I Perdenti 60. Derek Redmond e la tenerezza di un papà

testo di don Mario Bandera |


L’infortunio di Derek Redmond alle Olimpiadi del 1992 non è solo uno straordinario episodio sportivo ma, soprattutto, una toccante testimonianza d’amore. Una dimostrazione del profondo legame che c’è tra un padre e un figlio. Fra il padre di Derek, suo primo «allenatore» e tifoso, e il figlio corridore.

Portrait of Derek Redmond taken in 2007

Derek Redmond nasce a Londra il 3 settembre del 1965. Fin dall’adolescenza mostra il suo talento nella corsa e fa sperare che col tempo si farà strada. Crescendo si specializza nella corsa dei 400 metri piani e sorprendentemente, non ancora ventenne, stabilisce il record britannico nella specialità. Prima di partecipare ai giochi olimpici di Seul nel 1988, Redmond vince un argento mondiale e un oro europeo.

Nella capitale coreana, durante le batterie di qualificazione, nel riscaldamento, a meno di due minuti dall’inizio della gara, Redmond sente un dolore lancinante a una gamba, che non gli permette di prendere parte alla corsa.

Sul tabellone, a fine gara, il giovane inglese figura quindi in ultima posizione con la dicitura Dnf «Did not finish» (non ha finito). Derek subisce diversi interventi chirurgici, e riesce a ritornare competitivo, tanto da partecipare di nuovo alle olimpiadi, quelle di Barcellona del 1992 durante le quali, però, avrà un nuovo infortunio. Nel nostro colloquio immaginario ripercorriamo le tappe della carriera sportiva di Derek fino a quel famoso incidente.

Ci racconti, in breve, i tuoi risultati prima dell’Olimpiade del ‘92?

Ho battuto il record britannico dei 400 metri piani nel 1985, quando non avevo ancora vent’anni. Nel 1986 ero parte della squadra che vinse la staffetta 4×400 metri ai Campionati europei e ai Giochi del Commonwealth. Nel 1987 ho riconfermato e migliorato il mio record nei 400 metri piani, lo stesso anno in cui ho vinto la medaglia d’oro nella staffetta 4×400 ai mondiali di Roma.

Quando è iniziata la tua passione?

Ho iniziato a correre quando ero ancora bambino, con mio padre che mi accompagnava nelle diverse piste d’atletica dove erano in programma le più svariate corse podistiche giovanili.

Tutti dicevano che avevo una falcata potente ed elegante, resistenza nella velocità, capacità di dosare lo sforzo e dedizione assoluta negli allenamenti.

Uno così è conteso da tutti gli allenatori giovanili.

E io ho sempre cercato di non deludere chi aveva fiducia in me.

Diciamolo pure, uno che a diciannove anni ha fatto il record britannico del mezzofondo è apparso subito come il volto nuovo per l’Europa che voleva sfidare gli Stati Uniti nei quattrocento metri all’Olimpiade di Seul.

Mi ero preparato con scrupolo e dedizione per quell’evento.

Ero giovane, ma sapevo che certi treni non passano spesso. Mi ero allenato duramente ed ero arrivato in Corea con due ambizioni: la prima era quella di qualificarmi per la finale, la seconda era di tornare a casa con una medaglia. Non importava di che colore, mi bastava salire sul podio.

Ma il 1988 non è stato il tuo anno, visto che durante i giochi non hai potuto partecipare alla finale per un infortunio al tendine di Achille. Come hai reagito di fronte a quella situazione?

Mi sentivo bollato da quel Dnf, «non ha finito la corsa». Dopo quell’infortunio ho dovuto subire in tutto ben tredici interventi. I piedi, le caviglie e le mie gambe stavano insieme come cristalli di Boemia: delicatissimi, ma per me preziosissimi. Il mio sogno era tornare a essere di nuovo competitivo: è stato veramente un cammino lungo e doloroso che mi ha impegnato per diversi anni.

La tenacia e la perseveranza hanno portato il loro frutto: hai vinto, infatti, l’oro nella staffetta 4×400 metri ai mondiali di atletica di Tokyo del ‘91.

L’allenatore della squadra britannica credeva in me e si era preso il rischio di mettermi nella staffetta per i mondiali. Ero in squadra con Roger Black, John Regis e Kriss Akabusi: sulla carta una grande staffetta. Nella pista di Tokyo siamo diventati la staffetta della leggenda che ha trionfato lasciandosi alle spalle il fortissimo quartetto a stelle e strisce.

Così ti sei qualificato agevolmente per l’appuntamento olimpico del 1992 a Barcellona. I bookmakers inglesi ti presentavano come uno dei favoriti.

Finché non ho avuto il mio nuovo infortunio, sembrava che l’Olimpiade questa volta andasse bene. Avevo vinto tutte le gare preliminari ed ero già nelle semifinali della corsa dei 400 metri. Mi avevano dato la corsia numero cinque, quella riservata ai migliori, con un raggio di curva ideale e la possibilità di controllare facilmente gli avversari ai lati.

Subito dopo lo sparo dello starter, sono partito con agilità e ho iniziato la solita progressione. Ma ai centocinquanta metri dall’arrivo ho sentito il muscolo della gamba «stirarsi» e un dolore lancinante. Una gamba ha ceduto di schianto e mi sono accasciato a terra portandomi le mani sul viso. Gli altri atleti già tagliavano il traguardo mentre io ero ancora là, in ginocchio sulla pista, immobile e in lacrime.

Pensavo ai quattro anni passati tra sale operatorie, centri di riabilitazione, palestre e pista per cancellare quel Dnf di Seul.

Derek Redmond aiutato dal padre / Photo by Pascal PAVANI / AFP

A questo punto un giudice ti è corso vicino per aiutarti a lasciare la pista, ma tu hai rifiutato il suo aiuto. Ti sei rialzato e, zoppicando vistosamente, hai ripreso la tua corsa saltellando su una gamba sola.

Dentro di me ripetevo insistentemente che non ci sarebbe stato di nuovo un Dnf accanto al mio nome. Dovevo finire la corsa. Mi son tirato su, mi sono messo in piedi e ho cominciato a saltellare sulla gamba sana per raggiungere la meta. Il dolore era molto intenso, ma non sono uno che si arrende facilmente. Volevo finire la gara, fosse anche stata la mia ultima corsa. Nulla per me era peggio del pensiero che non avrei terminato la mia gara.

In quel momento tutti gli spettatori dello stadio avevano occhi solo per te.

Saltellando stremato, sono arrivato al rettilineo finale. In quel momento, un uomo, evitando la sorveglianza, è entrato in pista ed è corso verso di me. Con sorpresa ho visto che era mio padre, quel papà che vent’anni prima mi aveva portato per la prima volta su una pista d’atletica.

Evidentemente non ce la faceva più a vederti in quelle condizioni.

Mi si è avvicinato e mi ha sorretto, aiutandomi a sopportare il dolore: io piangevo come un bambino, ma avevo accanto a me la migliore spalla su cui posare il capo. Così insieme, abbracciati, io e mio padre abbiamo continuato la nostra corsa.

In quel breve percorso cosa ti ha detto tuo papà?

Mi ha ripetuto con voce piena di commozione: «Derek, sono tuo padre, tieni presente che non sei obbligato a finire la corsa».

Gli ho risposto: «Papà, voglio portare a termine questa gara».

E lui, di rimando: «Ok, abbiamo iniziato questa avventura insieme e la finiremo insieme».

Poi mi ha consigliato di camminare e smettere di correre saltellando, ripetendomi in continuazione. «Sei un campione, non hai nulla da dimostrare».

Abbracciati, abbiamo zoppicato insieme verso la linea del traguardo. Sulla pista eravamo ormai solo io e mio padre, l’uomo a cui ero più affezionato, quello che aveva supportato le mie scelte e la mia carriera nell’atletica da quando avevo sette anni.

Sugli spalti erano tutti in piedi a vedere voi due, padre e figlio, che procedevate uniti. Poi, tuo padre ti ha lasciato a cinque metri dal traguardo.

Sì, era la mia gara, e dovevo finirla da solo. Lui era al di là della linea, ad accogliermi con un grande abbraccio.

Non mi sono neppure accorto della «standing ovation» che il pubblico mi dedicava, non capivo più nulla, ero solo in lacrime.

 

Il video di quella gara è stato scelto dal comitato olimpico internazionale per la campagna Celebrate humanity perché: «Redmond e suo padre, nonostante il dolore e l’umiliazione, non arrivarono primi o secondi o terzi. Ma arrivarono!». A distanza di tanti anni Derek ripete che quella gara gli ha tolto tutto ma gli ha dato di più. E continua a riportare la sua esperienza in giro per il mondo. Perché le medaglie passano, le statistiche si dimenticano, i risultati si confondono: solo le emozioni rimangono.

Don Mario Bandera

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Ricordiamo che i fatti sono veri, ma questa intervista a Derek,  che è ancora vivo e vegeto, è una finzione.