societabenefit.net/news/




Cooperazione:

speranze e contraddizioni


Da un’analisi della situazione della cooperazione allo sviluppo in Italia a un anno e mezzo dalla nascita dell’Aics (l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo), al punto sulla riforma del Terzo settore. Da uno sguardo sull’Europa e sulle sue strategie per lo sviluppo a uno sull’effetto Trump nell’aiuto allo sviluppo statunitense.

«La battaglia è stata vinta». Così la direttrice dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, Aics, Laura Frigenti, scriveva alla fine del 2016 nella relazione annuale, dodici mesi dopo la creazione dell’ente che dirige. L’Agenzia è una delle principali novità introdotte dalla legge 125/14, nota come «riforma della cooperazione allo sviluppo». Obiettivo di questo ente è quello di gestire in maniera più snella, efficace e trasparente interventi e fondi della cooperazione sul modello di paesi come gli Stati Uniti, la Germania, la Francia e il Regno Unito che un’agenzia dedicata alla cooperazione l’hanno già da tempo.

La battaglia cui la direttrice Frigenti si riferisce è quella per il raggiungimento degli obiettivi che l’Agenzia si era data per il suo primo anno di vita. Fra questi: raccogliere l’eredità della struttura che l’aveva preceduta – la Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo, o Dgcs, del ministero degli Esteri – a cominciare dagli oltre mille progetti in corso, riscrivere le procedure, gestire il passaggio fra due sistemi di contabilità differenti, attivare le sedi estere, erogare almeno la metà dei fondi messi a disposizione della cooperazione che ammontavano a poco meno di mezzo miliardo di euro.

In effetti, molti obiettivi sono stati raggiunti e in alcuni casi superati – sempre secondo la relazione annuale, i fondi erogati, ad esempio, sono stati più della metà, e cioè oltre il 60 per cento – ma su altri resta molto da fare.

Segnali contraddittori

La sensazione complessiva è che, pur rappresentando l’Agenzia – così come tutta la riforma della cooperazione – un passo in avanti significativo ed epocale, il sistema Italia digerisca solo molto lentamente il nuovo e maggiore peso che, sulla carta, si è deciso di dedicare alla cooperazione allo sviluppo. Gli esempi di queste opposte spinte sarebbero numerosi ma alcuni, forse, rendono l’idea più concretamente di altri.

Il primo riguarda il personale dell’Agenzia, che ha un’importanza fondamentale per raggiungere la piena operatività. E questo personale a marzo 2017 non era ancora al completo. Dei duecento funzionari previsti per le sedi in Italia (Roma e Firenze), sessanta non erano ancora stati reclutati. Solo a novembre 2016 un emendamento alla legge di bilancio ha aumentato il Fondo per il pubblico impiego in modo da permettere all’Agenzia di bandire il concorso per l’assunzione dei sessanta tecnici. Di questi, spiegava il responsabile delle relazioni istituzionali, internazionali e della comunicazione dell’Agenzia Emilio Ciarlo su Vita.it la scorsa estate, «20 dovrebbero provenire dall’amministrazione pubblica e i 40 restanti dal di fuori, con una formazione universitaria nel settore della cooperazione allo sviluppo e con quattro o cinque anni di esperienza professionale in un’Ong o un organismo internazionale». Un’iniezione di giovani competenti e motivati, insomma, che dovrebbe dare una spinta decisiva all’Agenzia.

Ma, un anno dopo la sua nascita – il 4 gennaio 2016 – l’Agenzia mancava pure di buona parte dei suoi dirigenti. Lo ha ricordato su Onuitalia.com il consigliere politico della rete di Ong Link 2007, Nino Sergi: oltre ai sessanta funzionari di cui sopra, mancavano all’appello ancora buona parte dei livelli dirigenziali. I dirigenti, infatti, dovrebbero essere diciotto mentre a febbraio 2017 erano solo otto. «Si tratta, in fondo, di poche persone», sottolinea Sergi, «ma indispensabili al funzionamento dell’Agenzia che, così limitata, continua a vivere in un comatoso limbo che solo le buone volontà stanno tenendo in vita».

Il secondo elemento è lo «scomparso» illustre dell’organigramma della cooperazione, come sottolinea ancora Sergi: il Cics (Comitato interministeriale per la cooperazione allo sviluppo), organo di cui fanno parte il presidente del Consiglio e la stragrande maggioranza dei ministri. Si è riunito una volta sola, nel 2015 e, secondo un tweet di Mario Giro, viceministro degli esteri, anche una seconda volta il 23 marzo 2017: «Approvato il doc. triennale: +attori +azione comune». Due volte in venti mesi non sono molte per un organo cui la legge 125/2014 attribuisce un compito fondamentale, quello di coordinare tutte le attività di cooperazione allo sviluppo e assicurare che le politiche nazionali siano coerenti con i suoi fini.

Perché il Cics è importante? Per dirla in maniera estremamente semplificata: perché, se funzionasse come dovrebbe, impedirebbe alle politiche pubbliche di disfare quello che la cooperazione fa.

La cooperazione italiana viene da lunghi anni di subalternità e di risorse limitate; un coordinamento costante con gli altri centri decisionali del governo e un organico dell’Agenzia completo nei livelli dirigenziali, giovane e preparato nei comparti tecnici, sono elementi indispensabili perché gli interventi siano efficaci. Per questo ogni rallentamento su questi aspetti rischia di svuotare nei fatti la legge e il tipo di cooperazione che essa intende realizzare.

Il colpo di mano dell’8×1000

Sempre in tema di segnali contrastanti, è del marzo scorso la notizia dell’approvazione del cosiddetto emendamento Realacci in Commissione Ambiente, Territorio e Lavori Pubblici della Camera. L’emendamento stabilisce che per i prossimi dieci anni la quota di otto per mille che i contribuenti assegneranno allo Stato andrà tutta per il recupero dei beni culturali danneggiati dal terremoto in centro Italia.

«Finisce con questo colpo di mano», commenta un post sul blog info-cooperazione, «la possibilità di impiegare una parte del fondo 8×1000 alla “fame nel mondo”, una quota che a singhiozzo negli anni aveva co-finanziato progetti di cooperazione allo sviluppo delle Ong italiane soprattutto in Africa. L’ultima approvazione di progetti risale al 2014, anno in cui con circa 6 milioni di euro furono cofinanziati 40 progetti. Non è chiaro se il decreto appena approvato andrà a intaccare anche la quota dell’otto per mille assegnata all’Agenzia per la Cooperazione allo sviluppo. A decorrere dall’anno 2015 infatti, una quota pari al 20% del fondo 8×1000 a gestione statale è stata destinata a finanziare le attività dell’Aics».

La riforma del Terzo Settore

Un anno fa la riforma del Terzo Settore (o settore di chi si impegna nel sociale senza scopi di lucro – no profit) è diventata legge, la 106/2016, e il primo dei provvedimenti attuativi è stato approvato a febbraio scorso: si tratta del decreto legislativo che istituisce il servizio civile universale, ora aperto a cittadini italiani, europei e stranieri regolarmente soggiornanti in Italia di età compresa fra i 18 e i 28 anni. Nelle parole del direttore di Vita.it, Riccardo Bonacina, nel giugno 2016, la riforma poteva essere più coraggiosa nell’innovare, ma è «la miglior legge possibile» date le circostanze e permette quantomeno di realizzare tre sogni: in primis quello di un «pavimento civilistico» che oltre a definire che cosa sia il Terzo Settore «rende possibile una legislazione unitaria, un Codice unico del Terzo settore e un Registro unico, un Organismo di rappresentanza istituzionale. Basta con i 300 registri (nazionali, regionali, provinciali), il Terzo settore ha bisogno di semplificazione e i cittadini di trasparenza».

La riforma comunque ha ricevuto anche diverse critiche. A cominciare da quelle mosse alla Fondazione Italia Sociale, organismo che la legge 106 istituisce «con lo scopo di sostenere […] la realizzazione e lo sviluppo di interventi innovativi da parte di enti del Terzo settore, caratterizzati dalla produzione di beni e servizi con un elevato impatto sociale e occupazionale e rivolti, in particolare, ai territori e ai soggetti maggiormente svantaggiati».

Presidente della Fondazione è Vincenzo Manes, imprenditore, finanziere, filantropo e consigliere dell’ex premier Matteo Renzi. Manes stesso l’aveva definita «Iri del sociale», rievocando la spinta modernizzatrice che l’Istituto per la ricostruzione industriale ebbe negli anni ‘50 e ‘60 del Novecento; ma c’è chi vede la Fondazione come un ente di cui si poteva fare a meno e chi lo liquida come un favore a un amico dell’ex primo ministro.

Ma Italia Sociale non è il solo aspetto a suscitare perplessità. Il Comitato piemontese Volontariato 4.0 in un documento del febbraio scorso attribuiva alla legge 106 lo stravolgimento dei Centri di Servizio per il Volontariato che, avendo a disposizione le stesse risorse del passato, dovranno ora assistere molti più fruitori, cioè «tutti i soggetti del no profit, associazioni di promozione sociale, cooperative, holding della solidarietà». Il Comitato punta il dito anche contro lo sdoganamento di un «volontariato liquido e ibrido, senza identità, senza appartenenza, senza forza rappresentativa, temporaneo ed occasionale» che arriva a «istituzionalizzare lo status di volontario singolo», non legato cioè a una realtà associativa.

Gli altri decreti attuativi, dopo quello sul servizio civile, dovrebbero essere inviati alle Camere entro il 15 di questo mese, almeno stando a quanto dichiarato a marzo da Luigi Bobba, sottosegretario al ministero del Lavoro. Seguiranno poi i commenti delle commissioni parlamentari e la possibilità di fare decreti correttivi entro un anno.

L’Europa fra cooperazione e migrazioni

Di altro tipo di volontariato parla invece Silvia Costa, eurodeputata del Pd, presidente della Commissione cultura e istruzione al Parlamento europeo e firmataria di una risoluzione sul Servizio volontario europeo (Sve), il programma di volontariato internazionale finanziato dalla Commissione europea e rivolto a giovani fra i 17 e i 30 anni. A questi ragazzi lo Sve offre l’occasione di prestare servizio in progetti in ambito umanitario, educativo, sociosanitario, culturale, sportivo per un periodo che va dalle tre settimane ai dodici mesi. In vent’anni ha visto la partecipazione di centomila giovani: dei cinquemila ragazzi che partono ogni anno, uno su cinque è italiano.

«Chiediamo alla Commissione europea», ha detto Costa dopo l’approvazione della risoluzione, «di definire finalmente un quadro giuridico europeo che definisca le attività e lo status di volontario per agevolare la mobilità europea e internazionale, nonché il riconoscimento delle competenze, sia nello Youth passaport che nell’Europass (strumenti per armonizzare la descrizione delle competenze dei cittadini all’interno dell’Unione, ndr)».

Quanto alle strategie per lo sviluppo, ne «Lo stato dell’Unione 2016» la commissione ha annunciato un nuovo il Piano europeo per gli investimenti esterni (Pie). «Lo strumento», si leggeva nel comunicato stampa del settembre scorso, «consentirà di stimolare gli investimenti in Africa e nei paesi del vicinato dell’Ue, in particolare per sostenere le infrastrutture economiche e sociali e le Pmi (Piccole e medie imprese, ndr), mediante la rimozione degli ostacoli agli investimenti privati». Il contributo previsto è di 3,35 miliardi di euro, che andranno a sostenere «le garanzie innovative e strumenti analoghi a copertura degli investimenti privati». Secondo la Commissione, questi 3,35 miliardi dovrebbero riuscire a mobilitare fino a 44 miliardi di euro d’investimenti e l’importo potrebbe raddoppiare se gli stati membri e gli altri partner contribuiranno con un finanziamento equivalente.

L’iniziativa è certamente in linea con la Comunicazione 263 del 2014, in cui la commissione ricordava che il settore privato fornisce il novanta per cento dei posti di lavoro nei paesi in via di sviluppo e che questo lo rende un partner essenziale nella lotta alla povertà. Altrimenti detto: se non si coinvolge il settore profit nello sviluppo non si va da nessuna parte.

Concord, la rete europea delle ong, ha tuttavia avanzato alcuni dubbi circa il Pie: «Il piano – si legge fra le raccomandazioni inviate alla Commissione – deve essere sganciato dalle politiche di controllo delle migrazioni e dagli obiettivi di breve termine della politica estera europea e non può dare per scontato che la crescita economica – in termini di punti di Pil – implichi automaticamente la creazione di posti di lavoro, e meno ancora di lavoro dignitoso e sostenibile».

L’effetto Trump sullo sviluppo

Con i loro 31 miliardi di dollari all’anno (nel 2016), gli Stati Uniti sono il secondo donatore al mondo dopo l’Unione europea per quanto riguarda l’aiuto allo sviluppo, il primo se si considerano gli Stati europei singolarmente. Ovvio che la proposta di budget dell’amministrazione guidata da Donald Trump fosse attesa con una certa apprensione nel mondo della cooperazione. E lo scorso 16 marzo le proposte presidenziali sono state rese pubbliche: Trump ha proposto per il Dipartimento di Stato e l’agenzia Usaid, gli enti governativi che gestiscono il grosso dell’aiuto, un budget di 25,6 miliardi di dollari, con un taglio pari al 28 per cento.

Altri tagli proposti sono al contributo alle Nazioni Unite – attualmente gli Usa ne sono il principale donatore, coprendo oltre un quinto dei 5,4 miliardi di dollari del budget Onu e quasi un terzo dei 7,9 miliardi per le operazioni di peacekeeping – e agli enti finanziari multilaterali di sviluppo come la Banca mondiale.

Il presidente statunitense ha inoltre intenzione di staccare la spina a tutto ciò che riguarda la lotta al cambiamento climatico – eliminando la U.S. Global Climate Change Initiative e bloccando i pagamenti ai programmi delle Nazioni Unite in questo ambito – e di riorganizzare Dipartimento di Stato e Usaid, forse accorpando la seconda al primo, ipotizza qualcuno. Sopravvive invece la dotazione di risorse per il Fondo presidenziale di emergenza per la lotta all’Aids (Pepfar) e per il Fondo globale per la lotta a HIV/Aids, tubercolosi e malaria.

Rimane da vedere quante di queste proposte il Congresso effettivamente accoglierà; ma l’opinione pubblica mondiale ha già potuto farsi un’idea di come si traduce lo slogan «America first» in termini di fondi per lo sviluppo.

Chiara Giovetti

 




Haiti: «La cultura ci salverà»


Haitiano di origine italiana. Noto per il suo impegno sociale e politico. Da subito si è schierato contro la dittatura di Duvalier e per il rispetto dei diritti umani. Con i suoi lavori ha denunciato soprusi e violazioni. Al suo attivo ha oltre 50 film, tra documentari e fiction. Ci regala la sua visione del rapporto cultura-popolazione nel paese caraibico.

Port-au-Prince. Arnold Antonin, al secolo Celesti Corbanese, è il più famoso cineasta e produttore haitiano, soprattutto per quanto riguarda i documentari. Si contende il primo posto solo con Raoul Peck, altro grande regista, che ha realizzato in prevalenza fiction e il cui recente «I am not your negro» è stato candidato agli Oscar quest’anno come miglior documentario.

Classe 1942, Antonin è di origine italiana ed è molto conosciuto per il suo impegno sociale, politico e culturale. In esilio in Venezuela dal 1973, durante gli anni del duvalierismo (1957-1986) è in prima linea in quel settore della società civile haitiana, costituito dagli intellettuali, che ha lottato contro la dittatura in patria e all’estero. La cacciata di Jean-Claude Duvalier, il 7 febbraio 1986, vede nei mesi successivi il ritorno in patria della maggior parte di loro.

Così è anche per Arnold Antonin, che ha fondato in Venezuela il Centro Pétion-Bolívar, dai nomi di Alexandre Pétion, uno dei padri della nazione haitiana, e Simón Bolívar, il maggiore rivoluzionario e promotore dell’indipendenza dei paesi latinoamericani. Già nel dicembre dell’86 Antonin torna nella sua città natale, Port-au-Prince, e vi trasferisce il Centro culturale. «Si tratta di un centro polivalente di pubblica utilità», ci spiega. Antonin, sempre sorridente e ironico, ci riceve nella nuova sede del Centro. Ci conduce in una sala alle cui pareti sono appesi decine dei suoi premi e riconoscimenti. Oltre che locandine dei film. I più importanti sono il premio Djibril Diop Mambety, ricevuto a Cannes nel 2002 per il documentario Courage de femmes e il premio Paul Robeson, vinto in tre edizioni del Fespaco (Festival del cinema panafricano a Ouagadougou), 2007, 2009 e 2011. Il suo primo film, Duvalier accusé, risale al 1974, mentre tra le sue opere più note ci sono Les amours d’un zombie, e Le président a-t-il le sida?. Antonin, inoltre, insegna alla Facoltà di Scienze umane dell’Università e alla Scuola nazionale d’arte.

«Il Centro si è occupato molto di diritti umani negli anni ‘86-‘87, poi di formazione, anche sindacale, di organizzazioni di giovani e di donne. Il Centro ha fatto formazione politica ai parlamentari, ai sindaci alle autorità locali». Antonin continua a raccontarci del Centro e si percepisce quanto vi si identifichi: «Ci siamo interessati alla produzione audiovisiva in genere, e di materiale educativo, ma da qualche tempo il Pétion-Bolívar è soprattutto un centro di produzione dei miei film».

Il Centro diffonde la cultura e crea dibattito. Ogni mese viene organizzato il forum del giovedì, ovvero un incontro su un tema di interesse nazionale. «È un’attività che facciamo da 28 anni. L’anno scorso gli incontri si sono concentrati su soggetti politici, tranne l’ultimo che è stato sui cambiamenti climatici, e qui abbiamo presentato i risultati della Conferenza sul clima di Parigi».

Il Centro era anche sede dell’Associazione haitiana dei cineasti che, fino a pochi anni fa, realizzava formazioni periodiche e regolari nel campo della cinematografia. «Attualmente abbiamo un cinelcub, frequentato da giovani tra i 20 e i 25 anni, che hanno accesso a film che altrimenti non avrebbero la possibilità di vedere».

L’occasione mancata

Dopo il terribile terremoto del 12 gennaio 2010, Antonin realizza un documentario di 20 minuti, crudo e di denuncia: Chronique d’une catastrophe annoncée ou Haïti: apocalypse now.

«Il terremoto è stato catastrofico con proporzioni inimmaginabili, a causa dello stato di precarietà nel quale viveva la popolazione. Ci sono stati terremoti della stessa intensità che hanno causato centinaia di morti, mentre ad Haiti sono stati centinaia di migliaia», riprende Antonin. «Noi speravamo che il sisma avrebbe segnato una svolta nella storia del paese, cioè che a partire da quell’evento avremmo potuto ricostruire Haiti su nuove basi. Innanzitutto ambientali, economiche, sociali e anche politiche. Io dicevo che grazie al terremoto avremmo potuto fare di Port-au-Prince la “città faro” dei Caraibi. Tutti i grandi architetti del mondo erano disposti a fare dei progetti gratuitamente per Haiti. Anche Renzo Piano lo avrebbe fatto. Ma chi era al potere non ha voluto, perché la catastrofe è stata anche un gigantesco mercato. Il sisma, come anche il caos politico e la povertà di massa, è stato un’occasione per diverse persone di guadagnare molti soldi. Per altri di farsi una specie di credito politico. Così non è stata fatta la ricostruzione. La sola cosa che il potere di Michel Martelly (presidente dal 2011 al 2016, ndr) è riuscito a fare è ripulire gli spazi pubblici e i parchi di Port-au-Prince dai terremotati. Ma hanno creato nuove bidonville all’uscita della città, che sono peggiori di quelle precedenti».

Poco è stato fatto, denuncia il regista, qualcosa nel centro amministrativo e poi l’aeroporto che oggi è moderno. «Quello che chiedevamo noi era un nuovo piano di gestione del territorio, in modo che si potesse sapere, in un piccolo paese come il nostro con 10 milioni di abitanti, come fare una suddivisione in zone di diverse tipologie: abitazioni, industrie, agricoltura».

«Port-au-Prince è diventata una città nella quale si trovano baraccopoli ovunque. A causa dell’esodo rurale per la mancanza di lavoro, la maggior parte degli abitanti sono dei sotto proletari, quelli che possiamo chiamare Lumpenproletariat (in tedesco “proletariato straccione”, termine creato da Karl Marx, per indicare il ceto infimo delle grandi città, formato di elementi economicamente e socialmente instabili, ndr), per cui possiamo parlare di “lumpenizzazione” della società haitiana. Si tratta di individui che sono molto facili da manipolare, non hanno delle vere radici, non sanno dove sono e sono affamati, alla mercé di chiunque, in primis dei politici e criminali».

La cultura che salva

Haiti è il paese più povero delle Americhe e uno dei più destrutturati del Mondo. Gli esperti lo classificano come «stato fallito». Chiediamo al regista e attivista politico se la cultura potrà salvare Haiti. «Sì, in un certo senso la cultura può salvare Haiti. Perché la cultura salva tutti i paesi che sono in pericolo. Se non c’è nella testa della gente, nel loro modo di fare, nella loro cultura in generale, una volontà di salvare o cambiare il paese, allora non è possibile. Solo la cultura può cambiare un paese in grande difficoltà come il nostro. Ma non deve essere una cultura che confonde il sogno con la realtà. Ad Haiti troppo spesso domina il pensiero magico, un sistema per cui agli uomini al potere basta dire una cosa e le parole si trasformano in realtà. Occorre pensare a delle azioni concrete sulla realtà socio politica se si vuole salvare questo paese. Ma alla base ci sono questioni politiche e culturali. Ovvero se c’è la volontà politica, allora occorre che la cultura giochi il suo ruolo.

Qui la cultura è molto forte. In generale questi paesi sono complicati e difficili. Un uomo politico statunitense diceva: “Haiti è il paese che abbiamo occupato più a lungo – ci sono stati 19 anni di occupazione statunitense dell’isola – ma è l’unico nei Caraibi dove non si gioca a baseball”. È vero, è uno sport che non ci ha mai penetrati. Allo stesso modo c’è una forma di democrazia e di sviluppo che non riescono a imporsi ad Haiti.

Tutto lo sviluppo deve partire da una realtà culturale del paese. Non bisogna credere che per un paese differente occorra una democrazia al ribasso, elezioni fasulle o truccate. Gli haitiani hanno dimostrato che non lo accettano».

E lo stato come si pone nei confronti di questa ricchezza culturale?

«Ad Haiti diciamo che questo è il paese della cultura, però non esiste alcun aiuto dello stato alla cultura. Un paese di 10 milioni di abitanti in cui non c’è una sala per spettacoli, non un cinema, c’è un solo quotidiano. E non c’è un museo degno di questo nome. Lo stato appoggia solo il carnevale che è il grande evento culturale di Haiti. Ma anche questo è un carnevale povero, del sotto proletariato».

«Io ho realizzato diversi film su artisti haitiani, sia pittori e scultori che scrittori. Devo riconoscere che esiste una situazione generale, nel tropico, per la quale le crisi (politico sociali, ndr) generano una grande perdita di energia. E ogni crisi ne innesca un’altra che crea una maggiore perdita di energia. In questa dissipazione, dovuta in gran parte alla follia distruttrice di uomini avidi di potere e soldi, ovvero quelli che sono sempre stati i dirigenti di questo paese, troviamo l’energia creatrice di una parte della popolazione. Ed è questo che mi interessa e che studio.

Nel mezzo di questa situazione incredibile, ci sono persone che senza alcun aiuto scrivono, e fanno della buona letteratura, che dipingono dei quadri superlativi, realizzano sculture ottime senza essere mai stati a una scuola di anatomia. Poi c’è la gente del popolo. Ne parlo nel documentario che ho realizzato su due donne spacca pietre che, invece di prostituirsi, o prostituire i figli, in mezzo alla miseria inumana fanno un lavoro duro. Oppure c’è la storia della donna meccanico che ha un progetto di vita per diventare tra i migliori di questo paese nel suo lavoro, in mezzo agli uomini».

La cultura che resiste

La cultura ad Haiti è anche cultura tradizionale, radicata soprattutto in ambito rurale. Che momento storico sta passando e che relazioni ha con la politica?

«La cultura haitiana è in crisi. La cultura rurale, malgrado il vodù che ne è alla base, è molto attaccata dalle sètte protestanti che pullulano (si veda anche articolo a pag. 51). Il vodù stesso sta subendo delle grandi trasformazioni, si sta mercantilizzando. Sotto Duvalier c’era già una specie di volontà di controllo da parte della politica, che utilizzava molti preti vodù ai suoi scopi. Tutte le religioni e tutte le culture hanno aspetti positivi e negativi. Fattori che ti portano verso la trasformazione e il cambiamento, altri alla resistenza per sopravvivere e altri ancora verso la chiusura al cambiamento. Nella società haitiana troviamo tutto questo. Di fronte a una modernizzazione che è copiata dall’estero e sponsorizzata da certi dirigenti del paese, assistiamo a una resistenza, e quelli che resistono fondamentalmente sono i contadini.

Jacques Roumain (grande poeta e scrittore haitiano, impegnato in politica, scomparso misteriosamente nel 1944, ndr) diceva che gli unici elementi validi di questo paese sono i contadini. Sono i soli che hanno una cultura propria e questo ha permesso loro di sopravvivere. Hanno un attaccamento alla terra natale e hanno una tradizione. Ma la popolazione rurale sta diminuendo e stiamo diventando un paese con una maggioranza di popolazione urbanizzata. Però non c’è una vera cultura urbana, perché lì c’è gente che ha lasciato la campagna ed è come piovuta in città, dove non ha nessun attaccamento, mentre perde le radici rurali. Sono persone declassate e disorientate che vanno ad abitare le immense bidonville delle diverse città haitiane, ma anche tutte le piccole baraccopoli che troviamo ovunque a Port-au-Prince, in centro, in periferia, di fianco ai quartieri dei ricchi. Questo fenomeno crea una situazione molto particolare, paradossale. E i paradossi interessano molto gli artisti. Si dice che Haiti sia un “paradiso infernale”, è un ossimoro. Un ossimoro invivibile per molte persone. Non per noi della classe media, gli intellettuali. Noi riusciamo a sopravvivere, ad avere un minimo livello di vita dignitosa. Ma per la maggioranza, ovvero i contadini che non riescono a vivere in campagna, emigrare diventa obbligatorio. Molti vanno in Repubblica Dominicana e nelle Antille.

La classe media, gli intellettuali, i professori, contribuiscono alla cultura tramite la letteratura, la musica, ecc. Ma anche loro sono in difficoltà in modo permanente, perché a ogni crisi economica e politica si innesca una fuga di cervelli, un’emorragia che costituisce un duro colpo per chi rimane.

Le gallerie d’arte sono sempre meno numerose, gli artisti non vivono più di pittura, devono avere un altro mestiere. Chi fa cinema pure. Ci sono artisti che hanno tre o quattro mestieri».

Il nuovo presidente di Haiti Jovenel Moise, insediato il 7/2/2017. / AFP PHOTO / HECTOR RETAMAL

 

Una politica miope

L’ex presidente René Preval, morto il 3/3/2017.

Ad Haiti esiste un potenziale enorme di produzione artistica e culturale che potrebbe essere valorizzato e dare un apporto economico notevole, oltre che diffondere un’immagine molto più positiva del paese nel mondo. Al contrario, dopo il terremoto l’impostazione dei politici è stata quella di attirare un «turismo di alta gamma». Così sono stati costruiti tre hotel di lusso, di un livello inesistente prima nel paese. E sono stati favoriti gli sbarchi delle crociere sulle più belle spiagge, opportunamente isolate dal resto del contesto. Tutto questo anziché appoggiare gli artisti, o la creazione culturale in genere.

«È un paese potenzialmente ricco di cultura. C’è una ricchezza immateriale enorme qui. La storia di Haiti può attirare molti. Poi ci sono anche ricchezze materiali, come le rovine coloniali. Haiti è il paese dei Caraibi che ne ha di più: forti militari, palazzi coloniali, ecc. Ma ho visto la gente togliere le pietre di Fort Mercredi per andare a costruirsi la casa. Se non c’è una politica statale per preservare e valorizzare queste ricchezze, presto si deterioreranno.

Poi c’è il vodù. In Luisiana, a New Orelans, fanno uno sfruttamento turistico enorme del vodù, e si paga per vedere cerimonie fasulle. Le manifestazioni del vodù, come il Guédé (pronuncia ghedé, sono gli spiriti degli antenati morti, molto presenti nelle cerimonie, ndr) si stanno deteriorando, lumpenizzando. In passato erano spettacoli incredibili.

Per questo occorrerebbe una politica turistica intelligente, radicata nella cultura. Poi c’è un contesto globale: occorre togliere le immondizie per strada altrimenti i turisti saranno disgustati.

C’è pure una natura che resiste, nonostante tutto quello che è stato fatto contro di lei in questo paese. È qualcosa di miracoloso. Mare, montagna, deserto, microclimi differenti. Poi la grande gentilezza della gente. Tutte condizioni molto favorevoli al turismo».

La cultura per chi?

Chi ha accesso alla cultura, nelle sue varie forme?

«Come valore di utilizzo, da non confondere con il valore commerciale, la cultura è alla portata di tutti. Le persone che officiano nei templi vodù producono cultura e allo stesso tempo la consumano. Così come i musicisti rap, che copiano i rapper statunitensi, una moda che sta invadendo le bidonville con i suoi modelli. È una cultura trash.

Se parliamo di belle arti, allora non ci sono molti consumatori ad Haiti. C’è un impresario haitiano che ha prodotto la maggior parte dei musicisti del paese che mi dice: “Ad Haiti ci sono 300 consumatori per i prodotti che facciamo, i dvd dei tuoi film e i cd che io produco”. Non ci sono consumatori paganti.

In passato c’erano i turisti che compravano i quadri e altri prodotti culturali, adesso questo mercato non esiste più. Anche per questo gli artisti non riescono più a vivere.

Allora ci chiediamo: come riuscire a fare dei film in un paese così povero come Haiti? Io, per fortuna, sono conosciuto e ho qualcuno che mi apprezza e finanzia i miei film. Inoltre ci sono diverse televisioni che li acquistano».

Il regista si gira e ci mostra un quadro alle sue spalle. Raffigura uno scheletro, sul cranio un cappello nero a tese larghe, intento a suonare una chitarra elettrica.

«Alle mie spalle avete il più grande Guedé di tutto l’universo. Lo riconoscete? È Micheal Jackson, è lui il re dei Guedé».

Marco Bello




Liberia: Angeli contro il virus

Presenti nel paese dal 1963 le missionarie della Consolata hanno rappresentato un baluardo contro l’epidemia di ebola. Con umiltà e coraggio hanno curato le persone colpite dal virus e sensibilizzato la popolazione per ridurre l’espandersi della malattia. Oggi si prendono cura degli orfani. Ecco il racconto di quei giorni terribili.

Monrovia. Determinate, allegre e sempre indaffarate, Anna Rita, Annella, Eugenia e Clotilde sono le suore italiane della Consolata in missione in Liberia, piccola nazione dell’Africa occidentale. Insieme a loro Abela, dalla Tanzania, e Lucy, liberiana. Una dopo l’altra arrivate nel paese negli anni Sessanta, hanno vissuto due guerre civili (1989-1995 e 1999-2003) e non si sono fermate nemmeno quando il virus ebola, nel 2014, ha iniziato a mietere vittime con una facilità e una rapidità disarmanti.

Tra i 70 e gli 80 anni, vere forze della natura, sono sempre al servizio della comunità e anche in quel difficile, lungo periodo dell’epidemia non si sono risparmiate schierandosi in prima linea.

Fino a poco tempo fa impegnate anche a Ganta, città del Nord al confine con la Guinea, in un centro in cui vengono curate lebbra e tubercolosi, oggi le missionarie sono divise tra Buchanan, cittadina a Sud di Monrovia dove gestiscono una scuola frequentata da oltre 1.000 bambini, e la contea di Harbel, a 80 km dalla capitale, nei pressi dell’aeroporto.

«È stato un periodo tremendo quello dell’ebola: la malattia ha colpito tutte e tre le zone dove noi eravamo e siamo operative. Ogni giorno vedevamo morire persone che conoscevamo bene. A volte mi sono sentita impotente, ma ho sempre pensato che dovevo fare tutto ciò che era in mio potere per aiutare la mia comunità», ricorda con voce pacata suor Anna Rita Brustia, mescolando italiano e inglese in pieno stile liberiano. «Il governo e il sistema sanitario non erano pronti per gestire l’emergenza e le persone non erano informate: la cosa più difficile è stata far comprendere agli abitanti del posto che dovevano adottare alcune misure di sicurezza», precisa suor Annella Gianoglio (si veda MC novembre 2014).

Lavoro di squadra

Così le suore della Consolata hanno formato una squadra di 70 volontari incaricati di andare nei villaggi per sensibilizzare le persone circa le norme di igiene da rispettare, oltre che per verificare se c’erano casi sospetti da trasportare nei centri di trattamento istituiti dall’Ong Medici Senza Frontiere. «Li chiamavamo Health social mobilizers ed erano le persone che frequentavano il nostro corso di animazione pastorale durante il quale facevamo, insieme a due Health promoters (promotori di salute, ndr), sensibilizzazione contro l’Hiv. Non appena si sono palesati i primi casi di ebola nella nostra zona, abbiamo trasformato il gruppo per lottare contro il virus. Abbiamo iniziato a lavorare in questo senso ancora prima che il governo e l’Organizzazione mondiale della sanità dichiarassero l’emergenza e, quindi, in largo anticipo rispetto alle varie Ong che sono poi arrivate», racconta suor Anna Rita con umiltà.

A farle eco suor Eugenia Tappi che ammette: «Siamo state delle miracolate, me ne rendo conto solo ora. In quel periodo pensavo solo a ciò che dovevo fare giorno per giorno». «Setacciavamo quotidianamente i villaggi e se c’era qualche persona con sintomi sospetti mostravamo ai famigliari le precauzioni da seguire e poi lo segnalavamo alle sorelle», le fa eco Emmanuel Crusol, liberiano, capo squadra dei Social mobilizers.

Lavarsi le mani di continuo, non stringersele, non avere contatti, non frequentare luoghi affollati, a messa sedersi a una distanza di un metro l’uno dall’altra: l’indottrinamento promosso dalle missionarie della Consolata è stato costante. Ancora oggi, sia nel giardino della scuola di Buchanan sia davanti alla chiesetta che sorge accanto alla struttura dove vivono le sorelle, presso Harbel, vi è un grande bidone colmo di acqua clorata (con candeggina). «Molte persone si lavano ancora le mani prima di entrare in chiesa e altri faticano a stringersele: la paura persiste», dice suor Anna Rita.

Un mondo di orfani

Oltre alla paura, però, l’ebola ha lasciato anche un numero spaventoso di orfani: «Solo nella contea di Harbel ce ne sono 614. Appena finita l’emergenza erano 616 ma poi due sono morti. Chi ha perso solo la madre, chi il padre, chi entrambi. In ogni caso si tratta di vite spezzate», continua la missionaria interrompendosi in una breve pausa. A colmare il silenzio ci pensa suor Eugenia: «Noi ci prendiamo cura di loro, sfruttando al massimo i pochi mezzi che abbiamo. Per esempio aiutiamo le famiglie che li hanno presi in carico a pagare le rette scolastiche per offrire loro la possibilità di un futuro migliore». In Liberia, come in molti altri paesi africani, non esiste infatti la cultura dell’orfanotrofio: a preoccuparsi dei bambini che rimangono senza genitori ci pensano i parenti. Così si creano famiglie enormi, difficili da gestire.

«Mia sorella è morta dopo aver contratto l’ebola, i suoi due figli ora vivono con me e i miei tre bambini. Cerco di crescerli al meglio, dando loro dei pasti ogni giorno. Non riesco a pagare la scuola per tutti, è impossibile. Anche perché qui in Liberia la vita è davvero cara dal momento che quasi tutti i beni di prima necessità vengono importati», racconta un uomo che vive e lavora ad Harbel.

Ci sono anche famiglie, però, che rifiutano i piccoli rimasti orfani perché portano con sé lo stigma del virus. «Andiamo nelle case e cerchiamo di far comprendere alle persone che questi bambini sono come tutti gli altri, hanno solo più bisogno perché rimasti soli. Facciamo sensibilizzazione. Adesso, per fortuna, iniziamo a vedere qualche risultato, complice il passare del tempo che fa sentire sempre più lontano quel terribile periodo», spiega Anna Rita minimizzando sempre ciò che fa.

«Portiamo avanti un lavoro che abbiamo cominciato all’apice dell’epidemia», interviene suor Annella, di poche parole ma molto precisa. In quel momento di estrema emergenza era infatti fondamentale cercare di soddisfare i bisogni primari delle persone: tutto era bloccato, molte aziende chiuse, importazioni ferme, attività rallentate. «La gente non riusciva a procurarsi il cibo, anche perché molte persone avevano dovuto abbandonare il lavoro, così, oltre alla scarsa disponibilità di prodotti, a mancare erano anche i soldi. Inoltre i bambini che man mano perdevano i genitori erano allo sbaraglio», continua.

Fame ed emarginazione

La meticolosità delle suore nell’organizzare gli interventi ha permesso loro di salvare la vita a molte persone. A testimoniarlo il registro con l’elenco di tutti gli orfani di Harbel sul quale al tempo segnavano con attenzione la quantità di cibo fornita a ciascuno con accanto la firma della persona che li aveva presi in carico. «A cornordinarci c’era sister Maria Teresa Moser che ora purtroppo è dovuta rimpatriare a causa di problemi di salute. Siamo perfettamente consapevoli che donare il cibo non sia il modo giusto per risolvere i problemi di queste persone. In una situazione come quella però se non l’avessimo fatto, oltre alle vittime dell’ebola ci sarebbero stati anche tanti morti di fame», riprende suor Anna Rita.

Nel dicembre del 2015 le missionarie si sono preoccupate di registrare i 614 orfani al governo: «Noi continuiamo a fare ciò che possiamo ma le autorità devono attuare un intervento radicale dall’alto per sostenere questi ragazzi. A gestire la situazione dovrebbe essere il ministro delle Pari opportunità, ma per ora ha fatto poco o nulla», afferma con sconforto Eugenia.

«I nostri fondi ci permettono di aiutare economicamente solo poche famiglie. Ad alcuni bambini che frequentano la scuola a Buchanan non facciamo pagare le rette», spiega suor Clotilde mentre si avvicina a Patience, studentessa di 13 anni intenta a giocare con gli altri ragazzi durante l’intervallo. «Mio papà era un muratore, ha preso l’ebola e si è ammalato. Adesso vivo con mia mamma e i miei cinque fratelli. Mangiamo una volta al giorno, però possiamo frequentare la scuola perché le suore ci aiutano. Mi piace venire a lezione. Quando durante l’epidemia l’istituto è rimasto chiuso io mi sentivo molto triste», dice con maturità.

Ci sono anche ragazzi che sono stati abbandonati dai genitori: «Le persone che hanno contratto il virus e sono sopravvissute sono state emarginate dalla comunità, la paura era troppo forte», spiega Annella che viene interrotta da Clotilde: «Mi ricordo di un padre che portava i figli nella nostra scuola. Era un sopravvissuto. A un certo punto però è sparito. Dicono che sia scappato nella foresta perché non sosteneva più l’isolamento». A conferma di quanto raccontano le missionarie, vi è la testimonianza di Lela Glay, 45 anni, sguardo spento: «Ho contratto l’ebola andando a trovare un mio caro che si era ammalato. Da quel momento è stato l’inferno. Sono sopravvissuta ma i problemi non sono finiti: prima sono stata a lungo emarginata da amici e parenti, ora mi trovo a fare i conti con le conseguenze fisiche lasciate dal virus. Ho fortissimi dolori alle giunture che non mi permettono più di lavorare». Così anche lei è stata presa sotto l’ala dalle missionarie della Consolata.

Lo sguardo al futuro

Suor Anna Rita e le altre fanno parte della storia del paese e non smettono di guardare avanti. «Nel caso ci fosse una nuova epidemia il governo e il sistema sanitario sarebbero pronti a intervenire tempestivamente. Lo abbiamo già provato: dichiarata ebola free l’11 maggio 2015, i due casi che ci sono stati successivamente sono stati isolati immediatamente. Noi continuiamo a sensibilizzare le persone anche perché ci sono convinzioni popolari che rappresentano un ostacolo: come la credenza che all’origine della malattia ci sia il malocchio, giu giu, in lingua locale».

Oltre ai drammi lasciati dall’ebola, le suore affrontano i problemi di sempre. Come la situazione degli insegnanti: «Hanno stipendi molto bassi e fanno fatica a vivere. La corruzione così dilaga anche nelle scuole: i genitori li pagano per promuovere i propri figli e i maestri a volte accettano, così arrotondano. Noi cerchiamo di far fronte a questo problema, nei limiti del possibile», spiega Clotilde mentre richiama i bambini all’ordine.

Così, anno dopo anno, le suore missionarie della Consolata sono diventate un po’ liberiane anche loro e, soprattutto, sono divenute il punto di riferimento della comunità.

Valentina Giulia Milani




Nicaragua. Rosario&Daniel Ortega spa


Lo scorso novembre Daniel Ortega è stato rieletto presidente del Nicaragua. Sua moglie Rosario Murillo, vicepresidente. In questa intervista María López Vigil, caporedattrice di Envío, prestigiosa rivista dell’Università Centroamericana (Uca) di Managua, traccia un quadro fosco della coppia presidenziale che da 10 anni guida il paese.

Quell’uomo con i baffetti, gli occhiali «a goccia» e un’uniforme verde militare era per molti – anche per chi scrive – un’icona. Lui, Daniel Ortega Saavedra, era il leader del Frente sandinista de liberación nacional (Fsln) che aveva liberato il piccolo Nicaragua dalla dittatura di Anastasio Somoza e resistito per 10 anni (dal 1979 al 1989) alle pressioni militari e politiche degli Stati Uniti, all’epoca guidati da Ronald Reagan.

Dopo gli accordi di Managua (agosto 1989), il paese centroamericano toò alla normale dialettica democratica. Daniel Ortega fu sconfitto nelle presidenziali del 1990 (da Violeta Chamorro), del 1996 (da Aoldo Alemán) e del 2001 (da Enrique Boloños). Nel 2006 Ortega vinse le elezioni, ripetendosi nel 2011.

Lo scorso 6 novembre Daniel Ortega, oggi 71enne, è stato eletto presidente per la terza volta consecutiva, mentre sua moglie Rosario Murillo è stata nominata vicepresidente. Un’abbinata familiare che non rappresenta un delitto, ma certamente non appare come una scelta eticamente opportuna.

María López Vigil

Per parlare delle elezioni e del decennio della famiglia Ortega abbiamo rivolto qualche domanda a María López Vigil, giornalista e scrittrice, caporedattrice di Envío, la rivista pubblicata dall’Università Centroamericana (Uca) di Managua. Va ricordato che la Uca, fondata dalla Compagnia di Gesù nel 1960, è senza dubbio uno dei più noti e prestigiosi istituti universitari dell’America Latina.

I dubbi sulle elezioni

Maria, Daniel Ortega e Rosario Murillo hanno vinto di nuovo. Tutto bene?

«Non sapremo mai i numeri ufficiali di queste elezioni. Da otto anni le autorità elettorali mentono e tutti lo sanno in Nicaragua. Eppure Daniel Ortega non ha stravinto. In ogni caso, ha vinto perché ha preparato tutto per non avere né osservatori inteazionali né partiti reali in competizione. Noi abbiamo calcolato un 70% di aventi diritto che non sono stati a votare, arrivando all’80% nelle zone rurali. Quindi, il 72,5% ottenuto da Ortega è stato calcolato su appena un 30% di votanti. Sarebbe corretto definirla una vittoria di Pirro».

Dopo le elezioni, l’emittente TeleSur ha commentato: «Con il suo processo elettorale esemplare, la democrazia nicaraguense è attaccata con aggressività dai governi e dai media occidentali. (…) Nelle elezioni statunitensi del 2012 Barack Obama vinse con l’appoggio del 31,5% (…). Daniel Ortega ha vinto con un appoggio del 49,4%» (TeleSur, 10 novembre). Dove sta la verità?

«In queste elezioni chi ha vinto è stata l’astensione. Qualcosa di molto significativo in Nicaragua, dove alla gente piace votare, perché le persone hanno “fede elettorale”. Le cifre diffuse dal disprezzato Comitato elettorale non sono credibili. Sono state precedute da tre frodi elettorali provate (2008, 2011 e 2012). Il problema elettorale in Nicaragua è molto grave perché il sistema è collassato».

La povertà resiste

Nel 2015 l’economia nicaraguense ha registrato una crescita del 4,5% (dato Fmi). Significa che il modello economico di Ortega funziona?

«Il governo di Ortega non è progressista. La spinta che ha avuto l’economia del Nicaragua si è basata sull’aiuto venezuelano (si tratta di ingenti prestiti petroliferi che tuttavia sono molto diminuiti negli ultimi due anni, ndr), aiuti che il presidente ha privatizzato. Il modello economico ha favorito fondamentalmente il grande capitale e per questo l’Fmi ogni anno si congratula con Daniel Ortega».

In questi anni il livello della povertà generale è diminuito in maniera significativa: era del 44,7% nel 2009, è sceso al 39,0% nel 2015 (dati Fideg).

«Ortega e Murillo sono al governo ormai da dieci anni. Sono diventati milionari con le entrate della cooperazione petrolifera venezuelana. La diseguaglianza sociale è maggiore oggi che dieci anni fa. I problemi principali del paese sono la disoccupazione e i cattivi impieghi (la cosiddetta occupazione informale): 8 su 10 nicaraguensi lavorano in proprio, senza un salario fisso e senza previdenza sociale. L’emigrazione verso Costa Rica e Panamá è massiccia. Le rimesse in dollari che gli emigrati inviano alle loro famiglie sono un sostegno importante per la gente più povera del paese. Il Nicaragua continua a detenere il record di paese più povero del continente dopo Haiti, anche se la differenza tra i due paesi rimane abissale».

Secondo la Cepal, organizzazione delle Nazioni Unite, nella classifica della povertà il Nicaragua viene però dopo di Haiti, Honduras, Guatemala e Messico.

«Premesso che entrare nella “competizione” per chi è più povero è comunque un fatto negativo, le prove per stabilire chi lo è di più sono sempre differenti».

La povertà è un’eredità storica. Cosa manca per diminuirla?

«Il problema principale da risolvere perché il paese superi la sua storica povertà è il sistema educativo di bassissima qualità. Abbiamo le maestre e i maestri peggio pagati dell’America Centrale e la minore percentuale del bilancio nazionale investito nell’educazione (2,5%). L’attuale governo non ha fatto nulla per migliorare l’istruzione».

Nicaragua 2009-2016: tassi di povertà generale (sinistra) ed estrema (destra).

Gli Ortega sostengono che il loro governo è un governo inclusivo.

«Ortega ha incluso nel suo governo la grande impresa privata e la élite imprenditoriale di sempre. Sono i suoi alleati più sicuri, suoi soci anche in varie attività. Per i più poveri ci sono i cosiddetti “programmi sociali”: borse alimentari mensili, maiali e galline per le donne rurali, lamiere di zinco per i tetti, crediti senza interesse per micro-attività urbane… Non c’è dubbio che alleviano la povertà e che i poveri gradiscano molto queste misure, però non risolvono il problema. La sola cosa che sradicherebbe la povertà sarebbe una occupazione stabile con un salario dignitoso.

Il 6 novembre molti di questi poveri, pur beneficiati con i programmi sociali, non sono andati a votare per Ortega. La gente è stanca del controllo sociale che questo governo impone, che si manifesta in varie maniere, più nelle zone rurali che a Managua e in altre città».

Ciò che resta del sandinismo

Mi pare che il sandinismo di oggi sia completamente differente da quello di ieri. Mi sto sbagliando?

«Tutti abbiamo ammirato il sandinismo e da anni siamo tristi per la situazione che viviamo qui. Però non serve a nulla dissimulare e mentire sul Fsln e su Ortega e la sua gente. Non sono sandinisti. Il sandinismo continua a essere vivo in Nicaragua, tuttavia non nelle istituzioni. In altre parole, non c’è alcun sandinismo nell’attuale Fsln».

Cos’è il sandinismo, María?

«È una delle radici di questa nazione. Il sandinismo è giustizia sociale e sovranità nazionale. Oggi invece ci sono diseguaglianza e ingiustizie».

Sovranità nazionale… Com’è la storia del progetto del Grande canale interoceanico nelle mani di Wang Jing, proprietario del gruppo cinese Hknd?

«Ortega è un “vendepatria” come diceva Sandino dei politici del suo tempo. Ha venduto il paese a una impresa cinese perché faccia un canale interoceanico. E anche se non lo facesse, perché questo progetto è una truffa e una pazzia, c’è una legge che già oggi permette a quella impresa e al gruppo di Ortega di appropriarsi delle terre per l’ipotizzato canale e i progetti ad esso associati».

Tuttavia, il Fronte sandinista di liberazione nazionale (Fsln) continua a vivere ed esistere, o no?

«In realtà il Fsln non esiste, perché è un partito privo di strutture. Quello che c’è è l’”orteguismo”, un progetto politico-familiare che viene comparato con quello di Somoza. In varie occasioni è stato detto: “Ortega e Somoza sono la stessa cosa”. Evidentemente sono passati gli anni, il mondo è diverso, il Nicaragua anche. Assomiglia a Somoza per l’autoritarismo, per il controllo familiare del paese, per la capacità repressiva (specialmente nelle zone rurali), per l’arricchimento personale e del gruppo dei suoi amici, per la corruzione e l’utilizzo privato delle risorse pubbliche».

In Nicaragua operano società multinazionali?

«Certamente. C’è la Cargill, ricevuta con tutti gli onori da Ortega.

C’è l’impresa mineraria canadese B2Gold. C’è la Monsanto. Ci sono zone franche coreane, taiwanesi, statunitensi. Perché il Nicaragua attira tanti investimenti stranieri, di multinazionali e altre imprese importanti? La ragione principale è che il Nicaragua ha i salari più bassi di tutta l’America Centrale. La manodopera è così a buon mercato che è l’unica che può competere con i più bassi salari dei paesi asiatici. Il Salvador ha un salario minimo del 50% superiore al nostro, quello dell’Honduras è due volte maggiore, quello del Guatemala è appena più alto di quello honduregno e quello del Costa Rica è quattro volte maggiore».

Queste multinazionali provocano disastri come negli altri paesi dell’America Latina? Anche in Nicaragua l’ambiente e la natura sono in pericolo?

Le imprese minerarie stanno facendo disastri ambientali ovunque esse lavorino, come nel resto dell’America Latina. In questo momento il governo ha dato in concessione il 10% del territorio nazionale per lo sfruttamento minerario, specialmente dell’oro».

La Chiesa cattolica e le chiese evangeliche

Qual è il ruolo della Chiesa cattolica del Nicaragua? Un tempo, specialmente con il cardinale Obando y Bravo, è stata una grande nemica del sandinismo. Oggi è alleata della famiglia presidenziale. Per favore, María, una spiegazione…

«La gerarchia della Chiesa cattolica è divisa, come in tutte le parti del mondo. Ci sono quattro dei dieci vescovi della Conferenza episcopale del Nicaragua che hanno posizioni critiche verso il governo Ortega. Gli altri mantengono posizioni ambigue: in alcuni momenti sono favorevoli al governo, ma generalmente preferiscono il silenzio. Il vescovo ausiliare di Managua, mons. Silvio José Báez, è l’unico che ha sempre mostrato una posizione critica. Nelle elezioni del 6 novembre non è andato a votare sostenendo pubblicamente che il processo elettorale era viziato alla radice».

E le chiese evangeliche? Come sta accadendo in molti paesi latinoamericani, anche in Nicaragua la loro diffusione tra la popolazione è rapida.

«Sì, come in tutto il Centramerica e in tutta l’America Latina, esse sono cresciute in maniera esponenziale. In generale, leggono la Bibbia in una maniera che porta al fondamentalismo e a passività e rassegnazione davanti alla realtà. Ci sono le chiese protestanti storiche (battisti, anglicani), ma sono in chiara minoranza rispetto alle denominazioni evangeliche, che sono sempre più numerose, soprattutto nei quartieri poveri delle città e nei distretti rurali».

Le minoranze indigene

Qual è la situazione delle etnie indigene del Nicaragua? Sono 520 mila persone pari all’8,9% della popolazione totale.

«L’etnia maggioritaria è la Miskita. Al secondo posto c’è l’etnia Mayangna. L’etnia Rama è molto ridotta. Ci sono poi i Garifunas come in Honduras.

Queste quattro etnie occupano zone del Nord e Sud Caribe. Storicamente queste regioni, immense e ricche di risorse naturali, erano state ignorate o soggiogate dal governo centrale. Oggi, ogni volta di più, quelle terre sono invase da gente di altre parti del paese, con il tacito consenso di questo governo. È sempre successo. Ma in questi anni è aumentato il conflitto, anche armato, tra gli indigeni e gli invasori, con l’esercito che rimane a guardare».

Cosa spera per il presente e per il futuro di questo paese?

«Spero in un paese migliore, più giusto e più felice. Credo che un altro Nicaragua sia possibile. Anche se non nel breve periodo».

Il potere e le persone

Le risposte di María López Vigil sono dure. A noi rimane in testa il solito dilemma: sono gli anni che cambiano le persone o è il potere che le cambia indipendentemente dagli anni?

Paolo Moiola


Siti internet:

  • www.envio.org.ni
    È il sito della rivista Envío, fondata nel 1981.
  • www.uca.edu.ni
    Il sito dell’Università Centroamericana di Managua.
  • www.cenidh.org
    Il sito del centro nicaraguense per i diritti umani.
  • www.ans21.org
    È il sito dell’associazione «Alteativa Nord Sud per il XXI secolo» che dal 1993 si occupa di Nicaragua (e di Guatemala) e traduce in italiano anche la rivista Envío.
  • www.cse.gob.ni
    Il sito del Comitato elettorale del Nicaragua.
  • www.telesurtv.net
    Il sito dell’emittente Telesur.

Archivio MC:




Un altro modo di dire mondo


La Banca Mondiale ha deciso di non utilizzare più l’espressione «paesi in via di sviluppo» ed è probabile che le altre istituzioni inteazionali si allineeranno alla sua decisione. Ma che significato e quali conseguenze ha questa scelta? Da «Terzo Mondo» a «paesi a basso reddito», la forma e la sostanza delle parole che usiamo per descrivere il mondo.

Non c’è più il Terzo Mondo di una volta. E nemmeno i paesi in via di sviluppo, a quanto pare. Nell’edizione 2016 degli Indicatori di sviluppo – una delle pubblicazioni di riferimento per chiunque lavori nel settore e non solo – la Banca Mondiale ha deciso di dismettere l’espressione developing countries (paesi in via di sviluppo, appunto). «Sulla spinta dell’agenda universale degli Obiettivi di sviluppo sostenibile», si legge nel documento, «questa edizione introduce un cambiamento nel modo di presentare gli aggregati globali e regionali. Salvo ove specificato, non c’è più una differenza fra paesi in via di sviluppo (definiti nelle precedenti edizioni come paesi a basso e a medio reddito) e paesi sviluppati (ad alto reddito). I raggruppamenti regionali sono basati sull’area geografica […] e il cambiamento ha due conseguenze: che c’è un nuovo aggregato per il Nord America e che l’Unione europea è inclusa negli aggregati per Europa e Asia centrale».

Già da anni l’espressione «in via di sviluppo» si accompagnava nei rapporti della Banca Mondiale alla precisazione che il suo utilizzo era una questione di brevità, non significava che tutte le economie così denominate sperimentassero uno sviluppo analogo e non faceva in alcun modo riferimento a una soglia di sviluppo preferibile o finale, unica e uguale per tutti, che alcuni stati del mondo avevano raggiunto e superato e altri no.

Le premesse di questo cambiamento erano emerse in un articolo firmato da Tariq Khokhar e Umar Serajuddin, rispettivamente data analist e economista statistico della Banca, pubblicato sul blog istituzionale della World Bank nel dicembre del 2015: «L’essere umano ha una naturale tendenza a fare delle categorie – scrivevano – ma la classificazione è un’arte, non una scienza esatta». I due funzionari citavano Hans Rosling, medico, statistico e accademico svedese, che in una conferenza del giugno 2015 aveva detto: «Ho un nuovo nome per il mondo in via di sviluppo: io lo chiamo “il mondo”. È il posto dove vivono sei su sette miliardi di persone, perciò il mondo in via di sviluppo è la stragrande maggioranza».

I limiti della categoria, insistevano i due autori, emergono chiaramente quando si guarda ad esempio ai tassi di mortalità infantile e di fecondità, considerati come indicativi del benessere complessivo di un paese. Negli anni Sessanta questi due indicatori ebbero un ruolo importante nel definire le due grandi categorie: i paesi sviluppati erano quelli dove il tasso di fecondità e quello di mortalità infantile erano più bassi mentre i paesi in via di sviluppo, presentavano i valori più elevati. Oggi, con l’eccezione di pochi paesi, mortalità infantile e fecondità sono diminuite ovunque.

Lo stesso vale per le classificazioni basate sul reddito o sulla soglia di povertà estrema, fissata a 1,90 dollari al giorno: che senso ha, si chiedono i due funzionari della Banca Mondiale, che il Malawi e il Messico si trovino nella stessa categoria quando il primo ha un reddito nazionale lordo pro capite di 250 dollari e il secondo di 9.860? O considerando che a vivere con meno di un dollaro e novanta centesimi al giorno sia in Malawi il settanta per cento della popolazione e in Messico meno del tre per cento?

Gli antenati: c’era una volta il Terzo Mondo

«Terzo Mondo» è un’espressione coniata dall’economista francese Alfred Sauvy in un articolo dell’agosto 1952 quando, sulla rivista L’Observateur, scriveva: «Parliamo spesso dei due mondi protagonisti, della loro guerra possibile, della loro coesistenza, dimenticando troppo sovente che ne esiste un terzo, il più importante, il primo in ordine cronologico. È l’insieme di quelli che chiamiamo, con lo stile delle Nazioni Unite, i paesi sottosviluppati».

Per «due mondi» si intendeva da una parte il gruppo di paesi e loro satelliti del blocco capitalista occidentale e dall’altra quelli del blocco comunista sovietico. Nei fatti, però, l’espressione «Terzo Mondo» finì per sottintendere e avallare soprattutto l’idea che una buona parte del pianeta fosse poco più di uno sfondo per la contrapposizione Usa-Urss; inoltre, dal momento che i paesi di questo gruppo erano per la maggioranza poveri, «Terzo Mondo» divenne sinonimo di povertà prima che di non-allineamento alle due superpotenze. Nel 2003, in un’intervista a L’Express, l’autore stesso sottolineava il malinteso: «Per noi», spiegava l’economista francese, «non si trattava di definire un terzo insieme di nazioni […]; era piuttosto un riferimento al Terzo Stato dell’Ancien Régime, a quella parte della società che si rifiutava di “essere niente”, come recitava il pamphlet dell’abate Sieyès. La nozione designa dunque la rivendicazione delle nazioni terze che vogliono entrare nella storia». Questa idea, proseguiva Sauvy, aveva però conosciuto una lunga eclissi e sembrava essere in ripresa con l’emergere, fra la fine del secolo scorso e l’inizio di questo, di paesi come l’India, il Brasile e il Sudafrica e del loro rivendicare una identità peculiare rispetto all’Occidente.

Nord e Sud del mondo

Altre definizioni, poi, si sono alternate negli anni: la dizione «Nord e Sud del mondo», a guerra fredda finita, riprendeva la linea Brandt – dal nome del cancelliere tedesco Willy Brandt, presidente della commissione che nel 1980 produsse un noto rapporto sullo sviluppo internazionale – e intendeva fotografare la nuova linea di confine. Questa non correva più lungo la cortina di ferro separando l’occidente dal blocco sovietico dell’Urss e dell’Europa orientale, bensì lungo la linea che scindeva i paesi industrializzati del Nord America, dell’Europa occidentale, dell’ex Unione Sovietica, del Giappone e di altri paesi dell’Estremo Oriente – si stavano nel frattempo affermando anche le cosiddette Tigri Asiatiche – dall’America Latina, dall’Africa e dal Medio Oriente. Altre suddivisioni, frequentate per la verità più dagli accademici e filtrate solo di rado fino alle pagine dei giornali e nei dibattiti pubblici, erano quelle legate alle teorie della dipendenza che parlavano di centro ricco e periferia sottosviluppata e attribuivano al primo un ruolo di sfruttamento della seconda.

Di questo bouquet di espressioni, «in via di sviluppo» è stata la più longeva anche perché metteva d’accordo più persone o, se non altro, ne scontentava meno. Il suo richiamare il movimento («in via di») risultava incoraggiante per tutti, sviluppandi e loro tutori, e teneva a bada i critici perché era comunque meglio di «sotto-sviluppato»; infine – dettaglio fondamentale – piaceva ai media, sempre avidi di termini agili (in inglese «in via di sviluppo» diventa developing: un solo, pratico aggettivo).

Sviluppo in crisi

Ma poi, e molto prima che la Banca Mondiale decidesse il cambio di lessico, ad andare in crisi è stato lo sviluppo stesso, attaccato da ogni lato da dati e fenomeni che lo negano, o almeno ne stravolgono la fisionomia per come l’abbiamo conosciuta finora.

L’aiuto pubblico allo sviluppo è pari a un terzo delle rimesse dei migranti; il Brasile, l’India, la Cina, il Sudafrica da paesi assistiti sono diventati potenze regionali; a detta di analisti come la zambiana Dambisa Moyo, i mille miliardi di dollari in aiuti riversati sulla sola Africa in cinquant’anni hanno in larga parte mancato l’obiettivo di migliorare le condizioni di vita degli africani e sono spesso finiti divorati da corruzione, spese di gestione e burocrazia kafkiana dei governi nazionali e delle istituzioni inteazionali.

E mentre, almeno in alcuni ambienti, ci si stava chiedendo se l’Occidente era poi davvero un modello di sviluppo, è arrivata la crisi finanziaria del 2008 a mostrare che il primo mondo, quello sviluppato, è molto più fragile e vulnerabile di quanto esso stesso pensasse di essere e ha al proprio interno sacche di povertà, emarginazione e degrado identiche a quelle dei paesi in via di sviluppo.

È in questo contesto che va collocata la decisione della Banca Mondiale di rivedere il lessico. I primi a riprendere la notizia sono stati paesi come l’India e il Messico, che la nuova classificazione «promuove» a paesi non più in via di sviluppo per il semplice fatto di non definire più nessuno stato come tale.

Che cosa cambia in concreto?

A dare retta a Charles Kenny, ricercatore presso il Centre for Global Development di Washington, alla variazione lessicale non si accompagna per ora un equivalente cambiamento della sostanza. Quello della Banca, avverte, è un piccolo passo e per di più traballante.

  • Innanzitutto, la suddivisione fra sviluppati e in via di sviluppo è ancora presente, eccome, nella versione on line – che sarà probabilmente la più consultata – del rapporto citato invece come spartiacque con il vecchio linguaggio.
  • Inoltre, aggiunge Kenny, la Banca continua nei fatti a decidere a chi concedere quali prestiti, dividendo i paesi del mondo in gruppi sulla base del reddito, li chiami o meno «in via di sviluppo».

Ed è esattamente questo il problema: servirebbe, piuttosto, una scala progressiva per cui ogni paese riceve l’aiuto di cui ha bisogno e nel contempo si impegna a dare il proprio contributo per risolvere i problemi globali. A maggior ricchezza maggior responsabilità e minor assistenza, insomma, non una rigida e binaria divisione fra stati «aiutanti» e «aiutati» a seconda che si trovino di qua o di là da una soglia di reddito.

Sana ironia

In attesa che si superi davvero la dicotomia e si conii eventualmente una nuova espressione, qualcuno sottolinea – con ironia – la necessità di un complessivo ripensamento del linguaggio dello sviluppo. L’organizzazione no-profit australiana WhyDev, ad esempio, indica «nove frasi dello sviluppo che odiamo (e i suggerimenti per un nuovo lessico)» [1].

Il capacity building? «Spesso è un eufemismo per dire che si stipano trenta persone in una stanza per un po’ di giorni e si cerca di ucciderle a forza di powerpoint, cartelloni e lavori di gruppo». L’espressione «in via di sviluppo»? «È semplicistico. Significa mettere i paesi del mondo in una scala da meno a più sviluppati, e lo scopo ultimo sarebbe quello di essere il più vicino possibile al nostro estremo della scala e il più lontano possibile dall’altro. E fidatevi, essere più vicini al nostro estremo significa somigliare ai Kardashian [famiglia statunitense di origini armene composta da imprenditori, attrici, modelle costantemente sulle riviste scandalistiche per i loro eccessi e lussi]. Nessuno può voler questo».

Il Development Research Institute dell’Università di New York è ancora più sarcastico nel suo dizionario dell’aiuto (AidSpeak Dictionary) [2]. La vera definizione di «sensibilizzare»? «Dire alle persone quello che devono fare». Gli «Obiettivi delle Nazioni Unite»? «Inventarsi soluzioni per problemi che non capiamo, pagando con soldi che non abbiamo». E che cosa intende davvero un professionista dello sviluppo quando dice di essere un esperto? «Beh, che ho letto un libro sul tema durante il volo».

Chiara Giovetti

[1] Weh Yeoh, Brendan Rigby and Allison Smith, 9 development phrases we hate (and suggestions for a new lexicon), in whydev.org, 13/09/2012.

[2] The AidSpeak Dictionary, in wp.nyu.edu, 19/09/2011.




Singapore sovrano regna l’ordine


Stretto tra la Malesia e l’Indonesia, Singapore è uno degli stati del pianeta con più alti redditi, efficienza sociale ed economica, bassissima corruzione. Goveato per oltre 30 anni da Lee Kwan Yew e oggi da suo figlio Lee Hsien Loong, è un paese in cui patealismo, dispotismo e confucianesimo hanno prodotto una limitazione dei diritti civili a cui la popolazione (5,5 milioni di persone appartenenti a tre etnie) pare assuefatta. Sull’immediato futuro incombono poi altri due problemi molto concreti: l’aumento demografico e la mancanza di spazi.

Per sopravvivere bisogna essere eccezionali, ha detto lo scorso maggio Lee Hsien Loong, primo ministro di Singapore. E ammirando al crepuscolo le luci che iniziano a illuminare la piccola città stato asiatica dall’alto del Marina Bay Sands1, non si può fare a meno di convenire che Singapore è una nazione eccezionale. Non per niente l’aggettivo è uno dei vocaboli più utilizzati nella retorica politica cittadina.

Dallo Sky Park2 o dall’Infinity Pool3 la vista spazia a 360 gradi tra cantieri navali, enormi distese di verde e la downtown. Cerco di individuare, inutilmente, il punto in cui, due secoli fa, Sir Thomas Raffles, l’inglese ritenuto essere il fondatore della modea Singapore, sbarcò dall’Indiana, la nave comandata dal capitano James Pearl. Chissà cosa direbbe vedendo come si è trasformato il minuscolo e insignificante porticciolo di poche centinaia di abitanti in cui, nel 1819, era arrivato.

La sua statua, un tempo punto obbligato delle visite turistiche, oggi è pressoché ignorata, schiacciata e umiliata dai grattacieli a cui porge la schiena, quasi a significare l’incomprensione verso quegli alberi di cemento che hanno preso il posto delle palme. Lo sguardo di Raffles si dirige, invece, verso il parlamento e il museo della Civilizzazione asiatica. Il suo nome, del resto, per la maggior parte degli stranieri che scorrazzano per le vie della città, è associato più al candido ed elegante albergo di lusso (il Raffles Hotel) che si affaccia a pochi isolati dal Boat Quay4 piuttosto che al governatore britannico.

Agosto 1965: via dalla Malesia

Colonia britannica dal 1867 al 1962, è la storia stessa ad aver reso Singapore eccezionale, a partire da quel drammatico giorno del 9 agosto 1965, quando il leader Lee Kuan Yew con le lacrime agli occhi annunciò al mondo la separazione del territorio dalla Federazione malese dopo soli due anni. Allora furono in molti a prospettare un futuro di miserie e tribolazioni per la neonata nazione. Priva di risorse naturali e dipendente quasi totalmente dalla Malesia per il rifoimento idrico, il governo dell’isola si trovava in balìa di ritorsioni dall’esterno, nel caso la sua politica avesse irritato Kuala Lumpur.

Nel libro autobiografico The Singapore Story, Lee Kuan Yew denunciava la minaccia dell’allora primo ministro malese Tunku Abdul Rahman di chiudere i rubinetti del canale che da Johor portava l’acqua a Singapore se il governo di questo paese avesse adottato azioni aggressive nei confronti della Malesia.

Inoltre la città si trovava a punzecchiare, come una punta di spillo, un altro colosso asiatico: quell’Indonesia che si accingeva a epurare Sukao e il movimento comunista, particolarmente radicato anche a Singapore. Suharto, che prese il potere con un sanguinoso colpo di stato, era pronto a intervenire nel caso i comunisti fossero andati al potere nella neonata nazione.

Ma, cosa ben più allarmante per uno stato multirazziale, la vigilia dell’indipendenza era stata funestata da manifestazioni sfociate in violenti disordini etnici che, se non sedati, avrebbero potuto far piombare la repubblica in un caos difficilmente controllabile e decretae la fine ancor prima della nascita. La comunità cinese di Singapore si sentiva seriamente minacciata da quella malay, mentre, da parte sua, l’Umno (United Malays National Organisation), il partito di governo malese, temeva che la forza economica di Singapore deviasse il baricentro politico da Kuala Lumpur.

Sviluppo e pugno di ferro

Eppure cinquant’anni dopo Singapore continua a rimanere uno degli stati più benestanti del pianeta, con un reddito pro capite doppio rispetto a quello della Gran Bretagna, la nazione che per due secoli ha colonizzato la città asiatica, accompagnato da indici di sviluppo umani tra i più alti al mondo, una corruzione bassissima e un’efficienza sociale ed economica elevata. Insomma, un’eccezione del mondo asiatico che si traduce in un mercato affidabile per gli investimenti stranieri, che nel 2015 hanno raggiunto il 22% del Pil.

A trainare lo sviluppo è stato lo stesso Lee Kwan Yew, padre-padrone di Singapore, che ha governato con un misto di patealismo, dispotismo e confucianesimo. Opposizioni imbavagliate, censura, restrizioni nelle assemblee pubbliche che coinvolgono più di dieci persone, sono i mezzi che il governo ha utilizzato e utilizza ancora oggi per mantenere l’ordine cittadino in nome dell’armonia e della pacifica convivenza. Il pugno di ferro è servito per mantenere unite le diverse comunità etniche di cui è composta la nazione e a evitare la disgregazione sociale e politica. Le differenze culturali, linguistiche e religiose tra le principali etnie (cinesi, malay, indiani) si ripercuotono, anche se in misura meno evidente di quanto avvenga in Malesia, sulle condizioni economiche. Lavoratori sfruttati con la complicità di diritti sindacali inesistenti hanno nutrito le recriminazioni delle varie comunità, in particolare quella indiana. Nel 2013 a Little India, uno dei quartieri più disagiati di Singapore, vi sono stati violenti scontri.

Di padre in figlio

La scomparsa di Lee Kwan Yew, avvenuta nel marzo del 2015, è stato un colpo emotivo per tutti gli abitanti, ma soprattutto per i partiti dell’opposizione parlamentare che, dopo il calo di voti nelle elezioni del 2011 del «Partito di azione popolare» (Pap), il partito che domina incontrastato la scena politica della Repubblica dal 1959, speravano di incrementare la loro già misera schiera di deputati nel parlamento. Così non è stato: anche se dalla politica si era ritirato ufficialmente sin dal 1990, la dipartita di Lee Kwan Yew ha trascinato ad una nuova schiacciante vittoria il Pap, che nelle votazioni del settembre 2015 ha ottenuto il 70% delle preferenze occupando 83 seggi su 89.

L’immensa folla di persone che ha partecipato alle esequie e ha sfilato per ore davanti alla salma, è stata la dimostrazione del successo della retorica nazionalista adottata dal fondatore di Singapore sin dal giorno della sua indipendenza.

Prima di morire, da buon autocrate, Kwan Yew si è assicurato che il potere restasse saldamente nelle mani della famiglia, manovrando affinché il posto di primo ministro passasse al figlio, Lee Hsien Loong, sin dal 2004, anno in cui il reddito pro capite del paese superò addirittura quello degli Stati Uniti.

Questa mancanza di alternanza al potere ha causato una pericolosa assuefazione al totalitarismo e al rifiuto, anche di parte della popolazione più anziana, di aperture democratiche nel sistema.

Oggi, però, Singapore deve cominciare a fare i conti con il proprio futuro: il sistema scolastico, giudicato tra i migliori in Asia, ha formato una classe di nuovi cittadini più colta e attenta ai mutamenti culturali e politici inteazionali che difficilmente accetterà la politica assolutistica e dispotica del governo.

Immigrazione e spazi

La scarsa dimestichezza con il pluralismo rappresenterà una delle principali sfide per la nazione assieme ad altri due temi scottanti e strettamente correlati tra loro: l’immigrazione e la mancanza di spazio per una popolazione in continua crescita.

Ai ritmi attuali e con una politica di attenta e severa pianificazione dei flussi migratori, la popolazione di Singapore potrebbe, già nel 2030, subire una rivoluzione demografica. Attualmente, secondo il dipartimento di Statistica, il 74,3% della popolazione singaporeana è di etnia cinese, seguita da quella malay (13,3%) e indiana (9,1%). Nel giro di tre lustri, però, metà della popolazione potrebbe essere composta da immigrati, il che ha generato forti preoccupazioni, specie nella comunità cinese, sfociate in manifestazioni di protesta contro la politica immigratoria imposta dal governo. Ad aumentare le tensioni ci sono state le dichiarazioni del ministro dell’Inteo, Kasiviswanathan Shanmugam, il quale, commentando i recenti attacchi terroristici di Bruxelles, ha detto che, per quanto riguarda Singapore, non è più questione se ci sarà o meno un attacco terroristico, ma quando questo avverrà. Il segretariato per la Sicurezza nazionale, l’organismo creato per combattere il terrorismo in città, ha smantellato con successo diverse cellule locali di Jemaah Islamiah, il movimento legato a Abu Sayyaf responsabile dell’attentato di Bali nel 2002 che causò la morte di 202 persone, ma ha anche fatto sapere che altri militanti sono attivi in diversi paesi del Sud Est asiatico.

Infine c’è il pressante e costante dilemma dell’aumento di popolazione e del continuo bisogno di spazio. Nel 1965, all’atto dell’indipendenza, Singapore aveva 1,9 milioni di abitanti e una superficie di 581 kmq. Oggi, a cinquant’anni di distanza, la popolazione ha raggiunto i 5.535.000 di abitanti, di cui solo il 61% (3,37 milioni) sono cittadini della repubblica. Per far fronte all’aumento demografico, principalmente dovuto all’immigrazione, il governo ha avviato una imponente opera di bonifica, accrescendo le aree abitabili del 23% sino a raggiungere l’attuale superficie di 720 kmq e progettando un ulteriore allargamento di 100 kmq entro il 2030. Al tempo stesso, le rigide leggi ambientali autornimposte dal governo, assegnano il 10% del territorio a parchi e riserve naturali.

Nazione minuscola, ma ben armata

Per economizzare l’utilizzo degli spazi, anche le forze aeree del paese hanno istituito sette basi in tre nazioni alleate (una in Francia, quattro negli Stati Uniti e due in Australia). E proprio sulle forze armate Singapore ha puntato, sin dalla sua estromissione dalla Federazione malese, per garantire la propria indipendenza dal pericolo malese e indonesiano. Nonostante che la nazione sia minuscola in confronto con i vicini, la sua capacità militare è tra le più organizzate e preparate della regione, anche grazie alla stretta collaborazione instaurata con Israele, scelto come principale consulente in materia militare. Nel 2015 Singapore ha aumentato del 5,7% il bilancio per la Difesa, raggiungendo i 13,12 miliardi di dollari (il doppio di quanti ne spenda la Malesia), pari al 3,3% del Pil.

Pochi, in verità, a Singapore si lamentano dell’ingente flusso di denaro che viene incanalato nel ministero della Difesa, anche perché molte industrie presenti sul territorio collaborano, direttamente o indirettamente, con i militari.

Singapore è una città eccezionale, ma nella sua unicità ha anche molte sfaccettature che aprono molti interrogativi sulla sostenibilità di uno sviluppo così avanzato in un territorio ristretto. Il governo, inoltre, a fronte del massiccio impiego di forza lavoro da altri paesi, dovrà anche rivedere il concetto di singaporeanità.

Le aperture democratiche che inevitabilmente dovranno essere messe in atto nei prossimi anni, produrranno terreno fertile per la nascita di organizzazioni e individui che chiederanno il rispetto dei diritti civili, ma rappresenteranno anche uno spiraglio verso quei movimenti meno pacifici che da tempo cercano di sfruttare la perfetta logistica del paese asiatico al fine di trarre vantaggio per le loro azioni propagandistiche.

Su questi temi da tempo Singapore sta chiedendo la collaborazione delle nazioni dell’Asean (l’Associazione degli stati del Sud Est asiatico) senza, però, trovare intese.

Piergiorgio Pescali