Siria: Terroristi passati e futuri


Siamo entrati in una prigione del Rojava per incontrare un ex terrorista dell’Isis. L’organizzazione islamista è in ritirata, ma non è morta. Se lo stato curdo dovesse cadere, potrebbe tornare a farsi minacciosa.

Raqqa (Rojava). Sono passati cinque anni da quando la resistenza curda cacciava i terroristi dell’Isis fuori dalle città principali del Rojava, nel Nord Est della Siria. I combattenti dell’Ypg (Unità di protezione popolare) e dell’Ypj (Unità di protezione delle donne) riconquistavano le città di Raqqa, Kobane, Deir ez-Zor e Qamishle. Riprendevano possesso di territori diventati, nei quattro anni di occupazione dei militanti dello Stato islamico (Isis, o Daesh, acronimo arabo di «Stato islamico dell’Iraq e del Levante»), teatro di esecuzioni di massa, torture e distruzione.

Sono passati cinque anni e, oggi, la domanda è: i terroristi dell’Isis sono stati davvero sconfitti o si stanno solo nascondendo in attesa di riorganizzarsi? Qui in Rojava, gli attentati sono diminuiti, ma non sono mai cessati del tutto. Un ulteriore intensificazione del terrorismo sta avvenendo proprio in questi mesi, complici una nuova serie di bombardamenti da parte della Turchia e le conseguenze del devastante terremoto di febbraio. Questi eventi hanno favorito la fuga di diversi detenuti, riunitisi, in seguito, alle cellule terroristiche nascoste.

Per comprendere meglio lo stato delle cose, ho chiesto alle autorità curde di poter intervistare uno dei detenuti.

Dopo diverse settimane di controlli delle mie credenziali, colloqui e incontri con le autorità, riesco ad avere il permesso di parlare con un prigioniero, un uomo che aveva militato nelle file dell’Isis fino al suo arresto, avvenuto nel 2017, e che, prima della sua radicalizzazione, aveva anche vissuto e studiato in Italia.

L’ex terrorista sta scontando la sua pena nel carcere di al-Hasakah, il più grande del Rojava. Qui si trovano 3.500 detenuti di cui 700 minori, ragazzi soprannominati «i cuccioli del califfato».

Le misure di sicurezza sono tantissime. Proprio qui, il 20 gennaio 2021, un gruppo armato attaccò il carcere causando un’evasione di massa. L’attacco si trasformò in una battaglia, durata nove giorni, che vide la morte di 140 persone, tra guardie del carcere e forze dell’ordine.

Per questo costante stato di pericolo, vengo perquisito a fondo e scortato da alcuni militari.

Manette ai polsi di Adnan Bu Zedi, l’ex terrorista dell’Isis da noi intervistato in un carcere del Rojava. Foto di Angelo Calianno.

Dentro il carcere

Ad accogliermi c’è Omar (nome di fantasia), uno dei responsabili della sicurezza. A lui, chiedo di parlarmi della situazione attuale: «In Rojava deteniamo la maggior parte dei terroristi del Daesh, arrestati durante le operazioni di questi anni, operazioni che ancora continuano in tutto il territorio. Ci sono sempre tentativi di fuga. Qui, ce ne sono stati almeno venti negli ultimi due anni.

Come hai potuto vedere, i bombardamenti da parte della Turchia non favoriscono il nostro lavoro. Erdogan, e i capi dello Stato maggiore turco, per anni si sono scontrati con noi ma, capendo che il popolo curdo resiste e combatte, stanno tentando questa nuova tecnica: debilitare la sicurezza attorno alle strutture di detenzione, favorendo la fuga di potenziali terroristi che possono attaccarci dall’interno, mentre la Turchia prova a invaderci».

Gli chiedo: anche le famiglie dei detenuti, quelle rinchiuse nei campi profughi, sono considerate alla stregua di terroristi?»

«Le misure di sicurezza nei campi sono più leggere. All’interno di un territorio delimitato, quelle persone possono muoversi come vogliono, ricevono cibo e assistenza medica. Cerchiamo di trattare anche le famiglie dei terroristi con umanità ma, personalmente, credo che la maggior parte di loro siano terroristi. A parte la mia opinione, in questi campi troviamo continuamente, durante le perquisizioni, armi nascoste tra le tende. Purtroppo, la maggior parte delle radicalizzazioni oggi, avvengono proprio nelle prigioni e nei campi di detenzione, è un processo difficile da evitare. Possiamo dividere i criminali in base al grado di pericolosità, attuare misure di isolamento, ma parliamo di migliaia di persone, è un’impresa impossibile da raggiungere con le nostre risorse. Ora incontrerai uno dei prigionieri, io sarò dietro di te, armato, pronto a intervenire in qualsiasi caso. Potrai chiedergli quello che vuoi, tranne informazioni sulla prigione, domande a proposito dei suoi compagni o qualsiasi cosa possa rivelare la logistica del carcere. Inoltre, non potrai dire nulla su quello che accade al di fuori di qui, niente notizie sulla situazione politica o particolari sulle nostre misure di sicurezza».

Incontro con Adnan, carcerato ed ex terrorista

Adnan Bu Zedi, l’ex terrorista dell’Isis ritratto di schiena (su sua richiesta); in carcere dal 2017, non sa ancora quando e se sarà liberato, né quanto potrebbe durare la sua pena. Foto di Angelo Calianno.

Due soldati accompagnano un uomo, incatenato mani e piedi, verso la stanza messa a disposizione per l’intervista.

L’ex terrorista ha la testa coperta da un cappuccio nero, è visibilmente molto magro. Tolto il cappuccio, ci presentiamo. Pronuncia le sue prime frasi in un italiano quasi perfetto, ma preferisce continuare l’intervista in arabo. L’uomo dice di chiamarsi Adnan Bu Zedi, ha 39 anni ed è di nazionalità tunisina. Si trova in carcere dal 2017. Adnan è laureato in matematica. Dopo l’università, grazie a un programma interculturale, si è specializzato studiando a Roma e a Siena. Adnan ha vissuto in Italia quattro anni, dove ha anche lavorato, come commesso, per una famosa catena di negozi di abbigliamento.

«Sono stati molto belli i miei anni in Italia. Quando sono arrivato ero sì, musulmano, ma non molto praticante. Nemmeno la mia famiglia è stata mai molto religiosa», mi racconta.

La storia della radicalizzazione di Adnan comincia dal suo ritorno in Tunisia, nel 2011, durante le proteste della Primavera araba. «Sono tornato in Tunisia perché dovevamo fare qualcosa contro la corruzione e la povertà. La religione non aveva nulla a che fare con le mie azioni. Io volevo solo avere una vita normale, ma la situazione di quegli anni non ci permetteva di pensare al futuro, per questo erano cominciati gli scontri e le proteste. In quei giorni però, ho conosciuto dei ragazzi che mi hanno introdotto alla moschea e ai movimenti più radicali.

È stato facile avvicinarmi alla religione. Stavo vivendo un momento personale molto brutto. La mia fidanzata mi aveva lasciato, ero senza lavoro, avevo litigato con la mia famiglia e, di conseguenza, ero sprofondato in una brutta depressione. Questo è stato il motivo per cui mi sono avvicinato alla moschea, ad Allah e ai miei compagni. Ho trovato conforto e una nuova famiglia: mi sentivo parte di qualcosa.

Qualche tempo dopo, uno dei miei nuovi amici alla moschea, mi ha parlato della Siria. La guerra stava devastando il paese, c’era bisogno di riportare la parola di Allah in quelle terre e così, siamo partiti. Il nostro viaggio è stato interamente pagato da un benefattore (15mila dollari), leader del nostro movimento. Sono arrivato a Istanbul con regolare visto turistico. In seguito, illegalmente, con i miei compagni abbiamo passato il confine per arrivare in Siria. Lì è cominciata la nostra opera. Tutto questo è avvenuto prima dell’arrivo del Daesh. Il nostro gruppo non era violento, quello che facevamo era semplicemente predicare per strada, nelle moschee, e avvicinare i ragazzi più giovani all’Islam “giusto”. Quello è stato un bel periodo per me, economicamente stavo molto bene, tanto che mi sono riappacificato con la mia famiglia, alcuni di loro mi hanno anche raggiunto in Siria. Il movimento si sciolse dopo circa un anno, il nostro leader si era ammalato gravemente. Quindi, ho trovato un lavoro presso un distributore di benzina. Subito dopo, ho sposato una ragazza siriana.

Alla fine del 2013, alcuni miei amici mi hanno chiamato dicendomi che si stava formando una nuova organizzazione, un gruppo che avrebbe riportato ordine e la parola di Allah in Siria: era nato il Daesh. Mi sono trasferito a Raqqa e mi sono unito ai miei nuovi compagni. Io ho l’asma e, per l’Islam, chi è infermo non può combattere. Mi occupavo della logistica, soprattutto della ricerca di alloggi e infrastrutture per i combattenti».

In quei giorni, il Daesh si macchiava di orrendi crimini. Venivano uccise centinaia di persone senza motivo. Chiedo ad Adnan: vedendo questo, non hai mai avuto ripensamenti? Lo trovavi giusto? «Ho più volte avuto dei ripensamenti e considerato di poter tornare in Tunisia. I miei compagni, però, erano molto bravi a farmi cambiare idea. Devo dire che il fattore economico aveva un grosso peso: fino a quando eravamo affiliati, non avevamo mai problemi di soldi. Ci tengo a dire che, per me, le uccisioni erano sbagliate, perché nel Corano è scritto che non bisogna uccidere. Certo, ci sono alcuni casi in cui la violenza è necessaria: se, ad esempio, una donna tradisce, merita di morire; se un uomo ruba, è giusto che gli venga tagliata una mano».

Nel 2017, quando l’Isis cominciava a indebolirsi, Adnan, sua moglie e due figli, denunciati da un ex compagno «pentito», sono stati arrestati mentre cercavano di scappare verso la Tunisia.

Quando gli chiedo come si sente oggi e cosa farebbe se mai dovesse uscire dal carcere, mi risponde: «In galera ho capito il senso della vita. Se mai dovessi uscire, la mia priorità sarebbe quella di tenermi fuori dai guai, lontano dai problemi. Vorrei avere una vita tranquilla. La prima cosa che farei sarebbe quella di mangiare del miele, mangerei un po’ di miele ogni giorno, mi manca il suo sapore, non l’ho più assaggiato da quando sono qui».

Lo stadio di calcio di Raqqa; è stato teatro dei momenti più drammatici durante l’occupazione dell’Isis; è qui che avvenivano molte delle esecuzioni pubbliche; gli spogliatoi per gli atleti sono stati trasformati in celle per la detenzione degli «infedeli». Foto di Angelo Calianno.

Reem, la signora della pace

Lasciato il carcere di al-Hasakah, torno a Raqqa, quella che è stata la roccaforte dell’Isis per quattro anni. Qui sono state migliaia le persone, considerate «infedeli», giustiziate dal Daesh.

Cosa è successo a tutti quelli che, in qualche modo, sono sopravvissuti ai giorni di occupazione dei terroristi? Come vivono oggi? Quali sono le loro speranze per il futuro?

Reem, la «signora della Pace», ritratta di schiena in una delle stanze della sua piccola Ong; Reem indossa il burqa solanto per proteggere la sua identità. Foto di Angelo Calianno.

Una delle persone più adatte a rispondere a queste domande è Reem, una donna che ha fondato una piccola Ong che si prende cura delle vittime del terrorismo: persone che hanno avuto danni psicologici e fisici, gente che ha perso lavoro e famiglia. Grazie a un team di 37 volontari tra medici, psicologi e insegnanti, Reem cerca di guarire la ferita profonda lasciata dalla guerra. Per il suo impegno, molti poeti siriani le hanno dedicato delle odi, soprannominandola «Lady Peace» (signora della pace).

Mi racconta: «Pochi si rendono conto dei danni psicologici che il Daesh ha provocato e continua a provocare. Sono tantissime le persone che fanno fatica a uscire di casa, a causa dei traumi subiti durante i giorni di occupazione. Io sono una di loro. Vengo da una famiglia cristiana, mi sono convertita per sposare mio marito. A casa avevo una statua della Madonna e, per questo, un giorno degli uomini hanno fatto irruzione e distrutto tutto a colpi di mitragliatrice: tutti i miei ricordi.

Mentre provavo a lasciare Raqqa, una pattuglia del Daesh ci ha bloccato per strada prendendo a bastonate il taxi che ci trasportava: il motivo era che mia figlia, di 15 anni, non indossava un burqa integrale. Sono stati giorni tremendi, non ci si poteva fidare di nessuno, molti erano pronti a denunciarti anche solo per ottenere un pasto caldo. Un giorno, nel mio quartiere, hanno radunato tutti gli uomini non musulmani e quelli sciiti e, davanti ai nostri occhi, li hanno decapitati. Dopo aver assistito alla scena, la moglie di uno di quegli uomini è morta sul colpo, stroncata da un infarto.

Io, per l’ansia, da allora esco raramente e ho cominciato a fumare moltissimo. Ho ancora paura che quacuno mi possa fermare per strada e uccidere. Per la mia attività, per quello che ho deciso di fare aiutando le vittime del Daesh, sono in cima alle loro liste delle persone da eliminare. Per questo preferisco che non mi si veda in volto».

Un’immagine del centro di Raqqa, sullo sfondo s’intravvede la chiesa armena dei Santi Martiri. Foto di Angelo Calianno.

Torture e indottrinamento

Camminando per Raqqa, sono tantissimi i luoghi che portano le cicatrici della guerra contro il terrorismo. Centinaia sono i palazzi distrutti per essersi trovati in mezzo alla linea di fuoco nei combattimenti tra i terroristi e la coalizione internazionale. Malgrado le case siano ad alto pericolo di crollo, sono comunque occupate abusivamente. Molte di queste abitazioni hanno subito ulteriori crolli dovuti al terremoto del 6 febbraio, evento che ha ucciso migliaia di persone in Siria, molte nemmeno registrate come cittadini. Le uniche alternative, per chi ha perso tutto, sono l’occupazione abusiva o la vita in una tenda di un campo profughi.

Uno dei luoghi più noti per la detenzione, e le esecuzioni dell’Isis, è stato lo stadio di calcio di Raqqa. Un guardiano mi apre il cancello, mi mostra le stanze dove i terroristi tenevano gli «infedeli». Persone catturate perché non avevano osservato la sharia, o semplicemente perché di un’altra religione.

Qui incontro Majid, sunnita, uno dei ragazzi che, in queste celle, ha passato mesi. «Nel 2014 – racconta – il Daesh aveva distrutto la chiesa dei Santi Martiri, qui a Raqqa. Allora io, insieme a tanti musulmani, sciiti e sunniti, e a cristiani di varie confessioni, sono andato lì per rimettere su la croce, in segno di protesta contro l’occupazione. Sono stato arrestato in quell’occasione. Non mi sono mai tirato indietro contro le ingiustizie, ho sempre cercato di far sentire la mia voce con proteste pacifiche. Ovviamente, questo dava molto fastidio e così mi hanno arrestato e torturato. Le torture si alternavano a tentativi di indottrinamento. I primi giorni mi trattavano bene, mi davano molto da mangiare e, in seguito, mi parlavano a lungo del motivo per cui mi sarei dovuto unire al Daesh. Quando mi sono rifiutato, una delle prime volte, mi hanno legato, incappucciato e lasciato nel centro del corridoio, proprio qui all’ingresso degli spogliatoi dello stadio. Tutti quelli che passavano mi picchiavano, mi tiravano calci in testa, nelle costole, sulla schiena. Sono rimasto in quello stato per diversi giorni.

Poi, ancora nuovi tentativi di conversione e nuove torture. Una delle peggiori che ricordo è chiamata al-Shabh («il fantasma», in arabo), una tortura che consiste nell’essere appeso con le braccia in tensione dietro la schiena. Sono stato lasciato così quasi un giorno. Sono stato accusato di essere sciita, perché nella mia famiglia ci sono diverse persone che si chiamano “Alì”. In seguito, mi hanno accusato di essere comunista, ateo e di aver combattuto con i partigiani curdi».

«Durante quel periodo, mi sono gravemente ammalato di dissenteria. I miei carcerieri mi davano solo un minuto per poter andare in bagno, puoi immaginare le condizioni igieniche. Sulla porta della mia cella, con delle pietre, avevo disegnato un ideale passaggio rappresentato da un arco con dei fiori. Quell’immagine mi ha dato speranza. Sono rimasto imprigionato per 5 mesi e 20 giorni. Sono stato liberato perché la mia famiglia ha pagato un riscatto. Ancora oggi però, soffro di attacchi di ansia. Dormo pochissimo e ho continuamente incubi. Ci sono dei suoni che mi scatenano ancora terrore: il tintinnio delle chiavi, il rumore di un cancello che si apre, dei passi lungo il corridoio. Chi è sopravvissuto fisicamente all’Isis, dentro ha ancora delle ferite inguaribili».

Oggi Majid lavora in diversi campi di rifugiati in tutto il Medio Oriente. Si occupa di portare avanti progetti d’arte e pittura con i bambini che hanno perso casa e famiglia. Come prima immagine, quando si presenta ai ragazzi, mostra quell’arco con i fiori che gli ha dato speranza durante la prigionia.

Chi sostiene l’Isis

Oltre ai bombardamenti ordinati da Erdogan, a favorire l’Isis ci sarebbe anche Assad con il suo regime. Il presidente della Siria, secondo diversi comunicati dell’intelligence curda e Usa, decidendo di non intervenire in alcun modo per contrastare i terroristi dello Stato islamico, ne favorirebbe la circolazione e la sopravvivenza. Un recente dossier del Washington Institute (un centro studi statunitense sul Medio Oriente, ndr), parla anche di veri e propri finanziamenti in denaro e fornitura di armi.

Così come Erdogan, anche Assad auspica il crollo della democrazia del Rojava, cosa che gli darebbe la possibilità di occupare i territori del Nord Est, molto ricchi di petrolio.

Malgrado non ci sia più una vera occupazione da parte del Daesh, e la maggior parte delle cellule terroristiche si sia rifugiata nelle zone rurali e sulle montagne, il pericolo del terrorismo è ancora reale. Proprio nella struttura governativa curda, che mi ha ospitato a Raqqa, il 26 dicembre 2022 i terroristi dell’Isis hanno fatto irruzione, uccidendo sei persone.

A seguito di questo attacco, una nuova operazione antiterrorismo, effettuata dall’Sdf (Syrian democratic force), chiamata «Per i martiri di Raqqa», ha portato all’arresto di 32 terroristi e di decine di complici che ne favorivano la latitanza.

A oggi, sono 55 i villaggi sospettati di ospitare e sostenere gli uomini dello Stato islamico. Negli ultimi tre anni, grazie agli interventi dell’Sdf, sono stati sequestrati centinaia di milioni di dollari in contanti, nascosti da alcuni «facilitatori» che si occupavano degli aspetti finanziari del terrorismo islamista.

Malgrado la comprovata efficienza delle operazioni militari, moltissimo c’è ancora da fare, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto umanitario che coinvolge profughi e detenuti. Campi di detenzione e carceri rischiano di essere, secondo il parere dei vertici dello Stato maggiore curdo, degli incubatori per i terroristi di domani.

Angelo Calianno
(seconda parte – fine)

Periferia di al-Hasakah: in gran parte delle città non esistono discariche ufficiali, l’immondizia viene lasciata in enormi spazi, appena fuori dai centri abitati; qui s’incontrano molti ragazzi e bambini che, tra la spazzatura, cercano materiali da riciclare, soprattutto metalli da poter rivendere a peso. Foto di Angelo Calianno.


Dopo i 45mila morti del terremoto

La tragedia e il cinismo di Erdogan e Assad

I l devastante terremoto che, il 6 febbraio 2023, ha colpito il Sud Est della Turchia e il Nord Ovest della Siria, rischia di influire pesantemente anche sugli equilibri geopolitici del Medio Oriente.

Per quanto riguarda la Turchia, la zona colpita, una delle più povere del paese, è abitata per la maggior parte da curdi. Città come Salinurfa e Gaziantep, sono da sempre i centri principali dei movimenti di opposizione a Erdogan. Con le elezioni alle porte, previste prima per giugno 2023 ma, molto probabilmente, anticipate al 14 maggio, il presidente turco potrebbe usare il controllo degli aiuti come mezzo di propaganda. Erdogan si gioca molta della sua credibilità nella gestione di questa emergenza. In Turchia, la consapevolezza del rischio di un terremoto di questa entità esisteva da anni. Il governo parla di 4,2 miliardi di euro, spesi negli ultimi 20 anni, per la messa in sicurezza di case e infrastrutture. I partiti di opposizione rispondono che, visto quello che il sisma ha causato, quei soldi sono stati spesi in alcune zone piuttosto che in altre, svantaggiando i curdi, i nemici di sempre di Erdogan.

Le elezioni anticipate potrebbero giocare molto a sfavore dell’attuale presidente, ma anche per l’opposizione, che non ha ancora un leader abbastanza carismatico da contrapporre a Erdogan.

In Turchia sono arrivati volontari da tutto il mondo. La macchina degli aiuti si è mossa velocemente. Nonostante questo, al momento (6 marzo), sono oltre 40mila le vittime di questo terremoto.

Ancora più complicata è la situazione in Siria. Il terremoto, oltre alle migliaia di vittime dovute allo stato precarissimo delle costruzioni, ha causato l’ennesima evasione di terroristi dello Stato islamico da alcuni dei centri di detenzione. Inoltre, la Siria è ancora uno stato sottoposto a sanzioni, quindi, l’ingresso di aiuti umanitari e invio di denaro è molto complicato.

Il ministro del Tesoro degli Stati Uniti, Wally Adeymo, ha dichiarato sospese, almeno temporaneamente, alcune delle penalizzazioni nei confronti del paese, per permettere l’ingresso alle organizzazioni umanitarie.

Tuttavia, i soccorsi sono arrivati e stanno arrivando molto in ritardo. Le Nazioni Unite ne hanno posticipato l’invio per il timore che Assad possa usare il coordinamento degli aiuti come ulteriore arma per rafforzare il proprio regime, e controllare quelle aree ancora a lui ostili. In questo momento, le Ong stanno cercando un modo per inviare denaro, e supporto, direttamente alle organizzazioni umanitarie già presenti in Siria (come, ad esempio, i volontari White Helmets), evitando così che tutto debba passare al vaglio di Damasco. A questo, si sono opposti Iran e Russia, alleati del presidente Assad.

A oggi, sono quasi seimila le vittime in Siria, numero destinato drammaticamente a salire, poiché sono davvero poche le aree raggiunte dai soccorsi.

Un ulteriore problema, che la Siria dovrà affrontare, sarà l’ondata di persone che tenteranno di fuggire dal paese, il terremoto ha distrutto quel poco che rimaneva di molte aree già provate da più di un decennio di guerra.

An.Ca.

L’interno della chiesa armena dei Santi Martiri oggi interamente ricostruita dopo essere stata distrutta durante l’occupazione dei miliziani dell’Isis; la ricostruzione è avvenuta anche grazie all’aiuto di molti volontari, soprattutto musulmani. Foto di Angelo Calianno.

I cristiani del Rojava

Fuga senza fine

Nel 2011, erano 400 le famiglie di cristiani residenti a Raqqa. Una comunità, molto praticante, partecipava a tutte le funzioni domenicali e delle festività, soprattutto quella natalizia. L’occupazione dell’Isis, l’impossibilità di praticare la propria religione e le persecuzioni, hanno causato la  fuga della maggior parte dei fedeli. Oggi, a Raqqa sono rimasti meno di 60 cristiani, quasi tutti uomini. Malgrado alcune chiese siano state ricostruite (come quella armena in foto), non si celebrano più messe per la mancanza di parrocchiani. Dei 150mila cristiani che si stimano presenti nel Rojava, una gran parte sta a al-Qamishle e dintorni. In tanti si sono trasferiti a Erbil, nel Kurdistan iracheno, dove la comunità cristiana è relativamente benestante.

An.Ca.

L’esterno della chiesa armena dei Santi Martiri oggi interamente ricostruita dopo essere stata distrutta durante l’occupazione dei miliziani dell’Isis; la ricostruzione è avvenuta anche grazie all’aiuto di molti volontari, soprattutto musulmani. Foto di Angelo Calianno.




il martirio delle suore in yemen

YEMEN

La superiora della comunità di Aden ha affidato a una consorella le drammatiche fasi dell’assalto alla casa di cura per anziani e disabili. Le suore sono morte per la “fedeltà” alla loro missione, facendosi trovare pronte “ad accogliere lo sposo”. Un sacrificio di sangue nella speranza che sia “germoglio di pace per il Medio oriente e perché serva a fermare l’Isis”. La lettera autografa (Pdf).

da Aden (AsiaNews)

“A causa della loro fedeltà, esse si sono trovate al posto giusto e al momento giusto, e si sono fatte trovare pronte per accogliere il loro sposo”. Con queste parole, suor Rio ha descritto il sacrificio delle consorelle missionarie della Carità massacrate ad Aden, nello Yemen, il 4 marzo scorso per “motivi religiosi”. La religiosa ha raccolto la drammatica testimonianza di suor Sally, superiora della casa per anziani e disabili teatro dell’attacco dei miliziani dello Stato islamico (SI). Unica sopravvissuta, suor Sally ha affidato alla consorella suor Rio il racconto dell’attacco, le violenze dei miliziani, le violenze perpetrare in nome e a causa della fede. 

Il racconto è stato trascritto in un secondo momento da una terza religiosa, suor Adriana, che ha diffuso il testo (che trovate pubblicato in questa pagina) fra le varie comunità religiose degli Stati Uniti. Nei giorni scorsi mons. Edward Rice, vescovo ausiliare dell’arcidiocesi di Saint Louis, ha citato diversi passaggi del drammatico racconto di suor Rio, elogiando il sacrificio compiuto dalle suore per la fede e il loro servizio per gli altri. Un servizio che riflette il carisma della fondatrice dell’ordine, Madre Teresa di Calcutta. 

Ecco, di seguito, il drammatico racconto della mattinata dell’attacco, raccolto dalle missionarie della Carità e pubblicato dal National Catholic Register. Traduzione a cura di AsiaNews: 

Come tutte le mattine, le suore hanno ascoltato la messa e poi hanno fatto colazione. Secondo consuetudine, il sacerdote è rimasto in cappella a pregare, e poi ha iniziato a sistemare le cose rimaste in sospeso nella struttura.

Alle 8 del mattino le suore hanno recitato l’apostolato della preghiera secondo le intenzioni e poi si sono dirette verso la casa.

Alle 8.30 un gruppo di miliziani dello Stato islamico vestiti di blu hanno fatto irruzione, uccidendo una guardia e l’autista.

Cinque giovani etiopi, di religione cristiana, hanno iniziato a correre in direzione delle suore per dire loro che membri dell’Isis avevano fatto irruzione ed erano lì per ucciderle. I cinque sono stati uccisi uno ad uno. I miliziani li hanno legati agli alberi, gli hanno sparato alla testa e poi gli hanno fracassato il cranio a colpi.

Le suore hanno iniziato a correre, a due a due, in direzioni diverse dato che all’interno della struttura vi erano in quel momento ospiti uomini e donne. Quattro donne che lavoravano nel compound hanno iniziato a urlare: “Non uccidete le suore! Non uccidete le suore!”. Una di loro è stata la cuoca per 15 anni del centro. I miliziani hanno ucciso anche loro.

Essi hanno preso per prime suor Judith e suore Reginette, le hanno legate, hanno sparato loro alla testa e hanno fracassato loro il cranio. Mentre le suore correvano in direzioni diverse, la superiora è corsa all’interno del convento per cercare di avvertire p. Tom.

In un secondo momento hanno catturato suor Anselm e suor Marguerite, le hanno legate, hanno sparato loro alla testa e poi l’hanno sepolta sotto la sabbia.

Intanto la superiora, pur provandoci, non riusciva ad accedere al convento. Non era dato sapere quanti uomini dell’Isis ci fossero nella struttura.

Ha visto tutte le consorelle e gli aiutanti uccisi. I miliziani dell’Isis volevano accedere al convento, per questo la suora ha cercato riparo nella cella frigorifera, perché in quel momento la porta era aperta. Vi erano membri dell’Isis dappertutto, in cerca della superiora, perché sapevano che le suore presenti nella struttura erano cinque. Sono entrati almeno tre volte nella stanza frigorifera. Suor Sally non si è nascosta, ma è rimasta in piedi, dietro la porta, e loro non l’hanno mai vista. Questo è un vero e proprio miracolo.

Nel frattempo, al convento, il sacerdote sentendo le urla ha consumato tutte le ostie. Egli non ha avuto il tempo di far sparire anche l’ostia più grande e ha disperso l’olio della lampada gettandolo nell’acqua.

Un vicino ha visto [gli assalitori] gettare p. Tom all’interno della loro auto. E di lui non si è più ritrovata alcuna traccia. Tutto il materiale sacro e gli oggetti di carattere religioso erano gettati a terra e distrutti – la Madonna, il crocifisso, l’altare, il tabeacolo, il sostegno per il libro delle letture – e anche i libri di preghiera e le Bibbie, completamente devastate.

Fra le 10 e le 10.15 i miliziani dello Stato islamico hanno concluso il loro raid e se ne sono andati.

Suor Sally è rientrata per raccogliere i corpi delle consorelle uccise. Le ha riunite tutti insieme. Poi ha visitato i pazienti e gli ospiti, uno ad uno, per verificare che stessero bene. E tutti erano sani e salvi. Nessuno aveva riportato ferite.

Un figlio della cuoca (uccisa nell’assalto) la stava chiamando sul cellulare. Dal momento che non riceveva risposta, egli ha chiamato la polizia e con gli agenti si è recato al compound, dove gli si è presentata agli occhi la scena del massacro. La polizia e il figlio sono arrivati verso le 10.30 del mattino.

La polizia ha cercato di portare via suor Sally, ma lei ha opposto un netto rifiuto dicendo che non avrebbe abbandonato queste persone in lacrime. “Non abbandonarci, resta con noi” le gridavano gli ospiti della struttura. Tuttavia, la polizia l’ha portata via con la forza perché i miliziani dello SI sapevano che, all’interno, vi erano cinque suore ed era pressoché certo che non si sarebbero fermati fino a che non avrebbero ucciso pure lei. Per questo, alla fine, ha dovuto accettare il fatto di andarsene. Ha preso un ricambio di abiti e i corpi delle consorelle; la polizia le ha trasportate fino a un ospedale gestito da personale di “Medici senza frontiere”, all’interno del quale avrebbe ricevuto protezione. Dato che non vi era spazio a sufficienza nella camera mortuaria dell’ospedale, la polizia ha portato i cadaveri delle religiose nell’obitorio di una struttura più grande.

Suor Sally ha detto a suor Rio di essere triste perché ora è sola non ha potuto morire con le sue consorelle. Suor Rio le ha risposto che Dio l’ha voluta come testimone, perché riferisse del massacro e le ha aggiunto: “Chi avrebbe potuto ritrovare i corpi delle suore e chi ci avrebbe potuto raccontare quello che è successo? Dio voleva che sapessimo”.

Il segretario particolare di papa Francesco ha contattato a più riprese le autorità dello Yemen, almeno una volta settimana per sincerarsi delle condizioni delle suore e rassicurarle circa la sua vicinanza. Oggi, il segretario del papa ha inviato un messaggio: “Voglio ringraziarvi, piccole missionarie della Carità oggi martiri”. Egli ha anche aggiunto che offre a loro le 40 ore di preghiera che iniziano il primo venerdì del mese.

Suor Sally ha raccontato a suor Rio che p. Tom diceva loro ogni giorno: “Siamo pronti al martirio”.

Suor Judith: hanno cercato in tutti i modi di farle compiere studi di alto livello, ma non sono riusciti a farla uscire dallo Yemen.

Suore Reginette: per lei erano previsti dei corsi di primo livello, ma non è stato possibile portarla via. Dio voleva che restassero lì.

Aden è una città portuale e ricca. Aden voleva crearsi una propria autonomia statale e amministrativa, per questo hanno favorito l’ingresso dei miliziani dell’Isis per combattere contro le autorità dello Yemen. Ecco perché l’Isis ha vinto ad Aden. Questo è stato il risultato della guerra dello scorso anno, con tutti quei bombardamenti. Hanno vinto, è finita così, ma l’Isis non se ne andrà. Essi vogliono impadronirsi del potere e sradicare la presenza cristiana. Essi non hanno ucciso le suore nel contesto della guerra, perché non avevano alcun interesse politico a perdere tempo con loro. Ma oggi, che sono l’unica presenza cristiana, l’Isis vuole sbarazzarsi di ogni minima traccia o presenza della cristianità. Ecco perché le suore sono delle vere martiri, perché sono morte per il solo fatto di essere cristiane. Avrebbero potuto morire molte volte durante la guerra, ma Dio ha voluto così perché fosse chiaro che esse sono delle martiri per la fede.

Suor Rio racconta che suor Sally si è completamente lasciata andare. La polizia ha cercato di farla andare via, perché i miliziani resteranno sulle sue tracce fino a che non l’avranno uccisa. Si è lasciata andare e ha detto a suor Rio che Dio faccia di lei ciò che vuole. Ha detto anche che gli altri musulmani le trattavano con rispetto. Ha detto anche di pregare perché il loro sangue sia germoglio di pace per il Medio oriente e perché serva a fermare l’Isis.

Ha detto anche che se hanno rapito p. Tom [di cui non si hanno notizie certe a distanza di due settimane dall’attacco, ndr] di aspettare un paio di giorni, e poi avrebbero chiesto un riscatto in denaro per liberarlo oppure il rilascio di alcuni miliziani detenuti in prigione.

Suor Rio ha detto che erano così fedeli, per questo l’Isis sapeva benissimo quando andarsene e quando fare irruzione. E a causa della loro fedeltà, esse si sono trovate al posto giusto e al momento giusto, e si sono fatte trovare pronte per accogliere il loro sposo.

Suor Adriana ritiene che l’aver spaccato loro il cranio potrebbe avere un legame malvagio con il passaggio biblico “e lei schiaccerà la testa del serpente”, in segno di disprezzo o come segnale ulteriore della loro malvagità.

Di seguito i nomi corretti delle suore:

Suor M. Sally, MC (Superiora, unica sopravvissuta al massacro)

Suor M. Anselm, MC (Bihar, India)

Sister M. Marguerite, MC (Rwanda)

Sister M. Judith, MC (Kenya)

Sister M. Reginette, MC (Rwanda)

 




sventola bandiera nera 2


Paesi occidentali e arabi sono in guerra contro il Daesh. Eppure il Califfato di al-Baghdadi resiste e, anzi, cresce e raccoglie proseliti. Chi sono i jihadisti che si arruolano? E come si spiega la loro scelta?


2014-2016, i due anni dello «stato islamico»

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La guerra (poco) santa del Daesh

 Paesi occidentali e arabi sono scesi in campo contro il Daesh (il nome arabo dell’Is, il cosiddetto Stato islamico). Eppure il Califfato di al-Baghdadi resiste e, anzi, raccoglie proseliti. Chi sono i jihadisti che si arruolano? Da dove provengono? Come si spiega la loro scelta? In questo dossier – proseguimento di quello del gennaio 2015 – cerchiamo di fornire qualche risposta.

«I crociati divisi di Oriente e Occidente si pensavano al sicuro nei loro jet mentre bombardavano vigliaccamente i Musulmani del khil?fah (califfato, ndr) […]». Così inizia la prefazione al numero di dicembre 2015 della rivista «Dabiq», organo di stampa del Daesh. E prosegue: «Ma Allah ha decretato che la punizione si sarebbe abbattuta sui crociati guerrafondai da dove non si sarebbero aspettati. Così, i benedetti attacchi contro i russi e i francesi sono stati eseguiti con successo nonostante la guerra dell’intelligence internazionale contro lo Stato islamico. Entrambe le nazioni crociate hanno distrutto le proprie case con le proprie mani per mezzo delle loro ostilità verso l’Islam, i musulmani e il Califfato».

Il 13 novembre 2015 l’Occidente è scosso dagli attacchi terroristici a Parigi che provocano 129 morti tra Francesi, Europei e Arabi. Tale tragedia è preceduta da altre che non ricevono la stessa attenzione mediatica e politica: il 12 novembre in un quartiere sciita di Beirut vengono uccise 43 persone; il 31 ottobre, l’esplosione di un aereo russo sul Sinai dilania 224 tra adulti e bambini; il 10 ottobre, un attentato ad Ankara colpisce una manifestazione pacifica facendo 102 vittime; e poi ancora attentati, benché non tutti direttamente a firma del Daesh, in Iraq, Kenya, Mali, Somalia, Tunisia, Siria, Libia, Usa, Indonesia, Burkina Faso, sia precedenti che successivi ai fatti di Parigi.

L’elenco dei morti è lungo e, se guardiamo con attenzione ai luoghi e alle persone, notiamo che la stragrande maggioranza delle vittime degli attacchi è musulmana. Nella stessa Parigi, ad esempio, sono stati uccisi diversi arabi musulmani. Dunque, oltreché una guerra contro l’Occidente, è in atto una guerra intra e inter islamica, cioè tra fazioni e popolazioni musulmane, alimentata da odii settari, regimi e gruppi sanguinari, e da retaggi di guerre coloniali passate e presenti.

Dal 2011, gruppi legati ad Al-Qaida, di cui l’Is originariamente faceva parte, sono stati armati, addestrati, finanziati da Europa, Usa e alleati turco-arabi (tra cui l’Arabia saudita), per abbattere regimi e dittature non funzionali al dominio occidentale. Questi gruppi hanno contribuito a devastare Libia, Siria, Iraq e altri stati.

Testimonianze, documenti e foto dimostrano che organizzazioni armate e addestrate dalla Nato sono passate dalla Libia alla Siria. Esse hanno acquisito armi, competenze e conoscenze sufficienti per fare ciò che vogliono, e per sperimentare le loro tecniche di «guerra urbana» anche in Europa, com’è successo a Parigi. In questi casi non si tratta più di grandi organizzazioni terroriste, ma di «cellule» che, giunte dall’esterno o già presenti nel paese, si attivano dopo il «patto di alleanza» con il gruppo terrorista e l’ordine ricevuto.

Dabiq, manuali e war-game

Consultando la rete internet non è difficile incontrare la rivista dell’Is, «Dabiq», o «manuali del combattente» come l’How to survive in the west. A mujahid guide, 2015 (Come sopravvivere nell’Occidente. Una guida per il mujahid), da scaricare e leggere per apprendere l’arte della dissimulazione, o taqiyyah, e fingersi bravi cittadini allo scopo di preparare indisturbati l’attacco terrorista; per imparare i modi in cui ingannare gli odiati kuffar, miscredenti, tramite carte di credito clonate, phishing (furto di dati e informazioni personali), furti, o per imparare le tecniche della guerriglia urbana, descritte minuziosamente per la «cellula dormiente da attivare al momento giusto, quando la ummah (comunità dei credenti) ha bisogno di te», o, ancora, per diventare esperti nelle modalità «dark» di comunicazione tra combattenti via internet1, per non essere scoperti dalle polizie dei vari paesi.

«La guerra imminente per la conquista di Roma – si legge nel manuale del combattente – consisterà principalmente in guerra urbana dentro le città e le strade europee», come è accaduto a Parigi o a Tunisi. E per essere pronti, i combattenti islamisti si addestrano all’uso delle armi, si allenano in palestra, fanno arrampicata, giocano con videogame di guerra, tra i quali i famosi «Call of Duty».

Tutto, dall’uccisione del miscredente, al comportamento illecito, all’abuso, è giustificato attraverso ahadith2 (ovvero, i detti del Profeta) selezionati e menzionati ad hoc, e rafforzato dalla convinzione che governi e corporazioni occidentali si comportino da criminali. La distinzione, operata a volte da governi e media occidentali, tra jihadista «moderato» (utile ad esempio in Siria per destituire Al-Assad, ndr) e terrorista, non ha senso. Tutti attingono dalle medesime fonti.

«Tutti questi eccessi, il discorso del martirio, i comportamenti immorali, la dissimulazione, la violenza, costituiscono un abuso da parte dell’Is e degli altri gruppi, una strumentalizzazione politica della religione», ci dice Roberto Aliotta, musulmano sufi e responsabile di una comunità ad Albenga (Savona). «Senza una guida spirituale, il Sacro Corano diventa lo strumento per giustificare ogni genere di crimine. L’abbandono del sufismo da parte degli Arabi ha avuto effetti catastrofici e li ha fatti tornare all’epoca preislamica. L’Is, così come altri gruppi, utilizzano alcuni versetti del Corano e certi ahadith per giustificare le loro azioni e far scattare la trappola del takfirismo (l’ideologia che usa l’accusa di miscredenza e apostasia, cfr. il glossario). Purtroppo il salafismo attuale (che vorrebbe un Islam «puro» come quello delle origini) incoraggia l’interpretazione personale degli ahadith, inducendo all’esaltazione della propria visione, sia essa incline alle degenerazioni modeiste o alla superficialità dei “letteralisti”».

Alla conquista di «Roma»

«Conquisteremo la vostra Roma – si legge su «Dabiq» di aprile 2015 -, spezzeremo le vostre croci e renderemo schiave le vostre donne, con il permesso di Dio, il Glorificato. Questa è la sua promessa fatta a noi. Egli è glorificato e non manca nelle sue promesse. Se non raggiungeremo quel momento, lo raggiungeranno i nostri figli e nipoti, e venderanno i vostri figli al mercato degli schiavi».

L’11 dicembre 2015, il sito del quotidiano britannico Dailystar pubblica un video dell’Is intitolato Incontrando Dabiq. In esso viene proposta una visione apocalittica degli ultimi giorni sulla Terra3. Roma è presentata come lo scenario della battaglia finale tra i «crociati» e i «credenti», con sequenze che mostrano la Città del Vaticano e un’unità corazzata dell’Is che avanza verso il Colosseo. La preparazione di jihadisti, da parte dell’Is, a una missione suicida viene mostrata in una parte del video intitolata Le ultime parole prima dell’operazione di martirio.

Quando lo Stato islamico parla di «Roma», traduce il termine arabo al-R?m, i Romani, cioè i Bizantini dell’Impero romano d’Oriente, rifacendosi alla omonima sura XXX del Corano che, al versetto 2, fa cenno alla conquista di Bisanzio da parte dei persiani: «I bizantini sono stati sconfitti». Tuttavia la stessa sura prosegue preconizzando la rivincita dei Romani: «Ma loro, dopo la sconfitta, vinceranno». Essa infatti si riferisce a eventi contemporanei al profeta Muhammad che videro quest’ultimo parteggiare per i Bizantini. Nel 614, i persiani politeisti di Cosroe avevano, infatti, occupato Damasco e Gerusalemme, compiendo saccheggi e devastazioni, avevano colpito anche l’Egitto ed erano arrivati a minacciare Costantinopoli. Alla Mecca, i nemici dei primi musulmani si rallegravano per le vittorie dei Persiani, ma la piccola comunità del profeta parteggiava per i Bizantini, monoteisti. Diciamo che il Corano, dunque, tiene le parti dei Romani in quanto cristiani, cioè genti del Libro, contro i Persiani.

Dove attinge allora l’Is, per giustificare le minacce a «Roma»? Come di consueto, dalla miriade di ahadith. Esiste una profezia riguardante la conquista di Roma menzionata da ahadith di Sahih Muslim, riportati nel già citato numero di aprile di «Dabiq», in cui vengono nominate Costantinopoli e Roma: «Questi ahadith indicano che i musulmani saranno in guerra con i cristiani romani – si legge a pagina 33 -. Roma, nella lingua araba del profeta si riferisce ai cristiani d’Europa e alle loro colonie in Siria prima della conquista della Siria stessa per mano dei Sahabah (primi musulmani). Ci sarà una pausa in questa guerra dovuta a una tregua o trattato. Durante questo tempo, musulmani e Romani combatteranno un nemico comune».

Dunque, dal punto di vista della tradizione ortodossa, la pretesa dell’Is di far guerra a Roma, dopo Costantinopoli, avrebbe un fondamento? Sia i versetti del Corano sia gli ahadith che citano la guerra contro Roma sarebbero da contestualizzare storicamente, ma nell’Islam la lettura storico-critica dei testi sacri è negata. «Dabiq» allora interpreta la profezia dandole un valore escatologico, da fine dei tempi, per avvalorare la conquista di Roma in questa epoca storica. A partire da questa visione profetica «senza tempo» e «senza territorio», e mancando un capo religioso riconosciuto da tutta la ummah, chiunque, con un po’ di potere, può decidere di muovere guerra decodificando Corano e ahadith a modo proprio.

Contro i «crociati cristiani»

L’Is spiega il perché del suo odio contro i «crociati cristiani»: «Oh Americani ed Europei – si legge, sempre nello stesso numero di «Dabiq» -, lo Stato islamico non ha iniziato una guerra contro di voi, come i vostri governi e media cercano di farvi credere. Siete voi che avete iniziato la trasgressione contro di noi e dunque siete voi a meritare il biasimo e a pagare un alto prezzo. Pagherete il prezzo quando le vostre economie collasseranno. Quando i vostri figli saranno mandati a fare guerra contro di noi e toeranno a voi disabili, amputati, dentro bare o mentalmente malati. Quando avrete paura di viaggiare in altre terre. Quando camminerete per strada, girando a destra e a sinistra, temendo i musulmani. Non vi sentirete sicuri nemmeno nei vostri letti. Pagherete il prezzo quando questa crociata collasserà, e vi colpiremo nella vostra terra e voi, da quel momento in poi, non sarete più in grado di far male a nessuno. Pagherete il prezzo e noi abbiamo preparato per voi ciò che vi farà soffrire». Sarà la «campagna finale», la battaglia apocalittica che avverrà in Dabiq, territorio nella Siria settentrionale in cui la profezia pone l’atto conclusivo della guerra contro i Romani. Dunque, afferma l’Is, «preparatevi, colpiteci, uccideteci, distruggeteci. Non servirà a nulla. Sarete sconfitti, perché il nostro Signore, l’Onnipotente, ci ha promesso la vittoria contro di voi e la vostra sconfitta».


 

Fragilità psicologiche e sociali di chi si arruola

Il giovane jihadista – la ferocia dell’Is

Il desiderio del martirio, il sentimento di essere parte di una comunità eroica di invincibili, il senso di rivalsa verso un mondo che esclude e procura sofferenze, l’esaltazione religiosa, l’abuso di droghe, sono alcune delle caratteristiche dei giovani combattenti dell’Is, spesso con una vita poco o per nulla religiosa alle spalle.

Essere uccisi, è, per i combattenti dell’Is, una vittoria: «Questo è il segreto. Voi combattete un popolo che non può essere sconfitto», perché non ha paura della morte (cfr. «Dabiq», n. 4, 2015). Anzi, la invoca.

La componente tanatofila (amore per la morte) di questo radicalismo violento cavalca il concetto islamico di «martirio», shahadah, come potente arma di testimonianza e riscatto dei popoli contro l’oppressore, trasformandolo nell’aspirazione massima cui deve tendere il mujahid, il combattente. Diventa un fine, e non più un mezzo, della «teologia della liberazione islamica». In diverse pagine del citato manuale del mujahid viene ripetuta l’idea del sacrificio cui devono aspirare i «soldati» dell’Is: «Il vostro lavoro non finirà finché non otterrete il martirio. E chiediamo ad Allah che avvenga presto».

La martirologia fa parte del retaggio culturale religioso dei popoli musulmani, sia sunniti sia sciiti, e, secondo l’islamologo francese Bruno Etienne, nel suo libro L’islamismo radicale (Rizzoli 2001), ancora oggi termini come fity?n (giovane, eroe), muj?hid (colui che intraprende una lotta interiore, e anche militare, per il bene della comunità), fid?’o sh?hid (sacrificarsi per qualcuno o qualcosa), istishh?d (essere testimone tramite il martirio), «modeizzati dalle guerre di liberazione nazionale e rivoluzionaria, dall’Algeria alla Palestina», hanno una connotazione religiosa ed escatologica molto forte, soprattutto in relazione ad apostati, miscredenti, tiranni, oppressori. E, dunque, un fid?’?, uno che si immola individualmente, o un muj?hid, un combattente, morti, diventano martiri della fede: sh?hid.

Il giovane jihadista: chi è?

Ciò che hanno in comune i terroristi delle Torri Gemelle con quelli di Parigi e di altri attacchi in Europa e in altre regioni del mondo, è il fatto che non corrispondono al modello stereotipato del fanatico religioso: bevono alcornol, almeno fino a poco prima di immolarsi, hanno storie di droga, non frequentano le moschee, vanno con le prostitute e in locali equivoci, non pregano, i conoscenti li descrivono come allegri, socievoli, giovani che si divertono.

Queste considerazioni si applicano tanto ai jihadisti provenienti dalla classe media e alta, quanto a quelli delle classi popolari: sembrano semplici laici, per lo meno fino a poco prima degli attacchi.

Dunque, il jihadismo, tanto per i «nati musulmani», quanto per quelli che lo diventano, rappresenta una «conversione», una rinascita personale, una nuova vita. E ciò accade, in genere, poco prima che essi si arruolino nelle fila di qualche organizzazione.

In un certo senso la trasgressività delle loro vite anteriori alla conversione si trasferisce nella trasgressività di un Islam al di fuori della consuetudine ortodossa. Un fenomeno che assomiglia molto alle conversioni, nell’America Latina, alle sette evangeliche militanti da parte di giovani con dipendenze da alcol o con altri problemi sociali.

Non è un caso che diversi studiosi – tra cui psicologi, sociologi, antropologi e medici – parlino di forme di sofferenza psichica e sociale comuni ai vari jihadisti: depressione, isolamento, instabilità psicologica, ipersensibilità, debolezza, sentimento di alienazione o di non appartenenza a un luogo, un tempo, un territorio, una società.

Questo sembra, dunque, il retroterra comune sia al jihadista che arriva dai borghi ricchi delle città, sia a quello delle periferie, banlieue o bidonville, sia al musulmano di nascita, sia a quello convertito.

In tutti questi casi, la persona disagiata trova nelle reti sociali dell’Islam radicale le risposte che cerca.

Oltre a ciò, una sensibilità e un idealismo particolarmente spiccati, e la rabbia causata dalle ingiustizie sociali (presenti sia nel proprio territorio che nel resto del mondo), rappresentano una spinta per cercare giustizia e legge nell’Islam, percepito come «rivoluzione permanente» e, in particolare, nell’Islam più estremo e politicizzato, al di fuori della società occidentale, o dei regimi arabi corrotti.

Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Russia, Israele, ma anche Iran e alcuni governi arabi, sono considerati da questi giovani (e anche adulti) come il male che infesta il mondo e aggredisce la ummah islamica, e che deve essere combattuto.

Ecco, allora, che l’Is, con la sua propaganda di eroi, «giovani leoni», forti, palestrati, belli, cosmopoliti e «antagonisti» dei corrotti, riesce ad attrarre molti giovani in crisi di identità.

Islamisti radicali in Italia

In una nostra precedente inchiesta, risalente alla fine degli anni ‘90, per la quale intervistammo diversi uomini e donne, musulmani di origine o convertiti, di varie città italiane e distinte classi sociali, era emersa, tra le donne convertite a un Islam più radicale, l’alta incidenza di sofferenze psicologiche o familiari. Molte erano le persone con un passato di instabilità emotiva e affettiva, segnato da droga o etilismo, con esperienze di abbandono familiare, di padri fuggitivi o violenti, madri malate o incapaci di occuparsi di loro. Molte avevano esperienze di militanza in organizzazioni molto militarizzate di estrema sinistra o estrema destra.

Questa vita passata, segnata da sofferenze o rigida disciplina, veniva solitamente raccontata dalle interessate per indicare un prima e un dopo la «conversione» o, meglio, il «ritorno all’Islam», (secondo il concetto islamico per cui tutti, alla nascita, siamo musulmani, nel senso etimologico del termine, ossia creature sottomesse a Dio).

Anche tra diversi uomini emergeva un passato di droga, alcol, violenza personale, ex militanza in partiti estremisti. Le letture principali, per molti di loro, erano i testi classici del salafismo: Ibn Taymiyya, Sayyid Qutb, Albani, Mawdudi.

Negli anni tale situazione non è mutata, e, anzi, si è acutizzata. Spiega il già citato Roberto Aliotta: «Tra i convertiti che ultimamente si presentano nel nostro centro, vediamo soprattutto individui con disturbi gravi della personalità. E ci sono stati vari casi di musulmani immigrati che hanno manifestato attitudini violente nei confronti dei non musulmani, effetto di disordini mentali che la lettura di testi salafiti o l’ascolto di sermoni violenti, via internet, esasperano».

Le persone alla ricerca di un cammino spirituale si avvicinano all’Islam tradizionale e non hanno bisogno di aderire alla visione estremista della dottrina wahhabita neosalafita e delle sue diramazioni come il jihadismo e il takfirismo (cfr glossario).

Disordine mentale o reazione all’emarginazione politica e sociale?

Le testimonianze di 160 famiglie francesi con figli jihadisti costituiscono la base di una relazione redatta dal Cpdsi (Centre de Prévention contre les Dérives Sectaires liées à l’Islam, Centro di prevenzione contro il settarismo in relazione all’Islam)4. La ricerca ha messo in evidenza come una percentuale abbastanza elevata di giovani (40% degli intervistati) che si era unita a gruppi jihadisti soffriva di depressione o mostrava fragilità psicologiche. Ciò ha portato i ricercatori a supporre che «l’indottrinamento funzioni più facilmente con i giovani ipersensibili che si pongono domande sul significato della loro vita».

«Le famiglie che entrano in contatto con il Cpdsi – si legge nella relazione – sono tutte di cittadini francesi. Soltanto il 10% ha nonni che emigrarono o si installarono nella Francia metropolitana, dopo aver vissuto nei territori francesi in America, in Germania, in Algeria, Tunisia, Marocco o in Asia. Questi giovani influenzati dal radicalismo dichiarano di sentirsi “senza territorio”, appartenenti al “niente”, e cresciuti in un “blackout”».

Un altro dato interessante della ricerca, che riguarda l’84% dei jihadisti intervistati, è la loro provenienza dalla classe sociale media o medio alta, con una forte presenza di genitori insegnanti e con una formazione universitaria (50% dell’84%). Il restante 16% è diviso tra la classe popolare e quella alta. Oltre a ciò, l’80% delle famiglie si dichiara atea. Solo il 20% si definisce buddhista, ebrea, cattolica o musulmana.

La fascia di età più colpita è quella tra i 15 e i 21 anni (63%). Quella tra i 21 e i 28 anni corrisponde al 37%.

La ricerca, inoltre, mostra che, rispetto a un tempo passato nel quale le conversioni al radicalismo (islamico o evangelico) erano caratteristiche soprattutto delle classi popolari, con bassa scolarizzazione e instabilità, delle seconde generazioni di immigrati, e delle minoranze, negli ultimi tempi riguardano invece tutte le classi sociali. Come spiega Oliver Roy, esperto di geopolitica islamica e direttore di ricerca al Cnrs (Centre national de la recherche scientifique) di Parigi, nel suo volume Global Muslim. Le radici occidentali del nuovo islam: «L’islamizzazione della periferia dell’Europa è un fenomeno reale, ma marginale […]. In realtà, non si può vedere nel radicalismo islamico la conseguenza dell’esclusione sociale, non fosse altro che per l’evidenza che molti militanti (e lo stesso Bin Laden, ad esempio) non hanno nulla di marginale, in termini socio economici».

Tuttavia, per altri studiosi, il radicalismo islamico (anche se non necessariamente quello di al-Qaida o dell’Is) rappresenta un potenziale di «rivoluzione» e ribellione contro lo status quo e contro l’emarginazione sociale e politica di masse di persone, sia in Occidente sia in Oriente. Per questo, anche noi crediamo che sia importante tenere accesi i riflettori sul tema dell’esclusione sociale dei musulmani in paesi come la Francia e l’Italia: la patria di «Liberté, Egalité, Frateité», infatti, secondo un’inchiesta di The Telegraph, «emargina, impoverisce e perseguita i musulmani. Delle 67.500 persone attualmente in carcere in Francia, circa il 70% è musulmano. Nelle prigioni, lasciati a se stessi, i giovani più vulnerabili trovano rifugio nei sermoni infiammati di alcuni personaggi radicali».

Per l’islamologo Massimo Campanini, docente di storia dei paesi islamici presso l’Università di Trento, il radicalismo islamico è, per sua natura, un’ideologia di opposizione che produce un islamismo politico.

Secondo Hrair Dekmejian, docente di scienze politiche all’Università della Califoia meridionale di Los Angeles, l’Islam radicale, in quanto movimento globale, nei confronti dei giovani europei e arabi può esercitare un potere di attrazione che si basa su sei punti: 1) offre una nuova identità a individui alienati che hanno perso il loro orientamento sociale e spirituale; 2) definisce una visione del mondo in termini inequivocabili, identificando le fonti del bene e del male; 3) offre forme alternative di confronto con un ambiente ostile; 4) fornisce un’ideologia di protesta contro l’ordine stabilito; 5) fornisce un senso di dignità e di appartenenza, e un rifugio spirituale contro l’incertezza; 6) promette una vita migliore in questa Terra e nei Cieli.

Più fragilità psicologica che economica

«Migliaia di giovani lasciano la vita confortevole in Europa per aderire allo Stato islamico, dove fanno addestramento per prepararsi alla guerra, e per morire, poi, in un attentato suicida, come gli attacchi di Parigi». Secondo Lamya Kaddor, autrice del libro Zum Töten Bereit (Pronto per uccidere), il ruolo degli europei – discendenti di immigrati e convertiti – nelle fila dello Stato islamico, è sempre maggiore. Lamya, figlia tedesca di immigrati siriani, vede il terrorismo islamico come un movimento di protesta di una generazione che si sente vittima della società, della scuola o della famiglia. «Cinque dei miei alunni, un giorno scomparvero e furono successivamente localizzati in Siria, dove erano andati a lottare con l’Is. Rimasi perplessa, tentando di capire le possibili cause. In tutti loro c’era una sensazione di esclusione, un deficit emozionale o semplicemente una mancanza di amore nella famiglia, che li rendeva facili vittime di moschee radicali. Gli imam radicali trovano ascolto dove ci sono giovani già disponibili, che tendono al jihadismo come manifestazione di un movimento di protesta di una generazione nata in Europa, che soffre per la mancanza di radici e perché vede i genitori vittime di discriminazione e dell’assenza di possibilità di mobilità sociale».

La voce di Ahmad Mansour (psicologo israelo palestinese, direttore del programma European foundation for democracy, attivo nella lotta contro l’estremismo islamico tra i giovani musulmani in Germania) si unisce a chi afferma che «i problemi che conducono i giovani ad aderire al jihad sono più psicologici che socio economici. Circa il 40% dei nuovi jihadisti soffre di depressione e scopre un’ideologia che va a riempire una vita giudicata come vuota. L’aspetto della violenza arriva successivamente».

La ferocia dell’Is

Tra i giovani seguiti dal Cpdsi per il suo studio, molti presentano sintomi come depressione, anoressia, autolesionismo, isolamento. Non si sono mai sentiti «connessi con il mondo», «capiti dagli altri», ma sempre «differenti», perché «Dio mi ha eletto come persona pura, capace di ricevere la verità per salvare il mondo dalla perversione». I ricercatori francesi spiegano che «in un primo momento, la fragilità dei giovani […] è il terreno fertile per l’ingresso nei movimenti radicali; […] la rottura con la società e la famiglia è una conseguenza dell’indottrinamento settario».

Instabilità e sofferenza, alcolismo e altri vizi, sembra fossero caratteristiche anche dalla personalità della giovane Hasna Ait Boulahcen, morta nell’esplosione provocata dal mujahid con cui stava nell’appartamento di Saint-Denis, a Parigi, durante il blitz della polizia, pochi giorni dopo gli attachi del 13 novembre. Un altro kamikaze di Parigi sembra frequentasse bar di trafficanti di droga.

Certamente i comportamenti border-line, tipici di ambienti di emarginazione sociale, potrebbero far parte anche della «dissimulazione» richiesta dalle regole del bravo jihadista. L’Is, però, mostra una ferocia così spettacolare che è difficile non pensare che i suoi membri non facciano uso di droghe o non siano vittime di qualche patologia.

Esistono diversi ahadith molto chiari in tema di «guerra»5: non si devono uccidere donne, bambini, vecchi; non si deve distruggere la natura; non si devono smembrare i cadaveri, ecc. Anche in questo, dunque, l’Is mostra inquietanti innovazioni verso un uso personale, strumentale della religione.

La diffusione del «Captagon»

In questi ultimi anni stanno emergendo dati sulla distribuzione e il consumo di droghe da parte di jihadisti in Siria e in altre zone di guerra.

Secondo quanto riportato dal quotidiano the guardian nel gennaio 2014, indagini realizzate separatamente dall’agenzia di notizie Reuters e dal Time magazine hanno portato alla luce il crescente commercio di Captagon, di fabbricazione siriana, un’anfetamina utilizzata in Medio Oriente, quasi sconosciuta in altre aree del mondo. Il Captagon genera proventi di milioni di dollari, alcuni dei quali sono usati per comprare armi.

In base alle fonti citate, il Captagon fu prodotto per la prima volta negli anni ‘60 per curare la narcolessia, la depressione, ma fu poi proibito negli anni ‘80 perché dava dipendenza. Tuttavia, ha continuato a essere usato in Medio Oriente, compresa la puritana e salafita Arabia Saudita, dove sembra essere molto popolare.

Uno psichiatra libanese, Ramzi Haddad, intervistato dal Time, ha affermato che il Captagon ha «gli effetti tipici di uno stimolante e produce una sorta di euforia. La persona diventa molto comunicativa, non dorme, non mangia, è energica».


Il narcisismo di combattenti «pop star»

Jihad: sesto pilastro dell’Islam radicale

Non sono rari i casi di islamisti militanti riconvertiti in Europa dopo una vita di indifferenza verso la propria religione di origine. È il desiderio di ritrovare un’identità e un’appartenenza. Il problema, in una comunità islamica che a volte si incontra più facilmente su internet che altrove, è la facilità di incappare in versioni fai da te della religione del Profeta.

Secondo Katherine Brown, del Dipartimento di Studi della Difesa al King’s College di Londra, intervenuta sul quotidiano brasiliano O Globo: «Lo Stato islamico non ha mai contato sui “lupi solitari”, come si è supposto recentemente. […] È, invece, molto comune […] la struttura di cellule con relazioni di fiducia stabilite soltanto tra “scelti”». Di un’analoga struttura selettiva, tra fiduciari, all’interno dei gruppi di combattenti in Libia, ci parla anche il libro Soldier for a summer (Soldati per un’estate) di Sam Najjair, ex foreign fighter, non Is, in Libia e Siria.

Nei loro testi, Daniele Conversi (professore presso la Facoltà di Scienze Sociali all’Università dei Paesi Baschi, Spagna) e il già citato Olivier Roy (autore de L’echec de l’Islam politique – Il fallimento dell’Islam politico), sottolineano come il radicalismo islamico rappresenti un veicolo e un prodotto della globalizzazione. In modo analogo, l’islamologo Bruno Etienne descrive la nascita dei movimenti islamici come risposta alla modeizzazione e come «islamizzazione della modeità».

Scrive Roy: «La religione, concepita come un insieme di norme decontestualizzate, può essere adattata a ogni società, proprio perché ha tagliato i propri legami con una determinata cultura e permette alla gente di vivere in una specie di comunità virtuale, deterritorializzata che include qualsiasi credente».

Negli ultimi decenni lo spostamento a Occidente di molte persone provenienti da paesi musulmani e la loro condizione di minoranza, incoraggiano la creazione di comunità religiose slegate dalle realtà islamiche d’origine. L’Islam stesso, come sistema di interconnessioni sociali e religiose, si reinventa: laddove in patria la comunità era il referente supremo, in «diaspora» i musulmani si riscoprono «individui» che operano scelte personali, spesso in rottura con la tradizione e la cultura della terra natale. Il proprio gruppo è percepito come «accerchiato», circondato da un ambiente ostile – dai kuffar -, tra cui è costretto a vivere, e dai quali va protetto, possibilmente chiedendo allo stato di riconoscee l’identità in quanto minoranza. Si vedano, ad esempio, i numerosi tentativi, iniziati già a fine anni ‘90, di «intese» tra Stato e comunità islamiche in Italia, tutti falliti anche per la mancanza di una leadership rappresentativa e «unitaria» dell’Islam italiano6.

In terra d’immigrazione molti musulmani riscoprono «radici» che non sapevano di avere, e un’identità specifica, in contrapposizione e antagonismo con quella dei «miscredenti». La reislamizzazione, la «rinascita» di molti musulmani (spesso laici nel paese d’origine) non è solo un fenomeno identitario, ma anche un processo di occidentalizzazione che, giocoforza, è un lasciare dietro di sé la propria cultura d’origine e le tradizioni.

Il jihad, sesto «pilasto» dell’Islam radicale

La modeità emerge in modo particolare nel rapporto tra l’Islam radicale e l’uso della violenza. Si tratta, come spiegano i musulmani tradizionalisti, di una innovazione, o bid’a, dunque un paradosso per i fondamentalisti. Questa innovazione si esplicita, per esempio, nel concetto di jihad (qui nel suo significato di sforzo minore, cioè militare), manipolato dall’ideologia wahhabita neosalafita, che diviene una priorità, trasformandosi in una obbligazione dell’individuo, fard al-’ayn, e, in questo modo, è imposta a ciascun musulmano, in qualsiasi momento, mentre nella tradizione ortodossa è considerato, invece, un obbligo collettivo limitato nel tempo e nello spazio, e obbligatorio nelle situazione di minaccia, cioè quando il D?r al-Isl?m, il territorio islamico, è in pericolo.

Tale innovazione, come sottolineano Roy e altri studiosi, fu introdotta da islamisti come Sayyed Qutb, teorico della Fratellanza Musulmana, un movimento neosalafita creato nel 1928 in Egitto, e da altri. Il jihad divenne, nel corso degli anni, un obbligo, il sesto «pilastro dell’Islam» da aggiungere ai cinque tradizionali: professione di fede, preghiera, digiuno nel mese di Ramadan, pellegrinaggio alla Mecca ed elemosina.

I gruppi del neofondamentalismo – sviluppatosi a partire dagli anni ‘80, di cui al-Qaida è una delle organizzazioni più note e a cui si aggiunge, oggi, anche l’Is -, che fanno del jihad un obbligo individuale vengono chiamati, appunto, jihadisti.

Tuttavia, come afferma Roy, la maggior parte dei conflitti definiti «religiosi» sono, in realtà, «etnico-nazionali», e in vari casi, non ultimi quelli in Iraq e in Siria, il jihad viene strumentalizzato dai neofondamentalisti così come dai governi occidentali, i quali esagerano la dimensione islamica per questioni di politica intea o estera. Spesso la violenza «islamica» è, in realtà, antimperialista e antiamericana (e antisionista). Sono, come spiega Roy, «i postumi della decolonizzazione».

I mezzi utilizzati dai jihadisti – ad esempio gli attentati suicidi – sono considerati antislamici dalla tradizione ortodossa, e sono un’introduzione modea mutuata da altre tradizioni e dalle lotte secolari di movimenti e gruppi nazionalisti. I militanti di al-Qaida, come quelli dell’Is, hanno tagliato i contatti con la famiglia di origine e con la propria patria (elementi anche questi in totale contrasto con la tradizione sociale e culturale dei paesi islamici), e sono molto criticati anche per questo dai musulmani tradizionalisti. Molti combattenti jihadisti, infatti, come dicevamo, si sono reislamizzati in Occidente o in paesi considerati «laici», come la Tunisia (da dove arriva la maggior parte degli aderenti ai gruppi del jihad uniti all’Is o alle reti di al-Qaida). Qui l’Islam è individuale, «fai da te», costruito attraverso i sermoni ascoltati in certe tv o siti internet, prodotti da predicatori improvvisati e con scarsi studi alle spalle. «Questi neofondamentalisti – scrive Roy – non riconoscono alcun maestro nell’Islam e, del resto, conducono spesso una vita molto poco conforme ai precetti della religione. […] È impressionante la continuità dell’azione di Bin Laden (e del “califfo” al-Baghdadi, leader dell’Is, nda) con il movimento antimperialista e terzomondista occidentale degli anni sessanta e ottanta». Probabilmente, ipotizza Roy, i giovani proletari o della buona borghesia che ora entrano nell’Is, sarebbero stati membri di gruppi rivoluzionari antimperialisti solo pochi decenni addietro. Tant’è che capita di leggere, nei social network, commenti ammirati di donne e uomini, un tempo militanti antisistema, di fronte alle gesta delle truppe dell’Is.

Tecniche di seduzione

Secondo il Cpdsi, quasi 20mila stranieri si sono uniti ai jihadisti in Siria e in Iraq: quattromila sono Europei. Come già accennato, raramente la radicalizzazione avviene nelle moschee o nei centri islamici: non è nei centri religiosi che i giovani si incontrano, ma nei cyber-café, nelle università, nelle librerie, nella rete internet.

Nei libri diario scritti da combattenti di ritorno dalla Libia o Siria, si apprende che uno dei percorsi comuni a molti giovani è l’incontro e la sensibilizzazione alla «causa» in un internet-café in qualche grande città europea o araba. La «riconversione» religiosa e la militanza politica arrivano quasi simultaneamente con la decisione di arruolarsi. È quanto è avvenuto con molti «ribelli» europei o arabo europei andati a combattere in Libia e in Siria a fianco di una delle formazioni della galassia di al-Qaida alleate della Nato.

Questi diari trasudano narcisismo, autoesaltazione e autoreferenzialità, e sono intrisi di racconti di violenza e abuso di armi. Gli autori si dipingono come «leoni», eroici guerrieri senza macchia e senza paura. Sono invece persone violente, amanti del potere, coinvolte in traffici loschi e retribuite generosamente. Infatti, un elemento comune a molti jihadisti è quello di essere arruolati come mercenari.

È proprio a partire dall’elemento narcisistico che Nazir Afzal, ex procuratore del Regno Unito, sentito dal The Guardian, descrive i terroristi dell’Is come persone disposte a correre dietro alla gloria vendendosi tramite video professionali che li fanno apparire affascinanti e sexy. Essi perseguono una propria autornaffermazione allontanandosi da amici e famiglia. Afzal vede una somiglianza emotiva tra gli adolescenti radicalizzati adescati on line dal jihadismo e quelli che in internet cercano un partner sessuale: «Le tecniche di seduzione sono le stesse». La radicalizzazione è veicolata on line e attraverso predicatori carismatici, che incentivano i ragazzi ad «andare verso il proprio lato oscuro». L’ex procuratore britannico crede, dunque, che tale fenomeno debba essere affrontato con l’aiuto di specialisti, come si fa con una dipendenza psicologica. E aggiunge che una delle questioni importanti è che i giovani attratti dal radicalismo considerano i predicatori salafiti e i leader dell’Is come «stelle» del cinema o pop-star.

A tal riguardo, una musulmana italiana ha scritto su Facebook: «Il problema è che i giovani di origine francese o algerina, o molti altri come loro, non apprendono l’Islam con l’aiuto di un imam vero, con una solida preparazione teologica, ma preferiscono ascoltare dei matti su YouTube. Questo succede in tutta l’Europa. Quando un centro islamico invita un teologo di al-Azhar, del Cairo, poche persone vanno ad ascoltarlo, ma quando è invitato un tele-predicatore, una “stella” radicale di YouTube, che usa un linguaggio violento e incolto, con scarsa conoscenza dell’arabo dotto e un uso massiccio della parola kuffar (miscredente), moltitudini di giovani affluiscono nelle moschee. Ci sono pure donne che sognano di diventae la terza o quarta moglie, sbavando come altre ragazze davanti a divi della musica. C’è un vuoto nelle comunità islamiche che va colmato da veri sapienti e sottratto agli shaykh fai-da-te».

Inteet, la nuova «ummah»

Inteet è un mezzo di comunicazione, uno spazio di sostituzione di una comunità, ummah, che è rimasta virtuale a lungo. È uno spazio virtuale sacro, divenuto l’unico territorio reale dal punto di vista del gruppo radicale, a partire dal quale è possibile proteggersi e lottare contro il «caos del mondo perverso».

Come rileva il Cpdsi, i giovani «infettati» da questo discorso, prima vivevano come individui globalizzati, ma non si sentivano parte di una cultura e di una comunità nazionale. E, così, il califfato dello Stato islamico, proclamato a giugno del 2014, «ha aperto il cammino per il riconoscimento di uno spazio territoriale comune, accettato dalla ummah globale», anche se internet continua a essere comunque il principale mezzo di comunicazione per il «passaggio dal territorio virtuale a quello specifico», dovunque l’Is si sia radicato fino a ora, dalla Libia all’Iraq.

Inteet è un potente mezzo di reclutamento e di scambio di informazioni per comunità con «valori» condivisi. Ed è solo dopo la seduzione virtuale che arriva il momento del sospirato incontro fisico con il gruppo jihadista, là, nel territorio dell’Is, dove il war-game si trasforma in realtà.

Angela Lano