Il giornalista che non voleva gridare


È un racconto lungo oltre 60 anni. Una carrellata di personaggi famosi e, spesso, scomodi o incompresi. Tra sport, musica, cinema e politica.

Uno dei ritratti disegnati da Bruno Bozzetto per il documentario «Gianni Minà, vita da giornalista» di Loredana Macchietti.

Il documentario «Gianni Minà, una vita da giornalista» che ha aperto il 25 marzo scorso il Festival di Bari (Bif&st 2022), ha avuto una lenta ma costante gestazione, fino a pochi giorni prima della consegna agli organizzatori baresi. Dal 2008 io e Gianni abbiamo iniziato a pensare all’idea di memoria, a dare una logica, un ordine alla montagna di documentazione del suo lavoro fatta di supporti, documentari, materiale registrato e poi scartato o mai montato, interviste fatte ma non prese in considerazione dalla Rai, unico acquirente, qui in Italia, dei suoi lavori. Ma, soprattutto, abbiamo iniziato a condividere l’esperienza professionale di Minà con le nuove generazioni, per non disperderla e per mantenere accesa la luce sui fatti e sulle persone che non hanno mai avuto voce.

In quell’anno organizzammo, alla Casa del Cinema di Roma, un incontro di una settimana, ogni giorno un tema diverso, per festeggiare e ricordare i 50 anni di lavoro di Gianni. A quell’incontro, invitammo gli amici di una vita: da Pietro Mennea a Tommie Smith, da Luis Sepúlveda a Frei Betto a Joan Manuel Serrat, da Stefania Sandrelli a Raffaele La Capria e molti altri. Finimmo quella specie di happening con un concerto di Augusto Enriquez y su mambo band (e con la prima comunione di nostra figlia Paola).

Da quei giorni abbiamo iniziato a dare corpo ai ricordi in forma dinamica, a tramandare la memoria senza aspettare la fine del percorso di una vita, mentre ancora lavoravamo.

Lo spunto ce lo ha dato Jorge Amado, con il suo «Navigazione di cabotaggio» (1992), un libro fatto solo di nomi di amici nel quale il grande scrittore brasiliano aveva dedicato un breve commento a ognuno. Tra loro c’era pure Gianni. Jorge lo avevamo conosciuto anni prima, quando avevamo percorso tutta l’America Latina alla ricerca dei grandi miti latinoamericani del calcio italiano ancora viventi. Fu un’avventura lavorativa molto faticosa, che non ci procurò il guadagno sperato, ma la ricchezza di nuovi amici, tra i quali Amado e Zelia Gattai, la moglie di origine friulana, che ci fecero conoscere Bahia, il candomblé e la cucina afrobrasiliana.

Muhammad Alì e Gianni Minà in una foto d’epoca. Foto archivio Gianni Minà.

Con Frei Betto

In Brasile, insieme a Jorge Amado, conoscemmo Frei Betto, domenicano, teologo della liberazione che, dopo aver fatto imbustare i resti di una cena conviviale, ci portò a conoscere i bambini di strada, ammassati a dormire in riva al mare nel buio della notte. I bambini, dai 4 ai 10 anni, divisero senza litigare e in silenzio i resti di quel pasto. Per ringraziarci, il più grande, un ragazzino di neanche 10 anni, ci porse un cocco. Quella sera nacque una fratellanza con Frei Betto, ma anche un cambio radicale di visione per me e Gianni.

Betto per noi è prezioso, e più di un fratello. Ha intrecciato la sua vita con la nostra, è stato sempre presente nei momenti belli, ma soprattutto nei momenti bui della nostra famiglia: in un’alba di quasi 20 anni fa mio padre morì per un’operazione che non riuscì a sostenere. Lo misero, come uno «scarto» qualsiasi, avvolto in un telo in uno sgabuzzino dove, nell’angolo, c’erano dei secchi con degli stracci e degli spazzoloni per pulire i pavimenti. Mia madre e mio fratello erano annichiliti dal dolore e non riuscivano a proferire parola, ma Betto, appena arrivato dal Brasile, si fece accompagnare da noi e con le sue parole e la sua benedizione riuscì a riportare luce e dignità alla disperazione.

Nel 2013, in questo percorso nella memoria, abbiamo composto il libro «Il mio Alì» (edito dalla Eri), una raccolta dei principali  articoli e delle interviste che Gianni ha fatto a Muhammad Alì, un uomo straordinario, che ha saputo trasformare anche la sua malattia in un’arma di resistenza. Ogni volta che passava per Roma per qualche convegno o invito televisivo, non mancava mai di farci visita, insieme a sua moglie Lonnie. Ricordo Muhammad Alì come un uomo profondamente religioso e veramente spiritoso.

Sentivamo, inoltre, l’esigenza di lasciare una testimonianza sull’idea di giornalismo di Minà, quello tradizionale e d’inchiesta, ma sempre con un’attenzione particolare ai diritti dei più deboli, a coloro che, ovunque nel mondo, si ribellano. È nato allora «Così va il mondo» (edito dal Gruppo Abele), frutto di un dialogo tra Gianni e Giuseppe De Marzo, ecologista italiano, ma anche scrittore ed economista, ripreso poi nel documentario per parlare di pace, giustizia ecologica e libertà. Conosciutisi al Forum social mundial (Fsm) intorno al Duemila, De Marzo e Minà hanno intessuto un dialogo mai sopito, che dura ancora oggi.

Un altro dialogo, nel 2020, Gianni lo ha intrecciato con lo scrittore Fabio Stassi. Da questa collaborazione è nato «Storia di un boxeur latino» (edito da Minimum fax), il libro autobiografico di Minà nel quale, per la prima volta, lui racconta la sua vita, almeno fino agli anni Novanta. Lo ha fatto soprattutto per le sue tre figlie – Marianna, Francesca e Paola -, nella consapevolezza di essere un padre troppo anziano perché le possa accompagnare in un tratto lungo delle loro vite.

Quel titolo è frutto di una sorpresa che feci a Gianni per un regalo di Natale. Lui ama moltissimo l’amico Paolo Conte e le sue canzoni, così chiesi all’autore se potesse dedicare a Minà un suo lavoro. Pochi giorni dopo, mi venne recapitato un cofanetto accompagnato da una bellissima dedica: «All’amico Gianni, un boxeur latino». Dopo questo libro, la stessa casa editrice ha dato alle stampe anche una raccolta di articoli scritti da Gianni sull’indimenticabile Diego Armando Maradona.

Un giovane Minà con i Beatles (George, Ringo, Paul e John), a Roma nel giugno del 1965. Foto archivio Gianni Minà.

Regista cercasi

Ritornando al documentario, avevamo accantonato il progetto, un po’ perché sempre oberati di lavoro, un po’ perché non trovavamo un regista che potesse rendere in modo aderente la storia di Minà: chiunque si faceva avanti, esprimeva perplessità a raccontare temi delicati, come i suoi scoop latinoamericani (Fidel Castro, Chávez, il papa a Cuba, il Fsm, ecc.).

Poco a poco, mi venne l’idea di scrivere un copione sulla sua vita professionale, usandola però come espediente per raccontare la storia del giornalismo e della Tv in Italia dagli anni Sessanta ai giorni nostri. Ci pensavo, ma non speravo, anzi aspiravo. In fondo, la mia professione è sempre stata quella più pratica, meno artistica, di producer. Ma i ferri del mestiere li sapevo usare più che bene, lavorando per Gianni da più di 30 anni. Lo conobbi casualmente nel 1985: avevo bisogno di fare dei lavoretti, mentre stavo aspettando il «concorsone» al Comune di Roma come assistente sociale. Dovevo «sbobinare» su carta le sue interviste che aveva fatto alcuni anni prima ai pugili americani degli anni Settanta. Mentre aspettavo il concorso, lui mi iniziò al montaggio (ma negli orari notturni, perché quelli erano i turni per i «pivelli») con un regista che poi è diventato un mio fraterno amico, Giuseppe Sciacca. Poi, nel tempo, ho ricoperto tutti i ruoli di questo ambiente: segretaria di redazione, programmista regista, segretaria di produzione, produttore esecutivo, produttore. Mi mancava il ruolo da regista.

Gianni Minà con Maradona, amico di una vita. Foto archivio Gianni Minà.

Gianni, tra fatti e gente

Ho intrecciato la mia vita professionale con Gianni Minà da subito, familiare parecchi anni dopo. Non sono stata né davanti, né dietro di lui, ma ho avuto il privilegio di stare al suo fianco. La soluzione è stata quella di costruire la nostra famiglia intorno al suo lavoro, perché, come disse Enzo Ferrari in una sua intervista, Gianni ha sposato la sua professione, ha aderito ai suoi ideali e non ha mai avuto intenzione di divorziare. Io sono sempre stata d’accordo con lui, perché «rotolando» insieme per il mondo, ho potuto vedere cose tremende e bellissime, persone decenti, immense, derelitte ma anche senza vergogna, ho sfiorato la Storia con la «S» maiuscola, abbiamo corso qualche rischio insieme, ma ne è valsa la pena. Ho capito che Gianni ha sempre voluto fare da ponte tra i fatti e la gente. Come ben riassunse il regista Walter Salles quando, nel 2007, a sorpresa, si presentò a Berlino per consegnargli il premio Berlinale Kamera: «L’opera di Gianni è un’opera che ci fa vedere quello che non ci sarebbe permesso mostrare o vedere o ascoltare se non fosse stato per lui. È guidato da una grande compassione, da una profonda umanità, ma soprattutto da un profondo desiderio di condividere con gli altri».

Con il leader cubano Fidel Castro, che Minà ha lungamente frequentato. Foto archivio Gianni Minà.

A Torino

Il documentario «Gianni Minà, una vita da giornalista» (una produzione Format con Rai Cinema) ha avuto una gestazione laboriosa perché la sua produzione è cominciata pochi mesi prima dell’inizio della pandemia. Abbiamo potuto girare gli esterni solo a Torino. Il resto delle interviste è stato registrato a casa nostra. Con un inizio che è una gemma preziosa: i titoli di testa pensati e disegnati da Bruno e Andrea Bozzetto e il loro team. A mano a mano che andavo avanti, facevo visionare a Gianni il premontato, ma lui non commentava mai nulla. Alla visione finale dell’opera, non ho più saputo resistere: «Beh, allora? Che te ne pare?». E lui: «Montaggio sufficiente, ma onesto». Insomma, promossa.

Loredana Macchietti

 (*) Loredana Macchietti, producer, è al suo primo documentario come regista.
È sposata con Gianni Minà, ben noto anche ai lettori di MC per la sua rubrica «Persone che conosco».

Serata con Gianni Minà nell’Aula Magna del CAM a Torino

Serata con Gianni Minà nell’Aula Magna del CAM a Torino

Serata con Gianni Minà nell’Aula Magna del CAM a Torino il 22/11/2016 © AfMC




Le Queens, regine del campo


In un mondo di relazioni sempre più disumane, una squadra di calcio formata da donne – richiedenti asilo, rifugiate e operatrici sociali – sfida violenza, pregiudizi e maschilismo. Accade a Torino.

In una sera estiva del 2017, in una Torino afosa e deserta, è nata l’idea delle Queens. Una squadra di calcio femminile per dare la possibilità a donne richiedenti asilo e rifugiate, supportate dalle operatrici della cooperativa sociale Progetto Tenda, di andare oltre gli schemi, senza curarsi di ciò che gli altri credevano possibile o impossibile.

«Come ogni estate, Balon Mundial aveva promosso il campionato dilettantistico tra le squadre delle comunità di migranti – racconta Anael, operatrice tra le fondatrici della squadra -. Dato che, da alcuni anni, c’era anche un torneo femminile, pensammo che il calcio avrebbe potuto essere lo strumento giusto per metterci in gioco».

Una vera sfida nella sfida: uno sport quasi esclusivamente maschile, con un pubblico in grande maggioranza maschile, da proporre a donne che si sforzavano di riprendere in mano la propria vita, dopo anni di viaggi, violenze e percorsi travagliati e traumatici.

«Sentivamo – prosegue Anael – il bisogno di mettere in gioco le nostre capacità in modo nuovo e inaspettato, indirizzando la nostra energia in qualcosa da costruire insieme, cucendolo sulla nostra pelle ferita. Partendo da una passione condivisa per il calcio, abbiamo quindi messo tutto il nostro entusiasmo nella creazione della squadra».

Le giocatrici delle Queens si allenano con tiri verso la porta difesa dalla nigeriana Esosa. Foto Davide Casali.

L’anno dell’esordio: Nigeria, Somalia, Italia

Così, quasi per caso, donne richiedenti asilo e operatrici si sono ritrovate in un gruppo pieno di desideri, un gruppo che avrebbe saputo affrontare insieme vittorie e sconfitte, sempre coeso, con condivisione e fiducia reciproca nonostante le differenze culturali, etniche, linguistiche, di esperienze di vita.

Nonostante solo una delle giocatrici avesse esperienza in questo sport, tutte si sono cimentate nella scoperta e conoscenza delle regole e delle tecniche calcistiche e nei vari ruoli, partecipando con dedizione agli allenamenti e alle partite.

C’era Mary che ha rispolverato i tacchetti abbandonati in Nigeria iniziando così la carriera di bomber delle Queens. C’era la connazionale Esosa che si è lanciata da neofita in questa avventura diventando una giocatrice versatile e preziosa per le sue compagne. C’era Suleqa, giovane donna somala, che ha giocato ogni partita con il velo e che, con determinazione, ha difeso a spada tratta la sua squadra. C’era Rebecca, educatrice giovane e impetuosa (quanto si è arrabbiata quando abbiamo perso le prime partite!). C’era Anael, la «saracinesca», prima portiera delle Queens. C’era Monica che è venuta a lavorare per due settimane con il segno dei tacchetti sul polpaccio. E poi c’erano: Marta che sventolava bandiera e distribuiva bottiglie d’acqua, sorrisi e incoraggiamento; Alessandra con la sua dirigenza esperta e la sua passione e, ultima ma non ultima, Mathilde (belga), vera e propria «tuttofare» della squadra. «Ed è stato così che le educatrici e le donne ospitate nelle strutture si sono confuse in un unico abbraccio sudato – continua Anael -. Tutte insieme abbiamo partecipato al torneo del Balon Mundial. Tra sconfitte e vittorie, ci siamo classificate al quarto posto: un piccolo miracolo!».

Ragazze delle Queens durante un allenamento. Foto Davide Casali.

L’apertura a tutte: una pioggia di adesioni

L’esperienza del primo anno delle Queens ha dimostrato a tutte come lo sport condiviso possa essere davvero uno spazio di emancipazione, inclusione, gioia e libertà.

Per questo la squadra, dal 2018, ha deciso di aprirsi al territorio, dando la possibilità a tutte le donne interessate a partecipare. «Sono arrivate tante adesioni – raccontano dalla cooperativa – siamo rimaste sorprese dal numero di donne che avevano fatto esperienze pregresse o che avevano sempre desiderato giocare, ma non avevano trovato spazio o coraggio».

Grazie all’arrivo di nuove giocatrici, donne di varie nazionalità, tra cui molte italiane, con storie e situazioni differenti, le Queens sono cresciute e oggi le educatrici della cooperativa si possono dedicare al tifo dalla panchina. Poi, alla fine del torneo estivo del Balon Mundial 2019, si è presentata un’altra grande occasione di crescita: l’associazione organizzatrice del torneo si è voluta avvicinare alla squadra, proprio per quei valori che ogni giorno essa cerca di promuovere (inclusione, equità, empowerment, crescita personale).

È nata così una partnership, in cui le donne hanno iniziato a essere seguite dagli educatori sportivi dell’associazione. A ogni allenamento essi cercano di lavorare sulle competenze personali delle giocatrici. Competenze che le donne possono sviluppare in campo, ma che sono utili anche fuori dal campo, nella vita di tutti i giorni: comunicazione, lavoro di squadra, fiducia in sé stesse, spirito di adattamento.

Zuleika, ragazza somala, rincorre il pallone con il velo sul capo. Foto Davide Casali.

Il cartellino rosso del Covid

Negli ultimi due anni, purtroppo, l’emergenza sanitaria ha messo a dura prova gli allenamenti della squadra e la possibilità di continuare a vedersi. Per le donne che vivono in comunità partecipare agli allenamenti (tenuti su vari campi della città) è diventato impossibile. La responsabilità di tutelare, oltre che la propria, anche la salute delle altre ospiti e del personale ha impedito loro di continuare ad allenarsi.

Durante il primo lockdown, grazie alla collaborazione con i coach di Balon Mundial, le donne hanno avuto la possibilità di incontrarsi sulla piattaforma Zoom per allenamenti settimanali, ma per molte di loro questa modalità non era abbastanza. Mancava quel contatto umano e quella libertà di correre in campo che aveva permesso loro di dimenticare, almeno per alcune ore a settimana, traumi e sofferenze e ritrovare la fiducia in se stesse. Anche in questo caso l’emergenza causata dal Covid ha colpito più duramente le persone più fragili e vulnerabili.

Attualmente gli allenamenti sono ripresi, pur rispettando tutte le norme e le indicazioni di sicurezza. Finalmente le Queens sono tornate tutte insieme in campo, pronte per il prossimo torneo e le nuove avventure che le aspettano.

Impegno, entusiasmo, voglia di divertirsi e di mettersi alla prova in un nuovo contesto, sono stati e sono gli ingredienti di questo mix energico chiamato Queens.

«Per un calcio oltre i confini, per un calcio oltre il genere», per dirla con le parole del loro slogan.

Bianca Orazi e Sara Lopresti
(operatrici Progetto Tenda)

Momenti (concitati) di gioco durante una partita. Foto Davide Casali.


Accoglienza e solidarietà

I miracoli del pallone

Due Onlus di Torino – Progetto Tenda (1999) e Balon Mundial (2012) –  hanno         trasformato il gioco del calcio in uno strumento per superare la violenza dei     confini e dei generi.

Cultura dell’accoglienza e della solidarietà, inclusione sociale, educazione al fair play, rispetto delle regole, risoluzione dei conflitti. Sembra essere soltanto un elenco di belle parole e buone intenzioni. Eppure, soprattutto di questi tempi, è fondamentale mantenere obiettivi alti che superino le miserie dell’oggi. A tutto questo ambiscono due Onlus di Torino.

Progetto tenda

Progetto Tenda – si legge su progettotenda.net – è una cooperativa sociale nata nel 1999 con l’obiettivo di occuparsi di percorsi d’inserimento nella società dei soggetti più fragili, con una particolare attenzione alle donne. Negli anni la cooperativa – attualmente guidata da Cristina Avonto, Valentina Melchionda e Cristina Apicella – ha sostenuto i percorsi di richiedenti asilo, rifugiati, donne vittime di tratta, mamme con bambini, famiglie in povertà, donne e uomini senza dimora, minori stranieri non accompagnati.

Ogni giorno le addette di Progetto Tenda lavorano per accogliere persone in difficoltà e diffondere la cultura dell’accoglienza e della solidarietà.

La sua mission è migliorare la vita delle persone in difficoltà e più fragili promuovendo percorsi di comunità per sostenere l’incontro tra le persone, nativi e migranti, donne e uomini, senza alcuna discriminazione, sostenendo ogni percorso individuale, ogni scelta e orientamento sessuale, religioso, di appartenenza etnica o politica e permettendo a ogni individuo di autoderminarsi nella costruzione del proprio percorso di vita.

La filosofia di Progetto Tenda è così riassunta sul sito dell’associazione: «Crediamo che la comprensione della diversità, più che l’integrazione in un predefinito modello culturale, sia la chiave per realizzare il nostro obiettivo: una società più pacifica, più aperta e più giusta, in cui siano garantiti uguali diritti a tutti quanti».

Come suggerisce il nome, la Tenda offre in primis servizi di prima necessità (vitto, alloggio e sportello lavoro), ma ha in essere anche attività lavorative proprie come un catering («Mondi a tavola») e una gelateria («Gelateria popolare+»). Il progetto delle Queens è nato nel 2017, trovando, due anni dopo, un socio in un’altra grande realtà di Torino: Balon Mundial.

Balon mundial

L’Associazione sportiva dilettantistica Balon Mundial Onlus è una realtà abbastanza recente: ha compiuto 10 anni lo scorso gennaio, essendo nata nel gennaio del 2012. Le attività dell’associazione torinese si concentrano sullo sport e, in particolare, sul calcio inteso come strumento capace di abbattere ogni tipo di barriera e pregiudizio.

«Il calcio – si legge su balonmundial.it – è uno sport universale. È lo sport più praticato al mondo. Davanti a un pallone non importa quale sia il colore della tua pelle, la tua religione, che tu sia uomo o donna. Davanti ad un pallone siamo tutti e tutte uguali».

«Metti in gioco le differenze» è lo slogan che descrive il metodo di lavoro di Balon Mundial. Significa confrontarsi con gli altri, saper mettere in discussione le proprie conoscenze e certezze ma, soprattutto, saper ascoltare per imparare da chi propone un pensiero diverso. «Un insegnante è una persona che spiega le cose. Un educatore è una persona capace di essere un esempio».

Balon Mundial Onlus – attualmente guidata da Tommaso Pozzato e Luca Dalvit e da un gruppo di coach, formatori, educatori, mediatori e project manager – organizza vari tornei e «la Coppa del mondo delle comunità migranti» tra squadre composte da migranti provenienti dalla stessa nazione residenti a Torino. L’ultima edizione, quella del 2019 (poi è arrivato il Covid), ha sancito la vittoria del Perù in campo maschile e dell’Italia Avis in quello femminile.

Paolo Moiola

I SITI WEB:
www.progettotenda.net
www. balonmundial.it

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Calcio giovanile: spaccato di vita

Tdsto e foto di Marco Bello


Lo sport è un passaggio importante nella vita di bambini e i giovani. In un’epoca in cui tecnologia digitale e videogiochi tendono a tenerli sempre più fermi e con poche relazioni «vere» tra di loro. Il movimento del calcio giovanile in particolare, maschile e femminile, vive un momento di espansione nel nostro paese. Tuttavia, i comportamenti di alcuni allenatori, dirigenti di società sportive, giovani calciatori, e, soprattutto, di molti genitori, rischiano di sporcare questo fenomeno importante per la crescita individuale.

Davide Nicola, già calciatore professionista e dal 2010 allenatore di serie A, ha al suo attivo molte vittorie. Non ultima il famoso gol con la maglia del Torino che riportò i granata nella serie maggiore alla fine della stagione 2005-2006. E poi la scommessa vinta come allenatore, nella stagione 2016-2017, di mantenere il Crotone in serie A. Per celebrare questa vittoria Nicola ha compiuto un viaggio in bici da Crotone a Vigone (To), la sua città, percorrendo oltre 1.300 km e passando quasi tutte le città in cui ha lavorato come calciatore o allenatore.

Lo sguardo magnetico, che porta quasi a soggezione, in contrasto con un approccio sempre accogliente verso l’altro, fanno di Davide Nicola una persona carismatica. Sempre attento alla formazione dei giovani, nel 2010 ha fondato una società di calcio giovanile, la Vicus 2010. Parla chiaro, con una voce profonda.

Davide, perché l’idea di co-fondare una società sportiva per il calcio giovanile?

«È stato in seguito a una richiesta del comune di Vigone, che aveva il progetto di riportare un settore giovanile del calcio in città, con l’obiettivo di offrire un servizio sociale in primis, e poi, dal momento che per me è un lavoro, dare un’impronta professionistica. L’idea era creare un settore giovanile che potesse contare su valori tecnici e umani. Insieme a mia moglie Laura Profumo e agli amici Carlo Bruno e Mauro Giaveno siamo partiti per scherzo 10 anni fa, e devo dire che ci siamo appassionati tutti a questa impresa. La mia storia personale parte da Vigone, sono arrivato al professionismo da un settore giovanile di questa città, e quindi, per me c’è anche una sorta di romanticismo».

Qual è l’importanza di uno sport di squadra nell’educazione dei bambini e degli adolescenti?

«Una delle chiavi con le quali ho accettato questo incarico, era di costruire qualcosa che potesse dare ai miei figli, perché essi sono in questo settore giovanile, e ad altri ragazzi, la possibilità di costituire una palestra formativa per la crescita individuale. L’idea è far capire che lo sport è una necessità, indipendentemente dal fatto che si faccia calcio o altro, perché al suo interno c’è lo spaccato della vita, tutto quello che è confronto, competizione sana, possibilità di stare in un ambiente sentendosi a proprio agio. Non quegli ambienti che diventano nocivi e poco propedeutici alla crescita, alla formazione tecnica e umana di una persona, ma un ambiente che concorra a dare quegli strumenti che serviranno poi per la vita. Da questa premessa abbiamo costituito i vari settori per la formazione, dividendoci i compiti. Io personalmente mi occupo di lavorare insieme ai tecnici, che abbiamo cercato di far crescere, permettendo loro di arrivare al patentino che riconosce loro la possibilità di lavorare con dei giovani, e li mette nella condizione di sapere con chi stanno lavorando e perché.

Il profilo umano diventa per noi fondamentale, cerchiamo cioè quella capacità che ha una persona di donare se stessa in funzione della crescita di un’altra persona. È chiaro che le ambizioni personali in questo contesto devono essere esclusivamente orientate alla formazione del giovane calciatore. Dal punto di vista tecnico la scelta dei formatori è basata sulla capacità di riconoscere i vari passaggi delle categorie. Perché per ogni età ci sono obiettivi tecnico-tattici di formazione, ma anche obiettivi psicologici. Un giovane calciatore di 6 anni non è un giovane calciatore di 14 e se questo non è riconosciuto dal formatore si rischia di fare qualche pasticcio».

Quali valori dovrebbe trasmettere l’allenatore-formatore?

«Sono innanzitutto valori legati a una crescita individuale, ovvero portare progressivamente il giovane alla consapevolezza per quanto riguarda fare il calcio. Indipendentemente dal fatto che un ragazzino possa avere più abilità o possibilità di arrivare a settori giovanili professionistici, piuttosto che un giovane si riscopra a 20-25 anni a giocare esclusivamente per piacere con gli amici, l’addestramento tecnico deve essere uguale.

Dal punto di vista tecnico-tattico la conoscenza di tutto ciò che serve per giocare a calcio, a partire dal dominio della palla, la consapevolezza degli spazi, dall’aspetto cognitivo di ciò che accade in una partita. Dal punto di vista della formazione umana, la capacità di riconoscere che uno sport di squadra ti permette di capire che cosa significa cooperare davvero con un compagno, al fine di raggiungere un obiettivo o un risultato comune. Ti permette di avere come banco di prova un ipotetico avversario, che cerca di impedirti di raggiungere i tuoi obiettivi. Tutto questo si deve trasformare nella consapevolezza del giocatore che deve sapere cosa fare in campo, e riconoscere le difficoltà che lo sport pone, nella capacità di non demordere mai, di continuare a perseverare anche quando non si riesce a raggiungere immediatamente qualcosa, perché non sempre si ottiene “tutto e subito”. Non ci sono scorciatoie, è un messaggio che deve essere chiaro. Il percorso di un giovane calciatore non bypassa tutto ciò che è l’aspetto formativo, bisogna conquistarsi tutto con grande fatica e dedizione.

Allo stesso tempo però c’è anche la consapevolezza che cooperando in un sistema sociale, io ho delle responsabilità e chi lavora o gioca con me ha delle responsabilità. Abbiamo dei diritti e dei doveri e tutto questo fa parte di quello che è lo spaccato della società».

In questi ultimi dieci anni, hai visto dei cambiamenti nei giovani, che oggi paiono sempre più legati agli strumenti elettronici e ai videogiochi, con il rischio di isolarsi?

«Nella storia dell’uomo c’è stata un’evoluzione della comunicazione, di noi stessi come persone, dovuta a molte conquiste, non solo individuali, ma della società. Inevitabilmente è cambiato anche il modo di comunicare con i nostri ragazzi. Io non so dire se l’utilizzo dei social e della tecnologia possa aver portato a un miglioramento o un peggioramento della persona, perché secondo me è presto per dirlo. Certo ha portato un cambiamento sia nelle relazioni, sia nella capacità che oggi abbiamo di avere a disposizione tutto e subito. Inoltre di sicuro arrivano molti più input rispetto a quelli che avevamo noi alla loro età. Bisognerebbe capire, attraverso la psicologia del comportamento e l’evoluzione dell’apprendimento, se effettivamente la tecnologia inibisca l’espressione e la creatività del percorso formativo dei ragazzi.

È fondamentale porsi delle domande: quanto sono utili questi strumenti, perché sono utili, come vanno usati? Non devono togliere al ragazzo la possibilità di esprimere le proprie emozioni, mettendoci la faccia, attraverso un continuo confronto con la persona che ha davanti. L’assenza di mimica facciale, della comunicazione non verbale, è una semplificazione, perché non gli fa provare delle emozioni, ma allo stesso tempo non impara a riconoscerle e a gestirle.

Un cambiamento che ho notato, è che oggi i nostri ragazzi sono molto indaffarati, hanno molte attività, ricevono e subiscono molti stimoli. Sicuramente l’evoluzione del nostro cervello non è stata così veloce come è stata quella della tecnologia, quindi c’è il rischio che loro si difendano da tutti gli input che ricevono. Mille attività che li fanno arrivare allo sport non sempre pronti a scaricare le loro energie e pulsioni giovanili sane. Questo perché si richiede loro molto impegno in tutte le direzioni».

Le derive del calcio giovanile, spesso create dai genitori, con i loro commenti e i loro litigi, con risvolti che scadono, oltre che nella maleducazione, talvolta nel razzismo. Può gettare del discredito sul calcio giovanile?

«Forse non basterebbe un’intera puntata di talk show su questo tema. Ci sono persone molto più competenti di me. Di sicuro la deriva del calcio giovanile è in evoluzione come tutto il resto. Noi purtroppo, come movimento, abbiamo dimostrato delle pecche, ma il movimento è costituto da persone, quindi i comportamenti dipendono dai singoli. La società sportiva, ha un impatto più importante rispetto a una singola persona, quindi quando passa un messaggio, riconosciuto negativo, che diventa un comportamento accettato, è molto difficile poi non solo discriminarlo, ma anche riuscire a cambiarlo. Perché allo stesso tempo tutti noi, tendiamo a costituire un gruppo, come la società, e quindi riconoscerci in esso, con tutti i messaggi che vengono passati. Ci sono state diverse manifestazioni in cui gli addetti ai lavori si sono fermati e hanno cercato di analizzare determinate tematiche. Ad esempio, è un errore che il calcio giovanile, a mio modo di vedere, sia paragonato al calcio degli adulti. Intanto è diverso lo sport calcio dallo sport come professionismo, perché quest’ultimo è sottoposto alle logiche economiche per cui diventa un lavoro, e in questo ci sono valori che talvolta sono in contrasto. Nel professionismo può capitare che si passi un messaggio legato al rispetto, al fair play riguardo all’avversario, ma poi in gioco ci sono degli interessi economici elevatissimi, e non sempre si è coerenti nel promuovere un valore e poi dimostrarlo nella realtà.

Invece quando si parla di calcio giovanile dovremmo mettere al centro del progetto i giovani, per cui non conta tanto la conquista di un risultato, che ci deve essere, ma di una crescita individuale. Non solo in funzione di un risultato che può essere fine a se stesso: posso vincere una partita ma magari non ho conquistato un miglioramento individuale. Per i ragazzi questo è determinante. Io non potrei allenare dei ragazzi adesso, perché la mia ambizione non è quella di raggiungere una certa crescita per i ragazzi, ma è legata ad altri obiettivi, come arrivare a una determinata vetta nella carriera, o rappresentare una maglia, o conquistare un risultato per dimostrare un percorso. Ma quando si lavora con i giovani, tutto questo è secondario, anzi probabilmente non esiste neanche, diventa prioritario e fondamentale concentrarsi sul ragazzo e porsi due domande: a che punto è come livello di conoscenza e dove lo voglio portare? E poi seguire insieme a lui un percorso. E la vittoria vera è il raggiungimento di questo obiettivo di crescita. Il risultato è poco importante. Anche se una delle difficoltà più grosse con i ragazzi è insegnare loro ad essere competitivi senza perdere di vista la soddisfazione, qualora non raggiungessero il risultato, di aver comunque raggiunto un buon livello di crescita».

La società sportiva deve farsi vedere garante di certi valori, rispetto al pubblico?

«Sì, questa dovrebbe essere l’idea e molti operano in questo senso, però il mondo in cui viviamo è tale per cui spesso abbiamo comportamenti diversi. Siano essi i comportamenti di alcuni genitori, che dovrebbero avere chiaro qual è il percorso per i loro ragazzi, sia esso il comportamento di certi allenatori, dirigenti o società sportive. È utopia pensare che si arriverà a mettere al centro del progetto la crescita individuale di ogni singolo giocatore? A me vengono in mente diversi esempi di comportamenti eccessivi in partite del settore giovanile locale, per le quali non ci sarebbe da scaldarsi tanto, eppure è come noi scimmiottassimo quello che ci sta sopra, a certi livelli e lo volessimo portare nel mondo dei giovani. Quando poi, se guardi una partita di calcio di piccolissimi, se non ci fosse l’arbitro, non ci fossero i genitori, o qualcuno che li addestri a comportarsi con una certa malizia, loro non ci arriverebbero neanche. Penserebbero esclusivamente al piacere del gioco e a manifestare se stessi, in un ambiente che forse, senza presunzione, allora sì che sarebbe sano».

A un giovane o una giovane che avesse l’ambizione di diventare professionista cosa diresti?

«Intanto quando parliamo di movimento calcistico parliamo di persone, senza differenza di sesso. Direi che per prima cosa tutto parte da una passione. Non posso dare un consiglio, posso raccontare la mia storia. Io ho iniziato a giocare a calcio per una passione incredibile. Ma quando mi scopro a parlare di passione con i nostri ragazzi, mi rendo conto che se per noi è un concetto quasi immediato, con loro bisogna avere la capacità di descrivergli, anche con poche parole, cosa voglia dire. Io utilizzo un esempio semplicissimo: avete presente quando una persona fa tutti i giorni la stessa cosa e continua a farla e non si accorge del tempo che passa? Magari un’altra persona la guarda e vede che fa sempre la stessa cosa. Quella è passione, qualcosa di cui non puoi fare a meno, che non ti pesa il tempo che passi a farla. Che ti risveglia dentro sempre nuove curiosità e nuovi modi di approcciarla. E non ti pesa perché ti soddisfa, ti gratifica. La passione deve essere il primo motore che spinge il sogno di un bambino. Dopo di che non dovremmo partire dall’idea voglio diventare calciatore, questo è un prodotto della società, ovvero inculcare al bambino la possibilità di diventare calciatore perché il calciatore è in vista, ha buoni guadagni, fa una bella vita. Non è così. È molto difficile che uno possa arrivare a fare questa professione. Bisogna essere molto chiari, obiettivi. Fare capire che una potenziale professione nasce da una  passione, ma anche da un percorso molto duro e non ci sono scorciatoie. Un percorso, e lo sport lo insegna bene, che ti dimostra che tante volte, nonostante tu ti sia impegnato allo spasimo, non puoi raggiungere quello che vuoi. Così come nella vita, non tutto quello che voglio fare riesco a raggiungerlo, però ho imparato a farlo e, nel percorso che ho fatto, ho appreso determinate cose, ho formato la mia personalità, ho migliorato determinate competenze, e poi il corso della vita e la mia idea mi porteranno a scoprire piano piano quello per cui sono nato».

Marco Bello


Il libro su un campione di football (e di umanità) che non si può dimenticare

Il Mozart del calcio

Un’opera prima di un appassionato di calcio, che ci porta in Austria, tra le ceneri della prima Guerra Mondiale e il Nazismo. E ci fa scoprire un eroe, grande calciatore europeo e antinazista, Matthias Sindelar. Sarebbe utile conoscerlo di più, anche per i nostri ragazzi.

È una storia d’altri tempi, intrisa di romanticismo, ma anche di realtà storiche, quella raccontata da Danilo Careglio nel suo primo romanzo «Cartavelina». Una storia dimenticata, quella di Matthias Sindelar, un grande campione del calcio, cresciuta tra le due guerre e finita con il nazismo. Sindelar, che non si volle piegare ai diktat del regime (non fece il gesto nazista a fine partita e si rifiutò di giocare nella nazionale tedesca che aveva assorbito quella austriaca), divenuto personaggio scomodo, morì in circostanze mai chiarite il 23 gennaio del ’39 poco prima di compiere il suo 36esimo anno di età.

Careglio, classe 1970, appassionato di calcio fino al midollo, è stato calciatore per vent’anni, toccando il culmine nelle giovanili del Torino. Nel 2000 ha dovuto smettere a causa di un infortunio ed è poi diventato allenatore nel settore giovanile e di prime squadre. Secondo lui Matthias Sindelar è stato «uno dei più grandi giocatori di football di tutti i tempi». «Quando ho scoperto la sua storia, ho anche visto che poco era stato scritto e detto su di lui. Così ho pensato che sarebbe stato importante colmare questo vuoto e ho iniziato a cimentarmi nel recupero di documentazione».

Sindelar, di umili origini ceche era emigrato con la famiglia a Vienna, dove viveva in un quartiere degradato. Qui è stato scoperto dalla squadra dell’Hertha Vienna, che costituiva anche buona parte della nazionale austriaca. Il suo aspetto esile ne faceva un attaccante rapido e imprevedibile, e molti dei suoi gol sono stati dei capolavori. Fu soprannominato «Papierene», cartavelina, ma anche «Il Mozart del calcio». Anche il profilo umano che viene fuori dal romanzo è quello di una persona molto equilibrata, umile e altruista, che ha saputo gestire la consapevolezza di essere un grande campione (cosa oggi assai rara). Un uomo con principi e valori non negoziabili che, per questo, si scontrerà con il nazismo e, nonostante la sua notorietà, troverà la sua fine.

Il libro di Careglio è ben scritto, avvincente nella descrizione della vita del tempo e del contesto storico, ma soprattutto racconta la storia di un eroe dimenticato del calcio europeo.

Ma.Bel.


• Cartavelina, La storia di un grande calciatore austriaco finita col Nazismo, Neos Edizioni, 2019, €16,90.




I Perdenti 40.

Luz Long e Jesse Owens campioni nello sport e nella vita

Quel
che accadde in un caldo e afoso pomeriggio del 4 agosto 1936 all’Olympiastadion
di Berlino fu una cosa inimmaginabile per quei tempi in Germania, uno schiaffo
dato in pieno volto al regime nazista all’apice del suo potere: la conquista di
una medaglia d’oro da parte di un uomo di colore alle Olimpiadi che si tenevano
nella capitale dell’ideologia della supremazia della razza ariana su tutte le
altre, non solo in ambito sportivo, ma bensì in ogni aspetto del vivere sociale
e civile.

L’aspetto
più luminoso legato a quella data è la sincera amicizia fra l’atleta tedesco Luz
Long e il suo più forte avversario, lo statunitense afroamericano Jesse Owens,
nata sui campi di gara e consolidatasi nel tempo, a dimostrare che la rivalità
sportiva non si traduce sempre in feroce antagonismo, e che il valore di
un’amicizia si misura dalla sua capacità di sopravvivere al passare degli anni.
Tutto ciò trova valida conferma in una lettera di Long – ultima di una fitta
corrispondenza – spedita dal fronte della Seconda Guerra Mondiale al rivale
sportivo nonché amico fraterno: «Dopo la guerra, va’ in Germania, ritrova mio
figlio e parlagli di suo padre. Parlagli dell’epoca in cui la guerra non ci
separava e digli che le cose possono essere diverse fra gli uomini su questa
terra. Tuo fratello, Luz». Così scriveva Long, divenuto ufficiale della
Luftwaffe tedesca, a Owens che aveva appreso da poco la notizia della nascita
del suo primogenito.

Proprio
con il campione sportivo tedesco Luz Long vogliamo scambiare quattro
chiacchiere sulla loro straordinaria amicizia.

Jesse Owens in piena corsa alle Olimpiadi del 1936 a Berlino (Collection MNS)
Caro Luz, nonostante i tuoi meriti sportivi, anche tu sei stato reclutato
per l’esercito tedesco e mandato in prima linea a combattere…

Devo dire
che il mio status di atleta internazionale mi aveva risparmiato di prendere
parte al conflitto iniziato nel 1939, ma il capovolgimento delle sorti della
guerra richiamava al servizio del Reich tutti gli uomini validi, quindi anche
gli atleti sportivi di ogni disciplina.

Cosa accadde all’Olympiastadion di Berlino in quel lontano 4 agosto 1936?

Cominciamo
col dire che uno spettatore che prendeva posto nelle strutture sportive,
pianificate e costruite in quegli anni in Germania dall’architetto del regime
Albert Speer, rimaneva stupefatto per la loro imponenza ed eleganza. Era un
modo per infondere negli spettatori una forma di ammirazione e rispetto per il
potere nazista.

L’Olympiastadion era veramente così imponente?

Con
chiari richiami ai modelli architettonici dell’Antica Grecia, l’Olympiastadion,
poteva contenere oltre centodiecimila spettatori. Maestoso e immenso,
costituiva un’autentica «macchina di propaganda» messa in azione dal regime
nazista per ottenere un sempre più vasto consenso dal popolo tedesco attraverso
gli avvenimenti sportivi.

Possiamo dire quindi che una manifestazione sportiva come le Olimpiadi era
usata dal potere nazista come uno strumento di battaglia ideologica?

Hitler
intendeva servirsi delle Olimpiadi per dimostrare al mondo intero la supremazia
della razza ariana, di conseguenza l’atleta tedesco doveva corrispondere
all’immagine stereotipata: alto, biondo, prestante, carnagione chiara e occhi
azzurri.

Quindi tu rientravi pienamente nei canoni estetici voluti dal Fuhrer.

Sì.
Appartenevo fin dalla nascita alla patria tedesca, a quel tempo avevo ventitré
anni ed ero studente di legge all’Università di Lipsia. Dal punto di vista
sportivo, in precedenti gare avevo già superato per due volte consecutive nel
salto in lungo il record olimpico di 7,73 metri stabilito nel 1928 ad Amsterdam
dallo statunitense Edward Hamm.

Eri diventato anche il beniamino della nazione tedesca dopo esserti
classificato terzo ai campionati europei di atletica leggera, nel 1934.

Mi
rendevo conto che ero una pedina importante, nella scacchiera preparata da
Hitler per affermare il dominio sportivo germanico sul resto del mondo. Agli
occhi del Fuhrer le mie possibili affermazioni in campo atletico apparivano
quasi scontate e il dittatore si preparava a gustarle di fronte agli ospiti
provenienti da tutto il mondo.

Quante nazioni erano presenti a quelle Olimpiadi?

Parteciparono
ben quarantanove paesi, un numero record rispetto alle edizioni precedenti, che
tuttavia non teneva conto della forte discriminazione insita nell’evento
berlinese. Gli atleti ebrei tedeschi furono espulsi da tutte le discipline
sportive, mentre un destino già più felice toccò agli afroamericani, ai quali
fu concesso di gareggiare, anche se in numero ridotto. La squadra olimpica
americana presentava diciotto atleti di colore su 312 partecipanti, una
percentuale bassissima. Tra l’altro, quei diciotto subivano una pesante
discriminazione perfino in patria. Erano pochi, ma abituati alle privazioni,
forse per questo motivo ancor più desiderosi di riscattarsi. Tra loro spiccava
James Cleveland Owens, da tutti conosciuto come Jesse Owens.

Hitler come vedeva questi atleti di colore?

La
presenza degli afroamericani alle Olimpiadi di Berlino venne giustificata da
Hitler con sordido disprezzo: diceva che essendo loro dei «primitivi» potevano
vantare una costituzione robusta, perciò più adatta alla corsa. A rincarare
l’acredine fu il quotidiano della propaganda nazionalsocialista, diretto da
Joseph Goebbels, che definiva i neri come cittadini di seconda categoria degli
Stati Uniti.

In effetti, a ben guardare, anche nel loro paese non erano trattati molto
bene.

Basti
pensare che in quegli anni gli afroamericani erano costretti a sedere nella
parte posteriore dei bus pubblici e dovevano utilizzare gli ascensori di
servizio negli alberghi: la loro condanna era di essere confinati ai margini
della società. Il diritto di vivere non era loro precluso, eppure,
silenziosamente, veniva negata loro quella possibilità che si trova alla base
della libertà stessa: vivere come loro desideravano.

Nonostante ciò, il desiderio di affermarsi, di emergere nella società
civile come nello sport da parte degli afroamericani era molto sentito.

Proprio
così, e Jesse Owens, figlio di un povero agricoltore dell’Alabama, che a otto
anni lavorava già come inserviente per conquistare un posto un po’ più
dignitoso in quel mondo che lo voleva escludere, era deciso a tutto pur di
farcela.

Quale fu l’occasione che gli permise di «sfondare»?

Furono le
sue doti e le sue capacità atletiche a consentirgli di ottenere una borsa di
studio per la Ohio State University, dove incontrò Larry Snyder, uno dei
migliori coach in circolazione.

Con lui, Jesse cominciò ad affermarsi e a stabilire nuovi record.

Qualche tempo prima in Michigan, partecipando ad un
evento sportivo, vinse ben quattro gare in diverse discipline in un’ora e un
quarto. L’eccezionalità delle sue imprese sportive impressionò la Federazione
americana di Atletica Leggera che lo incluse nel gruppo di atleti da portare
alle Olimpiadi di Berlino.

Dove il nome di Jesse Owens divenne leggenda.

Il tre
agosto del 1936 conquistò la sua prima medaglia d’oro, quella della corsa dei
cento metri. Bisogna dire che i giudici tedeschi durante le gare lo presero
particolarmente di mira, infatti non esitarono a sollevare la bandierina rossa
per delle inezie durante le qualificazioni per il salto in lungo. Dopo due
salti nulli incombeva su di lui lo spettro dell’eliminazione. Jesse era dotato
di grande velocità, ma il suo stile rivelava imperfezioni, soprattutto se
confrontato con l’impeccabile hang style (sospensione nel salto) di altri
atleti.

Per Owens sembrava ormai preannunciarsi una sconfitta inevitabile.

Senza
contare che su di lui pesava duramente la fatica degli sforzi precedenti.
Rimaneva l’ultima possibilità nel salto in lungo, ma la giuria internazionale,
influenzata pesantemente dalle autorità naziste, era pronta a dichiararlo fuori
gioco senza troppi complimenti.

Jesse perciò si trovava di fronte all’ultimo salto valido per accedere alla
finale, quando qualcuno si avvicinò alle sue spalle. Eri proprio tu Luz,
l’atleta tedesco da cui tutti si attendevano una vittoria.

Mi
avvicinai a lui e gli sussurrai all’orecchio: «Uno come te dovrebbe essere in
grado di qualificarsi ad occhi chiusi», poi gli consigliai il punto di stacco
ideale per effettuare un salto valido indicandolo con un fazzoletto bianco
posato accanto alla pedana. Jesse non solo si qualificò per la finale, ma mi
superò ampiamente saltando ben 8,06 metri contro i miei 7 metri e 87
centimetri.

Jesse Owens saluta mentre riceve la medaglia d’oro per il salto in lungo.

Owens quel giorno vinse il suo secondo titolo olimpico, ricordiamo che tra tutti gli atleti di colore della squadra americana il migliore fu proprio lui, che il 3 agosto vinse la medaglia d’oro nei cento metri, il 4 agosto nel salto in lungo e il 5 agosto nei 200 metri e infine, il 9 agosto vinse la sua quarta medaglia d’oro nella staffetta 4×100 metri; questa era una gara a cui Owens non era nemmeno iscritto, ma partecipò dopo che la squadra americana decise di non far partecipare due atleti ebrei a causa delle pressioni dei nazisti. Il trionfo di Jesse Owens fu un vero scacco per Hitler che riponeva ogni speranza nei campioni di casa per una robusta affermazione tedesca nelle discipline sportive di atletica leggera. Si vociferò anche a lungo sulla reazione di Hitler alla mancata vittoria tedesca, gli attribuirono i comportamenti più disparati: come il fatto di essersi rifiutato di stringere la mano a Owens. Jesse, da perfetto galantuomo, smentì le versioni non veritiere, affermando di essere stato salutato, sebbene a distanza, dal Fuhrer. La vittoria alle Olimpiadi non procurò inizialmente molti benefici economici a Owens, quando tornò negli Stati Uniti dovette adattarsi a fare parecchi lavori umili per procurarsi da vivere, tra cui l’inserviente a una pompa di benzina.

Ignorato e snobbato (non si sa per quale ragione) dal presidente Franklin Delano Roosevelt, e dal suo successore Harry Truman, il primo vero riconoscimento per i suoi trionfi sportivi arrivò quarant’anni dopo, nel 1976 dal presidente Gerald Ford, che gli assegnò la Medaglia per la libertà, il più alto riconoscimento civile degli Stati Uniti. Jesse Owens si spense a 77 anni nella sua casa a Tucson, in Arizona, il 31 marzo 1980.

Don Mario Bandera




I Perdenti, 34. Dorando Pietri: il perdente più celebre del ‘900

Testo di Mario Bandera |


Nella galleria dei personaggi che – a torto o a ragione – sono passati alla storia come dei «perdenti eccellenti» e che MC da qualche tempo sta cercando di presentare sotto una luce positiva, trova il suo posto anche Dorando Pietri, l’atleta di Reggio Emilia che alle Olimpiadi di Londra del 1908 percorse, allo stremo delle forze, l’ultimo tratto della maratona nello stadio di Wembley sostenuto da uno dei giudici di gara. L’impresa sportiva di quel giorno, che l’aveva visto come un brillante protagonista per tutto il percorso, si concluse amaramente con la squalifica del corridore emiliano per l’aiuto ricevuto nell’ultimo tratto del percorso. Nella memoria collettiva di tutti gli sportivi – non solo italiani – Dorando Pietri, è l’atleta che seppe incarnare in maniera esemplare gli ideali del marchese Pierre De Coubertin, ideatore delle moderne Olimpiadi.

Dorando Pietri – CC

Nato il 16 ottobre 1885 in una famiglia contadina della provincia di Reggio Emilia, a Correggio nella frazione di Mandrio, Dorando Pietri (morto a Sanremo il 7 febbraio 1942) per i nostri standard era «un piccoletto», essendo alto solo un metro e sessanta centimetri, come la maggior parte degli italiani di quel tempo. Fin da bambino si divertiva un mondo a correre nei campi della sua terra, come tutti i ragazzi nati nei grandi spazi della campagna. Iniziò a lavorare molto presto, probabilmente prima dei dieci anni, nella bottega di un pasticciere a Carpi, cittadina dove il padre aveva portato la famiglia e aperto un’attività commerciale, per emanciparsi – o almeno provarci – dal lavoro della terra.

Nel 1903 entrò a far parte della società sportiva di ginnastica «La Patria», i cui dirigenti, intuendone le qualità del vero campione, lo iscrissero a diverse gare podistiche regionali e nazionali.

Dorando, a distanza di oltre un secolo resti un esempio di atleta serio e meticoloso, da dove nasce questo tuo amore per la corsa?

Fin da ragazzo mi è sempre piaciuto correre, qualcuno disse che avevo un talento naturale per questa disciplina sportiva, forse per il mio fisico, forse per la storia della mia famiglia, in ogni caso tutto convergeva nel fare emergere le caratteristiche dell’atleta corridore insite nel mio animo.

È vera la storia che si racconta, che la tua voglia di correre era tanta che a una gara podistica organizzata a Carpi nel 1904, a cui partecipava Pericle Pagliani, il più celebre corridore dell’epoca, quando questi passò vicino alla tua bottega tu ti mettesti a seguirlo in abiti da lavoro fino al traguardo?

Proprio così! A quel tempo avevo 19 anni e avevo tanta voglia di correre che quando Pagliani passò vicino alla bottega dove lavoravo, mi misi a correre dietro a lui senza nemmeno togliermi il grembiule da pasticciere e riuscendo, nonostante ciò, a stargli incollato fino alla fine della gara.

I dirigenti della società sportiva «La Patria» constatando le tue qualità atletiche, ti spinsero a iscriverti a diverse gare podistiche regionali e nazionali contribuendo così a farti conoscere da un numero sempre più ampio di sportivi…

Dicevano che «avevo talento». A furia di ripeterlo a ogni manifestazione sportiva facendomi un sacco di pubblicità, in pochi anni divenne chiaro a tutti che in Italia se c’era qualcuno da battere nella corsa sulle distanze dai 5 ai 40 chilometri, quello ero io.

A quel punto si aprì anche il palcoscenico internazionale.

Infatti non ci fu molto da aspettare. Nel 1905 vinsi la 30 km di Parigi con un distacco di sei minuti sul secondo classificato; nel 1906 vinsi la maratona che mi qualificò ai giochi olimpici intermedi di Atene; nel 1907 stabilii il primato nazionale italiano dei cinquemila metri e vinsi il titolo nazionale anche sulla distanza dei venti chilometri.

La tua carriera come atleta podista continuò con una serie impressionante di vittorie che lasciò sbalordita l’Italia intera.

Quello fu un momento molto fruttuoso nella mia vita sportiva, oltre alle vittorie già ricordate, nel 1908, mi qualificai per le Olimpiadi di Londra in una gara che si tenne proprio a Carpi. Davanti alla mia gente corsi la maratona in 2 ore e 38 minuti. In Italia un tempo simile su quella distanza non l’aveva mai fatto nessuno.

Adesso parliamo delle Olimpiadi di Londra, di quella fatidica giornata del 24 luglio 1908.

Quel giorno a Londra faceva molto caldo, anche per un italiano. La corsa partì alle due e mezza del pomeriggio. Io avevo la pettorina numero 19, maglietta bianca e calzoncini rossi, all’inizio restai con il gruppo dei corridori in quanto non volevo forzare inutilmente. Seguivo una mia strategia di corsa che mi ero preparato meticolosamente nei giorni precedenti.

Sì, ma appena passasti il segnale di metà gara le cose cambiarono.

Superati i 20 chilometri, applicai un ritmo sempre più spinto alla mia andatura che mi portò a superare tutti quelli che mi stavano davanti e giunsi a riprendere l’atleta che era in testa, il sudafricano Charles Hefferon, quando mancavano meno di tre chilometri all’arrivo.

Ma pagasti a caro prezzo questo tuo sforzo.

A quel punto mi sentivo stanchissimo, ero quasi disidratato. Entrai allo stadio che quasi non riuscivo a correre dritto, barcollavo, sbagliai persino strada. Il pubblico nello stadio mi incitava a continuare, ma i giudici di gara mi fecero notare l’errore e mi fecero tornare indietro.

Non reggevi più lo sforzo e sei persino caduto sulla pista.

È vero, però con l’aiuto dei giudici di gara mi rialzai sempre. Caddi quattro volte in duecento metri prima di arrivare al traguardo, e ogni volta i giudici mi diedero una mano per rimettermi in piedi. Tagliai il traguardo in 2 ore e 54 secondi. Svenni per la quinta volta e mi portarono via in barella. Nello stesso momento entrò nello stadio l’atleta americano Johnny Hayes, che si piazzò secondo.

Eri riuscito a tagliare il traguardo per primo, quindi la maratona l’avevi vinta tu.

Si, ma la delegazione degli Stati Uniti, non appena venne a sapere quello che era successo all’interno dello stadio, con i giudici che mi avevano aiutato a terminare la gara, fece appello alla giuria per chiedere la mia eliminazione, in quanto colpevole di essere stato aiutato dai giudici di gara.

E come andò a finire?

Il reclamo venne accolto: fui squalificato e cancellato dall’ordine di arrivo della gara. La medaglia d’oro fu assegnata allo statunitense Johnny Hayes.

E nei tuoi confronti come si comportarono gli inglesi?

Il mio dramma umano commosse tutti gli spettatori dello stadio: per compensarmi della mancata medaglia olimpica, la regina Alessandra mi diede in premio una coppa d’argento dorato.

È vero che a proporre il riconoscimento reale fu lo scrittore Arthur Conan Doyle, il «papà» di Sherlock Holmes?

Doyle era presente a bordo campo per redigere la cronaca della gara per il Daily Mail. Il resoconto del giornalista-scrittore terminava con queste parole: «La grande impresa dell’italiano non potrà mai essere cancellata dagli archivi dello sport, qualunque possa essere la decisione dei giudici».

Pietri premiato dalal regina alla fine della maratona – CC

Il racconto della sfortunata impresa di Pietri fa immediatamente il giro del mondo. Dorando Pietri diviene una celebrità, in Italia e all’estero, per non avere vinto. La mancata vittoria olimpica è la chiave del successo dell’atleta emiliano: Pietri riceve presto un buon ingaggio per una serie di gare ed esibizioni negli Stati Uniti.

Il 25 novembre 1908, al Madison Square Garden di New York, va in scena la rivincita tra Pietri e Hayes. Gli spettatori sono ventimila, mentre altre diecimila persone rimangono fuori a causa dell’esaurimento dei posti. I due atleti si sfidano in pista sulla distanza della maratona, e dopo aver corso spalla a spalla per quasi tutta la gara, alla fine Pietri riesce a vincere staccando Hayes negli ultimi 500 metri, per l’immensa gioia degli immigrati italiani presenti. Anche la seconda sfida, disputata il 15 marzo 1909, viene vinta da Pietri. Durante la trasferta in America partecipa a 22 gare, vincendone 17. Rientrato in Italia nel maggio 1909 prosegue l’attività agonistica per altri due anni.

La sua ultima maratona è quella di Buenos Aires, corsa il 24 maggio 1910, nella quale Pietri chiude con il suo primato personale di 2 ore, 38 minuti, 48 secondi e 2 decimi. La gara d’addio in Italia si svolge il 3 settembre 1911 a Parma: una 15 chilometri, vinta agevolmente. Corre la sua ultima gara all’estero il 15 ottobre dello stesso anno (il giorno prima del suo 26° compleanno), a Göteborg in Svezia, concludendola con l’ennesima vittoria. Nel 1911 si ritira dall’attività agonistica e si trasferisce a Sanremo dove apre un’autorimessa e dove muore il 7 febbraio 1942, stroncato da un improvviso infarto.

Don Mario Bandera




Cina: Calcio, se Pechino porta il pallone


Acquisto di squadre europee e italiane. Ingaggi di giocatori e allenatori famosi. Il tutto mettendo sul piatto investimenti milionari. La Cina è entrata nel business del calcio con la forza della sua potenza economica. Cosa sta dietro un fenomeno che ha assunto proporzioni gigantesche? Una cosa è certa: la passione calcistica del presidente Xi Jinping non spiega tutto.

Il calcio moderno è un prodotto britannico della seconda metà del XIX secolo. Il calcio antico invece fu inventato nella Cina imperiale di qualche millennio fa, con il nome di cuju (??). A quei tempi non era visto come un gioco competitivo a squadre, ma solo come un tipo di allenamento adatto per i soldati. Tanta acqua è passata sotto i ponti da allora. Tuttavia il calcio, come noi lo abbiamo sempre inteso in Europa o in Sud America, non ha mai attecchito veramente né nella Cina antica né nella Cina moderna. Solo di recente, a partire dalla primavera del 2015, grazie alle politiche governative promosse da Pechino a favore del gioco del calcio e al diretto interessamento di grandi gruppi economici cinesi pubblici e privati, su tutti il gruppi Wanda, Suning, Alibaba, Evergrande, la passione del calcio giocato sembra cominciare molto lentamente a conquistare i cuori e le menti dei giovani cinesi.

((Xinhua/Li Xiang)

Ma spendere non basta

Nel 1930 si ebbe la prima edizione del Campionato del Mondo di calcio. La grande Italia di Pozzo lo vinse nel 1934 e nel 1938. Poi fu la volta, molti anni dopo, degli azzurri guidati da Bearzot nel 1982 e di quelli allenati da Lippi nel 2006. Detto ciò, pensiamo che solo nel 2001 la squadra nazionale cinese è riuscita a qualificarsi alla fase finale di un Campionato del mondo, che in quell’occasione si tenne per la prima volta in Asia, diviso tra Giappone e Corea del Sud. Tuttavia, la nazionale cinese venne subito eliminata, perdendo le prime tre partite. Un altro dato: solo nel 2013 fu vinta la prima Coppa dei campioni asiatica da parte di una squadra professionista cinese, il Guangzhou Evergrande della città di Canton, nel Sud della Cina.

Il fenomeno calcistico cinese si sta sviluppando in parallelo alla crescita economica del paese e in conseguenza dell’introduzione nella Cina comunista dei primi istituti giuridici e delle prime pratiche proprie del capitalismo. Il calcio dei professionisti in Cina è stato quindi istituito solo nel 1994. Il primo contatto diretto tra calcio cinese e calcio italiano si ebbe nel 2000, quando il giocatore Ma Mingyu venne ingaggiato dalla squadra del Perugia. Ma solo nel 2004, con l’istituzione della Super League, il campionato di serie A cinese passò da attività di dilettanti a lavoro da professionisti.

In ogni caso, prima di poter affermare che il popolo cinese sia diventato un popolo di calciofili e aspiranti campioni del pallone passeranno probabilmente ancora molti anni. Oppure, nella peggiore delle ipotesi, tutto questo investire capitali e parlare di calcio potrebbe essere semplicemente un fuoco di paglia, come ad esempio fu del tentativo, portato avanti fra gli anni Settanta e Ottanta, di far appassionare gli statunitensi al gioco del calcio.

Nel frattempo, quest’anno il calciomercato cinese si è rivelato il quinto più ricco al mondo, dopo quelli relativi ai campionati inglese, tedesco, spagnolo, italiano, con un esborso da parte delle squadre cinesi di quasi 545 milioni di dollari, una cifra triplicata rispetto a un anno prima.

Un tifoso d’eccezione: Xi Jinping

Il presidente della Repubblica popolare, nonché segretario generale del Partito comunista cinese, Xi Jinping ha più volte ribadito che il grande sogno cinese di rinascita patriottica non è per nulla slegato dal gioco del calcio. A partire da una visita ufficiale in Corea del sud nel 2011, quando era ancora vicepresidente, prospettò al mondo un triplice obiettivo per la Cina: qualificarsi per un Mondiale, ospitare un Mondiale e vincere un Mondiale entro il 2050. Costruire le premesse per la vittoria della Coppa del Mondo di calcio entro il 2050 sarebbe la ciliegina sulla torta dei festeggiamenti previsti nel 2049 per l’anniversario dei cento anni della dichiarazione di indipendenza del paese, avvenuta sotto la guida di Mao Zedong nel 1949.

La direzione è quindi tracciata e tutti devono agire uniformandosi a questa linea politica. Il calcio non è solo un passatempo per il pubblico o un business fruttuoso per gli investitori e gli sponsor, ma in Cina diventa un fatto politico e sociale di fondamentale importanza. Si tratta del grande sogno del rinascimento cinese.

Nei soli ultimi due o tre anni, tra campagna acquisti di giocatori, acquisto di squadre di calcio estere – tra cui Manchester City, Wba, Aston Villa, Birmingham, Wolverhampton, Atletico Madrid, Espanyol, Granada, Sochaux, Auxerre, Nizza, Lione e le italiane Inter e Milan -, e l’ammodernamento delle infrastrutture, si sono già spesi diversi miliardi. E siamo solo agli inizi. Ma coloro che ne hanno saputo approfittare più di altri sono i cosiddetti immobiliaristi. Cioè tutti quegli imprenditori che si sono arricchiti con la speculazione edilizia, la quale ha come controparte le realtà governative ad ogni livello. Infatti i terreni in Cina sono statali e per renderli edificabili servono i permessi amministrativi. Così gli immobiliaristi sono tra gli imprenditori più ricchi, ma anche quelli più dipendenti dai rapporti con la politica. Non stupisce quindi che nella China Super League, il campionato di serie A in corso, 11 squadre su 16 abbiano proprietari i cui affari sono riconducibili anche al settore immobiliare.

Lippi e gli altri: tanti stranieri, pochi nativi

Nel 2011 per le squadre di calcio cinesi si aprì il mercato degli acquisti all’estero. Il primo giocatore straniero ad essere ingaggiato fu il centrocampista argentino Dario Conca, che giocava nella serie A brasiliana, il quale venne acquistato dalla squadra cinese del Guangzhou Evergrande con un ingaggio milionario. Ovviamente le immense disponibilità valutarie, anche in valuta estera, che caratterizzano ancora oggi l’economia cinese, da quel momento cominciarono ad essere investite nel nascente mondo del calcio cinese. Così un solo anno più tardi, nel 2012, anche Marcello Lippi, di fronte all’offerta di parecchi milioni, accettò di fare l’allenatore del Guangzhou Evergrande, riportando diverse vittorie sia in campionato che nelle coppe, come la vittoria, ricordata sopra, nella Champions League asiatica nel 2013. Attualmente Lippi allena la nazionale cinese.

Altri giocatori e tecnici italiani lo hanno seguito nella nuova avventura. Parliamo tra i primi di Gilardino, Cannavaro e Diamanti. Nel 2016 un altro importante allenatore italiano, Alberto Zaccheroni, approda al massimo campionato cinese nella squadra del Beijing Guoan. Ai cinesi serviva avere in casa buoni esempi di calcio giocato e altrettanti buoni modelli tecnici e tattici, da cui imparare e prendere spunto per migliorare le prestazioni sul campo. I campioni e gli allenatori stranieri ingaggiati a suon di milioni da parte loro non hanno deluso le aspettative. Così nel mondo del calcio cinese si è avviato un volano positivo fatto di investimenti, di ingaggi e di buoni giocatori e tecnici venuti dall’estero, brasiliani, francesi, italiani, africani, giapponesi, sudcoreani. Tra i tanti, troviamo anche Oscar, Hulk, Alex Teixeira, Jackson Martinez, Ramires, Gervinho, Guarin, Burak Y?lmaz, Lavezzi, Tevez, Felipe Scolari e l’italiano Pellè. Tuttavia quello che ancora manca non è tanto la bravura degli stranieri, ma la qualità dei nativi. Insomma alla Cina manca un numeroso e forte vivaio di giocatori giovani nati e cresciuti in Cina.

Scuola calcio, campi e corruzione

Nonostante i cospicui investimenti, la mancanza di talenti cinesi si fa sentire in modo negativo nel calcio cinese, soprattutto durante le partite della nazionale, che, dopo il 2 a 2 con la Siria (giugno 2017), è già praticamente eliminata dalla corsa di qualificazione al Campionato del mondo del 2018, che si terrà in Russia. Per ovviare alla mancanza di talenti tra le fila dei giovani cinesi, il vicepresidente della Federazione calcistica cinese, Wang Dengfeng ha dichiarato che è operativo un piano nazionale per legare l’attività calcistica ai piani di educazione dei giovani studenti nelle scuole, con l’annuncio della creazione entro il 2025 di cinquantamila scuole di calcio o meglio veri e propri collegi super attrezzati e con partnership straniere, ognuno dei quali sarà in grado di formare un migliaio di nuovi giocatori; col fine di portare a cinquanta milioni il numero di giocatori di calcio in Cina, di cui almeno centomila di livello. Si procederà anche alla costruzione di 70 mila nuovi campi sportivi nelle contee sparse per tutto il paese.

Dove girano molti soldi però la corruzione è in agguato. La Cina in questo non fa certo differenza rispetto a tutti gli altri paesi. Per combattere i fenomeni devianti legati allo scambio di «favori» e di mazzette, il presidente Xi Jinping già dal suo insediamento, come vertice politico della Repubblica popolare cinese, ha dichiarato la caccia aperta alle cosiddette «tigri», cioè gli alti funzionari corrotti nel partito e nell’amministrazione; alle «mosche», i medi e piccoli funzionari corrotti e infine alle «volpi», cioè tutti quelli che sono scappati all’estero col maltolto.

Buchi di bilancio e nuove regole

Anche il sogno, legato alla diffusione del gioco del calcio nel paese, rischiava di trasformarsi in un incubo. Infatti come un treno, che sta per deragliare, i denari spesi negli acquisti all’estero e negli ingaggi dei giocatori stranieri sono cominciati ad apparire davvero eccessivi, anche per le ricche tasche cinesi. Il calcio non è diverso da qualsiasi altro settore economico e dovrà uniformarsi alle stesse limitazioni e agli stessi controlli delle autorità governative. Così di fronte a un buco complessivo di 670 miliardi di dollari, non si può far altro che constatare che a fronte di miliardi di investimento ancora non si producono utili. Ognuna delle sedici squadre che partecipano alla Super League ha, in media, una perdita finanziaria di 74 milioni di dollari. La responsabilità di tutto ciò è anche da ascrivere all’incapacità dimostrata dalle squadre di fidelizzare i tifosi e di sviluppare il settore del merchandising. Su queste basi l’Amministrazione generale dello sport cinese ha dettato nuove regole, imponendo, oltre a un tetto per le spese durante il calcio mercato, anche il limite di cinque stranieri in squadra, di cui solo tre schierabili durante la partita, e due giovani cinesi con meno di ventitré anni, uno dei quali da schierare dal primo minuto. Una stretta governativa è stata data anche all’esportazione dei capitali fuori dalla Cina, creando anche difficoltà alle normali transazioni per l’acquisto di squadre e giocatori.

Tuttavia, come ricorda Pan Gongsheng, vice governatore della Banca centrale cinese, le autorità governative non hanno deciso di bloccare i capitali finalizzati al potenziamento del settore calcistico, ma hanno semplicemente cercato di razionalizzare il settore sotto l’aspetto finanziario e di sensibilizzare gli imprenditori legati al calcio sulla fondamentale prospettiva di avere un modello di bilancio sostenibile sul medio-lungo periodo. Ma anche evitare che, con la scusa degli investimenti, si nascondano capitali all’estero, creando fondi neri fuori dalla possibilità di controllo della pubblica amministrazione.

Una tradizione non si costruisce a tavolino

Il calcio non fa parte della tradizione cinese. Il governo sta tentando di farne un’industria prima ancora che una consuetudine popolare. La strada si prospetta lunga e tortuosa. La ricchezza non sempre va a braccetto con il genio calcistico. Per vedere i primi campioni cinesi dovremo aspettare almeno una generazione e non è detto che provengano dalle accademie del calcio progettate dai burocrati di stato.

Gianni Scravaglieri
(cinaforum.net)




Quel diavolo di Maradona


Campione assoluto sui campi di calcio, nella vita privata il giocatore argentino ha sofferto di grandi fragilità, come la sua (passata) dipendenza dalla coca. Amico di Fidel, politicamente si è sempre schierato tra i progressisti. Anche in questo Maradona non è e non è mai stato un uomo comune.

Con Diego Armando Maradona, el Pibe de Oro, ho avuto un rapporto speciale fin dal suo arrivo in Italia. Aveva già un manager e un ufficio stampa personali consci di quello che lui rappresentasse per il calcio mondiale e anche per il costume del nostro tempo. Così fin dalla sua prima stagione in Italia (1984-1985) potei proporre a la Repubblica, con la quale collaboravo, un’intervista che non fosse solo calcistica, ma toccasse argomenti meno banali.

Mi sorprese subito la sua franchezza. Non aveva paura di esporsi. Già allora aveva idee precise anche sulla politica: era un simpatizzante progressista.

La nostra confidenza crebbe rapidamente nei suoi primi due anni a Napoli quando ancora non era palese, per il valore medio della squadra, che la sua sola presenza in campo avrebbe mutato radicalmente gli equilibri non solo del Napoli, ma di tutto il calcio del campionato italiano.

La nostra amicizia si rafforzò ai mondiali di Messico 1986 che – non è un’esagerazione – Diego vinse praticamente da solo con il famoso «gol del secolo» (7 giocatori dell’Inghilterra dribblati in una sola azione) e con i due in semifinale contro il Belgio dove esaltò le sue capacità di equilibrio e di dribbling oltre ogni immaginazione.

Ho una fotografia con lui sui gradoni del centro sportivo del Club America, a Città del Messico, dove l’Argentina passava allora parte del ritiro. Era l’impianto di proprietà di Emilio Azcarraga, magnate di Televisa, la televisione privata messicana partner della Fifa nell’organizzazione di quel mondiale. In quell’occasione, Diego mi confessò l’esigenza ormai impellente per il Napoli e per le sue ambizioni di lottare per lo scudetto nel campionato italiano che frequentava da 2 anni.

Era evidentemente un’esigenza dettata dagli 80mila spettatori che riempivano con continuità lo stadio di Fuorigrotta ed erano pronti per un riscatto della città.

Maradona fu profeta: la stagione successiva, rinforzato da Carnevale e De Napoli, il Napoli, allenato da Bianchi, vinse lo scudetto, il primo della sua storia e la vittoria della squadra di calcio ebbe un dichiarato significato sociale.

Tanto che Rai Uno mi chiese di inventare e condurre quella «notte magica» alla quale parteciparono tutti i rappresentanti della musica popolare e del teatro della città: da Renzo Arbore a Pino Daniele, riuniti all’auditorium della Rai stessa in una festa per lo scudetto presentata insieme a Lina Sastri e rimasta memorabile: «O mamma mamma mamma. Sai perché mi batte il corazon? Ho visto Maradona, ho visto Maradona. Eh mammà innamorato son!». Il centro della città rimase ostruito fino a notte inoltrata. Sulle mura del cimitero la mattina dopo comparve una scritta: «Che ve siete perso».

Napoli si scrollava di dosso, per qualche tempo, i suoi dubbi, le sue contraddizioni, le speranze non rispettate. Grazie al dio Maradona la squadra vinse la coppa Italia (1987), una coppa Uefa (1989) e infine un secondo scudetto (1990). Furono gli anni nei quali Maradona sottrasse, a nome del Napoli, il predominio del calcio ai grandi club del Nord, anche politicamente. E fu evidentemente un atto imperdonabile. Purtroppo però quelli furono anche gli anni nei quali Diego si perse e con lui il Napoli e le sue speranze. Fu un concorso di accadimenti negativi. Maradona, eroe in campo, era fragile nella sua vita privata. Conscio di questa situazione avrebbe voluto accettare l’offerta di un calcio più tranquillo, come quello francese propostogli da Tapie, presidente del Marsiglia, ma il rifiuto del presidente napoletano Corrado Ferlaino (nonostante una sua precedente promessa) lo lasciò disorientato. Così una mattina all’alba andò all’aeroporto di Fiumicino con la sua famiglia e letteralmente si sottrasse all’assedio mediatico ed economico di cui era diventato prigioniero.

Ho condiviso di persona la sua fragilità di quegli anni, ma anche le ultime prepotenze subite durante Italia ’90 (come le partite dell’Argentina programmate sotto il solleone o gli arbitraggi discutibili che avevano fatto presagire un trattamento ostile verso la nazionale albiceleste).

Quel 3 luglio 1990, allo stadio napoletano di San Paolo, metà del pubblico tifava per l’Italia e l’altra per lui. Aveva guidato un’Argentina modesta alla semifinale contro l’Italia e mi piace ricordare che ancora una volta fu con me sincero e onesto: «Se ce la facciamo pure oggi giuro che ti vengo ad abbracciare al sottopassaggio degli spogliatorni». Fu di parola, anche perché il penalty risolutivo della lotteria dei rigori toccò a Diego stesso. Mi precipitai con la troupe nel sottopassaggio, ma non ce ne era bisogno. Maradona, ancora in maglietta e scarpini da calcio, era già lì e mi aspettava con un sorriso beffardo. I giornalisti argentini lo videro passare e rifiutare l’offerta del loro microfono. Quelli italiani si sentirono solo dire: «Ho un appuntamento con Minà». Qualcuno protestò. Intanto il telegiornale chiedeva la linea. Mi fermarono e allora io suggerii a Maradona di rispondere a due domande del collega Giampiero Galeazzi. Poi attesi per avere la disponibilità della saletta. «Non c’è problema, aspettiamo», disse Diego. Non sapeva ancora che cinque giorni dopo l’arbitro messicano Codesal – su sollecitazione, nemmeno tanto nascosta, del presidente brasiliano della Fifa Havelange -, gli avrebbe negato la vittoria nella finale, inventandosi un rigore inesistente (tirato da Brehme) e regalando il mondiale alla Germania del commissiario tecnico Beckenbauer.

Per Maradona cominciarono gli anni bui. Qualche contratto frutto della sua fama (come con il Siviglia o il Boca Juniors, il club del suo cuore) lo aveva fatto sopravvivere ai suoi incontri con la cocaina. Da questa dipendenza è uscito con un grande sacrificio curandosi per mesi a Cuba (inizi del 2000), dopo un invito personale del presidente Fidel Castro che aveva spiegato: «Questo ragazzo che ha dato tanto al football e all’allegria dei tifosi di questo sport è venuto a chiedere aiuto per la sua salute. Stupisce che pochi gli abbiano voluto dare una mano. Visto che non ci ha pensato il mondo del mercato, lo facciamo noi».

Maradona rimase a Cuba per molte settimane e riuscì a disintossicarsi. Il Comandante Fidel lo andava a trovare spesso. Chiacchieravano molto e mi piace pensare che il suo impegno politico, vivo da tempo, sia maturato in quella stagione difficile. Diego, unico fra i grandi calciatori e atleti, aveva avuto il coraggio di esprimersi in politica mettendo la faccia in eventi mondiali. Uno di questi era stata la carovana da Buenos Aires a Mar del Plata nel 2005 contro l’«Alca», il modello economico neoliberista che gli Stati Uniti volevano imporre a tutto il continente. In contrapposizione c’era l’«Alba», la neonata associazione dei governi progressisti latinoamericani, ideata dal presidente venezuelano Hugo Chávez assieme a Fidel Castro, ma appoggiata anche da altri leader come il brasiliano Lula, il boliviano Evo Morales e da intellettuali come il premio Nobel per la pace l’argentino Adolfo Pérez Esquivel e il cantautore cubano Silvio Rodríguez. Fu probabilmente quella famosa manifestazione, nata in opposizione al presidente nordamericano Bush, a ribadire l’incomunicabilità fra il campione e gli Stati Uniti.

Dieci anni prima (1994), Diego era stato sospeso, senza possibilità di difesa, dal mondiale americano ufficialmente per aver fatto uso di una pastiglia a base di efedrina, assunta per curare un’influenza. Il vice-presidente latinoamericano della Fifa, Grondona, che era anche il presidente dell’Afa, la Federazione argentina del calcio, non si era affannato nemmeno ad affrontare la sua difesa ritirandolo dalla competizione e togliendo quindi agli Stati Uniti l’imbarazzo di dover giudicare il campione che già volevano eliminare alla vigilia della manifestazione perché pubblico consumatore di cocaina. Un atteggiamento fariseo considerato che gli Stati Uniti hanno più di 10 milioni di consumatori e sono i massimi importatori mondiali di questa droga.

L’odissea di Maradona con la coca finirà nel 2005 con un intervento in Colombia di by-pass gastrico per la riduzione dello stomaco che gli farà perdere più di 40 chili.

È palese che il più grande calciatore mai nato è stato un uomo complesso che spesso non ha saputo levarsi di torno i suoi sfruttatori e il contraddittorio mondo dell’industria del calcio.

Nel 2010, per esempio, dopo i suoi anni burrascosi, fu chiamato a svolgere l’incarico di commissario tecnico della nazionale argentina ai mondiali sudafricani.

Era un risarcimento. Arrivò ai quarti di finale, con la squadra che aveva, buona, ma non eccezionale, malgrado giovani talenti in maturazione come Messi, Di Maria, Mascherano e suo genero Aguero. Così perse contro la Germania, ma invece di elogiarlo i saccenti giornalisti italiani del settore lo riempirono nuovamente di stucchevoli critiche e di insulti. Non solo: per quasi 30 anni Equitalia l’ha perseguitato per frode fiscale chiedendogli una cifra che aumentava ogni anno (per mora, interessi di mora e sanzioni) fino a rasentare i 40 milioni di euro. L’agenzia non accettava l’idea che Diego potesse avere un doppio contratto, uno come calciatore e uno come testimonial pubblicitario, identicamente ai suoi compagni di squadra, i brasiliani Careca e Alemão, e ad altri fuoriclasse come Totti e Del Piero. Perché quello permesso ad altri protagonisti del calcio di casa nostra era, secondo Equitalia, proibito a Maradona? Diego è stato perseguitato in modo sconcertante. Una volta, non tanti anni fa, lo aspettai a fianco di 40 guardie di finanza all’aeroporto di Fiumicino. Forse erano lì perché (finalmente) qualcuno a Equitalia si era accorto di una realtà elementare, cioè che Maradona non aveva mai ricevuto alcuna «comunicazione di reato» (non essendo più residente in Italia), un reato che oltretutto non aveva commesso. C’era probabilmente qualcuno che sul caso Maradona avrebbe voluto far carriera. Ma non ce l’ha fatta. Recentemente – con molti, troppi anni di ritardo – Equitalia ha dovuto riconoscere il suo errore grazie alla testardaggine di Angelo Pisani, avvocato di Scampia e difensore di Maradona. E così quel cocciuto di Diego a breve dovrebbe vedere premiata la sua resistenza.

Quando arrivò per la prima volta in Italia si era limitato a palleggiare davanti a uno stadio zeppo (5 luglio 1984). Molti anni dopo (9 giugno 2005), nella partita di addio al calcio di Ciro Ferrara, dovette trovare scampo nella buca che portava agli spogliatorni per sfuggire al travolgente affetto dei tifosi. Dopo l’omaggio che la città gli ha tributato recentemente (16 gennaio 2017) per iniziativa dell’attore Alessandro Siani che ha affittato il Teatro San Carlo per accoglierlo, è probabile che chi vorrà ancora omaggiarlo dovrà utilizzare lo stadio di Fuorigrotta, terreno compreso.

Intanto ci ha pensato un altro argentino a convocarlo: papa Francesco, per la partita della pace (12 ottobre 2016). Dopo averlo incontrato per una visita assolutamente privata, il papa ha ripetuto una sua massima: «Chi sono io per giudicare qualcuno?». No, Maradona non è mai stato un uomo comune.

Gianni Minà