Un passo dopo l’altro


È uno dei cammini più conosciuti al mondo. Nel 2019, è stato percorso da 350mila pellegrini. In queste pagine, il racconto della sua nascita, tra fede e storia.

La geografia del mondo religioso, cattolico in particolare, è attraversata da una ragnatela di sentieri che uniscono luoghi significativi dal punto di vista devozionale. Nei culti asiatici, caratterizzati dal ciclo delle rinascite, questi itinerari sono circolari, non hanno inizio né fine e possono essere percorsi all’infinito. Nelle fedi monoteiste, invece, sono linee che si dirigono verso singoli punti, simboli di un cammino di fede personale che ha come obiettivo l’incontro con Dio.

Chi percorre queste strade sono i pellegrini. Nell’antica Roma, peregrinus era lo straniero, colui che non aveva cittadinanza romana. In seguito, il termine passò a identificare chi arrivava a Roma compiendo un viaggio religioso. Spesso si trattava di povera gente, senza arte né parte, ignorante e poco avvezza alle convenzioni sociali. Nel suo romanzo Il Signore degli anelli, Tolkien forgia il personaggio ideale del pellegrino: Peregrino Tuc, o Pipino. Stolto, poco perspicace (tanto da rischiare più volte di far naufragare la missione affidata a lui e alla «compagnia dell’anello»), è sempre di buon umore e pronto a sorseggiare un buon boccale di birra. L’ingenuità di Peregrino sarà l’ingrediente essenziale per superare le avversità che demoralizzano il gruppo dei protagonisti, proprio come l’ingenuità, sorretta dalla fede, era necessaria al pellegrino medievale per intraprendere un viaggio di centinaia, se non migliaia, di chilometri tra le incognite di un mondo irto di pericoli. Alla fine del suo avventuroso viaggio,
Peregrino Tuc si riscoprirà un uomo nuovo: saggio e rispettato, marito e padre di famiglia.

Questo è il senso ultimo del pellegrinaggio: l’uomo che concluderà il suo percorso non sarà mai più lo stesso uomo che lo ha iniziato.

Giacomo (Tiago) e la Spagna romana

Il mondo cristiano è percorso da fasci di sentieri che si intrecciano, si sovrappongono e si diramano e che, come capillari sanguigni, alimentano il corpo della fede. Tra questi percorsi uno dei più noti è sicuramente il Cammino di Santiago. Anzi, i Cammini di Santiago. Infatti, anche in questo caso, non è possibile parlare di un unico sentiero in termini di pellegrinaggio: il solo elemento comune è la meta finale, il locus sanctus che, nel caso di Santiago, è dedicato all’apostolo san Giacomo (Tiago, appunto), fratello di Giovanni, figlio di Zebedeo. Ambizioso e di temperamento non proprio pacato, l’apostolo è descritto dal Codex Calixtinus come «santo di mirabile forza, benedetto nel suo modo di vivere, stupefacente per le sue virtù, di grande ingegno, di brillante eloquenza».

Il Vangelo di Marco (10, 35-40) ricorda che sia lui che il fratello Giovanni chiesero al Maestro di sedere nella sua gloria alla sua destra e alla sua sinistra.

La tradizione sul santo vuole che Giacomo, dopo la Pentecoste, iniziò a predicare arrivando fino a Saragozza, in Spagna. Qui, demoralizzato per lo scarso entusiasmo con cui le genti accoglievano la Parola del Signore, si raccolse in preghiera fino a che, il 2 gennaio del 40 d.C., dall’alto di una colonna romana fatta di quarzo gli apparve la Madonna la quale, esortandolo nel continuare la sua opera evangelizzatrice, gli chiese di costruire lì un luogo di culto, oggi conosciuto come la Chiesa di Nuestra Señora del Pilar (Nostra Signora della colonna). Giacomo, rinfrancato dall’incontro miracoloso, si imbarcò a Valencia – tra il 42 e il 44 d.C. – per tornare in Giudea (l’attuale Palestina) dove, contravvenendo all’editto di Erode Agrippa I che proibiva ogni predicazione cristiana, trovò la morte per decapitazione divenendo il primo apostolo martire, come attestato anche dagli Atti degli Apostoli (12, 1-2).

Secondo la leggenda, due discepoli di Giacomo, Teodosio e
Atanasio, riuscirono a trasportare il corpo e la testa di Giacomo a Iria Flavia (oggi Padrón, in Galizia), città della provincia imperiale romana Hispania Terraconensis dove ancora oggi si trova il pedrón, la bitta alla quale ormeggiò la nave dei transfughi. Per fuggire alla persecuzione del pretore locale, Teodosio e Atanasio nascosero i resti di Giacomo a una trentina di chilometri dalla costa. Qui le reliquie furono oggetto di devozione e pellegrinaggio fino al IV secolo, quando la caduta dell’Impero romano, l’invasione dei Visigoti e gli sconvolgimenti sociali e politici che ne seguirono, fecero perdere traccia e testimonianza della tomba. Di essa rimase solo un flebile ricordo tramandato oralmente.

La Spagna sotto gli arabi

La conquista araba della Spagna dell’VIII secolo portò, soprattutto nel regno delle Asturie, a enfatizzare i valori cristiani in contrapposizione con l’avanzata musulmana. Fu in questo contesto che si elevò sopra tutti il Beato di Liébana (730-798), autore dei Commentari all’Apocalisse. I Commentari avevano una funzione apologetica, di «rivalsa» nei confronti non solo dell’islam, ma anche di quelle scuole cristiane vicine al nestorianesimo, i cui rappresentanti, dopo essere stati dichiarati eretici, avevano trovato rifugio presso la dinastia omayyade. Una di queste eresie era l’adozionismo1, a cui apparteneva anche il vescovo di Toledo, di cui Beato era il più spietato critico anche per i rapporti amichevoli da lui instaurati con i musulmani.

Nella sua crociata contro l’islam, Beato cambiò anche i paradigmi interpretativi dell’Apocalisse di Giovanni: la Bestia (in origine l’impero romano) divenne il califfato, Babilonia (in origine identificata con Roma) fu assimilata a Cordova, capitale della regione occupata dagli islamici e l’Apocalisse stessa, che annunciava la fine delle persecuzioni romane, si trasformò nell’annuncio della Reconquista.

E fu proprio nell’ottica della vittoria finale contro gli infedeli che venne rispolverato il lavoro di Isidoro di Siviglia, a sua volta mutuato dai Breviarius de Hyerosolima, in cui si testimoniava l’arrivo di Giacomo il Maggiore in Spagna. L’apostolo divenne, quindi, il santo trainante della lotta contro gli invasori arabi, tanto da essere trasformato, proprio da Beato, nel patrono della Spagna cristiana. Mancava solo una prova tangibile, che non tardò ad arrivare.

Re Alfonso II, primo pellegrino

Nell’813, Pelagio, un monaco di Solovio, seguì delle luci notturne che, come stelle cadenti, si concentravano su un luogo ben preciso nel bosco di Libredón. Seguendone la scia, assieme al suo vescovo Teodomiro, Pelagio ritrovò il sepolcro di San Giacomo e dei suoi discepoli Atanasio e Teodoro. Il Campo di stelle (campus stellae) di San Tiago divenne la Compostela di Santiago2.

Intuendo l’importanza religiosa e politica che il ritrovamento offriva al suo regno, il re delle Asturie Alfonso II lasciò la corte di Oviedo per recarsi sul Locus Sancti Jacobi e diventando così il primo pellegrino del Cammino di Santiago3.

Al tempo stesso, San Tiago si trasformò nel Matamoros, l’Ammazzamori («uccisore di Mori»). Egli, in groppa al suo destriero bianco e con la spada sguainata, guidava gli eserciti cristiani contro quelli islamici che, a loro volta, confidavano nell’Arcangelo Gabriele. L’origine di Matamoros affonda le radici nella leggendaria battaglia dell’844 combattuta a Clavijo (nella Spagna settentrionale) la cui storicità è ancora in discussione tra gli accademici. Secondo la tradizione, in quello scontro tra le truppe di Ramiro I e quelle soverchianti dell’emiro Abd al-Rahmãn II, l’apparizione di san Tiago avrebbe portato alla vittoria delle truppe cristiane su quelle musulmane.

In breve tempo, Santiago venne elevata a sede arcivescovile. Lì fu costruita la magnifica cattedrale che ancora possiamo ammirare e divenne una delle città sante del cristianesimo come Gerusalemme e Roma.

A partire dall’XI secolo, con lo sviluppo del pellegrinaggio a Compostela promosso soprattutto dai monaci cluniacensi, si vennero a creare nuovi sentieri. Nel XII secolo, Aymeric Picaud, un prete che fece il pellegrinaggio fino a Santiago, svelò il Codex Calixtinus, un volume diviso in cinque libri la cui ultima parte era una vera e propria guida per il pellegrino con i quattro itinerari «ufficiali»: la via Tolosana, quella Podense, la Lemovicense e la Turonense4.

I quattro cammini si congiungevano a Puente la Reina per proseguire verso Santiago e poi a Padrón lungo quello che verrà chiamato il Cammino francese.

L’arrivo alla cattedrale

Una volta giunti nella cattedrale di Santiago, i pellegrini ripetevano gesti che ancora oggi rimangono fissati nei rituali dei viaggiatori: entrando dal portico della Gloria appoggiano la mano sui solchi impressi nella colonna dell’Albero di Jesse per ricevere la benedizione di San Giacomo, abbracciano il suo busto posto nell’altare maggiore per salutare il compagno di cammino, rendono omaggio al sepolcro dove sono contenute le spoglie dell’apostolo assieme a quelle di Teodoro e Atanasio.

Risale al XIII secolo la nascita di un altro rito: il «botafumeiro», cioè l’uso di un incensiere che oscilla in modo spettacolare lungo la navata centrale. Il fumo prodotto dall’incenso è simbolo delle preghiere dei penitenti che si innalzano al cielo. Invece, secondo una spiegazione più prosaica, il profumo d’incenso sprigionato dal botafumeiro sarebbe servito a mitigare la puzza proveniente da pellegrini non propriamente puliti.

Il Cammino continuava fino a Padrón perché, come diceva un detto medievale, Quien va a Santiago e non a Padrón, o faz romería o non («Chi va a Santiago e non a Padrón, o fa il pellegrinaggio o non lo fa»). Al Cammino tradizionale si aggiunsero in seguito le tappe di Finisterre e di Muxia. Nella prima, è uso bruciare un capo di vestiario e farsi un bagno nelle gelide acque dell’oceano come simbolo di rinascita. Nella seconda, sorge il santuario della Virxe da Barca che ricorda la leggenda dell’apparizione della Vergine Maria su una barca di pietra che esortava San Giacomo a proseguire la sua missione in terra ispanica.

Decadenza e rinascita

Il pellegrinaggio a Compostela non era però un fatto legato alla sola spiritualità: un editto del re Ordoño il Grande (873-924) garantiva l’affrancamento dal proprio feudatario a chi dimostrava di aver compiuto il Cammino soggiornando almeno 40 giorni a Santiago. Nel XV secolo sarebbe nato l’Hospital de los Reyes Catolicos, oggi albergo di lusso, la cui funzione originaria era quella di ospitare gratuitamente i pellegrini offrendo loro cure sanitarie in caso di malanni.

In seguito, a causa della peste nera e delle guerre, nel basso medioevo il pellegrinaggio ebbe un declino che si accentuò nel XVI secolo con la Riforma protestante, la quale proibiva ogni devozione verso i santi. A fine Settecento, poi, la Rivoluzione francese diede un ulteriore colpo al culto compostelliano, già minato dal fatto che, a causa del trasferimento del sepolcro di San Giacomo a Ourense compiuto da Don Juan de Sanclemente nel XVI secolo per proteggerlo dalle incursioni dei pirati inglesi, non si aveva più la certezza che le spoglie del santo fossero ancora a Santiago o, come affermavano in molti, fossero invece andate perdute.

Solo nel 1884, con la bolla Deus Omnipotens, papa Leone XIII suffragò l’autenticità delle reliquie a seguito di una serie di studi effettuati dalla Commissione pontificia. Si doveva, però, aspettare ancora un secolo prima che il Cammino di Santiago riprendesse la sua funzione di riscoperta spirituale di massa come lo era stato nel Medioevo. Tra i tanti promotori e (ri)organizzatori del Cammino, ci fu Elías Valiña, parroco della minuscola chiesa di Santa Maria la Real nella cittadina di O Cebreiro, ricordato per lo più per aver inventato la «freccia gialla» che indica ai viandanti il percorso del sentiero. Nella chiesetta si conserva anche il calice in cui si sarebbe compiuta la conversione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo. Accanto all’altare vi è ancora la statua della Madonna con bambino che avrebbero assistito al miracolo della transustanziazione. La peculiarità di tale statua, chiamata Santa Maria la Real, è che sarebbe la raffigurazione dell’apparizione: la Madonna è scolpita mentre s’inchina in equilibrio precario verso il calice.

Ultreya

Il Cammino di Santiago, come tutti i pellegrinaggi, non darà delle risposte definitive alla propria ricerca interiore, ma sicuramente è uno sprone a cercare oltre. E «Ultreya», il saluto che i pellegrini si scambiano (oltre al più comune «Buen camino») vuole dire proprio questo: non fermarti, vai oltre. Oltre la prima curva, oltre le apparenze.

Piergiorgio Pescali

Note al testo:

  • (1) L’«adozionismo» afferma che Gesù venne adottato dal Padre dopo il battesimo nel Giordano conferendogli la natura divina.
  • (2) L’etimologia del termine «compostela» è ancora dibattuta. Oltre alla sua forma poetica più in voga («campo di stelle», in spagnolo), gli studiosi hanno ipotizzato la sua derivazione da compostum, «luogo di sepoltura» o composita «terra fertile».
  • (3) Il tragitto seguito da Alfonso II è il Cammino primitivo che congiunge Oviedo a Santiago, che oggi è possibile includere nel Cammino francese.
  • (4) Il Codex Calixtinus si chiama così in onore a papa Callisto II (ca 1060-1124), a cui si attribuiva, per un errore forse voluto, la sua stesura.




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari

Iqbal Masih

Caro padre,
le allego il testo, rimaneggiato, che ho scritto su Iqbal Masih ed è stato pubblicato da Avvenire l’anno scorso in occasione dei 25 anni dal suo martirio (il 16 aprile 1995). Lo ripropongo a voi come stimolo al contributo della Chiesa nella mobilitazione contro lo sfruttamento del lavoro minorile in questo anno 2021 che l’Onu dedica all’eliminazione del lavoro minorile nel mondo. Grazie per l’attenzione e per la rivista: una lettura alternativa sulle criticità e speranze mondiali, apprezzata più di altre dal sottoscritto di cultura laica e di orientamento comunista. Cordiali saluti

Giovanni Seclì
Lecce, 30/04/2021

Volentieri riporto qui quanto scritto dal sig. Giovanni. La realtà del lavoro minorile – a cui abbiamo dedicato «Cooperando» del mese di aprile – è ancora una piaga aperta. Come Iqbal, altri ragazzi e ragazze di quel paese, e non solo, hanno pagato (e continuano a pagare) con la vita o la prigione, il diritto a un’infanzia senza lavoro schiavo e senza matrimoni precoci, liberi di andare a scuola per una buona educazione e di celebrare la loro fede senza paura di persecuzioni.
(Titoletti e note sono nostri).

Agnello pasquale

Nel giorno di Pasqua del 1995 veniva ucciso in Pakistan Iqbal Masih di soli 12 anni. Già era diventato testimone-simbolo mondiale (quando nel 1994 aveva ricevuto il Reebook Human rights award a Boston negli Usa, ndr) della lotta contro lo sfruttamento schiavistico di centinaia di milioni di bambini solo in Asia. La sua uccisione lo ha trasformato in martire: sia per il suo impegno sociale a favore dei bambini dall’«infanzia negata» e contro lo sfruttamento dei lavoratori, sia per il suo essere un cattolico della Chiesa caldea.

Sicuramente la sua appartenenza alal Chiesa, legata alla sua educazione familiare, professata in situazione di emarginazione socioreligiosa (la comunità cristiana è soprattutto composta da persone delle caste inferiori che fanno i lavori più umili), aveva alimentato e sorretto la sua indignazione contro le ingiustizie e la sua eroica lotta per l’emancipazione umana di bambini strumenti-schiavi della produzione. Probabilmente la sua testimonianza cristiana era stata una concausa delle dinamiche che avevano favorito l’assassinio.

In quel giorno di Pasqua di 26 anni fa (16 aprile 1995) mentre in bicicletta andava a messa – così si tramanda (putroppo non esiste una versione coerente di quanto è successo, ndr) – Iqbal è stato strappato dalla terra per risorgere nella memoria e nel cuore di miliardi di esseri umani, rigenerando in essi il messaggio universale di liberazione umana.

Schiavo a 5 anni

La sua condizione di vita sfruttata – a partire dai 5 anni in una fabbrica di mattoni, per proseguire in una di tappeti, venduto dalla famiglia indigente (per un debito di poco più di 7 dollari, ndr) – si era trasformata a 10 anni in denuncia e in testimonianza, smuovendo l’opinione pubblica internazionale e favorendo alcuni provvedimenti politici nel Pakistan (e non solo) di limitazione delle pesanti condizioni di lavoro minorile, a danno soprattutto di schiavi-bambini, secondo una prassi secolare perpetrata da proprietari di laboratori tessili di tappeti e di altri settori di lavoro ancor più duro.

Intolleranza religiosa

Il conseguente risentimento nei suoi confronti probabilmente era stato accentuato dal clima di intolleranza religiosa prevalente in Pakistan (soprattutto con l’introduzione della Sharja nel 1991) verso la minoranza cristiana, presente in particolare nella regione del Punjab; situazione purtroppo perdurante anche nel XXI sec., con il rigurgito di fondamentalismi, risposta perversa anche alla violenta ingerenza politica e militare perpetrata dall’Occidente in diverse regioni soprattutto del terzo mondo.

Testimone e martire?

Il suo martirio si inquadra all’interno di tale contesto; per questo Iqbal Masih va riproposto come testimone di giustizia, di solidarietà, di costruzione di una comunità fraterna, di attuazione del messaggio evangelico all’interno della sua nazione, dalle perduranti drammatiche criticità sociali: miseria e sfruttamento, mancanza dei diritti elementari all’istruzione e alla sanità, conflitti etnici, intolleranza religiosa a danno della minoranza cristiana – riesplosa nella persecuzione di Asia Bibi, per fortuna sottratta alla pena di morte grazie all’impegno internazionale e anche alla resipiscenza della giustizia del Pakistan.

Appello alla Chiesa

Per tali motivi, in occasione dei 25 anni (oggi 26, ndr) del martirio di Iqbal Masih, la Chiesa cattolica deve riproporne un forte e ricco ricordo, rivivificando il suo messaggio: un’onda lunga figlia di una vita breve ma senza tempo. Monito e modello insieme per un cammino di giustizia sociale, da Masih testimoniato in modo coraggioso, consapevole e insieme spontaneo e «ingenuo».

Iqbal Masih aveva compiuto ad appena dodici anni il «miracolo» di trasformare leggi e pratiche ataviche, cause del male sociale dello sfruttamento schiavistico minorile, liberando, almeno in parte, milioni di bambini da una condizione di miseria umana e materiale. Una missione di testimonianza del Vangelo, riproposto anche da lui quale strumento di conversione e di liberazione umana; un messaggio vissuto, importante e profetico non meno di quello di altri martiri, immolati per la confessione dei valori umani e cristiani.

Per la comunità cristiana del Pakistan, dalla tradizione plurisecolare e dalla presenza non esigua, seppur minoritaria, la riscoperta e la valorizzazione del messaggio di Iqbal Masih potrebbe essere uno strumento di promozione di forti valori sociali da essa testimoniati e rappresentare anche un percorso di dialogo tra fedi e culture in quella nazione e civiltà antica, nobile, ma anche lacerata.

Giovanni Seclì

Da vedere, il film: Iqbal – Bambini senza paura,
Regia: Michel Fuzellier, Babak Payami, 2015.


L’autibiografia di santa Teresa d’Avila

Carissimo Direttore,
siamo la comunità delle monache carmelitane scalze di Legnano (Mi) che riceve regolarmente la vostra rivista MC. Complimenti per i contenuti che toccano sempre realtà snobbate dagli altri organi di informazione. Ci permettiamo di segnalare la nuova traduzione della «Vita di Santa Teresa» fatta da noi e da un esperto, lavoro che ci ha viste impegnate per due anni. Siamo coscienti che il nostro non è un libro «prettamente missionario», ma Teresa «era missionaria» e questo può forse essere un requisito per pubblicizzare il libro sulla vostra rivista. Grazie e un caro saluto.

Le sorelle del Carmelo
di Legnano, 16/04/2021

Il libro è disponibile nelle librerie o si può richiedere alle Edizioni OCD, Via Vitellia, 14 – 00152 Roma

La mia vita

Una nuova traduzione dell’autobiografia di Teresa di Gesù

L’autobiografia di Teresa è probabilmente il suo libro più conosciuto, e più volte è stata tradotta, studiata, approfondita e pregata. È un libro dove l’autrice non racconta soltanto i fatti accaduti nella sua vita, ma soprattutto ci rende partecipi, in maniera sempre più coinvolgente, della sua storia di amicizia con Dio. Lo fa in modo non convenzionale, lasciando spazio senza censure ai due protagonisti: il Dio paradossalmente misericordioso che ella ha imparato a conoscere, e Teresa stessa, donna pienamente inserita nel suo contesto e spinta costantemente da un’irrefrenabile ansia di libertà e di felicità. Teresa è vivace, esuberante, appassionata; altre volte pacata, riflessiva; altre ancora preoccupata, incerta, dubbiosa. In tutto e per tutto una donna moderna che non si è sottratta al tentativo di dare un senso alla propria vita e che ha trovato questo senso nello sguardo per lei sorprendente con cui Dio, in Gesù, l’ha guardata.

L’autobiografia è il racconto complesso e avvincente di tutta questa avventura. Avventura che non è restata nel confine intimo della sua coscienza, ma che si è tradotta in azione, in un’esperienza contagiosa per molte delle persone che l’hanno incontrata… fino ai nostri giorni.

Per questo più di due anni fa abbiamo iniziato a dare concretezza ad un sogno che avevamo da molto tempo: poter tenere tra le mani una nuova traduzione della Vita di santa Teresa che fosse più fruibile dagli uomini e dalle donne di oggi, riscoprendo Teresa come era all’origine, ripulita dalle inevitabili incrostazioni che la storia aveva aggiunto.

Lettura con ascolto

Quando si legge il testo spagnolo, si ha proprio l’impressione di avere Teresa lì, presente, che sta parlando, perché la sua è una prosa fluente e discorsiva. Qualcuno a volte dice che Teresa scrive come parla. Forse è più corretto dire che parla attraverso i suoi scritti. E proprio questa prospettiva è stata la bussola che ci ha guidato nel lavoro di questi due anni. Ciò si è tradotto nel tentativo di consentire anche al lettore italiano di trasformare l’esperienza della lettura in esperienza di ascolto.

Una scelta di libertà

Sono molti gli aspetti dell’esperienza di Teresa che la rendono a noi vicina, malgrado i secoli che da lei ci separano. Teresa è stata una bambina affascinata dalle cose di Dio. È stata poi un’adolescente inquieta, che con fatica cercava il suo posto nel mondo. Giovane donna, ha deciso di entrare in monastero: una scelta fatta non solo per il desiderio di donarsi a Dio, ma anche per il desiderio di non essere schiava di un uomo, come accadeva a tutte le donne sposate della sua epoca. Ha trascorso i primi venti anni di vita in clausura logorata da un conflitto interiore che è diventato anche malattia del corpo, malattia tanto grave che a un certo punto è rimasta come morta per più giorni, tanto che le hanno preparato la tomba. Quando si è risvegliata ci ha messo anni a esercitare nuovamente il suo corpo anche ai movimenti più elementari: ella stessa ci racconta che all’inizio, per parecchi mesi, riusciva a camminare solo a gattoni.

L’incontro con Gesù

Poi, dopo anni passati in questa situazione di lento recupero, finalmente è avvenuto l’incontro nuovo con Gesù, da cui scaturisce la vita nuova di Teresa. E davvero è stata un’altra vita quella che Teresa ha vissuto da lì in poi. Non solo perché lentamente ha trovato un nuovo equilibrio interiore, un nuovo rapporto con sé stessa, con gli altri e con Dio. Quell’esperienza, infatti, si è trasformata in un modo nuovo di vivere nella storia, quella quotidiana del monastero e quella «grande» della Spagna del suo tempo.

Un progetto alternativo

Un po’ per volta ha preso forma il desiderio di fondare una comunità diversa da tutte quelle già esistenti: poche monache di clausura, che in spazi che fossero a misura d’uomo, coltivassero intensamente la amicizia con Dio e fra di loro. Potrebbe apparire poca cosa ai nostri occhi, ma letto nel contesto e nell’atmosfera di allora è stato invece un progetto altamente alternativo. Il piccolo numero è sinonimo di familiarità. La clausura è strumento di libertà, perché al di là delle grate nessun uomo comanda, e le monache possono essere le registe della loro vita.

Uno stile missionario

L’orizzonte spirituale che ha nutrito quell’esperienza era quello duplice dell’Europa di allora: da un lato c’era la lacerazione della Chiesa che stava vivendo lo scisma della Riforma luterana. Teresa ha risposto senza lanciare scomuniche, ma impegnandosi in un progetto di unità e amicizia all’interno delle mura del monastero. Dall’altro c’era lo slancio missionario della Chiesa del XVI secolo, orientato soprattutto all’America latina, con tutte le contraddizioni che ciò comportava. Teresa ne era ben consapevole e portava nel cuore le lacerazioni che quell’opera di evangelizzazione, spesso accompagnata dalla violenza della guerra, produceva nei popoli indigeni.

Dottore della Chiesa

Cinquantuno anni fa, nel 1970, papa Paolo VI conferì a Teresa il titolo di Dottore della Chiesa. Fu la prima donna a riceverlo, la prima donna, nella storia della Chiesa, alla quale fu riconosciuta ufficialmente una dottrina autorevole, meritevole di essere ascoltata da ogni cristiano e soprattutto interessante per la vita di ciascuno di noi. L’autobiografia è il primo tassello di quell’eredità che ella ci consegna. I tempi duri in cui viviamo mettono anche noi di fronte a sfide inedite che a volte ci sorprendono e forse rischiano di paralizzarci un po’. Crediamo che Teresa possa essere una buona compagna di cammino in questa incessante ricerca di senso che riguarda ogni uomo. Per questo siamo molto felici di poter contribuire con questa nuova traduzione dell’opera.

Il Carmelo di Legnano

 

Ospitiamo ben volentieri questa presentazione, anche perché santa Teresa d’Avila, con santa Teresa di Lisieux, era particolarmente cara al nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano, che l’ha proposta ai suoi missionari e missionarie come modello di vita apostolica e di santità.

Padre Francesco Pavese, nel suo libro «Scegliendo fior da fiore» (Edizioni Missioni Consolata, Torino 2014), ha raccolto le note dell’Allamano sui suoi santi preferiti. Di santaTeresa d’Avila l’Allamano sottolineava tre aspetti in particolare:
• l’amore verso Dio,
• la capacità di ricominciare («nunc coepi», ora comincio) senza scoraggiarsi mai,
• il prendere come modello di vita «san Paolo che non poteva fare a meno di aver sempre sulla bocca il nome di Gesù».




I Perdenti 55. Hadewijch d’Anversa, beghina, mistica e poetessa

testo di Don Mario Bandera |


È interessante notare come alcuni termini che all’origine avevano un loro un preciso significato, ora ne abbiano un altro ben diverso. È il caso del sostantivo femminile «beghina» (mentre il corrispondente maschile – bagardo – non è mai stato popolare) che «nell’uso comune – scrive il vocabolario Treccani – [si riferisce a una] donna che ostenta una devozione puramente esteriore e formale; bigotta, bacchettona».

Questo termine, a partire dal XII secolo, fu utilizzato per indicare membri di associazioni religiose femminili formatesi al di fuori della struttura ufficiale degli ordini monastici e religiosi con lo scopo di una rinascita spirituale della persona e di un rinnovamento della Chiesa. A tali associazioni si univano donne nubili o vedove, donne pie, fortemente religiose, ma volutamente non monache. Si consacravano al Signore e vivevano in comunità (beghinaggi) o in piccoli gruppi, ma non abitavano nei conventi. Contraevano voti simili a quelli degli ordini religiosi, però privilegiavano la libertà individuale, non rinunciavano ai loro beni e si impegnavano a vivere del lavoro manuale e a distribuire il superfluo. Si affidavano a un consigliere spirituale, ma senza rispondere direttamente alle autorità ecclesiastiche.

Questi movimenti sorsero soprattutto nelle Fiandre (oggi parte del Belgio) intorno al 1150 e si diffusero largamente in Germania e in Francia, e, in misura minore, in Italia, avendo séguito proprio in tempi in cui nascevano i grandi ordini religiosi, come i francescani, i domenicani, i cistercensi. Il tempo di massima fioritura fu il XIII secolo, a cui seguì un periodo di declino con una ripresa nel XVII secolo che neppure la Rivoluzione francese riuscì a spegnere. Le ultime beghine erano ancora attive in Belgio negli anni ‘70 del secolo scorso.

Sebbene influenzate dalla vivacità religiosa del tempo e dalla voglia di rinnovamento che condividevano con i nuovi ordini mendicanti, queste associazioni presto caddero in sospetto di eresia a causa di interpretazioni molto personali e a volte esclusivamente letterali delle Sacre Scritture. Questo era dovuto al fatto di non avere una regola scritta, uni-forme e approvata, all’eterogeneità dei gruppi e alla larga diffusione tra il popolo, e all’essere spesso confuse con movimenti ereticali come Manichei, Catari, Osservanti, Albigesi, Flagellanti e Fratelli del Libero Spirito.

Il termine «beghina» ha un significato incerto e «deriverebbe dal verbo beggen (cfr. ingl. to beg) “pregare” e insieme “mendicare”, o dal francese antico bege (mod. beige), ossia dai “panni bigi” di rozza lana di cui si vestivano» (enc. Treccani). Probabilmente è stato utilizzato anche con connotazioni dispregiative e derisorie da parte dei membri delle istituzioni ecclesiali più antiche che guardavano con sospetto la nascita in seno alla Chiesa di simili movimenti.

Noi abbiamo voluto saperne di più colloquiando con Hadewijch d’Anversa, una delle rappresentanti di spicco del movimento delle beghine di quei secoli.

Carissima, di te conosciamo solo il nome e gli scritti che ci hai lasciato, parlaci un po’ della tua vita.

Sono nata nei pressi di Anversa da una famiglia aristocratica, e ho vissuto tra le Fiandre e il Brabante, tra la fine del 1100 e la metà del 1200, più o meno contemporanea o poco più giovane di san Francesco d’Assisi. Durante il mio periodo di «beghinaggio» misi per iscritto molte mie meditazioni.

Tra le tue opere c’è un gruppo in liriche di stile provenzale, ispirate non dal tuo amore di donna per un uomo o viceversa, bensì dal tuo immenso amore di donna per Dio.

Ho scritto molto nella mia lingua locale, il neerlandese, anche se conoscevo bene sia il latino che il francese. Ho lasciato quarantacinque Poesie Strofiche (Strofische Gedichten), frutto del mio amore per Dio. Ho scritto anche trentuno Lettere (Brieven) a carissime amiche che potevano capire e intendere il mio stato d’animo, e a cui raccontavo le mie pene e le mie gioie di innamorata di Dio.

Abbiamo anche la descrizione delle tue visioni, nelle quali, con più immediatezza, descrivi le tue mirabili esperienze mistiche.

Ho lasciato il racconto di quattordici Visioni (Visoenen) e ho scritto anche un testo definito la Lista dei perfetti (Lijst der volmaakten) dedicato a persone per me sante, oltre un gruppo di sedici Poesie miste (Mengeldichten), definite anche come «lettere in rima».

I miei scritti, soprattutto le poesie, vengono riconosciuti come esempio del vertice letterario (scritti da una donna tra l’altro!) raggiunto dalla letteratura mistica delle Fiandre e del Brabante nei XII e XIII secoli.

Dai tuoi scritti capiamo che il tuo cammino di ascesi mistica è stato un percorso esaltante che ti ha portata a vivere esperienze quasi impossibili da raccontare.

Tutto ciò che l’uomo può pensare di Dio o comprendere, e comunque immaginare, ebbene questo non è Dio. Perché se l’uomo potesse intenderlo e comprenderlo con i suoi sensi e i suoi pensieri, Dio sarebbe meno dell’uomo e noi avremmo finito di amarlo. La stessa cosa avviene con gli uomini senza profondità, presso i quali l’amore è presto alla fine.

La mia è stata come un’avventura interiore, una «fiera cavalcata» alla ricerca dell’Amato. Perché l’Amore è tutto, e ciò che conta è soltanto amare, senza preoccuparsi dei dogmi e della gerarchia ecclesiale.

Come hai vissuto il tuo amore per Dio?

Antico manoscritto delle visioni di Hadewijch d’Anversa

Possiamo dire che la vera ragione dell’amore è un’onda che cresce sempre, senza arrestarsi mai. Ciò che appartiene alla ragione è in opposizione con quel che soddisfa la vera natura dell’amore: la ragione non può infatti portar via nulla all’amore, né a sua volta può dargli alcunché.

Prima di possedere l’Amato – lo esprimo con il linguaggio simbolico della poesia provenzale del mio tempo -, bisogna fargli la corte per conquistarlo, agendo sempre cavallerescamente e con generosità, in tutte le cose e con qualsiasi persona, sconosciuta o meno che sia, secondo la dignità dell’Amato, per l’alta fama e per il bene che l’amante avrà presso di lui. Perché lui intende bene la cortesia: quando conosce le grandi pene e il duro esilio che ha sofferto la sua amante, nonché i suoi nobili sacrifici, allora non può non rispondere con l’amore e dare tutto se stesso. Ecco come si corteggia l’Amato!

Ma come è possibile arrivare a questi livelli?

L’aquila fissa il sole senza mai arretrare, come l’anima interiore guarda Dio senza distogliere mai lo sguardo da lui. L’evangelista Giovanni è il capostipite di questa spiritualità, di questo modo di amare Dio, dove non si pensa né ai santi né agli uomini, ma affidandosi completamente alle mani del Signore, si vola semplicemente nelle altezze divine. Quando l’aquilotto non può fissare il sole, viene gettato fuori dal nido. Così farà l’anima sapiente, la quale rigetta tutto ciò che può oscurare lo splendore dello Spirito, poiché all’anima – al pari dell’aquila – non si addice il riposo, bensì il volo incessante verso l’altezza sublime.

Perciò, secondo il tuo modo di vedere, Dio esercita nel più piccolo dei suoi doni tutte le sue più grandi virtù.

Le ricchezze di Dio sono molteplici; Dio è molteplice nell’unità e semplice nella molteplicità. Poiché Dio è questo, tutti i suoi figli conoscono le sue copiose delizie, davvero tutti, l’uno più dell’altro.


La mistica teologica della Hadewijch, rappresentante dell’affascinante mondo della mistica femminile del Medioevo fiammingo, è un esempio significativo di un fedele connubio tra esperienza mistica (da lei chiamata «conoscenza sperimentale») e contemplazione della Parola. Su Hadewijch d’Aversa non è ancora detta l’ultima parola. Per conoscerla meglio si deve soprattutto leggere la sua opera. Le sue Lettere ci restituiscono l’immagine di una donna colta, intelligente, sensibile, soprattutto rivolta a filtrare le sue abbondanti grazie mistiche alla luce del Dio trinitario. Una figura più attuale che mai. Possiamo dire che Hadewijch rappresenta un unicum nella storia della prosa e letteratura neerlandese: la somma maestria con cui ha saputo esprimersi nella sua lingua volgare, ci ha fornito un’opera magnifica. Un’opera pervasa dall’amore, concetto chiave della sua vita. La sua vita, infatti, è una continua ricerca dell’amore per poter soddisfare l’amore e con esso Dio. Le sue esperienze personali, raccontate alle sue amiche, dovevano guidarle alla pienezza dell’amore. Concludendo possiamo dire che la mistica dell’amore in quei secoli lontani ha preparato il terreno a una pedagogia ascetica che è presente ancora oggi nella vita della Chiesa.

Don Mario Bandera

 


NOTA BIOGRAFICA

(da https://it.wikipedia.org/wiki/Hadewijch)

Hadewijch d’Anvers (fine XII secolo – inizio XIII secolo) è stata una mistica e poetessa fiamminga, vissuta probabilmente nel ducato di Brabante (nel quale allora erano incluse città come Bruxelles, Anversa, Lovanio e Breda). Legata al nascente movimento delle «Beghine», fu tra le principali figure della letteratura volgare europea sviluppatasi in quel periodo. Scrisse anche opere in prosa. Non si posseggono notizie certe riguardanti la scrittrice, al di fuori delle indicazioni contenute nelle sue opere, tramite le quali ci ha svelato gli aspetti più intimi della sua anima. Confidò di essere stata conquistata dal «divino amore» all’età di dieci anni, che l’ha accompagnata per tutta la vita. Le sue opere furono incentrate sull’amore, sulle sofferenze e le estasi che produce all’anima. Nelle Brieven (Lettere), chiarì la sua dottrina mistica, costituita da una miscela di razionalità e passionalità sublimata. Ancora più significative furono le Strophische Gedichten (Poesie strofiche), realizzate riadattando gli schemi della lirica provenzale alla sua forte espressività, e ruotanti attorno al tema dell’Assoluto, dell’amore frutto della trasposizione dell’ideale cavalleresco, dell’umiltà come condizione di grazia e della contrapposizione tra quest’ultima e la fierezza.

 




Consolata mission centre: Si aprono i cancelli

testo di Francesco Bernardi |


Dal 2008 il Consolata mission centre è luogo di formazione, incontro, scambio, crescita. Giovani, vescovi, protestanti, musulmani, personalità, attivisti dei diritti umani, bambini sieropositivi all’Hiv: ciascuno trova lì uno spazio per proseguire la sua strada con maggiore consapevolezza e verità.

Sul pavimento spicca a caratteri cubitali e istoriati la data «2008». È l’anno in cui fu inaugurata la chiesa del «Consolata mission centre».

È l’anno in cui il centro aprì i suoi battenti: la porta con bassorilievi della chiesa e quella del salone conferenze; le porte ariose della sala da pranzo e della cucina; quelle della casa dei missionari e delle camere per gli ospiti.

Al Consolata mission centre possono dormire comodamente cento persone; in 250 possono sedersi attorno alla tradizionale polenta e ad altre saporite vivande; in 300 possono partecipare, nel maestoso salone, a dibattiti e conferenze con oratori che intrattengono l’uditorio con scritti, filmati e power point.

Inoltre ci sono sale, salette e quattro gazebo per discussioni di gruppo. E alberi, aiuole, fiori. Maree di fiori estasianti.

Benvenuti nel Consolata mission centre. Siete a Bunju, 35 chilometri a Nord di Dar es Salaam («porto della pace»), la metropoli del Tanzania, ricca di circa sei milioni di persone.

Se procedete ancora verso Nord per altri 35 chilometri, ecco Bagamoyo, ex porto degli schiavi, razziati dall’intero paese. «Bagamoyo» significa «lascia il tuo cuore», proprio in riferimento agli schiavi deportati.

Nel 2008, quando il Consolata mission centre spalancò cancelli, porte e finestre, la prima impressione del visitatore poteva essere: «È un enorme apparato immerso nella confusione e nel nulla». Vero. L’ambiente circostante era una spianata inselvatichita, un groviglio di rovi, serpenti e sporcizia.

Ebbene, pulizia subito. «Piantiamo alberi degni di tale nome. Piantiamo, ad esempio, mwa arobaini».

Mwa arobaini è un albero di origine indiana, che incuriosisce e incanta. È tenacissimo. Resiste alla siccità come pochissimi. Ha una vitalità che non conosce remore. I suoi rami entrano presto in casa, se non li ridimensioni debitamente. Infatti la gente lo massacra quando lo pota, e lo abbandona con moncherini che gridano pietà. Ma, poco dopo, è di nuovo garrulo nel suo verde lussureggiante.

È un albero beneaugurante per il nostro centro, infatti si chiama mwa arobaini, «di quaranta», perché si dice che guarisca quaranta malattie.

 

Il centro di Bunju. Foto Ema Maglioli

Arrivano i cardinali

Oggi, chi frequenta il centro, ringrazia e complimenta i missionari della Consolata per «aver pensato in grande e in bello».

Il Consolata mission centre viene additato come un faro che illumina presente e futuro, tutto e tutti. E veramente ne usufruiscono proprio tutti: uomini e donne a livello personale o raccolti in movimenti o gruppi, professori e studenti d’università, difensori dell’ambiente e dei diritti umani, bambini. Numerose suore. Seminaristi, preti, vescovi.

E proprio i vescovi furono fra i primi «clienti».

Come non ricordare l’incontro che fu ospitato dal 28 giugno al 5 luglio del 2009, richiesto dalla congregazione per la Dottrina della fede di Roma? Vi parteciparono i presidenti delle Commissioni episcopali teologiche dell’intera Africa.

Tra i circa trenta prelati presenti, c’erano, da Roma, il cardinale Levada e l’arcivescovo Ladaria; dal Senegal, il cardinale Sarr; dal Ghana il cardinale Turkson; dal Congo l’arcivescovo Monsengwo. L’eucaristia di apertura fu presieduta dal cardinale di Dar es Salaam, Polycarp Pengo.

L’anno successivo, dal 4 al 7 novembre, ci fu un congresso missionario. Vi parteciparono vescovi, professori di università, missionari e missionarie di vari istituti religiosi, laici. Settantadue persone in tutto.

Method Kilaini, vescovo ausiliare di Bukoba, città tanzaniana sul lago Vittoria, disse: «Come storico, io ammiro i missionari. Ammiro il loro coraggio, la loro forza, nonché la loro capacità di capire la nostra lingua e cultura. Molti di loro hanno anche criticato il nostro modo di vivere. Tuttavia, nel complesso, hanno contribuito molto a documentare e salvare gli elementi positivi della nostra cultura».

Catechisti e giovani

I frequentatori prediletti del Consolata mission centre sono i catechisti e i giovani. Il centro è stato pensato e realizzato specialmente per loro.

I catechisti sono la spina dorsale dell’evangelizzazione. Il sacerdote, senza il catechista, finirebbe per essere solo un «distributore» di sacramenti e sacramentali all’ultimo istante.

Sì, certo, il presbitero la notte di Pasqua o il Lunedì dell’Angelo battezza persino 150 persone. Ma chi le ha preparate? Il catechista. E chi visita gli ammalati, chi prepara i fidanzati al matrimonio, chi celebra i funerali? Il catechista. Sempre lui. E quasi sempre «sottopagato», pur avendo famiglia.

I catechisti, nel Consolata mission centre trovano una formazione accurata e approfondita attraverso corsi settimanali, sotto il patrocinio dell’ufficio catechetico diocesano di Dar es Salaam.

I partecipanti variano da settanta a cento, e provengono anche da Zanzibar e Morogoro.

Alcuni temi affrontati sono rivoluzionari nel contesto africano: ad esempio la pianificazione delle nascite, secondo il metodo Billings. Urgente è, soprattutto, la formazione biblica. L’eucaristia è l’azione di Gesù Cristo maestro e salvatore, non uno show di cerimonie e canti, pure se gradevoli.

I giovani frequentano in massa il centro: anche quattrocento per volta, se si tratta di incontri di una giornata. Meno nei seminars di tre giorni. Le famiglie, infatti, sono chiamate a partecipare alle spese di viaggio, vitto e alloggio.

Gli argomenti dibattuti si avvalgono di testimonianze di altri giovani, riflessioni di missionari e missionarie, lezioni di psicologia per la conoscenza di se stessi.

Ai giovani non si proclama «voi siete il futuro della chiesa e della società», bensì «voi siete il futuro che incomincia oggi».

La chiesa spende tante risorse per l’educazione dei bambini, ma poche «pagnottelle» per i giovani. Potrà succedere che «cinque pani e due pesci» sfa-mino cinquemila persone? (cfr. Matteo 14, 13-21).

Diritti umani e Radio Maria

Qualche tempo prima dell’emergenza Covid, sono arrivati dall’intero Tanzania diversi giovani della Comunità di sant’Egidio. A tavola hanno spezzato il pane con quattro coetanei che stavano redigendo un «Rapporto sui diritti umani in Tanzania», nonché con un quartetto di ambientalisti.

La settimana successiva è stata la volta di diversi operatori di Radio Maria provenienti da vari paesi africani. Costoro, in cortile, hanno potuto anche esercitare il loro inglese, giacché il centro ospitava, in contemporanea, una scuola di Boston gemellata con una di Dar es Salaam. Erano liceali provenienti da collegi dei gesuiti. Missionario il loro motto: «Men and women for others» (uomini e donne per gli altri).

La luce che il faro del Consolata mission centre sprigiona è pure ecumenica e interreligiosa, giacché il centro ha aperto i cancelli anche a non cattolici: luterani, anglicani, pentecostali; senza escludere i musulmani.

Protestanti in arrivo

«E chi è costui?», mi sono detto un giorno. «Dall’abbigliamento sembra un pastore luterano».

Tutte le volte che ne incontro uno, ricordo padre Igino Lumetti, buon’anima, che quarant’anni fa cercò di aiutare un pastore protestante rimasto in panne sulla strada per un guasto all’auto. Padre Igino gli si accostò. Ma il protestante, quando seppe che era un prete cattolico, rifiutò l’offerta.

Ora, cosa è venuto a fare al Consolata mission centre questo «eretico» in camicia nera e colletto clericale romano?

«Padre – ha esordito l’ospite -, complimenti per questo magnifico centro. È un luogo che sa leggere e interpretare i segni dei tempi alla luce del Vangelo. Ne abbiamo assoluto bisogno».

Avendo vissuto sette anni a Roma e trentaquattro a Torino, mi è venuto spontaneo pensare: «Cavolo! Quanta acqua è passata sotto i ponti del Tevere e del Po!». Come sono mutati i rapporti con i protestanti.

Il ministro dell’Interno

Alcune settimane fa è comparso al nostro centro un pezzo da novanta del governo. Un incidente stradale gli aveva strappato il figlio maggiore, ventenne. L’uomo si era chiuso in camera per quattro giorni, solo nella sua disperazione, affogando nel whisky.

Un giorno, mentre sedeva in parlamento accanto al presidente della Repubblica, è stato scoperto dal suo alito cattivo. È stato svergognato in pubblico dal presidente stesso e rimosso dal suo ufficio seduta stante. Era ministro dell’Interno. È arrivato al Consolata mission centre con la moglie taciturna. Entrambi in cerca di serenità. Dopo una settimana di riflessione, prima di rincasare, hanno chiesto: «Padre, ci ripeta ancora il discorso notturno di papa Giovanni XXIII all’apertura del Concilio Vaticano II nel 1962, in piazza san Pietro, illuminata da migliaia di fiaccole».

«Cari figlioli, disse pressappoco il papa buono, oggi abbiamo terminato una giornata di pace. Stanotte anche la luna in cielo è venuta a pregare con noi… Andando a casa, troverete i bambini. Fate una carezza ai vostri bambini e dite loro: questa è la carezza del papa!».

«E noi faremo altrettanto», hanno concluso i due.

Bimbi che fanno pipì

Tempo fa il centro si è sobbarcato una spesa corposa fuori programma. Erano attesi un’ottantina di ragazzi, tra cui numerosi bimbi. Come proteggere i materassi se non comprando teli di plastica impermeabili alla pipì? Ecco la spesa extra.

Con i bambini c’erano alcuni genitori ed educatori. Hanno soggiornato al centro per 15 giorni, al termine dei quali, ai più grandi è stato rivelato che erano nati sieropositivi al virus dell’Aids.

In quel giorno si sono alzate strazianti grida di dolore nel centro.

Anche i ragazzi sieropositivi sono nostri «clienti».

Elevare l’ambiente

Ebbene, dopo una complessa gestazione, nel 2008, i missionari della Consolata diedero alla luce il Consolata mission centre per offrire a tutti un luogo in cui pregare, pensare e cambiare.

È un punto di riferimento per l’intero Tanzania con la parola «missione» al centro.

La struttura ospita pure la redazione della rivista in lingua swahili «Enendeni» (Andate): mo-desta nella veste tipografica, ma significativa nei contenuti, specialmente in tema di formazione, pace, giustizia.

L’editoriale di marzo 2020 recita: «Se manchi di giustizia, le tue preghiere, i tuoi digiuni, le tue offerte, sono ipocrisia». Espressioni forse scontate in Italia, non in Tanzania.

Delle quattro riviste cattoliche del paese, Enendeni non è la… peggiore!

Il Consolata mission centre ha un alto costo di gestione, con i prezzi in costante ascesa e i nostri quattordici lavoratori da retribuire ogni mese.

Qui risuonano le dolenti note sociali del Tanzania. Quanti lavoratori, a metà mese, ci chiedono un anticipo di stipendio. E quanti richiedono un prestito.

Noi missionari abbiamo scelto l’impegno nel centro perché crediamo nell’«elevazione dell’ambiente» a 360 gradi, alla stregua della magna carta del Vangelo, come dettava il nostro fondatore beato Giuseppe Allamano.

Tuttavia carmina non dant panem, scriveva il vecchio Orazio. Ossia: lo studio, la ricerca culturale (meno che meno quella evangelica) e la formazione, non fanno quattrini. Il centro sarebbe in bancarotta da tempo, se non ci fosse il sostegno di amici italiani amanti della missione.

Recita un proverbio swahili: «Elimu ni mali» (la conoscenza è un capitale). Sì, la conoscenza, la verità, la chiarezza. Non bastano l’entusiasmo, il tamburo, la danza. Bisogna leggere, pensare, capire, «formarsi», perché guerre, carestie, corruzione, Aids…, sono emergenze crudeli in Africa e la «formazione» è prevenzione e cura di ogni miseria.

I missionari della Consolata ne sono convinti. Ecco perché hanno inventato il Consolata mission centre: per promuovere ed evangelizzare l’uomo, partendo dalla cultura locale e con il fine della «consolazione».

Presidente, attenzione

Mentre scrivo siamo a fine maggio, e non sono sereno. Il Consolata mission centre sprofonda nella solitudine: anche in Tanzania imperversa il coronavirus.

«La nostra economia viene prima della lotta al Covid-19». Parole discutibili di John Magufuli, presidente del Tanzania. La vita deve andare avanti. Ma come?

Fonti ufficiali parlano di 21 decessi per coronavirus e 509 contagiati totali. Dati fasulli, perché risalgono all’8 maggio, e non se ne forniscono altri per ora.

Ha destato scalpore (e ilarità) la seguente dichiarazione del presidente: «Abbiamo sottoposto ad analisi campioni di capra, olio d’auto, papaia… ed ecco che alcuni elementi sono positivi al coronavirus. Siamo di fronte a fatti strani. Non possiamo fidarci delle informazioni degli esperti».

Risultato: si usino mascherine, disinfettanti, acqua e sapone; si chiudano le scuole. Ma le merci circolino liberamente. «Non possiamo chiudere il porto di Dar es Salaam – dichiara ancora Magufuli -, perché sette paesi confinanti fanno affidamento su di esso per i loro rifornimenti alimentari». Vero e non vero, giacché Uganda, Zambia e Kenya ignorano la «benevolenza» del presidente tanzaniano, avendo chiuso le loro frontiere.

Anche le chiese sono aperte, perché «il Covid-19 non può entrare nella casa di Dio», afferma ancora Magufuli. Però, da Pasqua i fedeli in chiesa sono rari.

Gli ospedali governativi ospitano pochi malati di Covid-19, perché i contagiati non vi trovano adeguata assistenza. Quelli privati, come l’Aga Khan, sono un lusso. L’uomo della strada resta in casa curandosi con bevande al limone e zenzero o decotti tradizionali di erbe.

Fra la gente si registra rassegnazione o fatalismo. L’uso di mascherine è diminuito, anche nelle città, luoghi più esposti al virus, nonostante la paura sia tanta a causa delle persone che si vedono morire «senza ragione».

Intanto Magufuli ha proclamato tre giorni di ringraziamento a Dio, «affinché le preghiere possano continuare a tenere lontano il virus».

Forse sarebbe meglio pregare per una buona morte.

E qui mi rattristo. Vivo in un luogo che vuole «centrare la vita» nella trasparenza, nella solidarietà e nella verità.

Che cosa stiamo centrando oggi in Tanzania?

Francesco Bernardi

Entrata al centro di Bunju; foto Ema Maglioli.




Il secondo viaggio di Paolo (At 16,1 – 17,15)

testo di Angelo Fracchia |


Con il capitolo 16 degli Atti degli Apostoli, Luca, che si è preparato il terreno finora con grande attenzione, sembra sentirsi più libero di narrare secondo il gusto dei suoi ascoltatori. Aumenta il respiro del racconto, solleva il tono della lingua, peraltro piena di termini tecnici e precisi, soprattutto marinari e politici. Se teniamo conto che i titoli dei governanti cambiavano di città in città e di tempo in tempo, è ammirabile la correttezza con cui Luca li utilizza. Al centro della scena c’è Paolo, attorniato da tanti comprimari umani ma soprattutto spalleggiato dal vero protagonista, lo Spirito Santo.

Dopo aver sistemato le coordinate di fondo nei capitoli precedenti, Luca ci permette di guardare come crescono le nuove comunità, con quali attenzioni, interessi e conseguenze.

Nuovi collaboratori (At 16,1-5)

A colpirci è innanzitutto il fatto che persino Paolo non si muove mai da solo. Nonostante le tensioni con Barnaba sulla composizione della squadra (At 15,38-39), Paolo non parte da solo, ma con Sila, importante membro della comunità di Antiochia (At 15,22), per informare delle decisioni prese a Gerusalemme circa la circoncisione le chiese già fondate, per vagliarne lo stato di salute, e per procedere oltre. Attraversano la Siria, la cui capitale era Antiochia, poi la Cilicia, ossia la regione di Tarso, e da lì raggiungono Derbe e Listra. Nel primo viaggio (At 14,6-20) queste città sono state evangelizzate in ordine inverso, ma stavolta si decide di affrontare il più frequentato ma impegnativo passo delle Porte di Cilicia, alle spalle di Tarso.

Sembra essere a Listra che Paolo incontra Timoteo, suo fondamentale collaboratore da adesso in poi (cfr. At 18,5; 19,22; 20,4; e, nelle lettere, Rom 16,21; 1 Cor 4,17; 2 Cor 1,19; Fil 2,19, e altri passi ancora; non è un caso che due delle tre lettere «pastorali» siano indirizzate a lui).

Il caso di Timoteo è interessante. È figlio di una ebrea e di un «greco» (ossia, non ebreo) e, secondo la legge ebraica di allora, nel caso di matrimoni misti il figlio di una madre ebrea è ebreo e deve essere circonciso all’ottavo giorno, mentre nel caso inverso, di madre «gentile», si consiglia di attendere l’età adulta del figlio, perché sia lui a scegliere. Se deciderà di essere circonciso, dovrà rispettare la legge mosaica. Per Timoteo però questa norma non era rispettata: egli infatti era un ebreo, ma non circonciso. A sorpresa, è Paolo a decidere di farlo circoncidere.

Sembrerebbe paradossale: Paolo si era scontrato con la chiesa di Gerusalemme che pretendeva che i «greci» per diventare cristiani dovessero prima diventare ebrei (At 15,2), ma, nel caso di Timoteo, sembra quasi smentire se stesso. La ragione è spiegata da Luca stesso: «A motivo dei giudei che si trovavano in quelle regioni» (At 16,2). A muovere l’agire di Paolo, evidentemente, non sono i diritti o le leggi, come dirà in modo esplicito anche ai Corinzi, anni dopo (cfr. 1 Cor 8,13). Sa bene che la circoncisione non è indispensabile, ma sa anche che sull’incirconcisione di Timoteo si potrebbe concentrare una polemica che distoglierebbe l’attenzione dal Vangelo di Gesù. «Mi sono fatto tutto a tutti, per salvare a ogni costo qualcuno» (1 Cor 9,19-22).  Al centro, per lui, ci sono comunque le persone e il Vangelo.

Un viaggio tormentato (At 16,6-10)

Dove stanno andando i quattro evangelizzatori (Paolo, Sila, Timoteo e Luca, che si è unito al gruppo, come si capisce dal fatto che nel racconto passa dal «loro» a «noi»)? L’impressione è che non lo sappiano.

Dopo aver toccato anche Iconio, ultima delle comunità fondate nel primo viaggio (At 13,51-14,6), il gruppo attraversa la Frigia e la Galazia con l’intento di scendere verso la regione dell’Asia, zona ricchissima di gente e di collegamenti, ma non ci riescono (anche più avanti Luca dirà che non riusciranno ad andare in un’altra zona dove avrebbero voluto, la Bitinia, meno popolata ma altrettanto strategica).

Perché non ci riescono ad andare nella regione dell’Asia dove c’è Efeso? Non lo sappiamo: può darsi che trovino le strade bloccate, o che si siano uniti a carovane che non sono dirette là, o che Paolo si ammali (è di questo che scrive in Gal 4,13-14? Non sappiamo), o che qualcuno abbia mosso obiezioni. Quello che Luca ci suggerisce è che il gruppo ha un progetto, e che è costretto a modificarlo. Anziché prendersela con la sorte, accolgono l’impedimento come suggerimento dello Spirito.

Il suggerimento dello Spirito a un certo punto arriva anche in una «visione», strumento che a noi non sembra affidabile o credibile, ma che per gli uomini di quel tempo evidentemente era un modo con cui Dio poteva parlare. È comunque significativo che anche questo suggerimento, che parrebbe abbastanza deciso, debba essere accolto e ragionato: «Ritenendo che Dio ci avesse chiamati…».

Non c’è mai, negli Atti, uno Spirito Santo che tratti i credenti come burattini. Impedisce e suggerisce, ma gli uomini sono collaboratori a tutti gli effetti, e devono acconsentire o muovere obiezioni. Infatti, più avanti quando verranno scacciati da Tessalonica, non proseguiranno lungo la via Egnazia, verso la Macedonia, dove parevano indirizzati (At 16,9-10), ma scenderanno a Sud.

In ogni caso, i discepoli interagiscono sempre da adulti con lo Spirito.

Filippi (At 16,12-40)

Il passaggio di Paolo e compagni a Filippi è fondamentale, per tante ragioni.

Intanto, sarà la comunità che darà a Paolo più soddisfazioni: tra le lettere paoline, l’unica scritta non per rispondere a problemi ma nel pieno del sollievo per le belle notizie che gli sono arrivate, è quella ai Filippesi (Fil 1,3-6), che tra l’altro lo avevano aiutato anche economicamente (Fil 4,15-16).

Poi, è la prima città in cui sappiamo che venga predicato il Vangelo al di fuori dell’Asia, e per di più si tratta di una colonia romana. Decisamente Cristo ha passato anche questa frontiera culturale.

Inoltre, la missione si apre sotto splendidi auspici. Al primo sabato passato in città, infatti, i quattro evangelizzatori cercano il luogo dove potrebbe essersi radunata la comunità ebraica. Come al solito, Paolo vuole annunciare innanzitutto agli Ebrei (At 13,46). A Filippi gli Ebrei però sono pochi e non hanno una sinagoga, quindi si radunano sulle rive di un fiume, per poter procedere alle abluzioni prima e dopo la preghiera. In luoghi del genere era ancora più facile che arrivassero non solo gli Ebrei veri e propri, ma anche dei simpatizzanti che potevano così sentir parlare della Bibbia.

Lidia e le altre donne

Tra questi c’è Lidia (At 16,14). Si tratta di una commerciante di prodotti di pregio, come la porpora che era un colorante preziosissimo. Anche se in realtà può darsi che non si trattasse della porpora ma di tessuti colorati con la porpora, e magari non quella più costosa della Fenicia ma il tipo più economico dell’Asia (prodotta intorno a Tiatira, di cui si dice che Lidia è originaria). Colorante o tessuti, era comunque un commercio di lusso. Lidia non solo si converte e viene battezzata seduta stante, ma «costringe» i missionari a lasciarsi ospitare in casa sua. Potrebbe stupirci tanta autonomia e libertà in una donna dell’antichità, e a ragione. Ma Lidia è una commerciante. Le figlie di commercianti di successo erano tra le poche donne che, se non avevano fratelli e magari non si sposavano (o restavano vedove presto), potevano aspirare a una certa autonomia di movimento ed economica, perché si sarebbero trovate a gestire la ditta di famiglia.

Non erano figure diffusissime, ma neppure troppo rare. Nelle prime comunità paoline troviamo diverse donne del genere, molto indipendenti: Cloe citata in 1 Cor 1,11 doveva probabilmente essere una commerciante come Lidia, e altrettanta importanza avrà Priscilla, moglie di Aquila (la conosceremo al capitolo 18 di Atti). E sarà una donna, Febe, a portare nella capitale dell’impero la delicatissima e complessa lettera di Paolo ai Romani (Rom 16,1-2: in quel tempo, chi portava delle missive doveva anche leggerle e spiegarle: evidentemente Febe non era una sprovveduta e l’autore se ne fidava). Anche se Paolo viene accusato di misoginia per un paio di passi delle sue lettere sicuramente mal riusciti, nelle sue comunità le donne godevano di importanza e rispetto. Poteva essere anche questo uno dei motivi dell’attrazione che il cristianesimo esercitava su persone che sapevano di valere molto, ma non erano valorizzate dalla società in cui vivevano.

Frustati per Cristo

A Filippi, poi, succede un episodio significativo. In tutte le città attraversate da Paolo accade qualcosa che respinge altrove gli evangelizzatori. A Filippi il problema è una serva che si riteneva fosse posseduta dallo spirito di Apollo, tanto da pronunciare oracoli che i suoi padroni vendevano. Paolo, mostrando poca pazienza (gli accadrà ancora… la Bibbia sa riconoscere i difetti dei suoi eroi), si stufa di sentirsela profetizzare dietro… e la guarisce. O meglio, per i lettori di Atti si tratta di una guarigione, ma per i padroni della donna è un disastro che pone fine a una fonte di guadagno. Ancora una volta il messaggio cristiano interviene, magari anche solo per noia, a valorizzare l’umano contro l’economico, e a essere perseguitato per questo.

I missionari vengono frustati (non flagellati, la frusta è una pena meno severa) e incarcerati. A liberarli interviene un misterioso terremoto, abbastanza forte da rompere le catene ma non da far crollare la prigione o da essere percepito dai capi della città. Il carceriere, vedendo le celle aperte, se ne dispera, ma poi si accorge che le persone a lui affidate sono ancora lì: l’esito è il battesimo tanto suo quanto della sua famiglia (ancora vita e dignità donate dal messaggio di Cristo).

Al mattino i capi della città, probabilmente convinti di aver dato una lezione sufficiente a vagabondi non pericolosi, vogliono lasciare liberi i discepoli, limitandosi a scacciarli dalla città.

Era una misura abbastanza diffusa per chi era ritenuto inoffensivo ma era stato accusato di qualche disordine ed era forestiero. Paolo ha però quello che sembra uno scatto d’orgoglio: «Sono cittadino romano, non me ne andrò senza le scuse». È la prima volta che sentiamo parlare negli Atti della sua cittadinanza, che gli concedeva molti privilegi, tra cui una protezione giuridica particolare. Coloro che lo hanno fatto frustare iniziano a sudare freddo: era lecito affibbiare una punizione senza processo, ma non a un cittadino romano. E chi avesse inflitto una pena ingiusta doveva subirla uguale. Eccoli allora arrivare al carcere a liberare personalmente, con molte scuse, i quattro discepoli. È davvero solo orgoglio, da parte di Paolo? Probabilmente no. È possibile che la sua scenata riabilitasse pubblicamente anche coloro che avevano creduto al suo annuncio, che non potranno quindi essere perseguitati alla leggera.

Altre tribolazioni

Le persecuzioni, in realtà, non finiscono. A Tessalonica sono alcuni ebrei a sobillare la città, prendendosela con colui che ospita Paolo e compagni (At 17,1-8), i quali sono costretti a ripartire, per Berea, dove fanno altri discepoli pronti anche, opportunamente, a controllare che le prove bibliche portate siano corrette (At 17,11). Quindi Paolo approda ad Atene (At 17,15), la grande capitale della cultura greca, anche se ormai decaduta.

Angelo Fracchia
(15-continua)




Come il fisico, così lo spirito

Testo e foto di Luca Salvatore Pistone |


Wat Tham Krabok è un monastero che si è specializzato in recupero di tossicodipendenti. Offre una terapia d’urto, fisica e spirituale. Molto rigorosa ma efficace. E così è frequentato da thailandesi e stranieri. E qualcuno finisce per fermarsi.

A 150 chilometri da Bangkok, nella provincia di Saraburi, poco distante dalla trafficatissima Phahonyothin Road, nascosto tra le montagne, si trova il tempio buddhista di Wat Tham Krabok. Dalla sua fondazione, avvenuta sessant’anni fa, quando la Thailandia era in pieno boom di consumatori di oppiacei, il santuario funge da centro di riabilitazione per tossicodipendenze. La terapia cui i pazienti vengono sottoposti dai monaci include trattamenti poco ortodossi, primo tra tutti la «cerimonia del vomito».

All’ingresso del tempio si trova un piccolo altare votivo pieno di fiori e piccole luci, un omaggio alla fondatrice dell’ordine monastico Tudong, una principessa thai vissuta il secolo scorso che dedicò tutta la sua vita alle opere caritatevoli. A Wat Tham Krabok tutto è perfettamente organizzato. Coloro che vogliono essere ammessi al sacro recinto devono compilare a penna un modulo dettagliato dichiarando il loro stato di dipendenza da sostanze nocive e, quindi, impegnandosi ad accettare ogni regola imposta. Lo stesso atto di abbandono degli abiti civili ha un significato simbolico e religioso: spogliandosi, si rinuncia a quanto arriva dal mondo esterno per entrare in una differente dimensione psichica prima che fisica.

Altrettanto significativo e simbolico è il fatto di mettersi a gattoni sulla grata di una fognatura, con un secchio pieno d’acqua accanto e un misurino contenente un miscuglio dal fetore insopportabile, per rigettare tutto ciò che si ha in corpo. Eee è al suo quarto giorno e ancora non si è abituato a tutto ciò. Nei primi cinque giorni di riabilitazione a Wat Tham Krabok, alle tre in punto del pomeriggio, i pazienti devono prendere parte alla cosiddetta «cerimonia del vomito»: vomitare a oltranza espellendo tutte le tossine dopo aver ingerito un intruglio di erbe amare e semi locali fatto dai monaci la cui ricetta è segretissima. Se il beverone non è sufficiente a indurre il rigetto, il soggetto si infila due dita in gola o beve acqua fino a esplodere. Il tutto, alla presenza di un vasto pubblico di monaci e pazienti che applaude alla fine del rituale.

Thailandia, monastero disintossicazione. Foto Luca Salvatore Pistone

La storia di Eee

Ventiquattrenne, dipendente dalle metanfetamine, Eee è uno degli ultimi arrivati a Wat Tham Krabok. «Lavoravo al mercato dei fiori di Bangkok – racconta mentre pulisce dalle foglie uno dei cortili del tempio – e le cose non mi andavano male. Poi ho cominciato a fare uso di metanfetamine e di conseguenza ad avere allucinazioni durante l’orario lavorativo. Sono stato licenziato ed è stato allora che mi sono deciso a venire qui. Non mi sono ancora abituato a tutte queste strane pratiche».

«Il miscuglio della cerimonia del vomito – spiega Richard, un monaco neozelandese da diversi anni a Wat Tham Krabok – scatena fortissime e incontrollabili contrazioni dei muscoli intercostali e addominali, provocando una sensazione di dolore e di soffocamento. I muscoli della parete dello stomaco si contraggono spasmodicamente e i contenuti vengono espulsi in una irrefrenabile crisi di vomito. Questa crisi dolorosa e provocata non è tesa solo alla liberazione fisica da ogni impurità residua dovuta agli stupefacenti, ma anche a un rifiuto psichico della dipendenza. Attraverso l’espulsione violenta, il paziente raggiunge annullamento fisico e psichico cadendo in uno stato di prostrazione che gli dona una sensazione liberatoria». La permanenza a Wat Tham Krabok è di almeno due settimane, senza la possibilità di ricoveri successivi. «Questa non è una clinica a porte girevoli» sono soliti ripetere i monaci. Alloggi e trattamenti sono gratuiti. Di tasca loro i pazienti devono esclusivamente pagarsi il vitto, che può essere consumato solo una volta al giorno alle sette di mattina. La sveglia è alle quattro e mezza mentre alle otto di sera si spengono le luci. Nel complesso del tempio è vietato fare entrare sostanze stupefacenti e alcol, come sono vietate le visite di parenti e amici. Ogni paziente deve indossare l’uniforme fornita dai monaci, un camicione di colore bordeaux con la scritta «vincitore» sulla schiena. Niente telefoni cellulare né tablet. Gli unici svaghi concessi sono un pallone da calcio sgonfio, un tavolo da ping pong malconcio, qualche chitarra scordata e un televisore sintonizzato su uno dei canali nazionali thailandesi. È proibito mettere piede fuori dal perimetro del tempio: in più occasioni i monaci hanno scovato piccoli spacciatori, nascosti tra i cespugli, intenti a offrire droghe ai pazienti.

Thailandia, monastero disintossicazione. Foto Luca Salvatore Pistone

Spiritualità e terapie

Nella cura delle tossicodipendenze, Wat Tham Krabok racchiude un misto di spiritualità e terapie fisiche di forte impatto. Quello del vomito è il trattamento più invasivo, ma la terapia dei monaci buddhisti non si limita a esso. Il primo giorno il nuovo arrivato viene sottoposto alla cerimonia del sajta, il sacro voto di astinenza. Alla presenza di un monaco anziano, i pazienti giurano solennemente di rinunciare a ogni sostanza stupefacente. Il religioso scrive su dei foglietti il nome e la promessa dei novizi e li inserisce in un braciere che accende con dei lunghi fiammiferi. Al temine di una nenia tra il canto e la preghiera, il monaco porge il braciere a una statua del Buddha. È così che il voto diventa sacro – chi lo infrange non potrà più mettere piede a Wat Tham Krabok – e il sajta si conclude.

Ancora, la «cerimonia della sauna». Seguiti a vista dai monaci, i pazienti escono dall’area dormitorio e si recano all’area sauna che è composta da due stanzini che hanno una tenda nera in cotone pesante come porta. Il calore al loro interno è prodotto da un forno a legna situato sul retro della struttura. Ammassati l’uno contro l’altro, i pazienti devono realizzare tre sessioni di sauna di cinque minuti l’una, intervallati da pause di due minuti durante le quali è possibile trovare sollievo con dell’acqua gelata.

«La temperatura all’interno degli stanzini – dice stremato Peter, svedese al penultimo giorno di ricovero – sfiora i cento gradi e non sono rari i casi di mancamenti. Io stesso la prima volta sono svenuto. I monaci mi hanno rianimato con dei sali. Gran brutta storia… Bisogna fare dei sacrifici per rimettersi in forma e io sento di essere ormai a buon punto. Non avrei mai detto che uno stile di vita così spartano avrebbe risolto i miei problemi».

Non molto distante dalla zona sauna c’è un rudimentale laboratorio di artigianato. «Questa officina – racconta Phra Kru Vichit, uno dei monaci anziani – è un altro dei nostri fiori all’occhiello. Insegniamo ai nostri pazienti a creare opere d’arte servendosi di oggetti riciclati».

Thailandia, monastero disintossicazione. Foto Luca Salvatore Pistone

Storia e numeri

Wat Tham Krabok nacque nel 1959. L’idea di rendere un tempio buddhista un luogo di disintossicazione fu – precisa Phra Kru Vichit – «una scelta dettata dal fatto che a quei tempi il maresciallo Sarit Thanarat (primo ministro della Thailandia dal 1957 al 1963 in seguito ad un colpo di stato da lui attuato, nda) aveva lanciato una feroce campagna contro le coltivazioni di oppio. Migliaia di oppiomani ed eroinomani vennero giustiziati e così i monaci si sentirono in dovere di aiutare queste persone».

Il centro raggiunse una grande popolarità nel 1997, quando la Thailandia assistette a un boom della dipendenza da metanfetamine. La terapia prevede anche mezzora al giorno di meditazione guidata da un monaco. Di norma presso Wat Tham Krabok ci sono in cura una trentina di persone alla volta, ma è capitato spesso di superare quota cinquanta. Il tempio non riceve sovvenzioni statali e va avanti solo grazie agli sforzi dei suoi quasi duecento monaci.

I numeri di Wat Tham Krabok sono davvero impressionanti. Dalla sua fondazione, oltre 110mila tossicodipendenti sono stati presi in cura. Continua Phra Kru Vichit: «Oggi il novanta per cento dei nostri assistiti completa il programma e il sessanta per cento per tutto l’anno successivo alla terapia rimane lontano dalle droghe. Per noi il tossicodipendente non è un semplice malato che necessita di cure fisiche ma è essenzialmente un uomo che deve ritornare alla pace attraverso la rinuncia, la purificazione e il sacrificio. Abbiamo avuto molti pazienti che dopo avere seguito il trattamento hanno deciso di farsi monaci, circa il venti per cento del totale. Il fatto che molti nostri monaci siano ex pazienti crea una certa empatia con i nuovi arrivati».

A tal proposito, Phra Kru Vichit convoca un altro monaco anziano con braccia e petto coperti da tatuaggi. Il religioso chiede di celare il suo nome. «Sono qui da trent’anni – dice – e posso dire che Wat Tham Krabok mi ha salvato la vita. Da ragazzo non ho mai lavorato e mi facevo di ogni cosa. Una notte, durante una violentissima retata della polizia, mi salvai per un pelo. Fu allora che mia madre mi supplicò di venire al tempio. Mai scelta fu più giusta. La nuova dimensione conosciuta grazie ai monaci mi ha fatto capire che un nuovo corso era possibile. Da allora non ho mai lasciato i miei confratelli. Oggi, oltre a occuparmi della mensa, aiuto i nuovi arrivati ad ambientarsi al meglio. Capisco perfettamente cosa hanno passato».

Il monastero tratta un numero sempre maggiore di pazienti dipendenti dallo ya-ba, un mix potentissimo di metanfetamine e caffeina. Lo ya-ba, il cui significato in lingua thai è «droga della follia», ha incontrato larga diffusione non solo in Thailandia ma anche al di fuori del territorio asiatico.

Thailandia, monastero disintossicazione. Foto Luca Salvatore Pistone

Pazienti dall’estero

I portentosi risultati del tempio attirano ormai da anni anche pazienti dall’estero, soprattutto da Stati Uniti, Australia ed Europa settentrionale. Danielle, inglese, è all’ultimo giorno di ricovero a Wat Tham Krabok per alcolismo, dice: «Ho scoperto questo posto meraviglioso perché avevo letto in rete che Pete Doherty (il noto musicista britannico leader della band punk Libertines, nda) ci era stato tempo fa senza però resistere alla terapia oltre il terzo giorno. Mi sono informata e alla fine ho trovato molte critiche positive. All’inizio è stata davvero dura ma, trascorsi i primissimi giorni, ho cominciato ad abituarmi. È stato solo dopo aver espulso tutto il marcio che avevo dentro attraverso le sessioni di vomito e sauna che ho davvero apprezzato questo luogo di pace. Ho potuto riscoprire me stessa, rinascere, ma senza un reale sforzo personale non si va da nessuna parte. Adesso voglio solo rimanere pulita e proseguire il mio percorso interiore».

«Ci si prospetta una nuova vita – le fa eco Andrew, statunitense, al tempio per la sua dipendenza da metanfetamine e cocaina -. Devo ringraziare mia moglie che ha trovato questo centro navigando su internet e mi ha convinto a venirci. È stata un’esperienza meravigliosa, più intensa di quelle provate nei centri di disintossicazione conosciuti prima nel mio paese. Ho imparato molto, ho visto molto. Sono stato in grado di capire chi sono davvero. Non sono buddhista, ma ritengo che la meditazione, la disciplina e la semplicità del tempio mi abbiano fatto elevare a uno stato superiore».

A contribuire alla straordinarietà di Wat Tham Krabok è il complesso di statue del Buddha all’ingresso del santuario. Sculture fatte di un composto di ossidiana e altri minerali meno nobili, che vanno dai venti ai quaranta metri di altezza e che sono state interamente fabbricate dai monaci. «Lasciano senza fiato, vero? – riprende la parola Danielle – Io rimango estasiata ogni volta che le osservo. Pensare che delle persone così pacate possano arrivare a fare tanto è strabiliante. Sono uomini unici questi monaci. Sono stati in grado di aiutarmi, riuscendo a fare qualcosa in cui molte cliniche pubbliche e private europee avevano fallito».

Luca Salvatore Pistone

Thailandia, monastero disintossicazione. Foto Luca Salvatore Pistone




La grande decisione (At 15): diversi nella continuità

testo di Angelo Fracchia |


Luca ha preparato il terreno fin dall’inizio degli Atti degli Apostoli: Gesù si era mosso quasi solo all’interno dell’ebraismo, ma il cristianesimo è diventato ben presto qualcosa di diverso.

Di fronte alle accuse che sia stato Paolo a stravolgere la Chiesa, Luca s’impegna a dimostrare che fin da subito si sono oltrepassate le barriere religiose: eunuchi (At 8,27-38), samaritani (At 8,5-13), un centurione romano per opera di Pietro (At 10), fino ad arrivare ad Antiochia, dove l’annuncio del Vangelo era tanto indiscriminato da rendere evidente che quello cristiano era un movimento nuovo (At 11). I primi episodi narrati, erano casi eccezionali, quella di Antiochia era, invece, una situazione ordinaria, ma fino ad allora non ci si era ancora detti in modo esplicito quale strada prendere: se rimanere nell’ambito dell’ebraismo, oppure aprire la Chiesa a fedeli provenienti dal paganesimo.

L’occasione

Come spesso accade, la questione era già chiara da tempo, ma non si è affrontata finché non si è arrivati a litigare. C’erano, infatti, ad Antiochia, alcune persone provenienti da Gerusalemme (ossia dalla chiesa «madre»), che insegnavano che «se non vi fate circoncidere secondo l’usanza di Mosè, non potete essere salvati» (At 15,1). Non si trattava, ovviamente, solo di un «segno nella carne» che, per quanto fastidioso, si sarebbe comunque potuto anche sopportare, ma di un’adesione piena alla legge di Mosè, tradotta in quei 613 precetti che toccavano la morale, l’alimentazione, la preghiera e la vita sociale dei buoni ebrei (è possibile che al tempo non fossero ancora pienamente codificati in questo modo e in questo numero, ma l’approccio di fondo era già questo).

Il ragionamento di queste persone era comprensibile: Gesù era ebreo (circonciso), ha sostanzialmente rispettato la legge ebraica, soprattutto non ha mai detto di volerla abrogare (cfr. Mt 5,17), e se quella legge ora non restasse valida, significherebbe che tante generazioni di credenti ebrei avrebbero vissuto invano la propria fede. Se Gesù si è innestato nella tradizione dell’Antico Testamento, se non ha sconfessato la tradizione, quella era Parola di Dio e restava valida.

In fondo, altri gruppi ebrei pensavano che nessun pagano potesse entrare a far parte del popolo eletto, per cui la posizione di questi cristiani provenienti dall’ebraismo era già più aperta, in quanto ammettevano che, con la circoncisione e rispettando per intero la Legge, quei confini fossero porosi.

Chiarezza e novità

Paolo e Barnaba però hanno reagito violentemente (At 15,2): non si poteva chiedere la circoncisione a chi diventava cristiano. Le motivazioni sarebbero state espresse più chiaramente dalle lettere di Paolo, soprattutto ai Galati e ai Romani. Possiamo riassumerle così: in Gesù, Dio si è mostrato intenzionato a cercare la comunione con l’essere umano a qualunque costo, fosse anche a costo della propria vita e della propria rispettabilità (normalmente i crocifissi erano considerati maledetti da Dio). Le singole persone potranno rifiutare l’offerta di Dio, che rimane però definitiva. Affermare che sia necessario qualcos’altro perché quella comunione sia efficace, significa sostenere che l’intenzione di Dio, accolta dagli uomini, non è sufficiente. Ma se non basta quella, non c’è niente che basti! Dio invece ha donato gratuitamente questa salvezza all’essere umano, e l’unica reazione possibile da parte dell’uomo è fidarsi e accoglierla (Rom 3,20-24, ad esempio).

È chiaro che lo scontro emerso ad Antiochia era radicale, e non toccava soltanto l’organizzazione della Chiesa, come era accaduto a Gerusalemme con le vedove degli ellenisti (At 6,1-6), ma la sua stessa essenza teologica. La Chiesa doveva decidere che cosa essere: se uno dei tanti movimenti ebrei, o qualcosa di radicalmente nuovo, nato dal darsi di Dio in Gesù.

Sicuramente Paolo aveva presente la gravità del momento, ma con tutta probabilità questo valeva anche per i suoi «avversari».

Esterno del Cenacolo – foto AfMC

Discernimento nello Spirito

Luca non si limita a dirci che cosa è accaduto in quel momento storico così centrale per l’identità della Chiesa, quando Paolo e Barnaba sono andati a Gerusalemme per discutere della questione con i Dodici, ma probabilmente vuole anche suggerirci come si dovrebbe fare il discernimento nello Spirito.

Nella discussione, i protagonisti sono partiti dall’osservazione di ciò che lo Spirito aveva suscitato tra i non ebrei (At 15,4). Di fronte alla contestazione di «alcuni della setta dei farisei» (At 15,5: scopriamo così che si può continuare a essere innanzitutto farisei, prima che cristiani), la discussione, come prevedibile, si è fatta rovente, finché non è intervenuto Pietro.

A Gerusalemme, dove Pietro viveva, la guida della chiesa era Giacomo, «fratello del Signore» (cfr. At 12,17; Gal 1,19), ma Pietro era pur sempre la guida dei Dodici. Sembra proprio che Pietro sia intervenuto come «autorità morale», quasi come chi, senza detenere un grande potere, ha però un’autorevolezza rafforzata proprio dall’essere fuori dalle stanze che contano.

Il suo discorso è stato essenziale ed è andato dritto al punto: Dio ha dato lo Spirito Santo a tutti, in più, noi per primi non siamo stati capaci di rispettare la legge, quindi perché imporla agli altri, visto che non è indispensabile (At 15,7-11)?

A quel punto si è tornati a osservare le imprese compiute da Dio tra i «greci».

Infine Giacomo, il verosimile capo dell’ala «conservatrice», ha avanzato la proposta concreta di chiedere ai nuovi cristiani provenienti dal paganesimo non la circoncisione, ma il rispetto di quattro astensioni: dagli idoli, dall’impudicizia, dagli animali soffocati e dal sangue.

Una decisione difficile

In realtà, se il cuore della decisione è chiaro, i dettagli lo sono molto meno, cosa dimostrata dal fatto che questo medesimo episodio è narrato anche da Paolo in Gal 2,1-10, ma con particolari diversi.

Paolo racconta che «da parte delle persone più autorevoli – quali fossero allora non mi interessa, perché Dio non guarda in faccia a nessuno [sbagliamo a cogliere un po’ di astio? nda] – non mi fu imposto nulla. […] Ci pregarono solo di ricordarci dei poveri» (Gal 2,6.10). Sappiamo, e lo vedremo nella lettura di Atti, che le relazioni di Paolo con la chiesa di Gerusalemme, chiaramente guidata da Giacomo, non sarebbero state idilliache neppure in seguito. Forse Paolo si aspettava che la guida della chiesa, e quindi anche di quell’incontro, spettasse a Pietro e non al «fratello del Signore», ma può essere più onesto dire che il tono irritato di Paolo si coglie pur non essendone esplicitamente chiaro il motivo.

È più interessante notare che quanto raccontato da Luca in Atti 15 non coincide con ciò che dice Paolo in Galati 2. La proposta di Giacomo riportata in Atti 15, infatti, non cita i poveri e parla però delle quattro condizioni negative, dei quattro «non si deve» che abbiamo citato sopra (cfr. At 15,20).

Le quattro condizioni

Per analizzare le quattro condizioni imposte da Giacomo ai nuovi cristiani, partiamo dalla quarta. Secondo l’Antico Testamento, il sangue è la sede della vita. Anche dopo che il creatore aveva concesso agli uomini e ad alcuni animali di cibarsi di carne per nutrirsi (Gen 9,1-4), aveva vietato però d’ingerire sangue, per mantenere la consapevolezza che ci si alimenta, sì, con carne di animali, ma non si diventa padroni della loro vita, che continua ad appartenere a Dio. Per questo motivo la modalità pura di uccisione di un animale era (e rimane per ebrei e islamici) di versare il sangue a terra, la quale appartiene a Dio: ciò che è di Dio, torna a Dio.

Possiamo forse spiegarlo così: ai cristiani non provenienti dall’ebraismo Giacomo chiede di tenersi lontano almeno da ciò che era particolarmente fastidioso per gli ebrei e che era facile da rispettare. Vivere da fratelli cristiani insieme, infatti, voleva anche dire condividere la mensa (eucaristica, che comprendeva anche un vero pasto).

L’astensione dagli animali soffocati si può spiegare con il fatto che essi, evidentemente, avevano ancora il sangue al loro interno, quindi ricadiamo nel primo caso dell’astensione dal sangue, anche se potremmo già obiettare che non era necessariamente e sempre semplice capire come era stato ucciso un animale.

Che cosa sia l’«impudicizia» (porneia, vedi Mt 19,9) non è chiaro: c’è chi spiega che erano alcuni comportamenti sessuali, oppure particolari legami matrimoniali (cfr. 1Cor 5,1), o forse altro ancora. Accontentiamoci di riconoscere che c’era un vincolo in più.

Conosciamo invece gli idolotiti (la carne rimasta dai sacrifici agli idoli, ndr). La grandissima maggioranza delle forme religiose del mondo antico (compreso l’ebraismo) prevedevano di sacrificare animali agli dei. Di solito la carne sacrificata veniva in parte bruciata sull’altare, in parte mangiata da chi la offriva (come banchetto di comunione con la divinità), in parte lasciata ai sacerdoti. Questi ne consumavano un po’, ma ovviamente ne avanzavano, e non aveva senso conservarla, dal momento che il giorno dopo altri avrebbero offerto sacrifici. Di solito, quindi, la rivendevano: il ricavato veniva utilizzato per le necessità del tempio pagano, in più, essendo carne arrivata in dono, poteva essere rivenduta anche a prezzi bassi. Ecco che chi viveva o passava da quelle parti poteva comprare questa carne, di buona qualità, a basso prezzo e, in più, in qualche modo «santificata» dal passaggio nel tempio. Paolo, nella Prima lettera ai Corinti, nota che quella era solo carne (gustosa ed economica), ma che alcuni «deboli nella fede» potevano pensare che i cristiani più istruiti, comprando quella carne, volessero «tenersi buoni» anche gli dèi che pure dicevano non esistere. Se c’è il rischio che alcuni cristiani più consapevoli, i quali sanno che non c’è differenza tra la carne sacrificata a dèi che non esistono e carne normale, provochino confusione nei cristiani più semplici mangiando carni sacrificate, afferma l’apostolo, piuttosto si astengano del tutto da tale carne (1 Cor 8).

Una volta approfonditi i quattro divieti, capiamo che il cuore della decisione presa dalla Chiesa a Gerusalemme non sono essi, ma il fatto che chiunque può diventare cristiano senza prima diventare ebreo, senza la circoncisione, senza rispettare la legge di Mosè. Restano dei vincoli, più che altro formali, ma l’ostacolo principale è rimosso.

La decisione e le sue ragioni (teologiche e no)

Luca è talmente sicuro della centralità di questa decisione che ne fa il punto di svolta degli Atti, a metà circa della sua opera: da qui in poi, infatti, sembra dimenticarsi della chiesa di Gerusalemme. Citerà Giacomo ancora in Atti 21,18, ma senza parlare più di Pietro né dei Dodici. A questa svolta tendeva tutta la costruzione della narrazione fin qui, da qui si riparte. D’altronde, se la chiesa non avesse intrapreso questa strada, sarebbe rimasta uno dei tanti gruppi, più o meno aperti, numerosi e significativi, che facevano parte del mondo ebraico. E si era trattato di una decisione che Gesù non sembrava aver suggerito, perlomeno non esplicitamente. Si era davvero mosso lo Spirito Santo.

In questa decisione centrale per la vita della chiesa, peraltro, lo Spirito non ha violato la libertà degli uomini. I capi della chiesa, Paolo, Barnaba, gli anziani, sono stati chiamati a collaborare, ad aprire gli occhi, a capire (persino nella fatica e nei litigi…). Senza l’azione dell’uomo, Dio non può agire. Tanto che il «decreto» firmato da Giacomo afferma, non per orgoglio, ma in verità, «È parso bene, allo Spirito Santo e a noi…» (At 15,28): lo Spirito non decide senza l’uomo.

Ma proprio perché si tratta di uomini che pensano, e poiché gli uomini sono condizionati dalla propria storia, cultura e caratteri, Giacomo fa una mossa finissima: non si limita a dire che i frutti dello Spirito hanno già mostrato che Dio vuole questa apertura, ma aggiunge una citazione di Am 9,11-12 (in At 15,15-18), in cui si lega la ricostituzione della tenda d’Israele con l’omaggio a Dio da parte dei non ebrei. Non è un caso che gli ebrei solitamente dicessero che gli «altri» dovessero rispettare solo i comandamenti «di Noè», che sostanzialmente si incentravano sul rispetto della vita. I quattro precetti imposti ai cristiani «greci» ricordano quelli che si chiedeva di rispettare ai «forestieri», a coloro che, in tempi antichi, risiedevano nel territorio d’Israele. Giacomo, insomma, strizza l’occhio anche ai suoi di Gerusalemme, ai cristiani provenienti dall’ebraismo, suggerendo che l’apertura nei confronti dei convertiti dal paganesimo mantiene al centro il mondo ebraico rendendolo soltanto più ampio e ricco.

Noi intanto scopriamo che tensioni, persino scontri, e addirittura limiti e trucchi, fanno parte della Chiesa fin dagli inizi, e non impediscono allo Spirito Santo di agire.

Angelo Fracchia
 (14-continua)




Dio apre ai pagani la porta della fede

testo di Angelo Fracchia |


«Ad Antiochia per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani» (At 11,26). Non si tratta però soltanto di un appellativo. A seguire Luca, potremmo dire che per la prima volta ad Antiochia i cristiani diventano consapevoli di essere un gruppo nuovo e di avere anche responsabilità nuove.

A pensarci, il mondo nel quale si muovevano i primi cristiani sembra molto simile al nostro. Intanto anche loro sperimentavano una nuova interconnessione tra i popoli del Mediterraneo: i romani avevano portato in oriente strade, sicurezza, commercio, ricchezza e il fascino per un mondo che non guardava in faccia a tradizioni, rispetto, pudore. Anche loro, come noi oggi, avevano una lingua di riferimento internazionale più o meno conosciuta da tutti: ovviamente non era l’inglese, ma il greco. Così molti, pur mantenendo le proprie lingue e culture locali, parlavano anche questa lingua che era capita quasi ovunque e portava con sé un modo nuovo di vivere, pochissimo attento allo spirituale ma estremamente affascinante.

In questo contesto, si poteva incontrare un miscuglio molto disordinato di superstizioni e culture, di nuovi movimenti spirituali e antiche organizzazioni religiose, il tutto subordinato all’interesse primario per il laicissimo denaro che, globalmente, sembrava avere la meglio su tutto, ma nello stesso tempo lasciava un forte desiderio, soffocato ma diffuso, di valori e spiritualità autentici.

Insomma, si direbbe che la comunità di Antiochia possa costituire, nonostante la lontananza, un modello ancora valido per noi oggi.

La prima comunità «cristiana»

Quella comunità viveva a cavallo tra due culture linguistiche (greca ed aramaica) e ancor più tra molte tradizioni religiose: il mondo ebraico, fortemente rappresentato e affascinante, quello semita tradizionale che finiva per identificarsi soprattutto con l’astrologia, quello romano ufficiale che però non sembrava molto profondo, oltre a diversi altri movimenti, a volte dalla vita abbastanza breve. Sarà per questo che ad Antiochia i cristiani si scelgono come capi un miscuglio altrettanto variegato di persone (cfr. At 13,1): Barnaba è un ebreo originario di Cipro (At 4,36), Simeone porta un nome ebraico e un soprannome latino (Niger), Lucio ha un nome latino e viene da Cirene, Saulo è un ebreo di Tarso, e in quanto a Manaèn (nome ebraico ma in forma greca) si dice che abbia conoscenze altolocate, essendo stato compagno d’infanzia di Erode Antipa. Evidentemente è una comunità che non ha paura di mescolarsi e di prendere anche dall’estero il meglio che trova.

Questa chiesa, aperta in entrata, si mostra altrettanto aperta in uscita, perché dall’ascolto della preghiera ricava la percezione (ispirazione dello Spirito: At 13,2) di dover inviare per la prima volta qualcuno in una missione di evangelizzazione, e come responsabili scelgono non quelli di cui vogliono liberarsi, ma proprio due dei cinque capi, più un aiutante (At 13,5). E i due capi scelti (Barnaba e Saulo) sono proprio quelli che hanno avuto un ruolo fondamentale nell’inizio della comunità.

A Cipro, alcune sorprese

L’idea di una missione evangelizzatrice è tutt’altro che scontata. L’ebraismo, da cui i cristiani vengono, discute addirittura se sia possibile o no per i pagani diventare ebrei, e di solito si preferisce scoraggiare la conversione, invitando invece al semplice rispetto di una forma di legge ridotta per i simpatizzanti.

I cristiani ritengono invece di dover annunciare Gesù, di aver scoperto un tesoro che non possono chiudere sottochiave. Nello stesso tempo, non sembra che partano ciecamente all’avventura: Cipro è subito di fronte ad Antiochia, a una distanza che in giornate di bel tempo si può coprire in un solo giorno, inoltre è la patria di Barnaba, il capo spedizione, che sull’isola probabilmente può contare su più d’un contatto.

Questa ipotesi viene facilmente confermata dalla notizia che è addirittura il proconsole di Cipro, Sergio Paolo, a invitare e ospitare i tre missionari (At 13,7).

A palazzo i tre trovano anche un mago, che sembra quasi il contraltare degli evangelizzatori. Si tratta di un ebreo che si dedica alla magia ed è conosciuto con un nome (Bar-Iesus, figlio di Gesù) che ricorda tanto quello dello stesso Gesù. Ma si rivela poi per quello che è veramente: Elimas (il mago) che cerca di tenere il proconsole lontano dalla fede (At 13,8). A questo punto Paolo lo attacca, punendolo con una cecità temporanea che sembrerebbe addirittura frutto di un atto magico (At 13,11).

Tre conseguenze

Quello che Luca gestisce quasi come un veloce incidente ci lascia con tre conseguenze e un’annotazione.

Tra le conseguenze, si nota che il proconsole crede al Vangelo. La notizia, buttata lì, è straordinaria, perché si tratterebbe della seconda conversione di un romano, e per di più capo di una provincia. Certo, non si dice che viene battezzato, e questo potrebbe essere il motivo per cui Luca non rimarca tanto la notizia, ma è rilevante che fosse simpatetico. C’è da dire poi che forse un romano in quella posizione non poteva ancora permettersi di sbilanciarsi troppo ufficialmente.

La seconda conseguenza è sulla composizione della squadra missionaria. Quando arriva a Cipro è composta, in ordine, da Barnaba, Saulo e Giovanni Marco, ma quando riparte i membri sono «Paolo e i suoi compagni». A Cipro, cioè, Paolo decide di farsi chiamare con la forma latina del proprio nome, quasi a rendersi più facilmente accettabile e accoglibile anche da ambienti amministrativi latini e culturali greci, e prende la guida della missione.

Chissà se è questo cambiamento a suscitare la terza conseguenza del passaggio cipriota, ossia l’abbandono della missione da parte di Giovanni Marco (At 13,13), un abbandono che avrà conseguenze più tardi (At 15,37-39).

La considerazione è che Luca rende consapevoli i suoi lettori che il Vangelo continua a farsi strada, speditamente, benché tra opposizioni e ostacoli sia esterni (il sinedrio, un mago…) che interni (i litigi nella squadra missionaria). Entrambi, e forse soprattutto i secondi, sarebbe meglio che non esistessero, ma in ogni caso non fermeranno l’opera dello Spirito.

Predicazione ad Antiochia di Pisidia

Dopo Cipro, la missione prende una strada non del tutto prevedibile: anziché arrivare a Tarso, come avremmo potuto immaginare, o dirigersi verso Ovest, in direzione della popolatissima valle del Lico (dove c’è Laodicea), i missionari, rimasti in due, decidono di avviarsi verso l’entroterra, attraversando quasi tutte le città abitate in larga misura da ebrei e servendosi di un’importante via lastricata romana, che porta in Galazia.

Qui troviamo una delle rarissime imprecisioni geografiche di Luca, che parla, come leggiamo nelle nostre traduzioni, di «Antiochia di Pisidia». Probabilmente non cambia nulla per la quasi totalità dei lettori moderni, ma il nome più preciso di quella città era «Antiochia verso la/davanti alla Pisidia» (in pratica era la prima città della Galazia per quelli che vi arrivavano dalla Pisidia), anche se i contemporanei di Paolo e di Luca si sbagliavano molto spesso. Oggi il sito archeologico di quell’antica città dei Galati si trova vicino a una cittadina chiamata Yalvaç, che in turco significa «profeta», in ricordo di Paolo.

Il discorso di Paolo

Qui Paolo tiene un ampio discorso che sembra riecheggiare quello di Pietro nel secondo capitolo degli Atti. Dopo un saluto iniziale, si annuncia il cuore del Vangelo, ossia la morte di Gesù seguita dalla risurrezione che ne conferma le pretese e la missione (At 13,26-31, come in 2,22-24.32). Poi sottolinea che tutto questo è conferma di ciò che era già stato annunciato dalle profezie (At 13,32-37, in parallelo con 2,25-36, citando addirittura in parte gli stessi testi dell’AT), e conclude con un finale appello alla fede e offerta di perdono (13,38-41; cfr. 2,38-39).

Sembra quasi che Luca voglia confermarci che Paolo non si è messo in testa di predicare qualcosa di nuovo o personale, ma ripercorre completamente il cammino della chiesa dall’inizio in poi.

A essere tipico di Paolo, semmai, è proprio il saluto iniziale (13,16-25), rivolto a ebrei e non ebrei, con l’annotazione che molti di questi ultimi accolgono con favore la notizia del Vangelo. Ciò che finora era accaduto, quasi di nascosto e per eccezione, con l’annuncio ai samaritani (At 8,5-25), all’eunuco (8,26-39) e a un centurione romano (At 10), ma che già ad Antiochia di Siria era diventato più generalizzato, qui si fa ora ricorrente e consueto, e l’annuncio ai pagani presto dovrà essere affrontato esplicitamente (At 15).

Anche perché, di fronte al successo di Paolo, ci sono giudei che iniziano a ostacolarlo «furiosamente» (At 13,45), al punto da fargli proclamare che, di fronte al rifiuto ebraico, si rivolgerà ai pagani (At 13,46-47).

L’opposizione alla predicazione del Vangelo costringerà Paolo e Barnaba ad abbandonare la città, ma i semi del Verbo sono già stati gettati.

Predicazione in Licaonia

Da Antiochia di Pisidia, Paolo e Barnaba raggiungono Iconio, ad almeno tre giorni di cammino sempre su una strada ben lastricata. Anche da qui l’opposizione ebraica li costringe a fuggire.

A un’ulteriore giornata di cammino, ecco Listra, dove la guarigione miracolosa di uno storpio spinge gli abitanti del posto a portare in trionfo Paolo e Barnaba, salutandoli come dèi.

Siccome il greco può servire ottimamente per capirsi tra forestieri, ma gli abitanti di Listra parlano tra loro in licaonio, i due evangelizzatori non capiscono di essere portati in processione al tempio per offrire loro un sacrificio (At 14,11-13).

Quando finalmente se ne accorgono, si ritraggono scandalizzati e spiegano l’unicità del Dio che ha fatto l’universo e continua a custodirlo (At 14,15-17). Il brevissimo discorso è interessante perché questa volta Paolo non parte dalle profezie antiche e sembra addirittura dimenticare Gesù, per concentrarsi sul Dio creatore di tutto.

Da qui potremmo ricavare un insegnamento importante (e forse più che mai attuale dopo i dibattiti feroci in occasione del Sinodo sull’Amazzonia). Paolo non ha ovviamente dimenticato Gesù, ma si trova in un contesto in cui è più urgente e centrale richiamare all’unicità di un Dio trascendente. Quante volte anche oggi le diverse comunità cristiane si trovano in contesti che richiedono di concentrarsi non su tutta la teologia, ma solo su alcuni aspetti che si rivelano essere i più urgenti e significativi in quel contesto. Non significa rinnegare il quadro globale e l’integrità dell’annuncio della fede, ma lasciare che il Vangelo interagisca con situazioni che sono particolari. Paolo lo ha fatto prima di noi.

Persecuzioni e ritorno

Le opposizioni agli evangelizzatori non si interrompono. Anzi, Paolo viene addirittura lapidato (At 14,19), ma sembra che lui e Luca vogliano evitare qualunque tipo di vittimismo. Viene creduto morto, ma si rialza e il giorno dopo lascia la città.

La meta, questa volta, è la casa madre, quell’Antiochia sull’Oronte che li aveva spediti in missione. Paolo e Barnaba ne approfittano per ripercorrere tutta la strada fatta all’andata, evitando scorciatoie, evidentemente per visitare e confortare le comunità appena fondate. Tornati alla partenza, poi, non si soffermano su tutte le avventure che pure Luca ci ha narrato, ma vanno direttamente al cuore della questione: «Dio ha aperto ai pagani la porta della fede» (At 14,27).

Angelo Fracchia
(13 – continua)




Per decodificare il libro degli Atti

testo di Angelo Fracchia


Perché si scrive un libro? Qualcuno potrebbe rispondere «per guadagnarci», ma sappiamo che questo è sempre meno vero persino oggi, figuriamoci nell’antichità quando non esisteva il diritto d’autore. Chi scriveva un libro, al limite poteva sperare di ottenere dei benefici in conseguenza della diffusione dello scritto, perché sarebbe stato accolto in cerchie importanti, perché la sua scuola filosofica sarebbe stata più nota e quindi più frequentata… ma non sarebbe stato pagato per la scrittura.

Ieri, ancora più che oggi, quindi, si scriveva perché si aveva qualcosa da raccontare. Spesso, però, il contenuto più importante del racconto non è dichiarato esplicitamente. Manzoni scrive I promessi sposi certamente per offrire un modello di lingua italiana utilizzabile da tutti, probabilmente anche per attaccare potenze straniere che opprimono la Lombardia o l’Italia senza però citare gli austriaci, e, forse, persino per ricordare che la provvidenza agisce nel mondo. Di questi tre, però, solo l’ultimo tema è menzionato nel libro, ed esclusivamente alla fine, eppure non è difficile ammettere che tutti e tre sono presenti nell’opera.

La situazione della chiesa di Luca

Anche Luca, nello scrivere gli Atti degli Apostoli, narra alcune vicende (non tutte) della prima chiesa cristiana, ma ha in mente soprattutto una questione, quella che ovviamente è percepita come un impaccio da tanti e per questo resta quasi sempre sottintesa, anche se probabilmente è la più importante e presente di tutte (il rapporto tra ebrei e gentili).

Gesù era un ebreo a tutti gli effetti. Solo raramente si era avventurato fuori dalla Palestina, e quando l’aveva fatto si era mostrato perfino restio a fare qualcosa per i non ebrei (v. l’episodio della donna sirofenicia: Mc 7,25-30; Mc 15,21-28).

La primissima comunità cristiana non solo prosegue quel medesimo stile, ma addirittura i suoi discepoli, in gran parte galilei, non tornano nella propria regione d’origine – a parte una breve puntata (cfr. Gv 21). Si fermano a Gerusalemme e vanno ogni giorno nel tempio (cfr. At 3,1-3): si direbbe che siano diventati più realisti del re.

Però già pochissimi anni, anzi, mesi dopo, il movimento cristiano si riempie di persone provenienti dal paganesimo, peraltro senza che sia chiesto loro di farsi circoncidere.

Circoncisione sì, circoncisione no

La questione viene spesso riassunta come se il punto principale sia «circoncisione sì o circoncisione no», perché quello è il simbolo più evidente dell’adesione al popolo d’Israele (cfr. Gen 17,11-14; Es 12,43-45), un atto speciale, appunto, per certificare che qualcuno è inserito nel popolo ebraico, ne rispetta la legge per intero e viene considerato a tutti gli effetti ebreo.

Al tempo di Gesù si discuteva se per un gentile, diventare ebreo attraverso la circoncisione fosse davvero possibile. Secondo alcuni (pochi) rabbi, era del tutto lecito, in quanto c’erano già degli esempi nella Bibbia. Secondo altri, si poteva fare ma il nuovo ebreo sarebbe comunque rimasto in qualche modo un ebreo di serie B, anche se beneficiario delle promesse di Dio. Altri ancora, la maggioranza, e coloro che poi avrebbero segnato il cammino dell’ebraismo successivo, sostenevano invece che chi era affascinato dalla Bibbia e dalla religione giudaica poteva aderire ad alcuni, pochi, precetti, ma non poteva/doveva essere circonciso. Questi osservanti senza circoncisione, che facevano comunque la volontà divina ed erano amati dal Signore, venivano definiti timorati di Dio (come il Cornelio di Atti 10), mentre i non ebrei che si erano fatti circoncidere erano detti proseliti.

In questo contesto, i cristiani, all’inizio della loro storia, sembrano essere un movimento ebreo esageratamente aperto, perché ai nuovi aderenti che vengono dai pagani non solo non è richiesta la circoncisione ma non è neppure chiesto di rispettare i sette precetti di Noè, precetti che si pensava fossero stati affidati da Dio a Noè (erano il divieto 1.di essere idolatri, 2.di bestemmiare, 3.di uccidere, 4.di rubare, 5.di commettere incesto e 6.di utilizzare carne di animali vivi, oltre all’impegno a 7.darsi tribunali giusti). Potevano ancora essere detti ebrei?

I giudei del primo secolo ci mettono un po’ a fissare l’attenzione su questo nuovo gruppo (erano numerosissimi i gruppetti di ogni tipo…), ma dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme, nel 70 d.C., cominciano a rendersi davvero conto che sono qualcosa di diverso, e iniziano a scacciare i cristiani dalle sinagoghe. Questo perché cominciano a rendersi conto che circa la metà, e forse di più, dei cristiani – che fino allora sembravano uno dei tanti gruppi ebraici -, non sono circoncisi. Come era successo questo stravolgimento? Chi ne era responsabile? Forse quel Paolo di Tarso che era così attivo nel propagare «la nuova via» in ogni comunità della diaspora? Era forse diventato un eretico? Come gli erano venute in mente certe idee?

Il programma di Luca

Che Paolo sia un personaggio fondamentale nella prima generazione cristiana, lo sa anche Luca: di fatto, gli dedica due terzi degli Atti degli Apostoli. Che ci sia Paolo dietro alla consapevolezza che i fratelli di Gesù non potessero restare solo ebrei, non lo nega neanche Luca. Ma il nostro autore è sicuro che non si sia trattato di un progetto umano, che dietro a tutto ciò che è accaduto si sia mosso lo Spirito di Dio. E gran parte del progetto degli Atti degli Apostoli serve esattamente a dimostrare questa tesi.

Peraltro, Luca è uno storico intelligente, e decide di replicare quello che facevano spesso gli storici di corte dell’antico Vicino Oriente. Questi, quando scrivevano delle storie, avevano due obiettivi: presentare nella migliore luce possibile la dinastia per la quale lavoravano, come forma di propaganda, ma nello stesso tempo dare degli indizi per la ricostruzione precisa di quella stessa realtà, così che gli scribi di palazzo futuri potessero servirsene con correttezza, senza farsi ingannare dalla propaganda.

Apertura ai gentili, opera di Dio

Luca fa lo stesso: da una parte racconta che l’apertura del cristianesimo al mondo dei gentili (ossia degli abitanti che venivano dalle genti, e non dal popolo ebraico) non è stata un’iniziativa di Paolo, ma di Dio. Gli Atti lo raccontano in modo chiaro, e sarà un filone che seguiremo. Ma nello stesso tempo Luca sa che Dio non interviene nella storia utilizzando gli uomini come dei burattini e il mondo come un teatro, ed è consapevole che le dinamiche storiche potrebbero anche essere spiegate in termini puramente umani, e ci dà quindi gli strumenti per ricostruire gli avvenimenti. L’uno non nega l’altro: chi pensa semplicemente che Dio muova la storia, indirizzandola sui percorsi che Lui vuole, non è lontano dal vero, benché forse sia un po’ semplicista. È più corretto dire che Dio agisce all’interno di una storia che comunque sembra seguire le sue logiche. Fuori della logica di fede si potrebbe anche dire che la storia dipende solo dal caso; ma da dentro, invece, il credente vede Dio all’opera anche nelle dinamiche della storia che non sembrano miracolose.

Anche noi, da qui in poi, proveremo a seguire entrambi i filoni. In questo numero procediamo poco nella lettura degli Atti, ma queste indicazioni ci serviranno a camminare più velocemente in futuro.

La persecuzione e l’annuncio (At 8,1-4)

Luca, utilizzando poche parole, allarga lo sguardo come a vedere un intero panorama, che il lettore astuto potrebbe già cogliere.

«Saulo approvava l’uccisione di Stefano» (8,1). È una delle storie più sorprendenti e note della prima generazione cristiana: il grande persecutore che diventa il più fervente apostolo del vangelo. Nulla di nuovo: queste storie di stravolgimento di ruoli piacciono all’umanità di ogni tempo e luogo. Tra l’altro, Luca aveva già detto che Saulo, pur non prendendo fisicamente parte al linciaggio, era presente alla morte di Stefano e dalla parte dei suoi persecutori (At 7,58). Subito dopo, ripeterà che Saulo cercava di distruggere la chiesa (8,3). Perché procedere con tanto disordine e insistenza? Non bastava dire le cose una volta sola? Non si poteva cercare di mettere tutte insieme le informazioni riguardanti Saulo? Verrebbe da pensare che Luca non sappia scrivere… o che sappia scrivere fin troppo bene.

L’inizio dell’ottavo capitolo di Atti, infatti, ci parla della persecuzione a cui partecipa anche Saulo, ma in mezzo ci infila la sepoltura di Stefano, compiuta da uomini pii. È come se nell’occhio del ciclone che investe la chiesa ci sia comunque serenità. Strage e caos ovunque, ma in mezzo c’è chi può occuparsi del cadavere di Stefano. Come dopo la morte di Gesù veniamo a sapere che, persino nel sinedrio, c’è un uomo buono che prende posizione per un condannato a morte, che non poteva più restituirgli il favore, esponendosi solo a rischi (Lc 23,50-53), così qui uomini pii, nel pieno della persecuzione di Saulo, non abbandonano la salma di Stefano.

Luca sembra quasi dirci che, sì, la persecuzione c’è, il male si sente, il caos ci travolge. Ma in realtà, al cuore delle cose, resta la serenità, perché Dio non abbandona i suoi.

Persecuzione, davvero contro tutti?

Quasi con noncuranza, poi, mentre parla della persecuzione, ci offre un’altra informazione che potrebbe sfuggirci, ma è sorprendente: «Tutti, ad eccezione degli apostoli, si dispersero nelle regioni della Giudea e della Samaria» (At 8,1). Luca, evidentemente, ci invita a trasformarci in detective e farci lettori astuti, per cogliere almeno due aspetti.

Perché mai, se scoppia una persecuzione contro la chiesa, proprio gli apostoli dovrebbero essere lasciati in pace? Che fossero loro i capi si sapeva, erano già stati convocati e rimproverati più di una volta (cfr. At 4,1-7; 5,17-18.26-41). Quindi, come è possibile che stavolta nessuno li sfiori? Evidentemente la persecuzione non è contro tutti i cristiani, ma contro quelli come Stefano: a essere attaccati sono gli ellenisti, i cristiani di lingua greca.

E se la persecuzione è violenta (At 8,1) e gli apostoli sono risparmiati, c’è da pensare, con tristezza, che i cristiani ebrei non abbiano mosso un dito o detto una parola in difesa di Stefano.

Lo avevamo già visto (At 6,1-4): le divisioni sociali che i cristiani trovano, e che dovrebbero superare, e che sanno che dovrebbero superare («Non c’è greco o giudeo…, ma Cristo è tutto in tutti», Col 3,11) in realtà contagiano anche la chiesa. C’è del male che accerchia la chiesa da fuori, ma anche qualcosa di non buono, non perfetto dentro la chiesa stessa.

Verrebbe da dire: allora come oggi, nulla di nuovo sotto il sole. Proprio per questo, però, questa parola risulta tanto preziosa per noi oggi: quella chiesa perfetta, in realtà perfetta non era, ci assomiglia, anche se resta comunque il nostro modello.

E c’è una consolazione in più: la persecuzione diventa l’occasione per disperdersi in Galilea e Samaria, dove i perseguitati non smettono di annunciare il Vangelo, facendolo diffondere. Luca svilupperà le diverse tappe di apertura al mondo non ebraico, ma lascia intendere che il tutto è stato messo in moto dalla persecuzione: prima di allora i credenti si erano radunati a Gerusalemme, quindi si disperdono ovunque. La persecuzione è un male, ma Dio riuscirà a sfruttare l’occasione per diffondere ancora di più la propria parola. Luca ci accompagnerà nell’opera dello Spirito che si muove sulle strade, a volte molto storte, della storia. E noi lo seguiremo.

Angelo Fracchia
(8. continua)

 




I Ricostruttori: Un cammino per continuare a nascere

Testo di Amarilli Varesio !


A metà degli anni Settanta un gesuita inizia il suo apostolato per i «lontani», chi si è allontanato dalla chiesa ma anela a una vita spirituale. Crea un gruppo di preghiera nel quale insegna tecniche di meditazione orientale. Oggi i Ricostruttori contano 50 comunità di vita e centinaia di frequentatori. «L’esperienza spirituale è un’anticipazione di quello che puoi essere».

Quando avevo otto anni, la mia famiglia è migrata verso Sud. Dalle colline del Monferrato ci siamo trasferiti sui pendii dell’Etna per vivere in una cascina dei «Ricostruttori nella preghiera». La casa era stata un antico palmento (luogo adibito a pigiatura e torchiatura dell’uva) ed era immersa in uno sterminato agrumeto con alberi di limoni, aranci e numerosi ulivi, in cui io scorrazzavo con la maglia di Ferrante, l’ex giocatore del Toro, e scrivevo lettere nostalgiche alle mie amiche lontane.

Ricordo che, a circa dodici anni, quando suonava la campanella di scuola per la fine delle lezioni, uscivo dal portone principale facendo finta di non vedere la Peugeot scassata e il signore con la barba e i capelli lunghi al volante che mi attendeva di fronte alla scuola media. Lanciavo un’occhiata feroce a mio padre per fargli capire che doveva venire a prendermi dietro l’angolo, perché mi vergognavo del suo aspetto così scompigliato e diverso da quello dei padri dei miei amici.

Fierezza e imbarazzo

Alternavo fierezza e imbarazzo per il fatto di appartenere a una famiglia così fuori dall’ordinario e, verso i miei genitori, avevo un atteggiamento ambivalente, che oscillava tra ammirazione e divergenza.

Casa nostra era sempre piena di ospiti, amici, «comunitari» (membri di altre comunità dei Ricostruttori, ndr), viaggiatori, curiosi, e per questo era difficile trovare dei momenti in cui andare in vacanza da soli. Adoravo addormentarmi ai piedi di mamma e papà mentre meditavano alla luce delle candele, ma quando lo facevano prima dei pasti, a noi figli toccava aspettarli con i gorgoglii alla pancia.

Mi piaceva moltissimo l’idea che i miei utilizzassero tecniche di rilassamento e medicina naturale per curarci, ma odiavo quando mi dicevano che dovevo imparare a respirare col diaframma per farmi passare i crampi allo stomaco.

Crescendo, ho cominciato a chiedermi in maniera critica e curiosa che significato avesse la danza che i miei genitori facevano per prepararsi alla «doccia mattutina», lo strumento che utilizzavano per infilarsi l’acqua nel naso da una narice e poi soffiare sonoramente il catarro dall’altra, perché non bevessero caffè né fumassero, rifiutassero la televisione, perché facessero yoga al mattino e alla sera, perché ci fosse un’enorme rilievo in cemento della Sindone nel luogo nel quale meditavano.

Superati i rifiuti adolescenziali, a diciassette anni, prima di partire per un viaggio che sarebbe durato un anno, ho deciso di fare il corso di meditazione per darmi coraggio. I miei mi avevano insegnato che la meditazione è il principale strumento di crescita e supporto. Da quel momento, ho cominciato a comprendere sempre meglio il senso di una vita semplice, aperta agli altri, capace di liberarsi da forme di attaccamento materiale, e quindi, di quella migrazione al contrario, da Torino alla Sicilia, che era stata, pensandoci adesso, una sana dolorosa partenza.

La nascita del gruppo

I Ricostruttori nella preghiera sono nati nel 1978 per iniziativa di padre Gian Vittorio Cappelletto, sacerdote gesuita veneto, che, all’epoca della fondazione del movimento, risiedeva a Torino. Padre Cappelletto aveva cominciato a praticare la meditazione a 45 anni, mentre si occupava, oltre agli incarichi da religioso, di cultura e arte, anche come assistente all’università.

Il suo intento era quello di fare un apostolato per i «lontani», coloro che si erano allontanati dalla Chiesa ma mantenevano una aspirazione spirituale cercando risposte altrove. Infatti verso la metà degli anni ‘70, in Europa si cominciavano a diffondere metodi di meditazione orientale, sia induista che buddhista.

I primi anni

Con la barba folta quasi tutta imbiancata e un tono di voce dolce e meditativo, Roberto Rondanina, sacerdote e responsabile generale dei Ricostruttori dopo la morte di padre Cappelletto, avvenuta nel 2009, ricorda: «Eravamo nel post ‘68, con la crisi delle ideologie e della speranza di cambiare il mondo. Con una rivoluzione mancata, c’è stato un ritorno alla religione, ma in forma alternativa, diversa da quella confessionale o istituzionale. Tra queste forme, c’era anche la meditazione, che, in quell’epoca, era una novità assoluta. Il ripiegamento verso forme più intime di preghiera veniva dalla consapevolezza che se non cambio me, il mondo non cambia. E anche se cambia, non mi cambio io. Il gruppo ha usufruito dello spirito del post ‘68 nel quale viveva un sentimento molto forte di aggregazione, rispetto a una condizione odierna di maggiore individualismo.

I segni dei tempi che padre Cappelletto ha colto sono stati due: il ritorno a una spiritualità meno inquadrata e, dall’altra, il bisogno di appartenenza».

Il gruppo dei Ricostruttori ha attirato coloro che si sentivano cristiani ma cercavano esperienze diverse perché quelle tradizionali non le percepivano come trasformanti. Continua Roberto: «La meditazione diventa una grande speranza di trasformazione individuale e, quindi, trasformando se stessi, anche il proprio ambiente relazionale migliora».

Padre Cappelletto ha voluto andare in India per conoscere le forme di meditazione orientali praticate dai maestri indiani, non per aderire all’apparato dottrinale e filosofico dell’Oriente, ma solo per trarne alcuni elementi, quali la valorizzazione del respiro, la preghiera in formule brevi, ripetitive, mantriche, cioè forme di raccoglimento, interiorizzazione e concentrazione.

Attraverso questi incontri, padre Cappelletto ha riscoperto un filone che era già presente nella tradizione cristiana di tipo mistico o monastico: quello dell’esicasmo (dal greco exichia, pace spirituale, silenzio interiore). Una meditazione mantrica legata alla respirazione, cioè la preghiera contemplativa, chiamata «preghiera del cuore». La tradizione esicastica era praticata prima dai monaci del deserto, poi si diffuse in tutto il mondo cristiano, in Giordania, in Egitto tra i copti, nella Chiesa orientale ortodossa. In Europa era conosciuta da personaggi isolati, all’interno di ambienti monastici, non era applicata a livello collettivo.

Ricostruire dentro e fuori

Il gruppo si è formato attorno alla pratica della meditazione, dello yoga e di varie tecniche di rilassamento. Senza che padre Cappelletto lo abbia previsto, è nata una convivenza religiosa composta da uomini e donne e alcuni sacerdoti. Nella sede dei Ricostruttori di Torino, Roberto racconta: «Le esigenze principali erano due. Da una parte creare dei luoghi in città dove incontrarsi per fare meditazione. All’inizio siamo sempre stati ospiti di ambienti religiosi gesuiti, salesiani. Il padre si appoggiava alle case che gli prestavano. Dall’altra, trovare posti fuori città dove fare i ritiri spirituali per dedicare spazio alla preghiera e al silenzio.

Abbiamo cominciato a ricostruire cascinali abbandonati, ad abitare vecchie abbazie, e il lavoro è stato una potentissima forza aggregativa.

Eravamo giovani e pieni di energie. Il nome “Ricostruttori” è nato dall’intento di ricostruire ambienti come parabola e simbolo della ricostruzione interiore».

Questo intenso percorso di condivisione ha portato, in seguito, alla ricerca di un riconoscimento ecclesiastico. Nel 1988, i «Ricostruttori nella preghiera» sono diventati un’associazione pubblica di fedeli retta dal vescovo di La Spezia; una forma giuridica della chiesa che tiene assieme varie scelte di vita.

Attualmente, le sedi dei Ricostruttori sono più di 50, sparse in tutta Italia, e sono luoghi di incontro, nei quali la meditazione unisce e accoglie umanità differenti, simpatizzanti occasionali e frequentatori abituali che possono essere di diverse provenienze culturali. Inoltre, si organizzano corsi di meditazione, training estivi, conferenze, concerti, si predispongono ambulatori che fanno un grosso servizio sociale perché, oltre a considerare il malato come un’unità di corpo e spirito, hanno prezzi molto bassi, e sono gratuiti per chi non può pagare.

I centri di meditazione sono abbelliti da restauri e opere artistiche create dagli stessi comunitari e dai volontari, «espressione di potenzialità inaspettate che si esprimono una volta riacquistata la serenità e l’armonia interiore», abbozza con un sorriso Roberto. Chi vive in comunità non conduce una vita religiosa intesa in senso strettamente tradizionale, cioè vissuta solo all’interno della struttura. «La nostra forma è mista. Ci sono persone che vivono all’interno della comunità che si occupano più dell’organizzazione delle attività: laboratori artistici, musicali, aikido, riflessologia, e persone che invece stanno molto all’esterno, studiano, lavorano, si impegnano in un ambito sociale, come Silvana che da anni lavora al carcere delle Vallette a Torino».

I Ricostruttori professi

La comunità finora si è sempre sostenuta con le proprie forze, grazie agli stipendi dei membri della comunità e a offerte occasionali.

Nell’ambito dell’associazione si distinguono i professi volontari e i professi comunitari. I primi sono coloro che, in senso strettamente giuridico, sono pubblicamente associati (diversamente dai frequentatori) e, dopo un periodo di dieci anni di un percorso all’interno dei Ricostruttori, riconoscendosi in quel carisma, fanno la professione. Cioè, di fronte alla comunità si prendono l’impegno di dedicare il proprio tempo e le proprie energie extra alla causa dei Ricostruttori, «è una sorta di promessa che uno fa di fronte allo Spirito Santo». Essi spesso vivono in comunità. I secondi, invece, sono quelli che hanno accolto le tre promesse monastiche di povertà, castità, obbedienza e conducono una vita religiosa comunitaria.

La meditazione

Per come è intesa dai Ricostruttori, la meditazione si può accompagnare a uno stile di vita sobrio e ad alcune scelte finalizzate a prendere consapevolezza del proprio corpo, dei propri limiti e delle proprie possibilità. Per esempio dormire a terra, sul duro, lavarsi con l’acqua fredda, effettuare le asana (posture yoga, ndr) per mantenere desto e ben massaggiato il sistema ghiandolare, fare un giorno di digiuno al mese, essere vegetariani, evitare fumo e alcolici, compiere quattro meditazioni al giorno di mezz’ora ciascuna. Questi non sono aspetti ascetici obbligatori, ma consigli da applicare in libertà di coscienza alla propria vita.

Roberto racconta la sua singolare esperienza riguardo la meditazione: «All’inizio, per me la meditazione ha rappresentato una grande novità perché era un’esperienza di interiorità, una ricerca di contatto con Dio che non passasse solamente attraverso una preghiera vocale. Io ero un semi-lontano, avevo un sacco di dubbi su tutto, ma desideravo credere. La meditazione mi ha permesso di fare un’esperienza non puramente intellettuale».

Nel gruppo si riflette molto sulla presa di distanza dai condizionamenti culturali e sociali (non dai compiti e dalle responsabilità), spesso radicati in zone profonde di noi. Una presa di distanza necessaria per iniziare a scoprire l’unicità della propria persona e rendere così possibili nuove forme di relazione umana. Inoltre, il dominio delle passioni può essere facilitato dalla disciplina psico-fisica della meditazione, perché, se non integrate, le passioni separano l’uomo. La tentazione lo frammenta. Mentre la meditazione vuole essere un processo di unificazione volto a riconoscere il centro, il desiderio profondo che ogni uomo porta dentro.

Roberto mi rivela un dettaglio prezioso: «L’esperienza spirituale è stata molto diversa dalle aspettative iniziali. Man mano, mi si è chiarito dentro che, al di là di quello che uno può percepire, l’importante è scoprire la dinamica della crescita interiore, cioè la possibilità che noi abbiamo di generare amore. L’amore e la presenza di Dio sono un dono gratuito dentro di noi, ma questa presenza non cresce da sola, devo coglierla, aderirvi, lasciarmi attrarre ed esprimerne la bellezza. I doni spirituali, le piccole esperienze meditative profonde, dove uno sperimenta un’apertura di cuore maggiore di ciò che uno vive normalmente, sono una cosa bella e gratificante. L’esperienza spirituale è un’anticipazione di quello che puoi essere, ma per essere devi poi scegliere di vivere quell’apertura. Una volta percepivo la meditazione come qualcosa che automaticamente mi avrebbe cambiato, ma purtroppo non è così. Attorno alla meditazione ci sono tanti tipi di letture. È vero che fa bene, che rilassa, ma quello che non avevo colto è come uno si possa generare come persona. Ora per me questa è la cosa più importante di tutte. L’esperienza mistica, quando si rivela, ci fa cogliere una realtà d’amore, ma se questa non la faccio mia, non mi serve a nulla».

Ricordo un ritiro spirituale nel quale ho ascoltato parole di Roberto mi sono poi rimaste appiccicate addosso come un mantra quotidiano: «Con la nascita iniziamo un cammino nel quale ogni uomo deve finire di nascere, in un incessante partorire se stessi. Dobbiamo completare, riempire di significato, dare qualità al dono della vita; pensare alla vita come mistero da generare piuttosto che da scoprire.

Siamo costituiti dal desiderio, ma non sappiamo bene cosa desideriamo. Tra le tante cose che la vita ci propone, come riconoscere un idolo da ciò che ci dà vita? Il mercato dei consumi ci distrae, ci stordisce e sostituisce gli oggetti alla qualità della relazione. Il percorso spirituale ci aiuta a riconoscere le fughe da noi stessi e a trovare cosa ci corrisponde in profondità».

Amarilli Varesio