Reportage da Mosul: Le bombe non conoscono religione


Dalla famosa moschea di Al-Nuri, oggi distrutta, Al-Baghdadi ha fatto conoscere al mondo l’Isis (il Daesh). Era il 4 luglio del 2014. Mosul è stata liberata tre anni dopo, il 9 luglio 2017. Di quella città oggi è rimasto un gigantesco cumulo di macerie e migliaia di persone senza casa. E senza attenzione mediatica: Mosul ormai è sparita dalle prime pagine.

Testo e foto di Angelo Calianno

Nell’estate del 2014 gli uomini dell’Isis entrano nella città di Mosul, in Iraq. Dalla grande moschea di Al-Nuri, il terrorista Abu Bakr Al-Baghdadi si autoproclama «Califfo dello Stato islamico» e dichiara il jihad contro l’Occidente.

L’occupazione di Mosul dura tre anni. Anni in cui chiunque non rispetti le rigide regole degli uomini dell’Isis, chiunque non sia musulmano sunnita, chiunque non si vesta in modo appropriato o semplicemente abbia un’antenna satellitare o ascolti musica occidentale, viene severamente punito, torturato, a volte ucciso.

Molti fuggono con la famiglia e chi non ce la fa, cerca di uscire il meno possibile da casa, sopravvivendo come può.

Come la città di Kirkuk per il petrolio, Mosul è una città chiave in Iraq per le sue riserve d’acqua. A circa 50 km da qui infatti sorge la diga di Mosul, la più grande del paese e la quarta in tutto il Medioriente. La diga, che sbarra il corso del Tigri, prima dell’occupazione forniva energia elettrica a due milioni di persone, nonché acqua per l’agricoltura in tutta la provincia. Continuamente a rischio crollo fin dalla sua costruzione, dal 2016 vede delle aziende italiane impegnate nella sua riparazione tra cui la Trevi (di Cesena) e la Bdm (di Roma). Nel 2016, dato l’elevato rischio della zona, gli operai lavoravano protetti da 500 bersaglieri del Sesto reggimento di Trapani (sostituiti da altri reggimenti ogni sei mesi).

Dagli Assiri a Saddam Hussein

La città di Mosul viene finalmente liberata il 9 luglio 2017. La liberazione avviene per mano di una coalizione guidata da raid aerei degli Stati Uniti con il supporto terrestre delle milizie curde dei peshmerga e dell’esercito iracheno.

Quella che verrà denominata «la battaglia di Mosul» dura nove mesi, gli ultimi tre in particolare sono quelli più intensi, con gli scontri più aspri e sanguinosi. Questi mesi verranno poi ricordati come i «100 giorni di Mosul».

Il numero dei «danni collaterali» è drammatico. Non si sa con precisione quanti civili rimangano uccisi durante i bombardamenti, ma le stime parlano di oltre 500 persone decedute e oltre 300 mila senza una casa. Gran parte della città, specialmente il suo centro storico, oggi è un cumulo di macerie.

Fondata dagli Assiri sulle rive del Tigri, poi conquistata dagli Arabi, occupata dai Mongoli, dominata dagli Ottomani, a Mosul hanno convissuto per secoli cristiani, musulmani, yazidi, armeni, curdi ed ebrei. Qui, nel 1743, migliaia di uomini di religioni diverse si coalizzarono e combatterono con successo contro lo Shah di Persia che aveva deciso di invadere la città.

Prima dell’occupazione dell’Isis, Mosul aveva 38 quartieri, ognuno con una propria connotazione e un proprio mercato, un’incredibile alternarsi di moschee e chiese a pochi passi l’una dall’altra, come quelle di Al-Tahira e di San Tommaso. Proprio dell’apostolo Tommaso si dice che sia vissuto qui durante il suo viaggio verso l’India. Qu, inoltre, c’erano gli antichissimi mausolei di Giona e San Giorgio, anche questi distrutti dall’Isis. Conosciuta come «la Città dei profeti», è stata meta di carovanieri e viaggiatori come Ibn Jubayr (1145-1217), che nel suo libro Il Viaggio di Ibn Jubayr, scritto nel 1185, ne descrisse la bellezza e particolarità.

La parola Mosul deriva da Al Mawsil che vuol dire «collegamento» o «unione», perché questo è stata per secoli, un ponte tra Iraq, Turchia, Siria e Kurdistan, almeno fino ai giorni nostri.

Mosul comincia a vivere un grande cambiamento durante il regime di Saddam Hussein. Nel 1980 Saddam dichiara guerra all’Iran e attua quello che diventa un processo di «arabizzazione» dello stato, molte famiglie non sunnite scappano in Turchia e Siria. Inoltre, per non essere inviati in guerra, fuggono oltre confine anche moltissimi curdi e yazidi. In due decenni la popolazione sunnita di Mosul raggiunge l’80%. Questa maggioranza renderà la conquista di Mosul, da parte del califfato, ancora più semplice, come vedremo tra poco.

Raccontare Mosul

Entro a Mosul in automobile. Per arrivarci dal Kurdistan supero cinque check point: due dei quali peshmerga, le milizie curde, uno delle forze di sicurezza irachene e uno dell’esercito iracheno.

Il livello dei controlli di sicurezza è ancora molto alto, in uno dei posti di blocco intervisto Mohammed, un peshmerga che ha combattuto contro l’Isis.

Gli chiedo il perché di così tanta sicurezza, visto che Mosul è stata liberata. «Ci sono – mi spiega – ancora molte cellule dormienti da queste parti, non tutti i terroristi sono stati sconfitti, alcuni semplicemente sono scappati e si nascondono».

«Mohammed, tu sei curdo e peshmerga. Hai combattuto in territorio iracheno per liberare delle città. Tra voi e gli iracheni di origine araba c’è sempre stata un po’ di diffidenza, come ti sei sentito in quei giorni a questo proposito? – gli domando -. E poi quanto è stato difficile combattere contro l’Isis?».

«Hai ragione – replica Mohammed -, tra di noi i rapporti non sono stati sempre buonissimi, ma più per ignoranza. Quando ci siamo trovati a combattere fianco a fianco con i soldati iracheni alla fine abbiamo fatto amicizia, poi noi peshmerga combattiamo sempre contro gli invasori. Quando sono arrivati quelli del califfato per difendere le città sono accorsi vecchi peshmerga da tutti i villaggi curdi del paese, tutti pronti ad andare in prima linea, alcuni avevano 70 anni.

Devo dire che i primi mesi di combattimento sono stati difficili, ma solo per il fatto che loro erano davvero ben armati. Avevano armi automatiche e mezzi pesanti, noi spesso ci guardavamo negli occhi e ci chiedevamo da dove venissero tutte quelle armi, chi le aveva date ai Daesh? Le cose sono cambiate quando siamo stati dotati di Milan tedeschi (razzi anticarro, ndr), allora abbiamo cominciato a respingerli e guadagnare terreno. Gli uomini del Daesh non erano poi questi grandi combattenti, molti di loro erano spesso sotto l’effetto di sostanze stupefacenti. Una volta ben equipaggiati e con l’aiuto del supporto aereo, abbiamo combattuto e vinto».

Quando imbocco la strada principale di Mosul si nota subito la devastazione. L’ingresso è una grande discarica di rifiuti dove pascola qualche capra. Più oltre si vedono gli scheletri dei palazzi sventrati dai bombardamenti.

Il prezzo pagato dai civili

Il mio interprete si chiama Sardar Abudlahh, ha lavorato qui con i giornalisti arrivati durante e dopo la liberazione, mi racconta:

«I giorni dopo la liberazione arrivarono qui in tantissimi, Tv straniere e giornalisti. Entravano in città dentro le jeep dell’esercito e posavano facendosi fotografare con elmetti e giubbetti antiproiettile militari. In realtà poi facevano solo qualche minuto di registrazione e andavano via, pochissimi sono andati tra i vicoli a parlare con la gente di questo luogo, chiedendo quale fosse il loro stato d’animo dopo la liberazione.

Le vittime civili sono state tantissime, Mosul è stata liberata sì, ma a che prezzo? Alla gente che ha perso la famiglia per colpa dei bombardamenti, alla gente che non aveva colpa di questa guerra, quasi nessuno ha chiesto che cosa avesse da dire.

C’è stata anche una grande campagna mediatica attorno a tutto questo. In quei giorni sembrava che l’unica cosa importante da dire fosse: siamo degli eroi, abbiamo sconfitto i terroristi del Daesh e riconquistato Mosul! I giornalisti hanno continuato a venire per i successivi due mesi, poi pian piano hanno cominciato a dimenticarsene, come vedrai tu stesso per le strade».

Nessuno qui chiama gli uomini del califfato «Isis» ma «Daesh» (acronimo di Al Dawla Al Islamiya fi al Iraq wa al Sham, Stato islamico dell’Iraq e della Siria). Per la gente del luogo la parola «Isis» risulta offensiva perché la connotazione «Stato islamico» potrebbe far pensare che tutto l’islam sia coinvolto con il terrorismo. Chiunque incontri ci tiene molto a ribadirmi questo concetto.

Camminando per i vicoli distrutti della città vecchia di Mosul vedo tanti ragazzini che scavano tra le macerie: cercano rame, ferro, acciaio, qualsiasi cosa possano poi rivendere per qualche dollaro.

La settimana prima del mio arrivo, mi raccontano, un bambino di 6 anni è saltato in aria per aver calpestato una bomba, fino a quel momento inesplosa. Questi incidenti sono molto comuni, più volte gli agenti di polizia mi ribadiscono di non entrare troppo all’interno degli edifici crollati, per l’elevato pericolo di esplosioni o cedimenti.

Le storie di Mahmoud e Amir

In uno dei tanti vicoli incontro Mahmoud. Nato e cresciuto qui, non ha mai voluto abbandonare Mosul, mi mostra le cicatrici inferte da un coltello e racconta:

«Queste me le hanno fatte i Daesh, dicevano che i miei pantaloni erano troppo corti, così mi hanno portato nella chiesa armena che usavano per le esecuzioni. Pensavo che mi avrebbero ucciso, poi mi hanno picchiato e con un coltello, mi hanno fatto questi tagli sulle caviglie. Così dovrò ricordare per sempre di indossare pantaloni più lunghi».

Mahmoud conosceva tutti in questo lato della città, camminando per le rovine mi racconta porta per porta la storia delle famiglie che ci abitavano, fino ad arrivare a quella che era casa sua. Anche lui ha perso una figlia, l’ultima nata della famiglia, aveva 5 anni. Mi mostra commosso una piscina gonfiabile, unico oggetto rimasto dei giocatoli della piccola. Subito dopo si fa molto serio e comincia a imprecare contro i terroristi e contro l’America. Urlando mi dice:

«I miliziani del Daesh avevano occupato questa che era casa nostra e poi gli americani con le loro bombe hanno distrutto tutto. Le bombe americane hanno ucciso mia figlia e tanti ancora sono sotto le macerie ed è impossibile tirarli fuori. Perché? Cosa abbiamo fatto noi? Io avevo amici cristiani, eravamo tutti amici, vivevamo in pace, noi non siamo terroristi, perché?».

Ci vuole un po’ di tempo per far calmare Mahmoud e continuare a camminare insieme. Dopo ogni vicolo, a noi si aggiunge qualcun altro: sono le persone che vogliono raccontare la propria storia. Vogliono ribadirmi che loro non hanno niente a che fare con i terroristi estremisti, che l’islam è una religione di pace.

Tra le persone che si sono aggiunte al nostro cammino c’è Amir. Ha lavorato per anni come falegname, anche lui ha perso casa e la bottega durante i raid americani. Amir mi mostra le rovine di una scuola e, con le lacrime agli occhi, mi dice che lì ci andava suo figlio, anche lui morto durante i bombardamenti, aveva 8 anni.

Racconta: «In questa scuola ci andavano sia cristiani che musulmani, siamo sempre stati rispettosi delle idee e religioni altrui, poi sono arrivati i miliziani del Daesh e poi le bombe».

Fa un gran sorriso e conclude: «Le bombe non conoscono religione».

Mentre saluto Amir si avvicina un uomo, si chiama Fares Abdurazal. Mi dice che si è sparsa la voce che sto intervistando persone per la città e vuole raccontarmi anche lui qualcosa.

Storia di Fares

Fares lavora per il municipio di Mosul, si occupa di registrare e controllare gli indirizzi di residenza. Gli chiedo perché Al-Baghdadi e i suoi uomini hanno scelto di conquistare proprio Mosul e come hanno fatto a rimanerci così tanto.

Mi risponde: «Non è che gli uomini del Daesh volessero conquistare solo Mosul, loro volevano conquistare quanto più potevano. Ci sono riusciti meglio qui perché la maggior parte delle persone è di fede sunnita, e purtroppo all’inizio hanno trovato molto supporto in questa maggioranza. Vedi, molti sono in disaccordo con il governo iracheno dominato dagli sciiti. All’inizio tanti hanno visto negli uomini del Daesh la speranza di ristabilire un governo sunnita e un islam più tradizionale. Anche durante il periodo di Saddam si verificò la stessa cosa, essendo sunnita, prese tantissimi voti da Mosul».

«E tu durante giorni delle battaglie dov’eri? Cosa facevi?», gli domando. «Io mi sono dovuto nascondere. Ero ricercato dai miliziani del Daesh come tutti quelli che lavoravano per il governo. Insieme a yazidi e cristiani eravamo il primo bersaglio. Sono scappato con la mia famiglia prima sulle montagne e poi in Kurdistan. Sono tornato perché questa è casa mia e spero che un giorno questa città possa essere ricostruita». Gli chiedo ancora: «Mi hai detto che qui i terroristi hanno avuto molto supporto, so che alcune persone di Mosul si sono arruolate nelle loro file, è vero? Tu ne conosci qualcuno?». «Purtroppo è vero, la maggior parte però veniva dai piccoli villaggi di campagna piuttosto che dalla città, era più facile fare il lavaggio del cervello a loro. Molti poi hanno scoperto quali erano le vere intenzioni dei miliziani del Daesh, hanno visto come agivano, ma a quel punto era troppo tardi per tirarsene fuori, ora sono morti o in galera. Io ne conoscevo alcuni, si sono uniti ai terroristi perché erano ignoranti, noi sapevamo che sarebbero stati una disgrazia. Hanno portato anche vergogna alle loro famiglie perché adesso anche loro sono sotto controllo, 24 ore al giorno. Magari sono innocenti, ma il governo teme che si risveglino cellule dormienti e io so che ce ne sono ancora tante».

«Tu lavori per il governo locale, c’è un piano di ricostruzione?». «Una proposta per un piano di ricostruzione venne fatta subito dopo la liberazione ma, come vedi, non è stato fatto nulla. Non penso che il governo iracheno riuscirà mai a ricostruire qualcosa senza un aiuto dall’estero, ma penso che nemmeno quello arriverà. Sembra che si siano tutti dimenticati di Mosul». Poi aggiunge: «Io credo che sia l’America quella che dovrebbe ricostruire Mosul. Io non ce l’ho con gli americani, ma sono loro che hanno distrutto la città con i bombardamenti. È vero: ci hanno aiutato a sconfiggere il Daesh, ma non dimenticarti che hanno anche ucciso più di 500 innocenti e tanti sono ancora sotto le macerie. Le chiamano vittime collaterali, ma erano le nostre famiglie e amici. Non ce l’ho con loro, ma chi distrugge poi dovrebbe ricostruire. Sarebbe un bel gesto e per noi vorrebbe dire tantissimo».

Succo di melograno (ma nessuna ricostruzione)

Mosul oggi versa in uno stato di povertà estrema: non essendoci ricostruzione, non c’è lavoro. Sono circa 300mila le persone che sono scappate da qui. Tanti vanno a Erbil, capitale del Kurdistan, sperando di trovare un lavoro, altri tentano di passare illegalmente il confine con la Turchia.

Le Nazioni Unite hanno stimato che per ricostruire la città sarebbe necessario un miliardo di dollari. Purtroppo, Mosul non è l’unica emergenza che necessita di aiuti umanitari in Iraq. C’è un altissimo numero di rifugiati che arriva dalla Siria, senza contare i cosiddetti «rifugiati interni», cioè tutte quelle persone a cui è stata distrutta la casa o il villaggio durante l’occupazione dell’Isis e che – da quattro anni – vivono nelle tende, nei campi profughi.

Una cosa che non ho incontrato a Mosul, a differenza di molti altri luoghi in guerra, è stato qualcuno che mi chiedesse denaro per strada, cosa molto comune in situazioni del genere. Ho trovato invece nei racconti della gente, insieme alla tristezza, molta fierezza. Ho trovato molta ospitalità, gentilezza e anche i primi segni di speranza.

A gennaio 2019 l’Università di Bologna ha annunciato una campagna di scavo archeologico sulle rovine di Ninive, l’antica capitale Assira che sorgeva proprio nell’odierna Mosul.

La Trevi ha vinto un ulteriore appalto per il prolungamento dei lavori sulla diga di Mosul, fondamentale per l’approvvigionamento idrico ed elettrico della città, che – al momento – continua a essere dipendente dai generatori diesel.

Fuori dal centro storico distrutto un piccolo nuovo centro sta rinascendo, i commercianti hanno trovato uno spazio dove sistemare il bazar, i giovani sono tornati a iscriversi all’Università e i ragazzini salgono in cima alle colline per farsi dei selfie con la valle del Tigri alle spalle. Le giovani coppie sulle panchine bevono succo di melograno fresco comprato dai venditori ambulanti, che piano piano stanno riprendendo a vendere i propri prodotti in giro.

Scene di vita normali in un luogo che, negli ultimi anni, di normale ha avuto pochissimo.

Lasciando Mosul, tra i saluti e le raccomandazioni di chi ho intervistato, mi si chiede di raccontare di come sono stato accolto. Mi si chiede di dire, a chi incontrerò, che qui sognano un giorno di ospitare nuovamente viaggiatori e scambiare con loro due chiacchiere davanti a un bicchiere di tè. Sperando che Mosul possa tornare quello che è stata, un collegamento tra genti e culture diverse.

Angelo Calianno

L’autore

Nato a Cisternino (Brindisi), Angelo Calianno da anni scrive da luoghi in conflitto in Medioriente, Asia e Africa. Per MC ha scritto un reportage dall’Afghanistan pubblicato a maggio 2018 e reperibile sul sito della rivista.


Cronologia essenziale

Mosul, non rimasero che macerie

 

  • 1916, Maggio – Alla dissoluzione dell’Impero ottomano, Francia e Inghilterra si dividono i territori del Medio Oriente (accordi di Sykes-Picot). All’inizio Mosul, praticamente più vicina alla Siria che a Baghdad, è sotto il controllo francese. Il crescente interesse per il petrolio iracheno da parte degli inglesi, porta, dopo una serie di trattative, al passaggio della città sotto il controllo del Regno Unito.
  • 1932 – Il Regno Unito instaura una monarchia sotto il proprio controllo. Nasce lo stato dell’Iraq.
  • 1950 – Dopo la creazione di Israele, le famiglie ebree di Mosul lasciano la città per emigrare nel nuovo stato.
  • 1967 – Mosul fonda la sua Università, la seconda più grande in Iraq dopo quella di Baghdad.
  • 1979, Luglio – Dopo diversi tentativi di colpi di stato sin dalla fine degli anni ‘60, il governo iracheno viene rovesciato da Saddam Hussein, che rimarrà al potere per oltre 20 anni. Di fede sunnita, Saddam riceve molti consensi dalla città di Mosul.
  • 1980, Settembre – L’Iraq dichiara guerra all’Iran (sciita). Molti dei curdi (soprattutto di fede cristiana), sciiti e yazidi, fuggono da Mosul per non essere mandati al fronte. La maggior parte si rifugia in Siria e Turchia.
  • 2003, Marzo – Gli Stati Uniti e gli alleati invadono l’Iraq (seconda Guerra del Golfo). Oltre Baghdad, gli altri punti cardine dello stato sono Kirkuk, per le risorse petrolifere e Mosul per quelle idroelettriche, petrolifere e logistiche. I dintorni di Mosul sono teatro di scontri tra le forze leali a Saddam Hussein e i soldati statunitensi, coadiuvati dalle milizie peshmerga. Nell’aprile 2003 le forze governative irachene sconfitte abbandonano Mosul. Le forze speciali americane tengono sotto controllo la città per poi lasciarla sotto il presidio peshmerga.
  • 2014, Giugno – Gli uomini dell’Isis occupano Mosul e ne fanno la loro capitale simbolica. Rimangono nella città fino alla sua liberazione del luglio 2017. Durante questa occupazione stilano una propria «Costituzione» da far rispettare agli abitanti della città. Per chi si oppone sono previste punizioni fisiche e detenzione; per le violazioni giudicate più gravi, si viene giustiziati.
  • 2017, Luglio – Dopo mesi di assedio, Mosul è liberata. Difficile dare una stima della sua popolazione attuale: un grande numero di persone, registrate come residenti, in realtà si è spostato a Erbil, per cercare lavoro, o illegalmente in Turchia. Le ultime stime del 2017 contavano 1 milione e 377 mila abitanti; altri 700 mila sono scappati o sono stati uccisi durante la guerra contro l’Isis. Oggi la maggior parte della città e della sua economia sono da ricostruire.

Angelo Calianno

Fonti: BBC World, Washington Post.


I protagonisti della battaglia di Mosul

Al-Baghdadi, i Peshmerga e gli altri

Al-Baghdadi – Il suo vero nome è Ibrahim Awwad Ibrahim Al-Badri, nato a Samarra in Iraq nel 1971. Al-Baghdadi nasce da una famiglia della classe media irachena di fede sunnita. Cresce in un sistema sociale tribale diviso in clan, il suo in particolare si dichiara direttamente discendente del profeta Maometto. Per la sua stretta osservanza delle regole islamiche viene soprannominato dai suoi familiari «il credente». Prosegue poi gli studi della fede islamica fino a prendere una laurea con specializzazione sugli studi coranici all’Università di Baghdad. Dopo la laurea insegna in alcune moschee attorno Baghdad, ma nel 2003 Al-Baghdadi diventa a tutti gli effetti un militante combattente. Viene successivamente arrestato a Falluja e imprigionato per 10 mesi a Camp Bucca, prigione irachena gestita dagli Usa.

Durante la prigionia predica il Corano con lunghi sermoni sull’islam e la guerra contro l’Occidente, proprio in carcere comincia ad avere i primi seguaci. Durante la detenzione conosce anche alcuni di quelli che successivamente saranno i suoi uomini in Siria. Una volta libero, combatte in Siria a fianco del gruppo terrorista Al-Nusra. Fonda l’Isis, che, dopo varie divergenze, viene espulso da al-Qaeda.

Il nuovo gruppo comincia a conquistare territori nell’Est della Siria e nell’Ovest dell’Iraq, fino a Mosul, dove – nel luglio del 2014 – Al-Baghdadi, davanti alle telecamere, si auto proclama Califfo dello Stato islamico.

Nell’estate del 2017 la Russia dichiara la morte di Al-Baghdadi, ucciso in un raid aereo a Raqqa, in Siria. Tuttavia, non ci sono prove evidenti. Il 23 agosto 2018 viene divulgato un audio con la voce del leader dell’Isis che incita alla lotta contro gli infedeli. Anche se l’audio non è mai stato autenticato, molti pensano che Al-Baghdadi sia ancora vivo e si nasconda tra Siria e Iraq.

Peshmerga – I peshmerga sono dei combattenti e guerriglieri curdi. Il loro gruppo pare si sia formato dopo il crollo dell’Impero ottomano agli inizi del 1900. Per anni gruppo di guerriglieri indipendenti sono diventati, di fatto, l’esercito della regione indipendente del Kuridstan in Iraq. I peshmarga annoverano tra le proprie file anche diverse donne che hanno combattuto, oltre che contro l’Isis, anche a fianco degli Stati Uniti contro Saddam Hussein nel 2003. La parola peshmerga vuol dire letteralmente «prima morte» e sta a significare la volontà di essere sempre i primi a combattere, a sacrificarsi e pronti a morire.

Italia in Iraq – Il totale delle forze di coalizione anti-Daesh, tra Iraq e Siria, è di 74 nazioni. La presenza italiana è la seconda come numero, subito dietro a quella degli Stati Uniti. Oggi l’Italia ha 700 soldati e 100 carabinieri dislocati su 11 basi. Il contingente italiano si occupa dell’addestramento e formazione delle truppe locali, nonché dello sviluppo e installazione di sistemi di sicurezza. Molti dei peshmarga curdi sono stati addestrati dagli italiani nella base di Erbil.

Coalizione anti Isis – La coalizione per la liberazione di Mosul fu guidata dagli aerei statunitensi con la partecipazione dell’aviazione australiana, il supporto delle forze armate irachene e quelle curde dei peshmerga. Il primo febbraio 2019 l’Australia ha ammesso alla BBC, pubblicamente per la prima volta, che durante l’attacco di Mosul le bombe della coalizione hanno ucciso diversi civili. Amnesty International ha accusato l’esercito iracheno e gli Stati Uniti, per l’enorme numero di civili uccisi durante i bombardamenti e di gravi violazioni dei diritti umani. A oggi non è stato designato alcun responsabile.

Angelo Calianno

Fonti: BBC, The Guardian, difesa.it, Tolo News, The Atlantic.




Siria: Una guerra interminabile, cruenta e pericolosa

Testimonianza su la Siria di Mtanious Hadad |


Dopo sette anni, la guerra siriana non trova ancora una soluzione, divenendo sempre più estesa e pericolosa. In questo suo appassionato intervento mons. Mtanious Hadad, siriano di Yabroud (Damasco), archimandrita della Chiesa melchita in Roma, spiega la situazione in maniera diversa dal consueto.

La speranza suggerisce che un giorno i cristiani del Medio Oriente – dalla Siria all’Egitto – avranno la possibilità di vivere con dignità ognuno a casa propria. Per ora non è così. Tanto che siamo costretti a parlare di guerra, di missili (veri) e attacchi chimici (presunti). Lo scorso aprile il signor Trump, supportato dalla Gran Bretagna e dalla Francia, ha inviato sulla Siria, la mia amata patria, un centinaio di missili, che io ho soprannominato «caramelle della resurrezione».

Armi chimiche?

Io mi chiedo: se il governo siriano ha usato le armi chimiche a Douma facendo vittime, secondo quale moralità e quale legge nazionale o internazionale questi paesi possono bombardare i luoghi e le fabbriche di queste (presunte) armi chimiche? Non avevano timore che esse potessero fare altre vittime? Meglio sarebbe parlare di messa in scena. Mi spiace tornare a usare questa terminologia, ma era da mesi che si parlava di questo. Il nostro ministro degli affari esteri aveva avvertito il mondo intero: «State attenti, i ribelli stanno preparando un attacco chimico per dare la colpa a noi».

Un paio di anni fa si era detto che la Siria era stata ripulita dalle armi chimiche. Adesso invece si dice che ancora le ha e le usa. Qual è la verità?

Ogni volta che il governo fa un passo verso la pace e la riunificazione del popolo siriano, noi veniamo sorpresi da un nuovo attacco chimico. Prima a Shaykhun, poi a Douma e vedremo quale sarà il terzo, dato che ora ribelli e terroristi si sono diretti verso il Nord del paese. Dove sarà la prossima linea rossa fissata dai governi di Gran Bretagna e Francia?

Perché sono stati lanciati i missili? Alcuni pensano per intimidazione. Non credo che sia per questo. L’erede al trono in Arabia Saudita – Mohammed bin Salman – è andato in America, Gran Bretagna e in Francia (tra marzo e aprile 2018, ndr). Cosa ci è andato a fare? È andato in vacanza? No, è andato a pagare! Quei missili erano prepagati dall’Arabia Saudita e l’America doveva lanciarli e bombardare qualcosa. Hanno sparato 110 missili dei quali 10-20 sono andati a buon fine. Quale lo scopo? Quale il risultato per la conclamata libertà della Siria?

Perché aggiungere altra disperazione a un popolo che ha già sopportato sette anni di sofferenze? Non è forse giunto il tempo di ricostruire moralmente, socialmente e materialmente?

Russia e Iran

Mi viene spesso chiesto cosa ci facciano la Russia e l’Iran in Siria. Io non vorrei difendere o giustificare alcuno. Andiamo a vedere i fatti, nella consapevolezza che niente è gratis. La Russia è stata chiamata dal governo siriano e fino ad ora ha dato appoggio morale, economico ed anche militare. Senza l’aiuto dei russi, saremmo stati come l’Iraq o come la Libia, divisi in tante regioni e avremo altri milioni di sfollati e rifugiati, parcheggiati alle porte della Turchia o umiliati nei campi profughi del Libano e della Giordania. La Russia ha fatto bene a venire e la sua base di Hmeimim non è soltanto per uso militare ma è diventato un luogo di riconciliazione tra siriani. È un merito della Russia aver convinto le fazioni islamiste a lasciare la capitale, che – lo ricordo – è abitata da musulmani e cristiani. Gente bombardata che non ha visto tornare più da scuola i propri bambini. I nostri ospedali si sono riempiti di musulmani e cristiani. Qualcuno ne ha parlato?

Tutto il mondo ha accusato che l’esercito governativo ha bombardato o usato il gas a Douma. Questa è una vergogna. Il mondo condanna tutte le azioni del governo, ma non parla mai dei nostri bambini.

Si obietta: e l’Iran sciita? È vero l’Iran può anche avere i suoi interessi, ma non è soltanto una lotta tra sciiti e sunniti.

L’Iran viene per sostenere l’unità di uno stato sovrano al cui apice c’è un presidente alauita (un ramo dell’islam sciita, ndr), che però non governa per la sua confessione religiosa essendo stato eletto dal popolo siriano a grande maggioranza. Un popolo in cui i sunniti sono il 65% del totale.

Guardiamo ai cristiani. In Iraq erano un milione e mezzo al tempo del dittatore. Quando il dittatore è stato mandato via, i cristiani si sono ridotti a 200.000. Allora chiedo: è questo il modello di democrazia che vogliono imporci anche in Siria? I cristiani sono parte integrante del nostro paese: non sono uccelli migranti. La Siria è sempre stato un modello di modernità e di convivenza.

Le rovine di Douma alal periferia di Damasco il 16 aprile 2018 / AFP PHOTO / LOUAI BESHARA

Arabia Saudita e Israele

Detto del ruolo di Russia e Iran, dobbiamo fare luce sul ruolo di Israele e su quello dell’Arabia Saudita. Mai infatti dimenticare che questa sporca guerra siriana è una guerra per delega o procura.

Tutti sappiamo quanti miliardi ha speso l’Arabia Saudita per inviare armi in Siria e continuare la guerra. Quando Trump è andato a Riad (maggio 2017, ndr), ha venduto 200 miliardi di armi all’Arabia Saudita. Tutte necessarie per distruggere lo Yemen? Non credo. Quante di queste armi arrivano in Siria attraverso i corridoi della Turchia?

E veniamo ad Israele, uno dei grandi beneficiari di questa guerra. Ci siamo forse dimenticati che i jihadisti feriti sono stati curati in Israele? Ci siamo dimenticati le visite negli ospedali del premier Benjamin Netanyahu? Ebbene, una volta curati, questi uomini sono tornati a fare la guerra contro il governo siriano! Il sogno israeliano rimane quello di distruggere il mondo arabo per rimanere l’unico stato stabile, oltre che l’unico ad avere le bombe atomiche e chimiche.

La Turchia

Infine, c’è la Turchia. Si diceva che combatteva l’Isis, ma era una finta. Oggi sta bombardano i Kurdi, gli unici che veramente hanno combattuto l’Isis. Quelli che erano angeli, adesso sono diventati diavoli. Con questa scusa la Turchia sta occupando territori siriani per tornare a quello che un tempo era l’Impero ottomano. Il signor Erdogan era d’accordo con i bombardamenti sulla Siria perché il suo nemico numero uno è Assad.

Di Erdogan non ci si può fidare perché cambia idea in ogni momento. E si sta approfittando anche dell’Europa, chiedendo miliardi per far parcheggiare (questo è il verbo che voglio usare) sui suoi territori i rifugiati siriani e non solo. Quando gli conviene, apre le porte e li manda in Europa. Dobbiamo essere coerenti con i dittatori ed Erdogan lo è. Ha messo in prigione migliaia di giornalisti, professori e funzionari, in patria sta uccidendo i propri nemici. E un uomo siffatto va a parlare di democrazia in Siria? Del governo dittatoriale di Assad?

A tutti questi signori della guerra io vorrei dire: tornate a casa vostra e noi siriani in tre mesi – come ho sostenuto più volte – siamo capaci di tornare alla pace. La grazia di avere un po’ di petrolio e di essere territorio di passaggio dei possibili oleodotti (c’è una lotta senza esclusione di colpi attorno a questi, ndr) non debbono diventare una disgrazia per il popolo siriano.

Manifestazioni di siriani contro gli attacchi missilistici di Stati Uniti, Inghilterra e Franca ad Aleppo nella piazza  Saadallah al-Jabiri il 14 Aprile 2018 / AFP PHOTO / George OURFALIAN

I media e la Siria

Mi è stato detto che io sono molto critico verso i media che parlano di Siria. Io non sono critico: sono arrabbiato. Perché in Europa non si dice la verità. Perché io debbo ascoltare la Giovanna Botteri parlare della Siria dagli Stati Uniti? Ma che ne sa? Un’altra giornalista ci parla dalla Turchia. Un po’ di coerenza, cari giornalisti: per parlare di Siria andate in Siria, come alcuni fanno. Per indagare, per ascoltare, per chiedere.

A fare propaganda e molto di più ci pensano i Caschi bianchi. Durante il giorno fanno finta di aiutare la popolazione, mentre la notte fanno passare le armi per uccidere i siriani. Ma voi in Europa volevate dare loro il Premio Nobel per la pace. Un’altra commedia! Occorre aprire gli occhi altrimenti anche in Europa la pagheremo cara.

Si dice che noi cristiani siamo a favore del presidente Assad. Noi siamo a favore della nostra presenza in Siria e in Irak come cristiani. Un governo che difende i diritti di ogni uomo, di ogni minoranza è il garante della mia vita e del mio futuro in Siria. Io non difendo Assad in sé, io difendo il suo governo in cui i ministri sono un mosaico di religioni.

Perché quando sono in Italia i vescovi – maronita o caldeo o altro ancora – di Aleppo non vengono intervistati? Nessuno ha il coraggio di dare loro la parola, se non per una conferenza qui, un incontro là. Si preferisce dare spazio a quanto riferisce la Botteri. Per trovare la verità occorre avere un po’ di buonsenso ascoltando gli uni e gli altri. E poi occorre far tornare gli ambasciatori in Siria e parlare.

L’Italia

Mi spiace molto che il premier uscete Gentiloni abbia detto in parlamento (17 aprile) che rispetto alla guerra in Siria l’Italia non è un paese neutrale. Avrebbe dovuto sostenere proprio il contrario. Non si può appoggiare un attacco al popolo siriano senza sapere la realtà! E poi ci si lamenta dei profughi che arrivano sulle coste italiane! Anche i cosiddetti «corridoi umanitari» sono contro il popolo siriano. Dobbiamo smettere di portare i siriani in America o in Europa. Dobbiamo dare loro il coraggio di tornare. Chi vuole dare una mano alla Siria dovrebbe farlo in questo modo: aiutando i siriani scappati a tornare e a ricostruire il paese, dimenticando l’odio e la vendetta cresciuti in questi sette anni di guerra.

Abbiamo vissuto insieme per decenni. Dobbiamo tornare a farlo. Con questa speranza io ho fiducia nel futuro. Ho fiducia nell’unità della Siria e dei siriani.

Mtanious Hadad
(testimonianza raccolta da Paolo Moiola e Daniela d’Andrea)


Ancora missili sulla Siria

Belli, nuovi ed anche intelligenti

Governi, politici e quasi tutti i media non hanno dubbi sulla Siria: il presidente Assad è il macellaio per definizione e va punito. I ribelli jihadisti sono diventati vittime.
Sulla Siria c’è una narrazione dei fatti dominante. Ma non per questo va ritenuta vera.

«Nice, new and smart»: sono gli aggettivi con cui, in un tweet, Donald Trump aveva descritto i missili Usa. Missili poi lanciati – per fortuna senza fare vittime – sulla Siria nella notte del 14 aprile. Tre aggettivi il cui contrario descriverebbe perfettamente il presidente statunitense, probabilmente uno dei peggiori della storia americana (per l’ambiente, l’economia, la pace, a prescindere dai – presunti – meriti nella vicenda nordcoreana). Sicuramente il più pacchiano. Il loro lancio non è servito a nulla se non a mostrare i muscoli delle potenze occidentali (gli Stati Uniti affiancati dalla fida Gran Bretagna e dall’opportunistica Francia di Macron) e ad esasperare gli animi. La guerra siriana è ancora lì perché – come detto più volte anche da questa rivista – sul suo territorio si sta svolgendo una guerra per procura. Sulla pelle dei siriani e ora anche dei Kurdi.

In un mondo iperconnesso e sovraccarico di informazioni spesso false o non verificate non è facile districarsi per capire una situazione. Eppure, quasi a smentire questa condizione, per la guerra in?Siria, in Occidente vengono accreditate (e dunque diffuse dai media principali) quasi sempre soltanto due fonti informative: gli Elmetti bianchi (White Helmets) e l’Osservatorio siriano per i diritti umani (Syrian Observatory for Human Rights), i primi sponsorizzati soprattutto dagli Stati Uniti, il secondo dalla Gran Bretagna, ovvero da due paesi coinvolti nella guerra e schierati contro il presidente Assad (fonti: Gli occhi della guerra, Alberto Negri, Fulvio Scaglione).

Consapevoli di questa distorsione informativa, per la Siria da tempo Missioni Consolata fa riferimento a mons. Mtanious Hadad e all’aggiornatissimo e prezioso sito di AsiaNews, che riceve le proprie informazioni da religiosi che nel paese vivono (e soffrono). Forse a causa di questa diversità di fonti la Siria che noi descriviamo è diversa da quella descritta da altri, siano essi i maggiori telegiornali o quotidiani come la Repubblica o il Corriere della Sera. Precisato che non è affatto certo che ci siano stati attacchi chimici (fonte: Robert Fisk, The Independent) e, qualora ci siano stati, da chi siano stati eventualmente commessi (l’esercito governativo aveva già vinto), vediamo di dare conto delle molte voci dissonanti che non trovano spazio sui media importanti.

Subito dopo l’attacco missilistico padre Bahjat Elia Karakach, francescano del convento di Damasco, ha parlato di pretesto delle potenze occidentali per attaccare la Siria come a suo tempo era avvenuto in Iraq. Per parte sua, mons. Georges Abou Khazen, vicario apostolico di Aleppo, ha affermato che le potenze avevano gettato la maschera (fonte: agenzia Sir). Sandra Awad, membro di Caritas Sira, ha diffuso (fonte: AsiaNews) una lettera aperta al presidente Trump raccontando la storia di Rabee, giovane che ha perso una gamba a causa dell’esplosione di un razzo lanciato dai ribelli della Ghouta orientale (oggi liberata). Il giovane oggi è riuscito ad avere una protesi e guarda al futuro. «Signor Trump – scrive Sandra -, la maggior parte delle famiglie siriane annovera tragedie analoghe. […] Rabee vuole partecipare alla ricostruzione della Siria, che lei invece vuole contribuire a distruggere con il suo denaro, i suoi missili intelligenti e il suo odio profondo».

È invece datata primi di marzo una durissima lettera (fonte: AsiaNews) delle religiose trappiste siriane. «Quando taceranno le armi? E quando tacerà tanto giornalismo di parte?», si domandano. Le sorelle raccontano della visita a una scuola bombardata dai ribelli. «Perché – si chiedono – l’opinione pubblica non ha battuto ciglio, perché nessuno si è indignato, perché non sono stati lanciati appelli umanitari o altro per questi innocenti? E perché solo quando il governo siriano interviene […] ci si indigna per la ferocia della guerra?».

Viene ricordato che gli attacchi verso i civili sono stati iniziati dai ribelli jiadisti. «Oggi – proseguono le trappiste – dire alla Siria, al governo siriano di non difendere la sua nazione è contro ogni giustizia».

Le religiose rispondono anche all’accusa che tutte le Chiese d’Oriente siano «serve del potere», riverenti «verso il satrapo siriano»: «È un modo per delegittimare qualunque appello della Chiesa siriana che faccia intravvedere l’altro lato della medaglia». La lettera si conclude con esplicite accuse ai mezzi d’informazione. «Chi critica il governo siriano guadagna le prime pagine dei grandi media. Qualcuno ricorda forse l’intervista o un intervento di un vescovo siriano su qualche giornale importante dell’Occidente?».

Mentre dei Kurdi di Rojava e Afrin non si parla quasi più (abbandonati nelle mani omicide del furbissimo Erdogan), mentre i missili lanciati da Israele sono considerati un atto dovuto (Israel first) e Trump sfascia l’accordo nucleare con l’Iran (8 maggio), dobbiamo sperare che il conflitto non si allarghi ulteriormente e che l’Arabia Saudita – danarosa alleata di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e di molti altri paesi occidentali – non decida di intervenire in Siria come sta facendo nel devastato (e dimenticato) Yemen. Sarebbe molto imbarazzante dover dire che l’Italia «non è un paese neutrale», come dichiarato (17 aprile) in parlamento da Paolo Gentiloni, primo ministro uscente del nostro paese.

Paolo Moiola




Afghanistan: Sulle tracce degli Hazara, Storia di una persecuzione

Reportage. Testo e foto di Angelo Calianno |


Quella dell’Afghanistan è una delle tante (troppe) guerre dimenticate. Kabul torna, per pochi istanti, nei telegiornali soltanto in occasione di qualche attentato o quando un profugo afghano approda sulle nostre coste. In questo reportage si racconta del genocidio degli Hazara, etnia di fede sciita. Da secoli discriminati, la loro condizione è peggiorata con il dominio dei Pashtun e con l’arrivo dei talebani e dell’Isis, tutti di fede sunnita.

Bamiyan, 2 marzo 2001.I talebani arrivano con i loro pickup sulla strada principale di Bamiyan, di quella che era la via dei bazar, ormai non rimane altro che rovine e polvere. Sono due anni che gli estremisti hanno preso il controllo di questa zona del massiccio centrale afghano. Qui la popolazione, prevalentemente di etnia hazara, convive con assassinii e violenze quotidiane. I talebani entrano nelle case, trascinano fuori i civili giustiziandoli per strada, davanti agli occhi dei loro cari. Oggi è un giorno ancora diverso, oggi un’ulteriore ferita sarà inflitta a questa terra martoriata. Da circa venti giorni i talebani costringono gli Hazara a perforare le due enormi statue di Buddha, simboli di questa terra e patrimonio mondiale dell’Unesco. Due sculture giganti di 38 e 55 metri presenti qui da circa 1.700 anni. Per secoli il sito è stato meta di pellegrinaggi per i buddhisti di tutto il mondo, le descrizioni delle statue compaiono nei diari di viaggio dei mercanti sulla via della seta e in quelle dei pellegrini cinesi in visita nel 1600.

Una volta completati i fori, i talebani vi piazzano la dinamite e fanno saltare i Buddha. Le statue crollano su se stesse. Una nuvola di polvere avvolge quello che rimane del sito archeologico distrutto in piccoli frammenti di roccia, e, una volta diradata, mostra solo due enormi nicchie semivuote.

I talebani esultano ma, non contenti, radunano venti persone, tutte di etnia hazara, le mettono in  fila davanti al luogo prima occupato dalle statue, e sparano alla nuca di ciascuna. Lasciano i cadaveri lì. È vietato seppellire i corpi per almeno tre giorni: «Serve da monito per gli altri», dicono. Lasciano una pattuglia di ronda su un pickup e si ritirano a prendere un tè nelle case che da due anni abusivamente occupano.

Kabul, 6 dicembre 2017.

È difficile per noi oggi immaginare tutto quest’astio verso un popolo, verso un’etnia, eppure qui continua ogni giorno. Dagli attacchi dei talebani a quelli dell’Isis, i bersagli sono molto spesso i musulmani sciiti, in questo caso gli Hazara.

Quando in Occidente si parla di Afghanistan e di afghani, si tende ad avere un’immagine stereotipata in mente: un uomo dai tratti somatici marcati, barba lunga, carnagione scura. Le cose non stanno esattamente così.

L’immagine che tutti hanno presente è quella dei Pasthun, solo una delle etnie afghane che convive insieme a Tagiki, Uzbeki e, ultimi nella scala sociale, gli Hazara.

Hazara letteralmente vuol dire «mille». Fino al 1880 rappresentavano il 67% di tutta la popolazione afghana, oggi, approssimativamente, il 22%. La tragica riduzione del loro numero è il risultato di uccisioni di massa e fughe in nazioni vicine come il Pakistan (altro luogo dove sono comunque perseguitati) o in qualsiasi altro paese nel quale si possa trovare rifugio. Da molti organi di controllo, come Human Rights Watch, lo sterminio degli Hazara è stato riconosciuto come un vero e proprio genocidio.

I pretesti per un genocidio

L’origine di questo popolo è ancora incerta. Fisiognomicamente gli Hazara sono diversi dalle altre etnie afghane: naso schiacciato e occhi a mandorla, sono più simili agli abitanti delle steppe asiatiche.  Questo è stato uno dei primi motivi della loro discriminazione. Chi da sempre li perseguita, tende a considerarli discendenti delle orde mongole di Gengis Khan arrivate su queste montagne nel 1300. Gli storici hazara, al contrario, affermano di essere originari dell’Afghanistan molto prima di tutte le altre popolazioni. Ma la presunta discendenza mongola non è il problema maggiore per gli Hazara, la principale ragione del loro genocidio o forse il pretesto più usato, è quello religioso: gli Hazara sono sciiti in un paese a maggioranza sunnita.

Prima del regno di Amir Abdul Rahman, durato dal 1880 al 1901, gli Hazara occupavano posizioni importanti. Erano proprietari terrieri e ricchi allevatori. Una volta arrivato al potere Rahman (di etnia pashtun) le tribù sunnite, allora in minoranza, perpetrarono una serie di attacchi e assassinii ai danni degli sciiti.

I Pashtun occuparono le terre più fertili e si impadronirono del bestiame, così la maggior parte degli Hazara emigrò nelle aree più inospitali e difficili da coltivare, la zona del massiccio centrale con capitale Bamiyan, dove risiedono oggi.

Un dato interessante rilevato da alcuni storici è che, prima del regno di Rhaman, la concentrazione maggiore degli Hazara si riscontrava nella zona di Kandahar, oggi completamente pashtun nonché una delle maggiori roccaforti talebane. Se questo dato fosse corretto, proverebbe che quella terra soprannominata oggi «Hazaristan» (o Hazarajat), è solo un luogo dove gli Hazara furono costretti a muoversi molti secoli dopo l’arrivo di Gengis Khan, questo sfaterebbe la teoria della discendenza mongola.

Sotto il regime di Rhaman si tocca l’apice del genocidio, circa il 60% di tutta la popolazione hazara viene eliminata. In questo periodo, in questi anni nasce anche il detto pasthtun, tristemente famoso, che recita: «I Tagichi in Tagikistan, gli Uzbechi in Uzbekistan e gli Hazara in goristan», goristan vuol dire cimitero. Agli inizi del ‘900 metà degli Hazara è quasi scomparsa, quelli rimasti sono relegati alle mansioni più umili: pastori, domestici, spesso veri e propri schiavi.

Si avvia così in tutto il paese un processo di «pashtunizzazione» e tutta l’area dell’Hazarajat  viene tenuta ai margini dello sviluppo nazionale, senza infrastrutture, priva di strade e grandi vie di comunicazione. Fino agli anni ’70 nelle scuole sunnite si propaganda lo sterminio degli Hazara. Gli insegnanti predicano che l’uccisione di qualsiasi Hazara garantisce l’accesso al paradiso.

Arrivano i sovietici

Nel 1979 la Russia invade l’Afghanistan, la persecuzione si placa, c’è un altro nemico contro cui combattere e così, per circa dieci anni, paradossalmente gli Hazara vivono in pace in uno stato in guerra. Anzi, molti di loro combattono fianco a fianco con i mujaidin contro i russi, mostrando grande coraggio.

Scappati i russi però le persecuzioni riprendono. A parte rari casi in cui la presenza di Human Right Watch e Amnesty International registra le uccisioni, non esistono nemmeno documenti ufficiali che attestino gli omicidi di massa. Addirittura anche Ahmad Shah Massoud, il comandante mujaidin ed eroe afghano nella guerra contro i sovietici, viene accusato di aver ordinato diverse rappresaglie ai danni degli Hazara. Le stragi continuano ancora oggi: sono tantissimi gli attacchi recenti in tutto l’Afghanistan. Solo nell’ultimo anno a Kabul, sono stati colpiti due centri culturali e tre moschee sciite, tutte frequentate da Hazara. Questi attentati hanno causato la morte di novantacinque persone e il ferimento di altre centinaia.

Dominio pashtun

Amir è un antropologo originario delle zone rurali attorno a Bamiyan. I talebani, nei primi anni del loro regime, uccisero gran parte della sua famiglia e così lui, con i parenti superstiti, si rifugiò in Pakistan. È tornato in Afghanistan solo tredici mesi fa per lavorare in una tv locale. Lo incontro a Kabul, in un ristorante frequentato solo da Hazara. Mi racconta: «Siamo un popolo pacifico, lo scoprirai quando andrai a vedere Bamiyan e le sue splendide montagne, non è una coincidenza che di tutto l’Afghanistan, quella sia l’unica parte sicura al momento». Perché più sicura?, gli chiedo. «Perché lì sono tutti hazara. Sono i Pashtun a fare la guerra. I talebani sono tutti pashtun, le gang armate sono tutte pashtun, quelli che ci hanno perseguitato sono sempre stati i Pashtun. Ci sono stati anche i Tagiki e gli Uzbeki, che a volte hanno preso parte ai massacri, ma penso sia avvenuto solo per entrare nelle grazie di chi comandava, che erano sempre pashtun».

Amir è quasi incredulo quando gli dico che in Italia, quasi tutti, quando pensano a un uomo afghano, hanno in mente l’immagine del Pashtun e che quasi nessuno sa chi siano gli Hazara. «A me sembra quasi impossibile essere ignorati così. Siamo uno dei popoli più perseguitati della storia. Siamo rimasti in pochissimi: è stato un vero e proprio genocidio».

Gli chiedo il perché. «La religione è una buona scusa per controllare chi deve compiere l’atto materiale dell’omicidio o dell’attacco suicida, com’è successo di recente a Kabul. I sunniti non ci considerano veri musulmani, nemmeno veri esseri umani a dire il vero, ed è risaputo che alcuni di loro hanno fatto voto di eliminarci tutti. Molti di noi hanno già pagato con la vita. Ma la ragione storica è più tribale che religiosa. Le tribù hazara erano numerose, pacifiche e lavoratrici, avevano molte terre da coltivare e migliaia di capi di bestiame. Le prime persecuzioni avvennero per avidità e conquista, si sono protratte fino ad oggi, ma sono certo che, se chiedi a un Pashtun del perché ce l’ha tanto con gli Hazara, non ti saprà dare un valido motivo. Io sono dovuto scappare in Pakistan ma nemmeno lì siamo trattati bene. Ci insultavano ed eravamo oggetti di violenze quotidiane. Agli inizi degli anni 2000 però, non c’era molta scelta, con la mia famiglia dovevamo decidere se morire in Afghanistan o essere bersagliati dal razzismo in Pakistan. La scelta è stata semplice».

Verso Bamiyan, 15 dicembre 2017.

Quando parto per Bamiyan, decido di farlo via terra, ma a un certo punto devo ritornare indietro: la strada che collega Kabul con Bamiyan è occupata dagli scontri tra talebani e militanti dell’Isis, entrambi sunniti ma entrambi interessati al controllo dei campi d’oppio.

Finalmente, con un piccolo aereo da quaranta posti, arrivo a Bamiyan, capoluogo di circa 100 mila abitanti, quasi tutti hazara. La città vecchia oggi è un luogo spettrale, bellissimo e ferito. Siamo nel cuore delle montagne afghane, un’aria sottile a 2.500 metri d’altezza, cime innevate e «case grotta» scavate nella roccia, dove ostinatamente molti continuano a vivere. La prima cosa visibile sono le enormi nicchie vuote dove prima c’erano i Buddha, e poi una lunghissima strada fatta di macerie, resti di colonne, resti di archi: era la strada dei bazar, il cuore pulsante di Bamiyan, oggi solo una strada polverosa. A parte le famiglie che continuano a vivere nelle grotte, il nucleo abitativo si è spostato tutto a valle dove sono sorte nuove case, lasciando la zona storica ancora più abbandonata.

Haji è un uomo di quarantacinque anni ed è stato testimone delle violenze sotto il regime talebano, mi guida attraverso le rovine dei Buddha: «Non abbiamo perso solo le due grandi statue di Buddha quel giorno, ma tantissimi altri reperti, affreschi e grotte dove anticamente vivevano i monaci buddhisti. Prima dei talebani molte delle case grotta erano ancora occupate, poi hanno distrutto tutto. I talebani entravano nelle case, trascinavano fuori gli uomini e a volte anche i ragazzini più grandi e li uccidevano, senza dire nulla, senza un motivo preciso. Qui ne abbiamo contati almeno 300, ma se consideriamo tutti i villaggi, parliamo di migliaia di persone. Sarei dovuto morire anche io in quei giorni, trascinarono fuori anche me, urlavano che non eravamo musulmani. Mia moglie mostrò il sacro corano ma loro lo gettarono via. Quando sentii la pistola puntata dietro la nuca cominciai a pregare e a parlare in pashtun, che avevo imparato lavorando a Kabul. Mi ha salvato quello. Uccisero tutti gli altri in ginocchio accanto a me, altre diciassette persone davanti ai miei occhi».

Gli Hazara non solo sono diversi nei lineamenti del viso e nella fede, ma anche per il ruolo delle donne all’interno della comunità. Qui, pur vivendo ai limiti della povertà, le donne studiano, lavorano, indossano il velo ma non il burqa. Camminando nei pressi dell’università, le ragazze mi salutano e alcune si fermano addirittura a chiacchierare con me, cosa che sarebbe impossibile in città come Kandahar e la sua provincia.

Grazie all’intervento di alcune organizzazioni non governative, pian piano gli Hazara stanno rialzando la testa. I giapponesi hanno costruito le strade, olandesi e tedeschi hanno donato soldi all’università e ai piccoli allevatori con il sistema del microcredito. Finalmente questa gente comincia ad avere una voce, pur rimanendo di fatto la più povera di tutto l’Afghanistan. I giovani hazara sono coscienti della loro storia e hanno un grande senso di rivalsa che li fa eccellere nello studio e nel lavoro.

Una di queste giovani è Najiba, una ragazza di ventidue anni che oggi fa la documentarista per l’Ong francese Geres. È originaria di Bamiyan ma per lavoro si è dovuta spostare a Kabul. Mi racconta: «Siamo molto poveri qui ma le donne hazara non sono discriminate come in tante famiglie pashtun. Non ho mai avuto impedimenti dalla mia famiglia che mi ha sempre incoraggiato. Tramite la scuola ho cominciato a lavorare in una radio locale qui a Bamiyan quando avevo solo tredici anni. Mi sono innamorata del mondo della comunicazione e appena ho potuto, a diciotto anni, ho comprato una telecamera, ho preso delle lezioni di giornalismo e fotografia. I miei primi lavori sono stati proprio sulle donne che vivono qui nelle case-grotta. Per me, donna e hazara, è stato facile avvicinarmi, ma soprattutto è stato importante raccontare la loro storia».

Subito dopo i talebani, con il governo di Karzai, sono arrivati i primi rappresentanti hazara in parlamento. Oggi sono diversi i candidati che proveranno a far sentire la propria presenza nelle prossime elezioni di luglio.

Malgrado questo però, né questo governo, né quello precedente, né tantomeno gli organi internazionali, hanno mai intrapreso un’azione decisa contro la persecuzione degli Hazara: tutti condannano quello che accade a parole ma nessuno si è mai schierato apertamente a loro difesa.

Angelo Calianno
(dall’Afghanistan tra il novembre 2017 e gennaio 2018)


Nella Repubblica islamica

Dove il papavero regna sovrano

Incertezza politica, presenza di truppe straniere, gruppi terroristici, nella Repubblica islamica dell’Afghanistan la sola risorsa certa rimane il papavero da oppio.

L’Afghanistan è oggi un paese di 34 milioni e 66 mila abitanti. I gruppi di nazionalità afghana, al di fuori dell’Afghanistan, si trovano per ordine di numero in: Pakistan, Iran e India.

Il presidente attuale è Ashraf Ghani, di etnia pashtun, eletto nel 2014. A luglio 2018 si dovrebbero tenere le elezioni del parlamento a lungo rinviate. La sicurezza nazionale oggi è affidata alle forze di sicurezza afghane ma, vista la loro inadeguatezza, le operazioni sono ancora supervisionate dagli Stati Uniti, principalmente di stanza a Kabul e Kandahar. Le forze della coalizione Isaf (International Security Assistance Force), di base a Herat e Mazar I Sharif, il 28 dicembre 2014, dopo 13 anni di attività, sono state sostituite da quelle di Sostegno Risoluto (Resolute Support Mission), missione sostenuta dalla Nato.

La sicurezza è il primo problema dell’Afghanistan, un paese che si trova a fronteggiare trafficanti di oppio, attacchi di gruppi talebani, volti a destabilizzare il governo per un loro possibile ritorno, e gli attentati dell’Isis.

Le risorse principali dell’Afghanistan sono: l’allevamento di bovini e ovini, giacimenti di carbone, rame, petrolio e gas naturale. Molto importanti sono le miniere di smeraldi che si trovano nella valle del Panjshir. Nonostante queste attività, la più redditizia rimane però quella della coltivazione del papavero da oppio, coltivazione che aumenta il problema della corruzione e degli scontri (soprattutto tra talebani e Isis) per prenderne il controllo.

L’Afghanistan è una Repubblica islamica. Il 99% dei suoi cittadini sono di fede islamica, di questi circa il 7-15% sono sciiti.

A.Cal.

Fonti: Norwegian Afghanistan Committee, Human Rigth Watch, Deagostini Geografia.


Un conflitto interminabile

Cronologia essenziale dal 2001 al 2018

Dal bombardamento statunitense del 2001 agli attentati dei talebani e dell’Isis, l’Afghanistan rimane un paese senza pace.

  • 2001, Ottobre – Dopo l’attacco dell’11 settembre, gli Stati Uniti decidono di bombardare l’Afghanistan. Subito dopo i bombardamenti, i soldati entrano nel paese con una coalizione armata anti-talebana.
  • 2001, Dicembre – Hamid Karzai giura come capo di un governo temporaneo.
  • 2002, Gennaio – Per combattere i talebani, alle forze armate statunitensi si unisce il primo contingente di caschi blu dell’Onu e una coalizione internazionale denominata International Security Assistance Force (Isaf).
  • 2002, Giugno – Il Gran Consiglio (Loya Jirga) elegge ufficialmente Hamid Karzai come capo dello stato. Karzai in seguito sceglie i membri della sua amministrazione.
  • 2003, Agosto – Data la precarietà della sicurezza in Afghanistan, l’emergenza umanitaria dovuta agli attacchi dei talebani e ai bombardamenti americani, la Nato prende il controllo delle operazioni di sicurezza a Kabul: è la prima operazione di questo tipo che avviene fuori dall’Europa.
  • 2004, Novembre – Nelle elezioni presidenziali, viene dichiarato vincitore Hamid Karzai.
  • 2005, Settembre – Per la prima volta in 30 anni, gli afghani votano per le elezioni parlamentari.
  • 2006, Ottobre – Dopo Kabul, la Nato assume il controllo della sicurezza in tutto l’Afghanistan.
  • 2007, Agosto – Le Nazioni unite riportano che, da dal 2001, cioè dall’ entrata in guerra degli Stati Uniti e delle forze della colazione, si è registrato il più alto numero di produzione di oppio nel paese.
  • 2008, Luglio – Un attacco suicida all’Ambasciata indiana uccide 50 persone.
  • 2008, Settembre – Il presidente Usa Bush rinforza la presenza dei soldati americani in Afghanistan con altri 4.500 soldati.
  • 2009, Febbraio – La Nato aumenta la sua presenza militare con altri 17.000 soldati.
  • 2009, Agosto – I talebani cercano di sabotare le elezioni presidenziali e provinciali con diversi attacchi.
  • 2009, Ottobre – Karzai viene dichiarato nuovamente presidente dopo che il suo oppositore, Abdullah Abdullah, decide di ritirare la sua candidatura.
  • 2009, Dicembre – Il presidente degli Stati Uniti, Barak Obama, aumenta il contingente dei soldati americani da 30 mila a 100 mila soldati, dichiara inoltre che a partire dal 2011 ci sarà un parziale ritiro delle truppe. Nello stesso mese, un uomo di Al Qaida uccide 7 agenti della Cia nel campo militare americano di Khost.
  • 2010, Febbraio – La Nato sferra la sua maggiore offensiva da quando è in Afghanistan: l’operazione Moshtarak. L’attacco mira a controllare la parte meridionale del paese.
  • 2010, Settembre – Lo spoglio delle schede delle elezioni parlamentari sono nuovamente sabotate da violenti attacchi talebani che causano ritardi nei risultati.
  • 2011, Settembre – Il governatore di Kandahar, Ahmad Wali Karzai, fratello del presidente, viene assassinato dai talebani.
  • 2011, Dicembre – 58 persone, quasi tutte di etnia hazara, vengono uccise in un attacco simultaneo a due moschee sciite a Kabul e Mazar I Sharif.
  • 2012, Gennaio – I talebani accettano di intavolare una trattativa con gli Usa e il governo afghano a Dubai.
  • 2012, Marzo – Il sergente americano Robert Bales viene accusato di aver ucciso 16 civili durante un’operazione militare a Panjwai, nel distretto di Kandahar.
  • 2012, Aprile – I talebani annunciano «l’offensiva della primavera», una serie di attacchi contro il quartiere delle ambasciate a Kabul.
  • 2012, Maggio – La Nato annuncia che ritirerà le proprie truppe nel 2014. Il presidente francese Hollande decide di anticipare il ritiro dei soldati francesi alla fine del 2012. L’ex talebano Arsala Rahmani, membro del Gran Consiglio di pace, viene assassinato, i talebani declinano qualsiasi responsabilità per l’attentato. Arsala Rahmani era un uomo chiave per il dialogo nelle trattative di pace.
  • 2013, Giugno – L’esercito afghano prende in consegna le operazioni di sicurezza precedentemente sotto il comando della Nato. Il presidente Karzai rinuncia alla mediazione degli Stati Uniti nelle trattative di pace e annuncia un piano per dialogare direttamente con i talebani.
  • 2014, Gennaio – Una squadra di attentatori suicidi talebani attacca un ristorante nel quartiere delle ambasciate a Kabul. L’attentato uccide 13 stranieri.
  • 2014,?Aprile – Le nuove elezioni presidenziali, che vedono in competizione Abdullah Abdullah e Ashraf Ghani, si concludono con un nulla di fatto. Nel secondo turno di votazioni 50 persone rimangono uccise durante le proteste e gli incidenti.
  • 2014, Settembre – Dopo scontri e accuse di brogli, sotto la mediazione degli Stati Uniti i due candidati alla presidenza firmano un accordo di collaborazione. Ashraf Ghani giura come nuovo presidente dell’Afghanistan.
  • 2014, Dicembre – Nonostante nel paese la violenza non si sia mai attenuata, dopo 13 anni di missione, l’Isaf abbandona l’Afghanistan. Tuttavia, le forze internazionali mantengono nel paese 12.000 unità per addestrare le forze armate afghane: è la missione Resolute Support. Nello stesso mese emerge nell’Est del paese un nuovo gruppo terroristico: lo Stato islamico. In pochi mesi prende il controllo dell’area di Nangarhar, precedentemente sotto dominio talebano.
  • 2015, Maggio – I talebani, durante le trattative in Qatar, dichiarano che non smetteranno di combattere finché tutte le forze internazionali straniere non avranno lasciato l’Afghanistan.
  • 2015, Luglio – I talebani ammettono che il loro capo, il mullah Omar, è morto già da alcuni anni, e annunciano il suo sostituto, il mullah Akhter Mansour.
  • 2016, Gennaio – Le Nazioni Unite calcolano che, a causa degli scontri, della mancanza di sicurezza e della povertà, tra il 2015 e il 2016 ci sono stati più di un milione di rifugiati afghani, divisi tra Iran, Pakistan e Unione europea.
  • 2016, Maggio – Il mullah Mansour viene ucciso da un attacco di droni statunitensi nella provincia di Baluchestan, in Pakistan.
  • 2016, Luglio – Vista la delicata situazione, il presidente Usa Obama annuncia che lascerà nel paese 8.400 soldati fino al 2017. La Nato annuncia che manterrà i militari della coalizione per addestrare e coadiuvare le truppe afghane fino al 2020.
  • 2017, Gennaio – Un ordigno esplosivo a Kandahar uccide 6 diplomatici degli Emirati arabi uniti.
  • 2017, Marzo – Un attacco a un ospedale militare, rivendicato dall’Isis, uccide 30 persone e ne ferisce 50.
  • Da marzo 2017 a gennaio 2018 – Kabul viene continuamente attaccata da attentatori suicidi con una media di 3 assalti al mese. I bersagli sono quasi sempre politico-istituzionali, oltre alle ambasciate, agli alberghi e alle moschee e ai centri sciiti. A gennaio 2018 un’ambulanza riempita di esplosivo e diretta verso il ministero dell’interno esplode nei pressi di un check-point, uccidendo più di 100 persone e ferendone circa 300.
  • 2018, 21 Marzo – In un nuovo attentato a Kabul muoiono 29 persone. L’Isis rivendica.

A. Cal.

Fonti: BBC World, CNN, Human Right Watch, Tolo News, Al Jazeera.

(U.S. Army photo by Pfc. Justin A. Young/Released)


L’Italia in Afghanistan

Cronologia 2002-2018

  • 2002, Gennaio – A seguito delle decisioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, anche l’Italia entra a far parte della coalizione Isaf volta a mantenere e assistere le istituzioni politiche provvisorie afghane e garantire la sicurezza. L’impiego vero e proprio dei militari italiani avrà inizio nel 2003. Gli italiani saranno di stanza a Kabul.
  • 2005, 4 Agosto – Nell’ambito della rotazione dei comandi Isaf in Afghanistan, per 9 mesi, all’Italia viene affidata la leadership per l’Isaf VIII. L’Italia assume il comando della regione di Herat e delle province di Badghis, Ghowr e Farah. Una delle missioni, operazioni di sicurezza a parte, è quella dell’assistenza umanitaria a civili e della supervisione alla ricostruzione delle infrastrutture.
  • 2006, Maggio-Giugno – Muoiono per un ordigno in strada, nei pressi di Kabul, il tenente Manuel Fiorito e il maresciallo Luca Polsinelli. In un incidente stradale muore il caporal maggiore Giuseppe Orlando.
    Per l’esplosione di un ordigno a Kabul, muoiono i caporal maggiori Giorgio Langella, e Vincenzo Cardella.
  • 2009, 17 Settembre – Sei militari italiani del 186o reggimento paracadutisti Folgore rimangono vittime di un attentato suicida a Kabul.
  • 2010, 4 Ottobre – Quattro alpini cadono vittime di un’imboscata nella valle del Gulistan. Nella stessa valle, il 31 dicembre, muore anche il caporal maggiore Matteo Miotto di 24 anni.
  • 2011, 23 Settembre – A Herat, a causa di un incidente stradale, muoiono 3 militari italiani. Durante l’estate, tra scontri armati e attentati, hanno perso la vita altri 7 italiani.
  • 2018, 17 Gennaio – La Camera approva la riorganizzazione delle missioni italiane all’estero. Tra le decisioni, un ridimensionamento della presenza militare italiana in Afghanistan.

Il contingente italiano che, all’inizio della missione, contava 3.000 militari è oggi ridotto a 750 unità, dislocati tra Herat, Kabul e Mazar I Sharif. Dal 2003 ad oggi, i caduti italiani sono stati 52.

A.Cal.

Fonti: www.difesa.it, adkronos.com, Internazionale.


I Pashtun e gli altri

Le etnie dell’Afghanistan

La geografia dell’Afghanistan ha contribuito per secoli a mantenere le sue popolazioni divise in diversi gruppi tribali. Negli ultimi due secoli, con il crescere delle vie di comunicazione, il contatto tra le etnie è cresciuto, a volte sfociando in scontri violenti. L’Afghanistan è oggi diviso tra i seguenti 5 gruppi etnici.

  • 40% Pashtun – I Pashtun oggi sono l’etnia dominante. Parlano una loro lingua, il pashtu, quasi tutti ma anche il dari, la lingua ufficiale dell’Afghanistan. I Pashtun sono di fede sunnita e considerati da Human Right Watch la comunità tribale più ampia al mondo. Ancora oggi questa etnia è divisa in piccoli clan che per secoli si sono combattuti per la supremazia sugli altri. Quasi tutti i Pashtun erano pastori e contadini, ancor prima nomadi, negli ultimi secoli hanno occupato posti nel governo e nel mondo degli affari, oltre a riscoprirsi anche combattenti, come i muj?hid?n che combatterono contro i russi. I Pashtun, con regimi e governi diversi, sono al potere in Afghanistan dal 18esimo secolo.
  • 30% Tajiki – I Tajiki sono stati i primi ad essere urbanizzati, anche se in gran numero continuano a vivere sulle montagne. I Tajiki sono di lingua dari. Questo li ha portati a occupare spesso lavori nella burocrazia e nel commercio. Quasi tutti i Tajiki sono di fede sunnita; una piccola percentuale, il 5%, è di fede sciita, spesso vittima di persecuzioni.
  • 15-22% Hazara – Gli Hazara sono la terza etnia per numero in Afghanistan. Oggi quasi tutti confinati nell’Hazarajat, zona del massiccio centrale afghano. Di fede sciita, dai tratti che ricordano i mongoli e le popolazioni delle regioni asiatiche, gli Hazara sono il gruppo etnico più perseguitato della storia afghana, oggetto spessissimo di violenze da parte soprattutto dei talebani. Ufficialmente dal 2004, gli Hazara hanno gli stessi diritti degli altri gruppi etnici, malgrado questo però continuano a essere discriminati, soprattutto nel mondo del lavoro. Impossibile è stabilirne la percentuale precisa per l’enorme numero di Hazara che fugge in Pakistan o che viene assassinato negli attacchi suicidi.
  • 5% Uzbeki e Turkmeni – Queste etnie vivono per lo più ai confini con Uzbekistan e Turkmenistan. Di fede sunnita, lavorano nella pastorizia o nel commercio di lana usata per fabbricare tappeti.
  • 3% Altre etnie – Altre etnie sono gli Aimaqs, sunniti e anche loro perseguitati, per lo più ora sparsi tra le montagne dell’Hazarajat. I Farsiwan, popolazione, una volta nomade, ora insediatasi ai confini con l’Iran. I Nuristani, contadini che vivono nell’Est dell’Afghanistan, parlano una lingua molto antica, una combinazione di persiano e hindi.

A. Cal.

Fonti: Thomas Barfield, Afghanistan. A cultural and political history; Norwegian Afghanistan Committee; Human Rigth Watch.

 

 

 




Iran: la situazione nella repubblica islamica sciita

Testi di Maria Chiara Parenzo |


Impegnato nella tragica guerra della?Siria e in quella dimenticata dello Yemen, il governo sciita di Teheran ha problemi anche al proprio interno. Con una lotta senza esclusione di colpi tra conservatori radicali (legati alla Guida suprema Khamenei) e conservatori riformisti (vicini al presidente Rouhani). Nel frattempo, la schiera dei nemici esterni si compatta: Israele, Arabia Saudita e il presidente statunitense Donald Trump non fanno nulla per favorire il dialogo. A pagare il conto di questa situazione è il popolo iraniano.

Teheran. Per giorni – è dicembre 2016 – il reporter della televisione iraniana al seguito dell’esercito siriano tiene i telespettatori con il fiato sospeso: si sta riconquistando la città di Aleppo con un combattimento casa per casa. Man mano che la città viene liberata si rivelano i crimini perpetrati dai terroristi: case saccheggiate, cadaveri abbandonati qua e là, o deposti in fosse comuni. I telespettatori inorridiscono. Quando l’ultimo bastione di resistenza cade, in città è festa grande. Nelle immagini vediamo la gioia delle persone rimaste intrappolate nei quartieri occupati che possono riabbracciare i propri famigliari, ma anche la disperazione di quelli che ritornano alle proprie case devastate, le testimonianze delle atrocità commesse dalle milizie a danno dei civili. Poi vediamo immagini di come, lentamente, la vita in città tenta di riprendere il suo corso normale.

IRAN_Sha-Abbas-Great-(Mosque-Isfahan_AndreaMoroni_2017)

 Quale guerra?

Qualche giorno dopo mi trasferisco in Italia per il periodo natalizio e lì la musica cambia completamente. È quasi unanime il coro di denunce per gli orrori commessi dall’esercito di Bashar Assad durante la riconquista di Aleppo. Ci si rammarica che la comunità internazionale non abbia saputo fermare la strage. Non ho mai sentito i media iraniani parlare del governo siriano in termini negativi, ma mi è noto che il regime guidato da Assad si è macchiato di pesanti crimini di guerra. Poi si accusa l’aviazione russa di aver dato una mano ad Assad e di aver colpito indiscriminatamente obiettivi militari e civili. Anche questi fatti cui la Tv iraniana non ha mai fatto cenno, mi sembra del tutto plausibile. Basta ripensare a come l’esercito russo ha condotto la guerra nel Caucaso.

Scopro, in compenso, che il pubblico italiano non ha molta consapevolezza di un’altra guerra sanguinosa, quella in corso in Yemen dal 2015. Quando ne parlo con alcuni amici vedo il vuoto nei loro occhi: sì, forse qualcosa abbiamo sentito, non so. Invece, la Tv iraniana trasmette quasi quotidianamente immagini di persone che vagano tra le macerie delle loro case, di morti, di bambini feriti, o di madri disperate perché non hanno cibo per i loro figli. Causa di tante sofferenze sono i bombardamenti effettuati da una coalizione di stati guidata dall’Arabia Saudita, con l’appoggio logistico e tecnico di Usa e Regno Unito, e le bombe italiane. Anche in questo caso, non ho motivo di dubitare che le immagini descrivano una situazione reale.

È Iran contro Isis

Questa sensazione di vivere in una realtà doppia si ripete l’anno dopo. Questa volta si tratta della guerra all’Isis. Scopro che gli italiani ne hanno un’idea vaga. Sebbene tutti temano attacchi in casa propria, non s’interessano molto a ciò che succede su un terreno lontano. Chi ha combattuto l’Isis? I più nominano la Russia, l’America, i paesi arabi, qualcuno dei più informati parla di curdi, milizie sciite, Iran.

Se, invece, si fa la stessa domanda a un iraniano la risposta arriva rapida e sicura: l’Iran, innanzitutto. Da subito l’Iran ha sentito di vitale importanza difendersi da questa minaccia, sia per la vicinanza dello Stato islamico ai confini nazionali, sia per la particolare ferocia con cui il gruppo attaccava le comunità e i luoghi di pellegrinaggio sciiti. Dove arrivava l’Isis l’uccisione degli sciiti era sistematica, tanto da far parlare di genocidio, come per altre comunità non islamiche. Non penso che tutti gli italiani lo sappiano. Invece, tutti in Iran sanno che contro questa minaccia il loro paese si è impegnato in un confronto serrato sul terreno. Ci sono state campagne di reclutamento di uomini da inviare a difendere i luoghi santi in Iraq e in Siria (questa era la motivazione ufficiale). I volontari ricevevano lauti stipendi, agli afghani irregolari veniva, inoltre, assicurato il permesso di soggiorno al loro rientro. Hanno cominciato a riportare i «martiri» dalla Siria, dall’Iraq. Poster con le facce dei combattenti caduti sono comparsi nei quartieri dove abitavano i loro famigliari, come è usanza qui in Iran in segno di lutto. Quando dici a un iraniano che anche gli Stati Uniti hanno combattuto l’Isis ti guarda incredulo. La narrativa ufficiale in Iran è che l’Isis è stato creato dagli Usa e sui media nazionali non si fa certo menzione del contributo americano alla lotta.

Pubblici diversi hanno, dunque, percezioni diverse del reale. Non sappiamo quello che non vediamo e udiamo, e viceversa. Il reale che conosciamo attraverso i mass media è più o meno parziale e ci condiziona tutti.  Lo stesso vale per la questione del nucleare iraniano, che da noi ha tenuto banco a più riprese. Proviamo a vedere come l’hanno vissuta gli iraniani1 e come essi vivono la nuova crisi nei rapporti tra Iran e Usa.

(IRAN_Imam-Square-Isfahan-Iran_Ninara)

La questione del nucleare

Se la necessità di combattere l’Isis, in quanto massima espressione dell’odio dell’estremismo sunnita verso gli sciiti, era condivisa e sentita vitale, la questione del nucleare ha avuto e ha per gli iraniani un’importanza di gran lunga minore. Fin dal suo nascere è rimasta marginale, lontana dalle preoccupazioni quotidiane della gente. D’altra parte l’Iran non ha mai avuto i problemi energetici dell’Italia. Fino a circa dieci anni fa gas, elettricità, benzina godevano di sovvenzioni statali, poi eliminate e sostituite da un sussidio fisso versato mensilmente a ogni persona. Da allora il loro prezzo è rincarato, ma rimane ancora molto inferiore ai livelli europei, soprattutto quello di gas e benzina (venduta oggi a circa venticinque centesimi di euro). Né la gente sente la necessità di avere una bomba atomica. Le armi di distruzione di massa sono ritenute un abominio.

Partita in sordina negli anni Novanta, la questione del nucleare iraniano cominciò a salire di tono durante la presidenza di Mahmud Ahmadinajad (2005-2013), soprattutto per voce dello stesso presidente, che ne fece uno dei cavalli di battaglia nelle sue polemiche contro l’Occidente: il popolo iraniano, affermava, ha il diritto di produrre energia nucleare a scopi pacifici, come avviene in altri paesi del mondo. Il presidente batteva su questo tasto e la gente condivideva le sue argomentazioni. Con un senso di orgoglio nazionale si pensava: se gli altri sì, perché non noi. Inoltre, erano allettanti le promesse di avere un’energia elettrica quasi a costo zero grazie al nucleare. Tuttavia, quando cominciarono ad arrivare le sanzioni e a peggiorare i rapporti commerciali con l’estero, quando il prezzo del dollaro cominciò a salire e l’inflazione a galoppare, deprimendo pesantemente la loro già precaria economia domestica, gli iraniani capirono che il costo da pagare era troppo alto, tanto più per qualcosa di cui non si sentiva così bisogno.

Per questo motivo, quando la presidenza Rouhani nel 2013 inaugurò un nuovo corso, quello del dialogo, il sostegno popolare fu ampissimo. Un esito positivo dei negoziati avrebbe fatto ripartire l’economia e restituito un futuro a tante famiglie in difficoltà. Così, almeno, si credeva.

Questa grande speranza conviveva, però, con il grande timore che i negoziati finissero in nulla. Si sapeva, infatti, che incontravano una forte opposizione all’interno dell’apparato del regime, tanto che molti ne davano per scontato il fallimento. La Guida suprema Ali Khamenei aveva a più riprese messo in guardia contro l’inaffidabilità dei negoziatori occidentali, soprattutto degli Stati Uniti, da cui niente di buono poteva arrivare. Del tutto contrarie ai negoziati erano le «Guardie (guardiani, pasdaran) della rivoluzione», qui comunemente dette Sepah2, alle cui tasche aveva fatto bene il regime sanzionatorio. Le sanzioni, infatti, non interrompono il commercio di una nazione con gli altri paesi, ma impediscono che si sviluppi in maniera naturale, coinvolgendo, cioè, tutto il corpo sociale, il settore privato, come quello pubblico, il piccolo imprenditore, come la grande impresa; quindi, ne alterano la natura, privandolo della sua parte «sana» e lasciandolo nelle mani di chi è così potente da aggirarle e operare nell’ombra. Le sanzioni nei confronti dell’Iran hanno impoverito le persone normali e arricchito le organizzazioni che appartengono allo «Stato profondo», innanzitutto i Sepah e i Basij (un corpo paramilitare formato da volontari), che da loro dipendono. I Sepah sono uno stato nello stato, rispondono solo alla Guida suprema e operano, quindi, al di fuori dei normali meccanismi di controllo dello stato, in una zona grigia, inarrivabile, intoccabile. In un mercato bloccato dalle sanzioni, essi hanno continuato a vendere e importare attraverso canali terzi, ottenendo una sorta di monopolio per i propri affari. Le sanzioni, dunque, non fanno che aumentare la poca trasparenza di un sistema economico già di per sé opaco per vizio d’origine3.

(© Frode Bjorshol)

L’accordo sul nucleare e la fine delle sanzioni

Considerata l’opposizione di forze così potenti, grandi furono la sorpresa e la soddisfazione della gente alla notizia che si era finalmente approdati a un accordo sul nucleare (14 luglio 2015): sembrava di avere vinto una battaglia, non tanto contro un nemico esterno, ma contro il regime interno. Ci furono manifestazioni pubbliche di tripudio. Negli anni l’accordo aveva finito per assumere un significato eccezionale, era considerato la panacea per le moribonde finanze del paese. Ci si aspettava una rapida ripresa dalla stagnazione.

In realtà non è stato così. La ripresa dei rapporti commerciali con i paesi occidentali è stata lenta e, se i dati dicono che l’interscambio è andato aumentando (quello tra Iran e Ue è cresciuto del 79% nel primo anno dall’entrata in vigore dell’accordo4), l’effetto ancora non si è visto granché sulla tavola degli iraniani, anche perché una vera normalizzazione non si è verificata. Altre sanzioni rimangono in essere e il sistema bancario per le transazioni con l’Iran non ha ripreso a funzionare correttamente. Dopo un breve momento di euforia iniziale, che lo aveva fatto risalire rispetto al dollaro, il rial, la valuta iraniana, ha ripreso a svalutarsi, toccando nuovi record alla fine dello scorso anno.

Quindi, per il momento, le tasche degli iraniani rimangono vuote. Tanto vuote che all’inaugurazione del nuovo anno iraniano, il 21 marzo 2017, quando si trattava di lanciare, com’è suo costume, lo slogan che intendeva ispirare l’operato del popolo nell’anno entrante, Khamenei ha pronunciato: «economia di resistenza». A sentire il nuovo motto, la gente si è preoccupata: ahi, la Guida invitava a stringere i denti e tirare la cinghia, ergo nell’anno ci sarebbero stati nuovi aumenti, nuove tasse. E, puntualmente, a dicembre, il governo ha annunciato aumenti di tasse e del prezzo di alcuni beni di prima necessità. La resistenza, però, non riguarda tutti, perché lo «Stato profondo», come si è detto, prospera e quando ha poca liquidità, come in questo periodo di prezzi petroliferi bassi e alti costi di una politica estera espansionistica, mette sotto torchio il comune cittadino, che è chiamato, appunto, a resistere.

Contro Donald Trump e l’Arabia Saudita

Forse anche perché non se ne sono sentiti i benefici, la reazione della gente alla bocciatura dell’accordo su nucleare da parte della presidenza Trump è stata blanda. In compenso la bocciatura ha fatto segnare un punto a favore di Khamenei, che aveva messo in guardia contro l’impossibilità di veri negoziati con gli Usa. Sì, perché l’Iran non è venuto meno agli impegni presi, come hanno confermato tutte le altre parti in causa.

Come spiegano gli iraniani l’ostilità del governo americano nei confronti del loro paese? Sull’argomento condividono quanto affermato dal loro ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif, in occasione della visita di Trump in Arabia Saudita: «L’Iran, che ha appena tenuto delle vere elezioni, è attaccato dal presidente degli Stati Uniti in questo (riferendosi a Riyadh, nda) bastione della democrazia e della moderazione. Si tratta di politica estera o di succhiare 480 miliardi di dollari ai sauditi?»5.

Lasciando stare le «vere elezioni» (non tutti vi si possono candidare e il parlamento non è libero di decidere: comanda la Guida), ho spesso sentito esprimere la convinzione che lo spauracchio dell’Iran sia agitato ad arte per vendere più armi agli arabi.

Su un altro punto gli iraniani si trovano d’accordo col loro ministro degli Esteri: l’Arabia Saudita non può insegnare niente all’Iran in quanto a democrazia, tolleranza, rispetto dei diritti, e il fatto che quest’ultimo continui a essere designato dagli Usa «stato sponsor del terrorismo», insieme a Siria e Sudan, è dettato da ragioni politiche, non certo ideali.

(© Frode Bjorshol)

Terrorista a chi?

Allora, chiedo io, l’Iran non pratica il terrorismo? Non esattamente, i Sepah appoggiano Hezbollah e Assad, mi rispondono (indicando così che percepiscono quell’organizzazione come un corpo estraneo, indipendente dallo Stato), ma che differenza c’è rispetto a quanto fanno altri paesi, tra cui l’Arabia Saudita? È difficile non concordare con loro, se si tiene presente che la maggior parte degli attacchi terroristici vengono dall’estremismo sunnita; che spesso colpiscono comunità sciite; che, sebbene la monarchia saudita non incoraggi esplicitamente il terrorismo, fa propria la dottrina wahhabita, nota per la sua interpretazione estremistica dell’Islam, che, tra l’altro, considera gli sciiti eretici e, quindi, anche passibili di morte. Gli stessi rapporti annuali sul terrorismo stilati dal governo americano denunciano l’utilizzo nelle scuole saudite di «libri di testo con insegnamenti che istigano all’intolleranza e alla violenza, in particolare verso chi è ritenuto politeista, apostata o ateo»6. Insomma, si fa fatica a capire perché quello iraniano debba essere ritenuto peggiore di altri regimi.

Tornando a quanto si diceva all’inizio, si può scegliere di illuminare solo una faccia della realtà e usare alcuni termini pro domo nostra. «Terrorismo» è uno di questi.

«È tutta politica», così reagiscono gli iraniani quando si parla di tali argomenti, intendendo con ciò i propri, come gli altrui politici. Sono stufi di sentire i loro rappresentanti e il clero fare predicozzi agli altri e propaganda a se stessi. La Repubblica islamica non farebbe che pensare al bene dei propri cittadini, migliorare i servizi, soccorrere nelle difficoltà, trasmettere buoni insegnamenti. Ma, se da quarant’anni si va di bene in meglio, perché la gente comune boccheggia nei lacci di una burocrazia pervasiva e arbitraria, vede prosperare una classe politica corrotta e crescere il divario tra poveri e ricchi, osserva lo «Stato profondo» utilizzare le risorse del paese per finanziare se stesso e i propri amici all’estero? Allo stesso tempo gli iraniani sono però anche stufi di vedere l’ipocrita interessamento di altri paesi ai fatti di casa loro. Non gradiscono che li si istruisca su che cosa devono fare.

Durante gli eventi del dicembre 2017 (approfondimento alla pagine 24-25, ndr), quando le proteste contro il carovita hanno portato nelle strade migliaia di persone, diverse voci si sono levate da fuori per incoraggiare gli iraniani alla ribellione. A sentire gli incitamenti di persone al sicuro nelle proprie case, chi ha vissuto la guerra contro l’Iraq si è ricordato di quando Khomeini gridava: «A Karbala! A Gerusalemme! Combattere fino alla vittoria!» e mandava migliaia di giovani a morire in Iraq, mentre lui, i suoi famigliari e gli altri membri del clero se ne stavano a casa tranquilli. Di nuovo bisogna constatare: che differenza c’è?

Subito dopo l’elezione di Trump in Iran è comparsa una serie di aneddoti che lo paragonavano ad Ahmadinejad. Gli iraniani hanno individuato negli atteggiamenti del nuovo capo della Casa bianca una grande somiglianza con quelli del loro ex presidente, uno dei politici che maggiormente solletica il loro senso dell’umorismo. Perché, fortunatamente, gli iraniani amano scherzare su se stessi. Attraverso la rete e gli sms girano decine di aneddoti, sfornati a velocità strabiliante a ogni nuova occasione, anche tragica. È un modo di esprimere critica e disappunto, tollerato (qualcuno dice addirittura utilizzato, facendo circolare aneddoti ad hoc) dal regime, forse perché vi vede una valvola per far sfogare una rabbia altrimenti troppo compressa. Ce n’è per tutto e per tutti. Solo della Guida suprema e delle organizzazioni a lui legate (Sepah, Basij) non si parla mai direttamente. La Guida è il vicario in terra dell’«Imam nascosto», offendere lui è blasfemia e merita la morte.

Maria Chiara Parenzo

Note

  • (1) Anche qui quando si parla di iraniani si dice, in realtà, una verità parziale. Le opinioni che trasmettiamo sono state raccolte nella fascia urbanizzata del nord dell’Iran. Sono trasversali per classe sociale (dal povero al ricco), ma non riflettono il pensiero di chi ha incarichi pubblici o appartiene al clero.
  • (2)  Il nome completo è «Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica». «Sepah» significa corpo.
  • (3)  Vedi anche Annalisa Perteghella, «Due anni dalla firma del Jcpoa: l’accordo funziona ma non è ancora al sicuro», 14 luglio 2017, in www.ispionline.it.
  • (4) Annalisa Perteghella, Tiziana Corda, «Usa e Iran: l’azzardo di Trump sul nucleare», 11 ottobre 2017, in http://www.ispionline.it.
  • (5) Zarif: Trump ‘succhia’ i soldi dell’Arabia saudita, 22/05/2017, in www.asianews.it.
  • (6) «…some textbooks continue to contain teachings that promote intolerance and violence, in particular towards those considered to be polytheists, apostates, or atheists». U.S. Department of State, «Arabia Saudita», in «Country Reports on Terrorism 2016», p. 222.

(RAN_Shazdeh-Hosein-Shrine-Qazvin_AndreaMoroni_2017)


I fatti del dicembre 2017

Dietro «la rivolta delle uova»

Quelli di dicembre sono stati eventi legati alla perenne lotta tra i conservatori moderati del presidente Hassan Rouhani e gli ultraconservatori vicini alla Guida suprema. Da qualsiasi parte si analizzi la situazione, un dato è certo: in Iran la gran parte dei religiosi e delle persone legate al regime vivono nella ricchezza più sfacciata. Alla faccia della Rivoluzione e del popolo.

L’hanno chiamata «la rivolta delle uova» perché proprio in quei giorni il loro prezzo era triplicato, non per motivi politici, ma per una malattia dei polli che le aveva fatte scomparire dal mercato. Un nome scherzoso per qualcosa di molto serio. La scintilla è scoccata il 28 dicembre 2017 a Mashhad, feudo di Ebrahim Raisii, religioso a capo della miliardaria fondazione benefica che custodisce il mausoleo dell’Imam Reza, nonché rivale politico del presidente Hassan Rouhani. Occasione: l’aumento del costo di alcuni generi di prima necessità, tagli di sussidi e altre misure di austerità annunciate dal governo Rouhani. Sembra ormai assodato che sia stata una mossa mal calcolata nella lotta tra Rouhani, espressione dei conservatori moderati che vorrebbero modificare il sistema per permettergli di sopravvivere, e gli ultraconservatori, concentrati tra il clero e le organizzazioni non elettive dello «Stato profondo», cui le riforme sottrarrebbero parte di privilegi e potere. La presidenza Rouhani sta cercando di rendere più efficiente e trasparente il sistema economico. Ciò vuol dire anche ridurre i privilegi di fondazioni e organizzazioni paramilitari religiose, cui la Repubblica islamica concede di vivere in un limbo dove non si pagano tasse e non si è obbligati a spiegare come si utilizzano le ingenti risorse a disposizione. Queste istituzioni, di cui non è possibile stimare con esattezza il giro d’affari, hanno una presenza pervasiva in tutti i settori economici. È, in sostanza, un sommerso autorizzato che, secondo calcoli approssimativi, controllerebbe due terzi della ricchezza del paese. Dai tempi di una Rivoluzione fatta anche nel nome degli ultimi, religiosi e personalità legate al regime hanno accumulato fortune personali notevoli, e ciò è davanti agli occhi di tutti.

Trasparenza e rabbia popolare

Lo scorso 10 dicembre i telespettatori hanno sentito per la prima volta il presidente elencare le voci di spesa contenute nella legge di bilancio. La novità, insieme all’inedita richiesta di rendicontare per il futuro l’utilizzo dei contributi governativi, è stata interpretata come un tentativo di ottenere una maggior trasparenza. Si è venuto, così, a sapere che, se da un lato si programmavano aumenti di tasse e prezzi, dall’altro si destinavano ingenti somme a fondazioni religiose e le spese militari crescevano del 20% (l’inflazione è ufficialmente intorno al 10%). I telespettatori hanno capito che, mentre avrebbero dovuto aspettarsi un peggioramento delle proprie condizioni di vita, il regime concedeva ulteriori risorse a già facoltose istituzioni parassitarie e faceva pagare loro i costi di una politica estera ambiziosa. Nei giorni di dicembre queste novità correvano su tutte le bocche, alimentando una rabbia che già covava. Così è bastato poco per portare la gente in strada. La protesta si è fatta sentire, più che a Teheran, nelle provincie, dove più basso è il livello di vita e maggiori sono le difficoltà economiche. I manifestanti, soprattutto giovani, hanno gridato la propria frustrazione contro il sistema, ma non in nome di qualcosa o qualcuno. Per quanto si è capito, si è trattato di manifestazioni spontanee, organizzate grazie al passaparola e ai social network, non un movimento con chiari obiettivi e riferimenti politici. Ad esempio, a Izeh, nel Khuzestan, i manifestanti hanno occupato stazioni di polizia e uffici governativi, ma poi li hanno evacuati, non sapendo che farne.

Il discredito dei religiosi

C’è da chiedersi: chi ha dato inizio alle proteste per fare un dispetto al presidente non ha capito che avrebbe così anche dato la stura a sentimenti che già ribollivano nella gente, rischiando di trasformare una lotta di potere interna al sistema in una rivolta contro il sistema stesso? Chi è al potere, soprattutto se da lungo tempo, acquisisce una straordinaria incapacità di capire la realtà, perfino nelle sue forme più ovvie. Ed è ovvio che la gente comune è sempre più lontana dai discorsi ufficiali, sempre meno disposta a credere agli esponenti di una classe politica e religiosa, le cui parole anno dopo anno sono state sbugiardate dai fatti. Glielo si legge negli occhi, sempre più foschi di frustrazione e ansia per il futuro. A quegli occhi la classe al potere è caduta in totale discredito, riformisti o radicali che siano. E i più discreditati di tutti sono i religiosi, ai quali piace caricare sulle spalle della gente pesi che essi, invece, non sono disposti a portare. Per fare solo un esempio, consigliano ai malati di andare a impetrare guarigione al santuario dell’Imam Reza. Se loro hanno problemi di salute, invece, intraprendono costosi soggiorni all’estero per cure mediche.

Il predicatore del venerdì a Teheran, l’ayatollah Kazem Seddiqi, ha definito i protestatari «spazzatura». Altre personalità, tra cui la Guida suprema Ali Khamenei, hanno gettato la responsabilità della rivolta sui nemici esterni: Israele, gli Usa, i paesi del Golfo. È vero che da parte di Rouhani e dei moderati si è provato a dare una valutazione più realistica di ciò che è accaduto, ma quanto ciò corrisponda a sentimenti sinceri si capirà solo alla prova dei fatti.

I pericoli

C’è da augurarsi che i pallidi tentativi di cambiamento cui si è accennato si rafforzino e portino a una seppur graduale ristrutturazione del sistema, altrimenti c’è il rischio che tra qualche tempo ci si trovi ad affrontare altre rivolte. Non c’è da augurarsi che ciò si risolva in reazioni violente. Gli iraniani temono che il loro paese, in cui convivono etnie e confessioni diverse, possa diventare teatro di sanguinose lotte intestine, dove non sarebbe certo la gente comune a vincere.

Un cattivo governo è sempre preferibile alla guerra civile e chi ha incitato gli iraniani alla rivolta, o è un irresponsabile, o, molto più probabilmente, persegue un proprio interesse.

Maria Chiara Parenzo

 




Arabia Saudita – Usa: Trump d’Arabia


All’Arabia Saudita, paese ritenuto il principale sponsor (ideologico e finanziario) del terrorismo jihadista, Donald Trump ha venduto armi per miliardi di dollari. Il presidente e il re saudita hanno indicato l’Iran sciita come l’unico responsabile del terrore. Pochi giorni dopo la visita l’Isis ha attaccato Tehran.

Riyadh, Arabia Saudita, 21 maggio 2017. Nessuno dimenticherà presto quell’inquietante immagine, rimbalzata nei media e nei social network di tutto il mondo, che ritrae intorno a un globo luminoso il presidente Usa Donald Trump, il re Salman Bin Adbulaziz Bin al-Saud, padrone di casa, il presidente egiziano al-Sisi e, ai loro lati, i leader di altri 50 paesi islamici. La scena pare evocare rappresentazioni di fratellanze occulte per il dominio sul mondo.

Armi e miliardi

Il primo viaggio estero di Donald Trump aveva obiettivi politici, ma soprattutto economici a tutto vantaggio degli Stati Uniti. L’accordo stipulato con Riyadh prevede una vendita di armi all’Arabia Saudita per un valore di 110 miliardi di dollari da pagare subito e altri 350 miliardi in dieci anni. Un accordo elefantiaco che – come scrive John Wight (counterpunch.org, 23 maggio) – potrebbe essere un «incentivo che la politica e i media statunitensi richiedono per girarsi dall’altra parte quando [l’Arabia Saudita] decapita, crocifigge, cava gli occhi pubblicamente, e esegue altre punizioni crudeli e barbare su base regolare». Tale arsenale di distruzione dovrà difendere il già ben difeso Israele e rappresenterà una minaccia sia per l’Iran, uno dei bersagli preferiti della propaganda bellica di Trump, sia per tutto il Vicino e Medio Oriente e Nordafrica.

Trump: Iran terrorista

Nella sua visita, Trump non ha lesinato elogi per il regime di Riyadh, esaltandolo, paradossalmente, per la «lotta al terrorismo» e lanciando, allo stesso tempo, dure accuse all’Iran. Visti gli ampi studi e la documentazione al riguardo, non è un segreto per nessuno che la dottrina salafita wahhabita dell’Arabia Saudita sia la matrice ideologica e metodologica del jihadismo sia di al-Qa‘ida sia del Daesh, e responsabile del sostegno materiale all’estremismo cosiddetto islamico.

Appare dunque un chiaro segno di appoggio alle politiche di Riyadh, il discorso aggressivo e manipolatorio di Trump verso l’Iran: «Dal Libano all’Iraq allo Yemen, l’Iran finanzia, arma e addestra terroristi, milizie e altri gruppi estremisti che diffondono distruzione e caos nella regione. Per decenni, l’Iran ha alimentato il fuoco dei conflitti settari e del terrore. È un governo che parla apertamente di omicidi di massa, promettendo la distruzione di Israele, la morte dell’America, e la rovina per molti leader e nazioni riunite in questa stanza. Tra gli interventi più tragici e destabilizzanti dell’Iran c’è la Siria. […] Le nazioni responsabili devono lavorare insieme per porre fine alla crisi umanitaria in Siria, sradicare l’Isis, e riportare la stabilità nella regione. […] Finché il regime iraniano non diventerà un partner per la pace, tutte le nazioni con coscienza devono lavorare insieme per isolarlo, impedirgli di finanziare il terrorismo e pregare per il giorno in cui gli iraniani avranno il governo giusto che si meritano».

Trump attacca un paese che due giorni prima, il 19 maggio, era andato alle urne e aveva rieletto il moderato e filo occidentale Hassan Rohani (vedi sotto).

AFP PHOTO / Saudi Royal Palace / BANDAR AL-JALOUD

Re al-Saud: l’Iran è il colpevole

Ancora più grottesta la dichiarazione di re Salman Bin Adbulaziz Bin al-Saud: «L’Arabia Saudita rifiuta ogni estremismo e lotterà per fermarne il finanziamento. Vogliamo una vera collaborazione con gli Stati Uniti per perseguire la via dello sviluppo e della pace, così come chiede la nostra religione. L’islam sarà sempre la religione della pietà e della tolleranza. Oggi, tuttavia, alcuni presunti musulmani vogliono presentare un quadro distorto della nostra religione. L’Arabia Saudita non ha mai conosciuto il terrorismo fino alla rivoluzione khomeinista. L’Iran interferisce negli affari interni di altri paesi, come dimostra il suo intervento nello Yemen (Riyahd è protagonista in quella guerra, ndr). Noi non consideriamo nemico il popolo iraniano ma il regime iraniano. Con l’accordo di Sua eccellenza Trump colpiremo il terrorismo, divulgheremo inoltre la cultura della tolleranza contro il terrore e la sua propaganda».

Pecunia non olet

La chiave di lettura di tutta l’operazione di propaganda Usa-Saudita sta qui: «Vi ringraziamo per la creazione di questo grande momento storico – ha affermato Trump -, e per il vostro massiccio investimento in America, nella sua industria e lavoro. Vi ringraziamo anche per i vostri investimenti nel futuro di questa parte del mondo».

Pecunia non olet (il denaro non puzza): questo vale per qualsiasi potente, ma ancora di più per Trump, che, oltre a essere un capo di Stato è anche, o soprattutto, un uomo d’affari miliardario. In qualche modo, è quanto ha fatto notare il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, che, secondo quanto ha riportato l’agenzia iraniana ParsToday, ha sottolineato come uno degli obiettivi di Trump è «mungere i sauditi». Zarif ha ricordato che Riyadh è il più importante acquirente delle armi americane e, con Israele, il primo alleato di Washington nel Medio Oriente .

Probabilmente, come diversi analisti indipendenti hanno rilevato, le accuse di Trump, e di tutti gli altri presidenti Usa, contro l’Iran sono parte di una strategia volta a creare timori e minacce in Medio Oriente, e a vendere costosi arsenali bellici ai paesi arabi e islamici della regione.

Il «pacchetto di armamenti» (oltre 450 miliardi di dollari per tank, navi militari, sistemi missilistici di difesa, radar e comunicazioni, e tecnologia della sicurezza cibernetica) servirà – secondo quanto affermato dalla Casa Bianca – a «promuovere la sicurezza del Regno e della regione del Golfo di fronte alle minacce iraniane». Servirà anche a espandere le attività delle aziende statunitensi in Medio Oriente e a creare decine di migliaia di posti di lavoro nell’industria della «difesa», come si legge nella dichiarazione.

Sunniti contro sciiti

Il gotha dell’islam sunnita riunito in Arabia Saudita, tra sabato 20 e domenica 21 maggio, aveva l’aria minacciosa di una coalizione anti-sciita in procinto di organizzare una guerra a tutto campo contro gli odiati avversari religiosi, ma soprattutto geopolitici, nel Vicino e Medio Oriente. Infatti, il terrorismo mediorientale, cioè al-Qa‘ida e le sue filiazioni (compresa quella definita «moderata» di Jabat al-Nusra), e il Daesh (Isis), hanno origine e supporto nel paese ospite del vertice arabo e non certo in Iran. Una farsa pericolosa, dunque, portata avanti da leader irresponsabili.

Da parte sua, il nuovo inquilino della Casa Bianca ha perseguito due obiettivi importanti allo stesso tempo, e interconnessi tra loro: quello del business miliardario e dell’affondo all’Iran, in una prospettiva di conflitto totale tra i due schieramenti mediorientali: il sunnita – con i paesi del Golfo e la Turchia, determinati a dominare nella regione -, e quello sciita – con l’Iran, il Libano degli Hezbollah e la Siria di Assad. Fondamentale, in questo risiko giocato sulla pelle di milioni di esseri umani, sarà il ruolo della Russia di Putin e della Cina, che per il momento mantengono una certa compostezza.

Attraverso il business degli armamenti e di tutto l’indotto bellico l’economia statunitense prenderà fiato. Inoltre, gli Usa forniranno ulteriore protezione e sicurezza incondizionate a Israele – nonostante i crimini di cui continua a macchiarsi contro gli autoctoni Palestinesi -, e stabiliranno un predominio sul sempre strategico Medio Oriente. Insomma, siamo in una nuova fase del neocolonialismo occidentale, con gli Stati Uniti di Trump a ricoprire il ruolo di attore principale, in competizione o alleanza conflittuale con Gran Bretagna e Francia, e in antagonismo con Russia e Cina.

Il tornaconto dei leader arabi

Come storicamente hanno già dimostrato più volte, a partire dalla fine del secolo XIX e proseguendo nel XX, i leader arabi si distinguono per la totale incapacità di guardare oltre il loro tornaconto personale e familiare, e di seguire una politica estera autonoma, unitaria e in contrasto con quella delle potenze coloniali. Per comprendere la situazione odierna, infatti, è fondamentale ritornare alla storia dei paesi arabi dei primi decenni del Novecento e ai fallimentari accordi tra sceicchi arabi e potenze europee per la spartizione del Vicino e Medio Oriente, e alle vicende coloniali europee in Libia. Insomma, gli errori arabi si ripetono all’infinito, senza lasciar intravedere una maturazione.

La storia è ciclica, soprattutto nel mondo arabo e islamico e quando ci sono di mezzo potere e affari. Speriamo che questa nuova e macabra farsa non si trasformi in un’altra tragedia.

Angela Lano

1 / Il terrorismo e la «svolta» del 5 giugno 2017

Arabia Saudita contro Qatar

Lo scorso 5 giugno Arabia Saudita, Egitto, Bahrein ed Emirati arabi uniti hanno rotto le relazioni diplomatiche con il Qatar. L’Arabia Saudita, genitrice ideologica e materiale di ogni forma di devianza dottrinale, e i suoi alleati accusano Doha di «finanziare il terrorismo». E qui s’intende l’Iran e le sue relazioni con Siria e Hezbollah che, secondo il Trump-pensiero, sono all’origine del terrorismo, e non – invece – al-Qa’ida e il Daesh, come noto finanziate da Arabia Saudita e altri paesi del Golfo. Riyadh investe soldi a palate in Europa, Asia, Africa e Americhe sia per «business» sia per attività di «catechesi» (wahhabi). Il Qatar ha comprato mezza Europa e anch’esso finanzia qua e là per diffondere la stessa ideologia wahhabi. Tra i due paesi è in atto da tempo una guerra per procura che si allarga sempre di più, e il cui obiettivo è il controllo di vaste aree di Africa e Medio Oriente. Entrambi sono appoggiati da potenze occidentali (Stati Uniti, Israele, Gran Bretagna, Francia) che vedono in certe dinamiche l’«utile caos» per continuare a colonizzare militarmente ed economicamente ampie regioni del mondo. La crisi tra i paesi del Golfo sembra essere precipitata dopo la visita del businessman nonché presidente Usa, Trump, in Arabia Saudita.

Angela Lano

2 / Iran: le prime conseguenze

Tehran sotto attacco

Mercoledì 7 giugno terroristi dell’Isis hanno attaccato il parlamento di Tehran facendo almeno 12 morti. Il fatto è avvenuto dopo la rielezione di Hassan Rohani e dopo la rottura delle relazioni diplomatiche tra Arabia Saudita e suoi alleati con il Qatar (notizia a lato). Con Razie Amani, giornalista iraniana e docente all’Università di Tehran, abbiamo parlato delle accuse di Trump all’Iran.

«Le dichiarazioni di Trump sono in linea con la creazione di una Nato araba e con la presenza massiccia delle armi statunitensi in Medio Oriente, a difesa di Israele. L’attacco contro l’Iran è anche contro il Libano di Hezbollah e la Siria di Assad (cioè, gli “assi della resistenza”). Il Daesh, come fu per al-Qa‘ida, è stato creato per destabilizzare il Vicino e Medio Oriene, in particolare il Libano e la Siria».

A livello geopolitico che esiti avrà l’alleanza economico-militare tra Usa e Arabia, rafforzata dai recenti accordi? «Secondo me non esiste una vera alleanza, ma un affare enorme che gli Usa hanno fatto in Arabia Saudita, non solo a livello economico ma anche per rendere più forte la presenza statunitense in Medio Oriente. L’unica reale conseguenza geopolitica è il rafforzamento del regime di Riyadh in quanto suddito di Stati Uniti e Israele, e il tentativo di indebolimento dell’Iran nella regione. Dobbiamo comprendere che la Nato non gioca più a scacchi con la Russia sul territorio europeo, come decenni fa. Lo fa in Medio Oriente».

Rohani è stato rieletto. Quali sono le motivazioni e le prospettive? «È la figura che rappresenta la parte “moderata” e filo occidentale del paese. Rohani ha basato la sua propaganda elettorale sulla paura: “Se non voterete me, ci saranno guerra e sanzioni occidentali”. Come se le sanzioni non fossero in atto già da lungo tempo. La sua missione è realizzare un’apertura e una maggiore obbedienza dell’Iran agli Usa e alla grande finanza mondiale. Ma sappiamo che ciò non servirà a nulla, anzi, sarà dannoso». L’attentato del 7 giugno lo dimostra.

Angela Lano