Perderci e ritrovarci


Sono qui di fronte a te. Dopo una notte di lavoro lunga e infruttuosa.

Ora è l’alba, e tu ti sei presentato alla mia fame per offrirmi un buon cibo preparato da te (Gv 21).

Ricordo di noi due. Ti avevo cercato per molto tempo senza trovarti, e, quando tu mi hai trovato, ho scoperto che anche tu mi cercavi. Da sempre.

Ricordo di avere più volte rischiato di perderti, e che tu mi perdessi. Di avere sentito che, perdendo te, avrei perso anche me. Paura di rimanere senza un nome da pronunciare, senza un volto che chiamasse il mio nome.

Non ti ho mai perso fino a quella sera, quando mi hai detto: «Dove io vado, tu per ora non puoi seguirmi» (Gv 13,36). Quando ti ho chiesto di tenermi con te e di poter morire per te, e di perdermi per te, e tu non hai voluto.

Mi sono perso in me, allora, e non ti ho più riconosciuto. A chi mi domandava se fossi tuo amico, rispondevo di no. E non mentivo: davvero ti guardavo nel cortile di Anna e stentavo a dire di te che tu mi amavi e che io ti amavo.

Ti ho perso mentre venivi innalzato e io rifiutavo di vederti così lontano, diverso, distinto da me, così altro. Totalmente te.

Mi avevi chiamato a una prossimità intima. Ora mi chiamavi a un distacco, a una distanza che ti rivelava per ciò che sei, che mi svelava per ciò che sono.

Una distanza ancora più intima che suggerisce quanto non sia automatico, necessario o inesorabile che io e te ci amiamo.

Una trascendenza che ci chiede di sceglierci. Di nuovo. Ancora.

Lo capisco ora, masticando questo pesce arrostito.

Meraviglia!

Mentre tu sei totalmente tu e io sono totalmente io, mi chiedi se ti scelgo, mi dici che mi scegli. «Pasci le mie pecore» e, come il primo giorno, «seguimi», perché mi prendi con te e dove tu sei sarò anche io.

Buon mese missionario, in intima prossimità e alterità con Lui, da amico

Luca Lorusso

 




Osea, profetizzare con la vita


Ci sono alcuni artisti dei quali diciamo che fanno arte con la loro stessa vita, con le loro scelte, con il loro stile personale. Succede anche nel mondo biblico che alcuni profeti annuncino il volto di Dio con le proprie azioni. Lo fanno Geremia ed Ezechiele, che a volte si mettono a fare gesti strani, enigmatici, per introdurre le loro predicazioni. Ma, secoli prima di loro, succede in modo straordinario e sconvolgente anche a un altro profeta, forse meno noto ma che affascinerà molto i redattori biblici.

Un libro complicato

Il profeta Osea ha il privilegio di un libro dedicato interamente a lui. Un libro, però, che è discretamente difficile. La sua parte più ampia, dal capitolo 4 in poi, è in poesia, come succede spesso alla profezia ebraica, e allude, in modo a volte stringatissimo, a vicende che gli ascoltatori devono conoscere bene. Come succede alle canzoni contemporanee, non solo non c’è bisogno di spiegare tutti i particolari, ma addirittura è meglio mantenere un po’ di ambiguità, perché siano gli ascoltatori a completare il discorso, facendolo così più proprio.

Osea vive e profetizza nel regno di Israele del Nord, intorno alla capitale Samaria e al suo tempio di Betel, nella seconda metà dell’VIII secolo a.C. È un periodo delicato, che si chiude nel 721 a.C. con la distruzione del tempio e l’annessione dello stato allo spietato impero neoassiro. È probabile che prima della distruzione del tempio alcuni sacerdoti e scribi siano riusciti a fuggire a Gerusalemme, portandosi dietro tradizioni, storie e anche manoscritti, tra cui forse anche i capitoli dal 4 al 14 del nostro libro, che in effetti in alcuni passaggi sembra scritto in una lingua strana e non sempre comprensibile in tutti i dettagli.

Quando si fa un trasloco, però, anche in situazioni molto meno drammatiche di quelle vissute dagli antichi scribi, si coglie l’occasione per liberarsi di ciò che non interessa più, e si sceglie di trasportare solo ciò che si ritiene ancora prezioso. Evidentemente, il libro di Osea è tra i tesori che i fuggiaschi samaritani non vogliono perdere e, una volta arrivati a Gerusalemme, ne spiegano il valore ai sacerdoti locali. Qualcuno, per renderlo più comprensibile, aggiunge un’introduzione in prosa, in un linguaggio che è molto più facile da capire di quello del testo in poesia.

Un matrimonio difficile

«Va’ e prenditi per moglie una prostituta» (Os 1,2). Così inizia il libro di Osea, non proprio un grande punto di partenza per un matrimonio, tanto più in un mondo come quello ebraico ossessionato dalla purità anche nei legami coniugali perché ritiene che i figli non sono semplicemente i discendenti dei genitori, ma sono iscritti in una trasmissione della benedizione divina che risale fino ad Abramo. Offuscare quella linea di trasmissione significa, in ultimo, offendere anche Dio. Eppure è Lui a chiederlo al profeta di sposare una prostituta spingendolo a vivere la propria vita in un modo apparentemente lontano dai precetti divini.

Fin dall’inizio, però, si chiarisce che la posta in gioco non è «soltanto» la vita di una persona, infatti il versetto continua così: «perché il mio paese continua a prostituirsi» (Os 1,2). Insomma, il testo ci suggerisce subito che il matrimonio di Osea è un’immagine del rapporto di Dio con il suo popolo. Al profeta viene chiesto di sposare una prostituta perché è Dio stesso a trovarsi sposato a un popolo infedele. Quello che farà Osea sarà un’immagine dell’intenzione divina. Il profeta annuncia il messaggio divino con la propria stessa vita.

Quell’intuizione di partenza prosegue nei figli, che ricevono nomi certo non troppo beneauguranti: il primo viene chiamato Izreèl (Os 1,4), come la valle nella quale fu distrutto dai filistei l’esercito ebraico di Saul (1 Sam 29,11; 2 Sam 4,4), o in cui si trovava la vigna che un re desiderava e che la sua regina, Gezabele, riuscì a strappare al legittimo proprietario facendolo ingiustamente condannare a morte (1 Re 21) e dove la stessa Gezabele venne uccisa e abbandonata ai cani (2 Re 9). Non un posto di buon auspicio, insomma, ma un luogo in cui si sono verificati episodi di ingiustizia che Dio vuole vendicare (Os 1,4-5), proprio come ci aspetteremmo da un Dio severo e giusto.

Dopo Izreèl nascono poi anche Non-amata e Non-popolo-mio (Os 1,9).

Un matrimonio improbabile segnato da rapporti difficili anche con i figli, immagine di un Dio che evidentemente non è contento del suo popolo e che inizia a pensare di doverlo punire. D’altronde, è diritto e, sostanzialmente, quasi dovere di un capofamiglia farsi rispettare anche con le cattive.

Una soluzione «divina»

La possibilità di un castigo severo e inflessibile aleggia in tutto il libro. In fondo, è ciò che ci si aspetta che faccia un marito, proprietario della moglie, ed è ciò che solitamente si pensa che dobba fare Dio. Quante volte persino noi, moderni ed evoluti, ci diciamo che se Dio ci fosse e fosse attento a noi, certe ingiustizie non le sopporterebbe.

Anche Dio, verrebbe da pensare, è tentato da una soluzione violenta e chiara (Os 2,11-15) che forse non lo rallegrerebbe, ma almeno lo vendicherebbe.

E invece Egli trova una soluzione diversa. Non quella che l’uomo si aspetterebbe, ma quella che meglio corrisponde al cuore.

«La condurrò nel deserto», là dove non ci sono distrazioni, dove si può essere soli, come lo erano Dio e il suo popolo durante i quarant’anni di peregrinazione verso la terra promessa, «e parlerò al suo cuore», cercando di convincerla, di farsi ascoltare e ubbidire. «La sedurrò» (Os 2,16). «E in quel giorno non mi chiamerai più “mio signore”», o, per usare il termine ebraico che può suonare familiare persino a noi, «non mi chiamerà più “mio baal”». «Baal» era il modo con cui i Cananei, molto diffusi e importanti nel nord d’Israele, si riferivano al loro dio, che poi coincideva con il modo con cui la moglie parlava al marito, riconoscendolo a lei superiore e suo «capo». «In quel giorno non mi chiamerai più “mio signore” ma “mio uomo”» (Os 2,18), come un’innamorata, che riconosce in colui che ha di fronte non il suo padrone, ma il suo amato, una persona con la quale sta in rapporto alla pari.

E, siccome impostare in questo modo il rapporto amoroso significa per Dio (e per Osea) non avere certezze (un padrone può imporre la sua volontà, un amante no), da qui in poi Dio si mette ad attendere una risposta, e a sognare.

Dio immagina di mettere pace in tutta la natura (2,20), sogna una relazione fatta di «giustizia e diritto», unendo l’aspetto più formale, esteriore, legale (diritto) e quello più profondo di equilibrio nel rapporto, di profonda sintonia e correttezza (giustizia). Poi ancora immagina «amore» (il termine indica l’affetto gratuito, disinteressato, dei genitori verso i figli) e «benevolenza», atteggiamenti che rimandano però alle viscere, ai sentimenti più diretti, spontanei, passionali e intimi. Dio sogna, cioè, che la realtà esteriore del matrimonio dica quella più interiore del desiderio di vivere insieme, e che l’attrazione si esprima anche in dono gratuito e generoso.

«A Izreèl risponderanno il grano, il vino nuovo e l’olio» (Os 2,24), così che la valle diventata sinonimo di maledizione si riempirà di quei doni agricoli che, secondo i cananei, era baal a garantire. «Amerò Non-amata, e a Non-popolo-mio dirò “Popolo mio”, ed egli mi dirà “Dio mio”».

È un sogno. Dio sta immaginando un matrimonio di totale amore. Sta sognando, perché ancora in attesa di una risposta.

Un amore senza condizioni

Tutti noi sogniamo un amore incondizionato. O, più egoisticamente, di essere amati senza condizioni. Anche se, nella storia, viviamo anche di patti: «Se non mi sei fedele, se non mi ami, anche io mi disamorerò».

Il libro di Osea, la vita di Osea, ci dicono che Dio non ha intenzione di mettere condizioni. Ne è tentato, come tutti gli amanti, e ipotizza la punizione vendicativa. Ma decide di essere troppo innamorato per mettere a rischio questa relazione.

Nel capitolo 11, in poesia, Osea fa ripercorrere a Dio la storia con il suo popolo, al quale ha insegnato a camminare tenendolo per le ascelle, da dietro, come un papà che non vuole abbandonare ai pericoli il figlio ma desidera che impari a camminare con fiducia nei propri mezzi (11,3), e che ha preso in braccio per baciarlo sulla guancia (11,4): «Li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore».

Certo, si è trovato di fronte ingratitudine e tradimento (11,2). Ma di fronte alla possibilità, che sarebbe reale, di punirlo (11,6-7), si lascia intenerire: «Come potrei abbandonarti? Come potrei trattarti come Admà e Seboim?» (le due città distrutte insieme a Sodoma e Gomorra, cfr. Dt 29,22). Dio si sente struggere le viscere all’idea di fare del male al proprio figlio (Os 11,8). «Io sono Dio, e non uomo» (Os 11,9), e questa affermazione, che potremmo anche interpretare dicendo che di sicuro, se decide di punire, punirà, diventa invece la premessa per affermare che lui non castigherà. Dio ha deciso, è dalla parte della vita del suo popolo. Parlerà al suo cuore, tenterà di sedurlo, ma non gli farà del male.

Tutto questo Osea lo intuisce, chissà se in sogni o visioni, o semplicemente continuando a meditare sul volto di Dio che emerge dalla storia d’Israele. E capisce che se Dio è così, quella è l’immagine precisa dell’amore vero. Perché, di fronte a una donna che continua a prostituirsi anche da sposata (Os 3,1), Osea si sente chiamato a fare non ciò che gli altri pensavano che dovesse fare (costringerla, denunciarla e piuttosto farla lapidare, mostrando chi era il capo), ma ciò che Dio farebbe, amando incondizionatamente, persino senza essere corrisposto allo stesso modo, senza essere capito (in fondo, Gomer, la moglie, potrebbe pensare di aver fatto il suo «dovere», dandogli tre figli).

Un’intuizione abissale

Tutto ciò sarebbe già tantissimo. Ma può darsi che ci sia dentro persino di più.

Osea vive e profetizza nel nord d’Israele, dove è più forte la presenza delle popolazioni di religione cananea, che, stando a quanto riusciamo a ricostruire, prevede anche la prostituzione sacra come atto religioso. Perché mai una donna sposata e con figli, amata dal marito, dovrebbe tornare a prostituirsi? Può darsi che il libro di Osea suggerisca addirittura che Gomer, la moglie, sia una cananea, e che continua a frequentare quegli altri dèi.

Osea sarebbe chiamato ad amare una donna infedele e di un’altra religione, e, facendolo, «rappresentare» Dio stesso, il quale non sarebbe allora attento ai doveri religiosi, a riti o formule di fede, ma al rapporto d’amore. Quasi come se dicesse: «Non mi importa neppure se non vuoi essere tra i miei fedeli; ma amami».

Capiamo quanto il libro e la vicenda di Osea possano aver sconvolto gli antichi fedeli. Abituati (un po’ come noi, se siamo sinceri…) a pensare a un Dio potente, inflessibile e giudice severo ma giusto. Sono invece messi davanti a un cuore amante, che vuole essere amato. A costo di trascurare convenzioni, norme e «buone abitudini». E si trovano davanti un profeta che decide di vivere come Dio, un Dio che, nella vita di Osea, si mostra fragile, pronto ad ammettere che non smetterà di amare e di attendere con paziente ansia una risposta.

Da parte di Dio non ci sono incertezze: sarà Lui stesso a guarire Efraim dalle sue infedeltà (14,5), a far fiorire il popolo e a porsi per lui come un cipresso sempreverde (14,9; il cipresso era la pianta tipica dei luoghi della prostituzione sacra a Baal, ndr.). Capita che nel Primo Testamento si paragonino i giusti ad alberi radicati lungo corsi d’acqua (Sal 1,3; Sir 50,8), ma mai altrove si ricorre a queste immagini per definire Dio. È come se qui si volesse anticipare che Dio non solo garantirà sempre la sua protezione, ma addirittura che si farà presente in mezzo a loro come un uomo. Con Gesù quell’immagine e quel desiderio di comunione misericordiosa prenderanno il loro volto definitivo.

Angelo Fracchia
(Camminatori 08 – continua)




I laici non mancheranno mai


Siamo nel 1891, dieci anni precisi prima della fondazione dell’Istituto missioni Consolata, Giuseppe Allamano, sebbene impegnato in Torino come rettore del Santuario della Consolata e nel Convitto ecclesiastico, pensa, prega e si consulta per capire se la fondazione di un istituto esclusivamente missionario in Piemonte sia nella volontà di Dio e nei disegni della Chiesa. Scrive a questo riguardo al padre Carlo Mancini, religioso lazzarista residente a Roma, perché esplori presso la congregazione di Propaganda fide la possibilità e l’opportunità di questa nuova avventura missionaria. Nella lettera così si esprime: «Anche oggi ho un certo numero di sacerdoti (i laici poi non mancheranno) che mi stanno ora giornalmente attorno sollecitandomi di metter mano a quest’opera».

Questo primo discreto accenno alla presenza dei laici diventerà sempre più chiaro nella mente di Giuseppe Allamano e dieci anni dopo, nel 1901, fonda l’Istituto missioni Consolata che accoglie parimenti sacerdoti e laici. Nel 1902 la prima spedizione missionaria verso il Kenya è formata da quattro missionari: due sacerdoti e due laici. Tale formula si dimostra subito vincente, poiché essa è capace di integrare in maniera armonica lo sviluppo umano portato avanti dai laici con il ministero pastorale dei sacerdoti e, in seguito, con i preziosi servizi delle Suore missionarie.

L’Istituto, con il passare degli anni, si sviluppa e tutti i suoi membri fanno i voti religiosi. Così, assieme ai sacerdoti, nasce il ramo dei «Fratelli»: sono laici che si votano per sempre alla missione con la professione religiosa. La loro presenza si dimostra preziosa e indispensabile, soprattutto quando si tratta di aprire nuovi campi di evangelizzazione in Africa.

Arriviamo poi al Concilio Vaticano II che richiama tutti i battezzati alla loro responsabilità di rispondere alla chiamata evangelizzatrice e missionaria. Ne fa eco l’enciclica Redemptoris Missio che esorta i laici a «impegnarsi, sia come singoli, sia riuniti in associazioni, perché l’annuncio della salvezza sia conosciuto e accolto da ogni uomo e in ogni luogo; tale obbligo li vincola ancora di più in quelle situazioni in cui gli uomini non possono ascoltare il Vangelo e conoscere Gesù se non per mezzo loro» (71).

Anche oggi non mancano al nostro Istituto i laici che, rispondendo all’invito del beato Allamano e ai costanti richiami di papa Francesco, offrono la loro collaborazione all’opera missionaria, sia in patria che in altri continenti, esercitata soprattutto nel campo educativo e sanitario, senza escludere attività prettamente pastorali per l’annuncio del Vangelo. Stimolare e sostenere il prezioso contributo dei laici nel campo missionario dovrebbe essere l’impegno di tutti coloro che amano l’opera missionaria della Chiesa.

padre Piero Trabucco

La spiritualità del «di più»

Per l’Allamano, il missionario è l’uomo del di più, deve strafare, non può accontentarsi del minimo indispensabile: bisogna fare tutto bene, «il bene va fatto bene».

Un «di più» per la gloria di Dio

«Magis» è un avverbio latino che significa di più o più grande. È implicito nella frase latina legata ai missionari della Consolata ad maiorem Dei gloriam, che significa «per la maggior gloria di Dio». Magis descrive chi fa di più per Cristo, o di più per gli altri. Indica l’aspirazione o l’ispirazione collegata alla formazione di una spiritualità centrata su Gesù Cristo.

Definito in termini più semplici, magis descrive l’eccellenza o la qualità di una impresa: non c’è scuola o impresa sulla terra che non rivendichi l’eccellenza nella descrizione della sua missione. Il magis ci ricorda costantemente che tutte le decisioni che prendiamo, per quanto personali o private possano sembrare a prima vista, hanno ampie implicazioni nella vita della comunità, e quindi il bene comune è un valore da tenere sempre presente.

La spiritualità del magis

In questo contesto, una spiritualità guidata dal magis è quella che cerca il di più, la qualità e l’eccellenza: non si accontenta del minimo indispensabile, ma è incessantemente incline a cercare qualcosa di più grande.

Negli scritti del beato Giuseppe Allamano, questo magis può essere visto in diversi modi:

  1. È la spiritualità che cerca la qualità e l’eccellenza per la maggior gloria di Dio e per il servizio all’umanità. Lo ricorda con chiarezza quando parla di quei missionari che rispondono con poca generosità e senza esagerare; nella sua spiritualità non c’è spazio per il minimo indispensabile.
  2. Lo vediamo anche quando, in modo attivo, invita ad approfittare delle circostanze. Per Giuseppe Allamano non si tratta di aspettare le occasioni d’oro, ma di trovare l’oro nelle occasioni a portata di mano.

Questa ricerca dell’eccellenza, questo fare di più, questa spiritualità, questo magis, Giuseppe Allamano lo vuole vedere nella vita dell’Istituto e nella vita dei suoi missionari.

Nella vita dell’Istituto

In occasione del decimo anniversario della fondazione morale dell’Istituto (24 aprile 1910) Giuseppe Allamano diceva che questa comunità era stata fondata non per lui ma ad maiorem Dei gloriam (per la maggior gloria di Dio). Tutto ciò che l’Istituto ha fatto in passato, tutto ciò che fa attualmente e tutto ciò che farà in futuro, è per la maggior gloria di Dio che si manifesta nella sua missione e nel servizio all’umanità.

Quindi, tutte le attività e tutti gli strumenti di promozione umana scelti per l’evangelizzazione dei non cristiani hanno a che vedere con questo: le fattorie agricole, i laboratori industriali, le scuole, le visite a domicilio, gli orfanotrofi, i collegi e l’assistenza medica… tutto rivela il di più, la ricerca minuziosa della qualità dell’opera.

Lo riconosce anche il cardinale Van Rossum, prefetto di Propaganda fide, che in un incontro con Giuseppe Allamano continuava a ringraziare per tutto il buon lavoro che l’Istituto stava facendo sottolineando che «questo che voi fate va al di là di quello che si deve fare, non si è obbligati a fare tutto questo». In tutta risposta, l’Allamano aggiungeva: «Abbiamo fatto solo il nostro dovere; uno non dovrebbe essere prete se non sente zelo per le anime». Ecco evidente il magis che l’Istituto ha ricevuto dal Fondatore come eredità.

Nella vita del missionario

La spiritualità guidata dal magis dell’Allamano la vediamo anche nella vita di ogni missionario.

Nella risposta alla propria vocazione il magis è molto presente: non basta essere chiamati, non basta rispondere alla chiamata, non basta entrare nell’Istituto e non basta nemmeno andare in missione. Tutte queste cose hanno un senso se contengono una risposta piena, generosa e costante alla grazia di Dio.

Il magis riappare nel lavoro, nella preghiera e nella carità. Il lavoro deve essere fatto con spirito di generosità: «I missionari – diceva – sono generosi e possono lavorare per molti». E nella preghiera un missionario non può dire di pregare troppo: «Lo dico a voi, non si può mai dire di pregare troppo».

Nella carità desiderava in ogni comunità non una semplice carità, ma una carità sempre attenta all’altro, una carità che sopporta tutto, una carità capace di amare secondo la misura di Dio. «Il nostro cuore – diceva – è così piccolo che non lo possiamo dividere tra Dio e le creature. Dio vuole tutto il nostro cuore e quindi dovremmo amare con tutto il nostro cuore, con tutta la nostra anima, con tutta la nostra mente, con tutte le nostre forze».

Sull’esempio di Cristo

Quindi, con la spiritualità del magis e infondendo uno spirito di generosità e costanza, l’Allamano aiutava ogni missionario a rispondere bene alla sua vocazione, ad amare e servire Dio con zelo, a mettersi con generosità al servizio di Dio e del prossimo e a rivitalizzarsi.

San Paolo esorta i suoi cristiani a vivere una vita piena di amore, seguendo l’esempio di Cristo che «ci ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore» (Ef 5,2) e ricorda loro che questa vita ci trasforma in ambasciatori di Cristo perché «per mezzo nostro, è Dio stesso che esorta» (2 Cor 5,20).

È proprio la spiritualità del di più che ci permette di essere apostoli zelanti, veri ambasciatori di Cristo.

padre Charles Orero

UNA SCUOLA CON SPIRITO MISSIONARIO

Il 7 ottobre 2022, anniversario della beatificazione di Giuseppe Allamano, avvenuta nel 1990, i 1.705 studenti della scuola bilingue «Giuseppe Allamano» di Bogotá (Colombia), hanno celebrato la Giornata missionaria mondiale evidenziando il carisma del fondatore dei Missionari della Consolata e titolare della loro scuola.

Eucaristia a più voci

Per una di quelle sincronicità che avvengono lungo i cammini della missione, hanno concelebrato l’eucaristia nel cortile della scuola tre missionari della Consolata che hanno condiviso con gli studenti le loro diverse esperienze di vita e di missione.

Il primo, padre Im Sang Hun (Marcos), attuale superiore dei missionari della Consolata in Argentina, con il suo inconfondibile accento coreano (Corea del Sud), ma supportato da un eccellente spagnolo, ha interloquito con sette giovani della scuola che studiano il coreano. Il secondo, padre Francisco Pinilla, preside della scuola, con una lunga esperienza di missione in Etiopia, ha rivolto ai presenti alcune parole in amarico, una delle cinque lingue parlate nel Paese.

Il terzo, padre Salvador Medina, missionario in Colombia e Brasile, ha fatto lo spelling del proprio nome «Sal-va-dor», per spiegare il significato della missione, che in sintesi parla della partenza degli inviati per svolgere un compito: «sal», imperativo del verbo partire;  «va», imperativo del verbo andare; «dor», nel dolore in portoghese. Lasciare se stessi e il proprio mondo – cultura, geografia, religione e posizione sociale -, andare nel mondo dell’altro diverso ma uguale ed essere «sale» per dare sapore e gusto, per preservare e guarire il dolore «dor».

«Così ha fatto Dio – ha continuato padre Medina -, attraverso il suo missionario e inviato, Gesù (Dio salva) come Emmanuele (Dio-con-noi), per la potenza dello Spirito che ci rende comunione e comunità. Questo è ciò che tutti noi, studenti, maestri e servitori della vita, possiamo e dobbiamo fare, in nome del Dio della vita, per servire la vita in tutte le sue manifestazioni, specialmente là dove è più minacciata o ferita. Tutto perché la vita non muoia e valga la pena di essere vissuta».

Commemorazione del beato Giuseppe Allamano

«Proprio in un giorno come oggi, 32 anni fa, il nostro fondatore è stato riconosciuto a Roma, da papa Giovanni Paolo II, come una persona che ha compreso la missione di Dio e vi ha dedicato la sua vita, i suoi studi e i suoi beni. La scuola porta il suo nome, che ne ispira la spiritualità, la pedagogia e la dimensione missionaria universale.

Come disse il Papa all’Angelus di quel giorno, il 7 ottobre 1990, in piazza San Pietro: «I nuovi beati, Giuseppe Allamano e Annibale Maria Di Francia (beatificati lo stesso giorno), entrambi formatori di sacerdoti e apostoli dell’animazione vocazionale, intercedono anche per noi».

Per questo motivo la loro beatificazione durante lo svolgimento del «Sinodo per la nuova evangelizzazione» acquista un significato particolare.

«Sono, infatti, testimonianza vivente delle meraviglie che lo Spirito Santo opera in coloro che rispondono generosamente alla chiamata divina. Con il loro esempio, ricordano a tutti l’urgenza di chiedere “al padrone della messe di mandare operai nella sua messe” (Mt 9, 38), e incoraggiano i sacerdoti, i seminaristi e i loro formatori, apostoli della nuova evangelizzazione, a percorrere senza dubbio e con gioia la via della santità, che è l’abbandono fiducioso alla volontà di Dio e il servizio senza riserve ai fratelli.

Insieme a loro, ci rivolgiamo ora alla Madre del Salvatore, venerata dal beato Allamano con il titolo di Consolata, e dal beato Annibale Maria Di Francia con il titolo di Maria Fanciulla».

Il viaggio e la missione continuano

Nelle aule gli studenti e gli insegnanti hanno proseguito la giornata delle missioni ricordando e aggiornando le loro conoscenze e lasciando volare la loro immaginazione attraverso i cinque continenti, con i loro diversi colori, visitando culture, balbettando lingue, conoscendo usi, tradizioni e religioni per organizzarli, artisticamente ed esteticamente nel cosiddetto «Angolo missionario», che poi è stato oggetto di pellegrinaggio e scambio tra tutti.

La giornata si è conclusa con la realizzazione di un «salvadanaio missionario» in ogni aula, riempito con il dono della loro solidarietà, che è stato inviato a Cuba, una bellissima isola che si è «spenta» a seguito dell’uragano Ian, il 28 settembre, quando il suo sistema elettrico è crollato, lasciando 11 milioni di cubani senza elettricità.

Conclusione

In questo modo, la comunità educativa Giuseppe Allamano di Bogotá si è unita al resto dei luoghi dove il 7 ottobre è stata ricordata e celebrata la vita e l’eredità di colui che continua a essere maestro di missionari, un’opera iniziata in Africa e che si è estesa in tutto il mondo grazie a fratelli, sacerdoti, suore e laici che continuano ad «annunciare la gloria di Dio alle nazioni».

équipe di Animazione missionaria giovanile e vocazionale Imc Colombia

 

 




Samuele, modello del «chiamato»


In qualsiasi percorso vocazionale e in tutte le proposte pastorali e catechetiche per ragazzi e giovani prima o poi si deve per forza incontrare la storia del ragazzo Samuele, esempio di disponibilità ad ascoltare la chiamata di Dio anche senza comprenderla
appieno.

L’episodio della chiamata divina nel cuore della notte, rivolta a un ragazzo che non la capisce, e tuttavia dice sì sulla fiducia, è senz’altro impressionante, ed è giustamente apprezzato e utilizzato. Tuttavia è l’intera vita di Samuele che si muove sulla linea della fiducia, dell’ascolto, della disponibilità serena a rimettersi in discussione per continuare a essere un tramite autentico e trasparente dell’intenzione divina.

Se si ricordano i modelli di fiducia in Dio offerti dal Primo Testamento, Samuele non può restarne fuori. Sarà anche per questo che è difficile dire se sia più un profeta o un sacerdote, visto che, normalmente, i due ruoli non coincidono. Forse è anche per questo che ci sono ben due libri biblici che prendono il nome da lui.

Un Dio in ascolto dell’umanità

Sembra peraltro di poter dire, in sintonia con tanti altri personaggi della Bibbia, che anche per Samuele è Dio stesso a mettersi, fin dal principio, in ascolto fiducioso dell’umanità e, soprattutto, dell’umanità più piccola, sofferente e addirittura, secondo i criteri della cultura del tempo, insignificante.

Si narra, infatti, all’inizio del Primo libro di Samuele, che il padre, Elkana, aveva due mogli, una delle quali, Anna, era sterile. L’intera famiglia compiva ogni anno un pellegrinaggio al tempio di Silo, a una quarantina di chilometri a nord di Gerusalemme, costruito ben prima di quello della città santa. Non è difficile capire che la dimensione rituale di quelle occasioni poteva diventare oppressiva e umiliante per chi, come Anna, non era nelle condizioni ideali per il rito.

Il testo di 1 Samuele (1,4-7) ci racconta qualcosa che possiamo integrare con la nostra immaginazione: nel momento del pasto sacro, quando si tratta di dividere l’agnello che è stato offerto in sacrificio, Elkana dà a Peninna, la moglie fertile, la parte che lei deve condividere con i figli e le figlie. Questa, ovviamente, è molto più grande di quella, pur «speciale», riservata ad Anna che, presa in giro dall’altra moglie, si sente ancor più umiliata nella sua infertilità e, quindi, piange e si rifiuta di mangiare.

Elkana, allora, le rivolge le parole più affettuose e tenere che si possano leggere nella Bibbia uscite dalla bocca di un marito: «Perché sei triste? Non sono io forse per te meglio di dieci figli?» (1,8). In una società in cui la donna serve solo a partorire e vale in proporzione al numero dei figli, Anna è sposata a un uomo che la ama così com’è.

Questo però non basta a confortare la donna, che si reca subito al tempio, nell’ora in cui tutti stanno riposandosi per il cibo e per il vino. Lì, nascosto nell’oscurità, c’è solo Eli, il sacerdote capo, che la vede pregare da sola e non a voce alta, ossia con modalità che non erano consuete, e la rimprovera, immaginandola ubriaca (1,12-16). Quando però lei, delicatamente, gli spiega che è solo afflitta, ottiene in cambio l’augurio che il Signore la ascolti (1,17).

Poco dopo Anna resta incinta di Samuele e si impegna, come aveva promesso nella preghiera, a offrirlo non appena svezzato al Signore, perché lo serva nel tempio.

E un’umanità in ascolto di Dio

Ma servire il tempio non significa ancora essere ciò che Samuele diventerà. Il libro biblico fa notare che Dio raramente si fa sentire in quei giorni (1 Sam 3,1). Sono tempi senza una bussola, incerti, come quelli in cui viviamo noi (e come sono la maggior parte dei tempi umani). Per questa ragione, probabilmente, il tempio di Silo non è solo un punto di riferimento religioso ma anche politico.

A guidarlo è lo stesso Eli, sacerdote ormai anziano che, come intuiamo dal racconto biblico, immagina di passare ai propri figli non solo il proprio ruolo spirituale ma anche di potere politico, benché essi non siano proprio degli stinchi di santo.

Samuele è al suo servizio nel tempio, luogo nel quale vive e dorme. Una notte sente una voce che lo chiama. Si alza e va subito da Eli, che lo rimanda a dormire. Quando però il ragazzo va da lui una seconda e una terza volta («Eccomi: mi hai chiamato?»), Eli intuisce che sta succedendo qualcosa che lui, sacerdote, non aveva previsto e forse neppure desiderava.

Pur sorpreso, indica a Samuele la strada da percorrere in docilità e attenzione: «Se succederà ancora, risponderai: “Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta”» (1 Sam 3,10). Anche Eli, stimolato dall’atteggiamento di Samuele, si mette in ascolto e accoglie la novità, pur intuendo che questa comporterà poi l’estromissione della sua famiglia dal tempio. Si mette a disposizione di un progetto che non lo coinvolge più (3,17-18).

Eli è il «vecchio» che deve essere superato, e, anziché abbarbicarsi al suo potere, sa fare spazio a ciò che sta crescendo. Intorno al fiducioso Samuele cresce la fiducia.

Il gioco dell’affidarsi

In effetti il ruolo che Eli ha ricoperto e che sognava di trasmettere ai figli viene invece assunto da Samuele: è come se il bambino che non sarebbe dovuto neppure venire alla luce fosse chiamato a diventare la nuova, definitiva guida di un popolo ancora piccolo, riprendendo l’antica tradizione di essere un «giudice», ossia un capo politico con motivazioni religiose, come all’inizio della storia di Israele in Canaan (1 Sam 7).

Dio, in seguito, prenderà di nuovo per mano Samuele e lo porterà su strade che non’immagina, invitandolo a fidarsi e a guidare un processo che non conosce ancora e che non sa dove condurrà, e che in fondo non condivide.

Anche Samuele, infatti, come Eli, è tentato dall’idea di lasciare in eredità ai propri figli il proprio ruolo di giudice e guida (1 Sam 8,1-3). I suoi due figli, però, non si comportano come lui, e mettono il loro interesse personale, non quello di Dio, al centro.

Se si guida a nome di Dio un popolo, non lo si fa per diritto ereditario, ma perché si è scoperto e si vive il rapporto con Lui.

Per reazione, il popolo che Samuele sta gestendo decide di diventare come gli altri dotandosi di un re e facendosi «un nome tra le genti» (8,4-5). Israele sceglie di non farsi più guidare da Dio, con l’incertezza di un capo nominato di volta in volta, e preferisce la sicurezza di un re con una linea dinastica. Un re che, quindi, lo condurrà in guerra, lo tasserà, lo sottometterà alle sue angherie. Israele preferisce essere servo di un uomo piuttosto che affidarsi a Dio (1 Sam 8,11-18).

Non è un caso che Samuele tenti di ostacolare questo progetto, che vede come un tradimento del Signore da parte del suo popolo.

Di nuovo, però, egli viene preso per mano da Dio, che lo convince a cedere: «Ascolta la voce del popolo, qualunque cosa ti dicano, perché non hanno rigettato te, ma hanno rigettato me, perché io non regni più su di loro. […] Ascolta pure la loro richiesta, però ammoniscili chiaramente e annuncia loro il diritto del re che regnerà su di loro» (1 Sam 8,7-9).

Dio entra nello stesso gioco di ascolto e di fiducia a cui egli stesso ha chiamato Eli e Samuele. Nonostante il popolo non ascolti il suo ammonimento e continui a domandare un re, il Signore non si tira fuori, e incarica Samuele di gestire la situazione ungendo come sovrano, quindi con la ratifica divina, chi sostituirà Samuele stesso, il giudice-sacerdote, nel suo ruolo di guida politica.

Il Dio di Israele, sapendo che la scelta del suo popolo è sbagliata, si lascia tuttavia incatenare alle scelte dei suoi amati, e continua a guidarli, pur avendo minacciato il contrario (lo ammetterà in 1 Sam 12,13-14).

Instabile o fedele?

A essere scelto da Dio come re richiesto dal popolo è Saul, della tribù di Beniamino, la più piccola delle tribù d’Israele. È interessante la scena dell’incontro tra il futuro re e Samuele. Il testo racconta che Saul non sta minimamente pensando al regno, e lo presenta mentre vaga alla ricerca delle asine del padre, smarrite mentre erano al pascolo (1 Sam 9). Nel suo vagare arriva dove si trova «il veggente» e decide di chiedere a lui un’indicazione. Il «veggente», però, lo invita a fermarsi, lo rassicura sulle asine e il giorno dopo lo unge re, prima di fargli intuire che lui pure, nuovo re, dovrà fidarsi e lasciarsi condurre, anche a «fare il profeta» insieme ad altri profeti (1 Sam 10,5-6).

Saul inizia a guidare gli israeliti in battaglia, principalmente contro i Filistei, con esiti altalenanti, ma la scelta divina, si scopre, non è ancora definitiva. Dio volta le spalle a Saul, colpevole di confidare soprattutto nei propri mezzi, e invita di nuovo Samuele ad adeguarsi alla sua volontà e ad andare a ungere un altro re.

E questo nuovo re è tanto improbabile che, quando Samuele si presenta alla casa di Iesse (1 Sam 16) per sceglierlo tra i suoi figli, perfino Iesse si dimentica di lui. Quando infatti Samuele dichiara che non si metterà a tavola a mangiare finché non saranno passati davanti a lui tutti i suoi figli per benedirli e scoprire chi tra essi è stato scelto da Dio, Iesse li presenta al profeta uno dopo l’altro, scordandosi del più piccolo, Davide, che in quel momento è fuori casa al pascolo.

Il secondo re di Israele diventerà tanto importante che nella futura storia del suo popolo fungerà da modello per qualunque regalità e che verrà ricordato come colui che donerà un suo discendente che regnerà per sempre.

Ma tutto questo Samuele non lo vedrà con i suoi occhi, perché morirà lasciando nella sua terra due re, entrambi unti da lui, che combattono tra loro. Morirà senza avere la certezza di aver compiuto le scelte giuste, di aver ascoltato correttamente la parola di Dio.

L’insegnamento di Samuele

Se vogliamo tirare le fila di ciò che abbiamo incontrato, troviamo una costante che rintracciamo in tutte le storie di fede nel Primo e anche nel Nuovo Testamento, e forse una sorpresa non indispensabile, dunque ancora più interessante.

Samuele entra in un gioco di dialogo con Dio, ne viene sorpreso, lo difende, viene invitato a maggiore elasticità, viene condotto su scelte e strade che non avrebbe fatto sue. Il tutto sempre in una condizione di ascolto profondo tra lui e Dio. La fede, insomma, non è tanto questione di obbedienza alle regole, ma di relazione. Una relazione che richiede ascolto e fiducia, soprattutto quando muove a compiere scelte non condivise, o addirittura nuove scelte che appaiono diverse o contrarie a quelle precedenti.

La sorpresa è che tutto ciò parte da una donna sterile che entra con Dio proprio in una relazione di fiducia di questo tipo, nella quale si sente libera di sfogarsi in modo autentico.

La ciliegina sulla torta è che i genitori del più grande sacerdote e giudice della storia d’Israele sono due persone che, contro le aspettative della loro cultura, si amano davvero, al punto che Elkana si affligge per la sofferenza di colei che, secondo le convenzioni del suo tempo, non stava facendo il proprio dovere (dargli cioè dei figli).

Là dove trova umanità autentica, vera, che ama, Dio entra più volentieri.

Angelo Fracchia
(Camminatori 07 – continua)




Rut. Amore contro ogni convenzione


Nel turbinio di dibattiti mondani di questo anno, c’è chi ha fatto notare che il legame tra Camilla Parker Bowles e Carl Windsor (anche noto come Carlo iii re del Regno Unito) avrebbe avuto tutte le caratteristiche per piacere all’industria cinematografica e alla nostra cultura romantica, eccetto una: i due innamorati, infatti, che sono legati da affinità sportive e intellettuali, ma osteggiati dalle famiglie perché lui nobile e lei no, e che, costretti a matrimoni «convenienti», non si perdono mai di vista finché un giorno finalmente coronano il loro sogno d’amore, diventando addirittura sovrani, non sono belli.

Per il nostro mondo culturale, la bellezza fisica, secondo i canoni correnti, è decisiva per far appassionare le persone alla vicenda, e per far accettare un amore non convenzionale (che causa anche gravi sofferenze ad altri).

Ogni cultura ha i suoi cliché di accettabilità. L’antica cultura biblica non fa eccezione, anche se si sforza a volte di sfidare i propri stessi criteri.

In quel mondo, infatti, le barriere da non superare nelle relazioni e nei matrimoni, erano quelle del clan, o almeno del popolo di appartenenza.

Anche quel mondo (come il nostro) era poi ben consapevole che la relazione tra suocera e nuora non era normalmente la più serena e pacifica. Ma nella Bibbia troviamo una storia che manda in crisi ogni cliché.

Una famiglia sfortunata

Un uomo di Betlemme di Giuda, spinto dalla fame, si trasferisce con la moglie Noemi e due figli nelle pianure di Moab (nell’attuale Giordania). Elimèlec deve essere veramente disperato, perché tra moabiti e giudaiti non è mai corso buon sangue, si sono combattuti in diverse guerre e si disprezzano a vicenda. Quando la tradizione di Genesi presenta Moab come il figlio di Lot nato da un incesto (Gen 19,30-37), esprime la consapevolezza di quanto i due popoli si assomiglino (Lot, padre di Moab, è nipote di Abramo), e, allo stesso tempo, quanto odio ci sia tra i due vicini al di qua e al di là del Giordano.

A Moab quell’uomo non solo trova lavoro, ma anche due mogli per i figli, e qui i benpensanti di Giuda non avrebbero potuto far altro che scuotere il capo, disapprovando la scelta. Chissà se poi avranno detto «Ben gli sta» quando sono venuti a sapere che, uno dopo l’altro, sono morti il capofamiglia e i suoi due figli senza lasciare eredi.

Il mondo antico non è tenero nei confronti di chi si trova senza protezioni familiari. La legge molto spesso non tiene conto delle persone sole. E per Noemi trovarsi vedova, senza figli né nipoti, in una terra straniera, accompagnata solo da due nuore, straniere anch’esse, è la peggiore situazione possibile. Lei, consapevole e generosa, invita le nuore a tornare alla loro famiglia di origine, sperando che possano essere nuovamente accolte, almeno loro. In quanto a lei, proverà a tornare nel proprio paese, sapendo di avere davanti una sorte di elemosina e stenti.

Le nuore straniere, membri di un popolo odiato e disprezzato dal suo, in realtà, si mostrano tenerissime e delicate, in quanto, innanzitutto, rifiutano di abbandonare la suocera. Poi una delle due, piegata dalle insistenze e magari anche dalla consapevolezza di tutto ciò che avrebbe altrimenti dovuto sopportare, accetta l’offerta di Noemi. L’altra, invece no. Rut, duramente, pone fine alle discussioni: «Dove andrai tu, andrò io; dove ti fermerai, mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo; il tuo Dio sarà il mio Dio» (Rt 1,16). Non ci viene detto il perché di questa dura presa di posizione di Rut. Noi proveremo, alla fine, a ragionarci su, sapendo però che sono ipotesi nostre, non del testo.

La ruota gira… e la si aiuta

Noemi ritorna, quindi, nella terra di Giuda, accompagnata dalla nuora Rut. Sono entrambe vedove. Come prevedibile, una volta tornate nella regione d’origine della suocera, nessuno si prende cura di loro. Certo, tutta Betlemme va in subbuglio alla notizia (Rt 1,19), ma in ultimo le due donne devono rassegnarsi ad andare a chiedere l’elemosina.

O, per meglio dire, a spigolare. Il testo precisa, infatti, che ritornano in Giudea al tempo della mietitura dell’orzo (Rt 1,22), ossia in primavera, e Rut si propone subito come spigolatrice. Nella mietitura capita che qualche spiga cada per terra, o venga lasciata indietro, soprattutto agli orli dei campi. La legge mosaica prevede che queste spighe non dovebbano essere raccolte, ma lasciate ai «poveri e forestieri», come parziale rimedio alla loro miseria (Lv 19,9; 23,22).

Il caso (o la Provvidenza?) vuole che Rut capiti a spigolare nel campo di un uomo buono, che, informatosi su di lei, e venuto a sapere del gesto di affetto che sta offrendo alla suocera, la prende sotto la sua ala protettrice.

Booz, questo è il nome dell’uomo, la invita a tornare a spigolare da lui, garantendole di aver dato ordine che nessuno la molesti (è una giovane donna vedova, senza protezione: la preda migliore) e che la lascino attingere dall’acqua dei lavoratori (Rt 2,8-9). Poi, addirittura, contro tutti i propri interessi economici, ordina ai mietitori di lasciare cadere apposta delle spighe dove lei sta raccogliendo (Rt 2,16).

In effetti, alla fine della giornata, dopo aver battuto l’orzo, Rut ne porta a casa quasi un’efa, che sono circa venti chili (Rt 2,17). Non a caso Noemi, vedendola arrivare con tutto quel peso, non può che stupirsi e le chiede che cosa le sia successo.

Alle spiegazioni, Noemi si illumina ancora di più e progetta un piano astuto e, in fondo, anche non del tutto corretto.

Il generoso padrone del campo d’orzo, infatti, è un parente del marito di Noemi, e potrebbe «riscattare» Rut prendendola come sposa e assicurando al primogenito il nome del marito defunto, cioè, in definitiva, assicurare una discendenza a Elimèlec. È la cosiddetta legge del levirato, sulla quale anche Gesù è stato questionato (Dt 25,5-6; Mt 22,25-28). Ma anziché chiedere serenamente a Booz se sia disposto a compiere questo dovere, Noemi, per garantire il successo a Rut, la spinge a un inganno.

La invita ad aspettare l’ultimo giorno di mietitura, quando gli uomini «si rallegreranno il cuore» (Rt 3,7), formula che indica chiaramente il bere fino a ubriacarsi. A quel punto Rut deve sdraiarsi accanto a Booz, «dalla parte dei piedi» (Rt 3,4). Con la parola «piedi», nella lingua ebraica, a volte ci si riferisce eufemisticamente ai genitali. Praticamente Noemi invita Rut a coricarsi davanti a Booz quando lui sarà ubriaco, confidando nel fatto che al mattino l’uomo non si ricordi di quanto accaduto nella notte e, vedendola sdraiata ai suoi piedi, deduca di aver approfittato della giovane vedova.

Le conseguenze

Le cose andranno persino meglio. Booz, svegliandosi a metà notte, si trova davanti Rut, che lo invita a «stendere il suo mantello» su di lei (Rt 3,10): Rut non si limita, quindi, a lasciar intendere a Booz che potrebbe essere successo qualcosa, ma lo invita a farlo.

Lui, in realtà, si comporta da signore: la tiene a dormire nell’aia quella notte, ma la fa alzare mentre è ancora buio, perché nessuno pensi male di lei, le riempie il sacco di orzo per la suocera e si impegna a superare tutti gli intoppi che ancora ci sono.

Alla fine, Booz sposerà Rut, e da loro nascerà il nonno del re Davide (Rt 4,17).

Per gli ebrei del tempo che leggono questa storia ritenendo fondamentale la piena purità di sangue dei membri della propria comunità, è uno shock scoprire del sangue straniero nel re perfetto. E non solo sangue straniero, ma addirittura moabita, appartenuto a una donna generosa e pronta a rischiare e pagare di persona per amore di chi, solitamente, non ci si aspetta di dover amare.

Sarà forse questo il motivo per cui Matteo, nella sua genealogia di Gesù, inserisce anche Rut (Mt 1,5): anche se attraverso modalità che possono sembrare discutibili o indecenti, infatti, lei, straniera, ha mostrato il suo affetto per la propria suocera e ha portato a termine un dovere religioso nei confronti del proprio marito morto, senza curarsi del proprio interesse o addirittura della propria formale rispettabilità.

Modello di fede?

Perché Rut compie queste scelte?

Può darsi che abbia intuito, nella spiritualità di suo marito o della suocera, un Dio che ama le persone, che si prende cura di chi non è tutelato da nessuno, che vede il fondo del cuore e non le forme esteriori?

Non lo sappiamo. Possiamo però allietarci intanto di un racconto in cui tutti i personaggi principali sembrano buoni.

Noemi vorrebbe salvare la vita delle sue nuore, pur non avendo nulla da offrire; Rut non la vuole abbandonare, emigra in esilio con lei e inizia ad andare a spigolare per garantire a entrambe qualcosa da mangiare; mette a rischio la propria incolumità e dignità, esponendosi e lavorando sodo nella spigolatura; Booz la nota e la protegge; Noemi organizza un inganno ai danni di Booz per garantire alla nuora una nuova vita; Booz, messo di fronte a un inganno, non solo non si offende ma si adopera per portare a compimento il progetto delle due donne. C’è un’umanità delicatissima, che si muove con attenzione e inventiva senza tenere conto delle leggi formali ma guardando le persone che ha davanti.

Tutti costoro si muovono senza quasi mai tirare in ballo la legge divina, ma mostrando in tutti i loro gesti di scommettere sulle persone e sul futuro. Non si preoccupano di giustificare le loro azioni con un richiamo formale a Dio, ma iniziano a muoversi agendo come Dio, mettendo al centro le relazioni e gli esseri umani più fragili.

Rut forse non conosce la legge del Dio d’Israele. Sicuramente non si affida alle sue regole da tutti accettate, che la rimprovererebbero. Si fida, invece, di una presenza viva, che sa cogliere oltre le leggi, oltre la forma, il cuore delle persone.

Se la fede fosse sapere una serie di verità, la nostra vita spirituale non sarebbe diversa dal buon rendimento di uno studente interrogato in storia.

Non si tratta però di conoscere e ricordare delle cose, ma di fidarsi, di affidarsi a Dio, e quindi, quasi senza accorgercene, all’umanità, al futuro, alla bontà delle persone. Questo è ciò che fanno Noemi, Rut e Booz, anche se tra tutte spicca Rut, giovane donna senza esperienza, che ha avuto un marito per poco tempo, senza figli, disposta ad andare in esilio per non abbandonare la propria suocera. E premiata con un marito, dei figli e un nipote re.

Angelo Fracchia
(Camminatori 06-continua)




Certosa missionaria. In alto e in profondità


Tra le realtà belle dei Missionari della Consolata in Europa c’è n’è una speciale: la Certosa di Pesio. Un luogo di preghiera nato 850 anni fa e abitato fino al 1802 da monaci certosini. Da quasi novant’anni è parte del patrimonio dei figli del beato Allamano: casa di spiritualità che irradia il Vangelo nel mondo.

Quando l’istituto dei Missionari della Consolata è nato nel 1901, la Certosa di Santa Maria, più nota come Certosa di Pesio, aveva già 728 anni.

Posta a 859 metri di altitudine nell’alta Valle Pesio, sulle Alpi Marittime in provincia di Cuneo, non distante dal confine francese, per diversi secoli era stata il punto di riferimento spirituale e materiale per l’intera valle.

Dal 1802, a causa della soppressione degli ordini monastici da parte di Napoleone, non era più un luogo di preghiera, ed era diventata per alcuni decenni un centro idroterapico, ospitando personaggi come Camillo Benso di Cavour, Giovanni Giolitti, Massimo d’Azeglio, ma cadendo poi gradualmente in disuso.

Quando la sua lunga storia si è intrecciata con quella dei Missionari della Consolata era il 1934: le sue imponenti strutture sviluppate su tre lati del grande chiostro centrale e aperte in direzione della montagna, i 250 metri di porticato con le sue colonne romaniche sul quale si affacciavano le celle dei monaci, le sue due chiese abbaziali, e il resto delle costruzioni sorte dal grande lavoro dei certosini, erano in stato di abbandono.

Oggi è un luogo aperto a tutti che accoglie centinaia di persone per esperienze di silenzio, ricerca di Dio e riscoperta della bellezza dell’annuncio del Vangelo.

Piemonte, Kenya, Mongolia

Incontriamo in videochiamata padre Daniele Giolitti, superiore della comunità Imc della Certosa. È fine aprile: il freddo dell’inverno inizia a mollare la presa, e i colori della primavera, ci dice, si mostrano luminosi.

Classe 1974, alto e snello, barba castana brizzolata, occhiali dall’esile montatura in metallo. Voce calda. Lo sguardo tranquillo e, all’apparenza, un po’ timido. Padre Daniele ha l’aspetto e il modo di fare di un «vero muntagnin» cuneese. Nello schermo lo vediamo vestito con camicia e maglione di pile. Per il resto, lo immaginiamo come tutte le volte che lo abbiamo incontrato: jeans e scarponi.

Padre Daniele è originario di Verzuolo, in provincia di Cuneo. Ha conosciuto i Missionari della Consolata a Torino durante gli studi da ingegnere civile.

Nel ‘98 ha compiuto il suo primo viaggio in Kenya per lavorare alla tesi di laurea sul noto acquedotto di fratel Giuseppe Argese.

Dopo quel viaggio ha fatto il noviziato a Rivoli (To), poi due anni di filosofia a Roma e quattro di teologia a Nairobi. «L’ordinazione diaconale è stata nel 2007 a Wamba – racconta -: una bellissima esperienza con i nomadi samburu nel nord del Kenya».

L’ordinazione sacerdotale nel 2008, proprio alla Certosa di Pesio. «Qui ho ricevuto la destinazione della Mongolia, dove poi sono stato per sei anni. Un’esperienza ricca con l’attuale cardinale Giorgio Marengo.

Poi sono rientrato in Italia, e nel 2014 mi hanno destinato alla Certosa. Sono contento di essere tornato, dopo 12 anni fuori dall’Italia, per un po’ di tempo, alle mie montagne del Piemonte».

La comunità di missionari che abita in Certosa e la tiene viva, oggi è composta da sei confratelli: oltre a padre Daniele, «fratel Gaetano Borgo, nato nel 1939, ha fatto 44 anni in Kenya; padre Lino Tagliani, del 1943, che arriva dalla Colombia; padre Beppe Cravero, del 1956, anche lui dalla Colombia; padre Ermanno Savarino, del 1977, dal Portogallo e, infine, arrivato da poco, fratel Gerardo Secondino, del 1959, che è stato in Mozambico e poi, ultimamente, in Portogallo».

Spalatura della neve dai tetti, febbraio 1972, dopo nevicata eccezionale. Per l’occasione sono venuti anche dal seminario di Torino a dare una mano.

Luogo di ricerca

Quest’anno ricorrono gli 850 anni dalla fondazione della Certosa. Per i Missionari della Consolata, ci dice padre Daniele, è una gioia celebrarli e, allo stesso tempo, una responsabilità che chiede loro un grande lavoro.

«La Certosa di Pesio è uno dei luoghi più insigni del Piemonte e monumento nazionale. Per noi rappresenta anche una parte importante della nostra identità: qui, infatti, si sono formate generazioni di miei confratelli. La Certosa è stata sede del noviziato fino agli anni ‘80. Poi, negli ultimi 30 anni, è diventata una casa di spiritualità aperta a tutti: giovani, famiglie, religiosi.

La nostra missio oggi è quella di ospitare e accogliere persone bisognose, alla ricerca di Dio, del silenzio, della meditazione.

La frenesia e i ritmi accelerati della vita spingono molti a cercare luoghi come questo. Abbiamo bisogno di decelerare e di cercare le cose essenziali della vita, quelle che contano e che riempiono di senso il cuore.

Questo è uno spazio pieno, uno spazio dello spirito nel quale la gente percepisce che c’è Dio».

Gruppo di novizi anni Sessanta

Cemento e cazzuola

La Certosa di Pesio è stata terza tra le molte a essere fondate dai Certosini di san Bruno. «Questo luogo – spiega padre Daniele – è nato nel 1173 da un gruppo di monaci provenienti dalla Gran Certosa di Grenoble.

Posero la prima pietra lungo il fiume Pesio quando la valle era quasi disabitata, e realizzarono il monastero che divenne un polo di vita religiosa, culturale e sociale importantissimo.

Oltre alle strutture proprie della Certosa, il monastero comprendeva anche alcune grange (fattorie legate all’abbazia, ndr) sia in montagna che in pianura. Oggi si potrebbe dire che i monaci hanno trasformato l’ambiente della valle in modo sostenibile.

Dopo la soppressione degli ordini monastici, la Certosa è rimasta vuota, poi è stata trasformata in uno stabilimento idroterapico, infine è stata di nuovo abbandonata. Nel 1934 l’Imc acquistò un edificio fatiscente».

I primi missionari che l’hanno abitata e che hanno iniziato a ristrutturarla sono stati i fratelli Imc. D’estate andavano ad aiutarli anche i seminaristi del liceo, della filosofia e della teologia.

Negli anni ‘41 e ‘42 il governo l’ha sequestrata per ospitare anziani in fuga dalla guerra.

Dopo di che, i lavori di ricostruzione sono ripresi, e il primo anno di noviziato è stato il ‘49.

I Missionari della Consolata, oltre a pregare e studiare, quindi, hanno usato cemento e cazzuola. Padre Daniele sottolinea che quegli stessi missionari, dopo l’esperienza in Certosa, sono poi partiti per i quattro continenti dove hanno costruito scuole, ospedali, acquedotti. «È bello che da questo antico luogo di spiritualità monastica si sia diffusa la missione nel mondo». Poi, tornando alle esigenze pratiche, lancia un piccolo appello: «Ancora oggi, le sfide nella Certosa, non mancano: ora sono in cantiere il progetto di rifacimento delle facciate e il restauro dell’affresco di San Bruno. Per sostenere le spese di gestione abbiamo realizzato, cinque anni fa, una centrale idroelettrica, installando una nuova turbina sull’impianto dell’antico mulino certosino: energia pulita dall’abbon-
dante acqua del Pesio che ci aiuta a coprire una parte delle spese da affrontare. Ma da soli non ce la facciamo: tanti lavori sono stati fatti e verranno fatti solo grazie all’aiuto dei benefattori».

Missionari della Consolata nel 2012 celebrano nell’antica chiesa abbaziale.

Le porte si aprono

Nel settembre 1982, ci dice ancora padre Daniele per concludere l’excursus storico, la Certosa ha smesso di essere sede del noviziato Imc, ed è diventata casa di ospitalità per gruppi parrocchiali, scout, associazioni, anche laiche, campi scuola, ciascuno con il suo programma.

Nel 1995 la direzione generale l’ha destinata in modo più specifico alla spiritualità missionaria. È proseguita, quindi, l’ospitalità per gruppi, ma i missionari hanno iniziato anche a offrire proposte proprie: incontri mensili, ritiri estivi, convegni, esercizi spirituali, settimane bibliche. Allo stesso tempo, però, la Certosa non ha smesso di avere una funzione anche «interna», continuando a essere un luogo nel quale i confratelli di padre Daniele vanno per periodi di riposo e preghiera, proprio nell’ottica del nutrimento fisico e spirituale necessario per annunciare il Vangelo nel mondo.

Certosa «in uscita»

Negli 850 anni della sua storia, a parte la parentesi laica dal 1802 al 1934, la vita della Certosa è stata quasi sempre interna, di clausura. L’apertura data dai missionari della Consolata, soprattutto con l’avvio delle accoglienze, che ha fatto passare l’antico monastero da una dimensione contemplativa a una missionaria e attiva, ci sembra una vera rivoluzione.

«A volte gli opposti si toccano – continua padre Daniele -. Apparentemente, la vita contemplativa, quella di clausura dei monaci, e quella dei missionari in uscita, che girano per il mondo, sono agli estremi opposti, ma in realtà sono in continuità tra loro. E questo a me riempie il cuore dando un profondo significato a ciò che sto facendo.

L’ora et labora dei monaci, anche noi missionari lo viviamo nei progetti, nella promozione umana, e in una spiritualità che ogni giorno è da rinnovare.

La continuità si potrebbe vedere anche nello specifico carisma dei monaci certosini. Il loro fondatore San Bruno li aveva pensati eremiti, ma nella vita di un cenobio. Erano, e sono, eremiti con un senso di comunità.

Il cenobio consisteva nel ritrovarsi una volta al giorno per l’eucaristia, e una volta alla settimana per il cosiddetto spaziamento, una passeggiata a due a due nei boschi qui intorno.

Tutti siamo chiamati a riscoprire questa dimensione di vita: chi riesce a vivere bene da solo, riesce a vivere anche con gli altri e, viceversa, chi vive bene con gli altri deve ritagliarsi momenti di solitudine e di silenzio per portare avanti la propria missione.

Con i Missionari della Consolata le porte della Certosa si sono aperte. Il nostro compito, bello per me, è di offrire questi spazi a chi fatica a trovare profondità. Questo è un luogo che parla al cuore dell’uomo e offre non delle risposte, ma delle domande di senso, sul senso della vita».

Bellezza, via di missione

In occasione degli 850 anni, i Missionari della Consolata, insieme a vari enti, tra cui la provincia di Cuneo, il comune di Chiusa Pesio, la regione Piemonte, l’Ente di gestione aree protette Alpi Marittime, hanno ideato a un nutrito calendario di eventi: giornate spirituali e trekking meditativi, concerti, convegni, escursioni e visite guidate.

A giugno è previsto il convegno intitolato «Bellezza come via di evangelizzazione». Chiediamo a padre Daniele il motivo di questo tema: «La bellezza è lampante in questo contesto dove l’arte e la natura si esaltano a vicenda. Come dice papa Francesco in Evangelii gaudium: “Annunciare Cristo significa mostrare che credere in lui e seguirlo non è solamente una cosa vera e giusta, ma anche bella, capace di colmare la vita di un nuovo splendore e di gioia”. Noi crediamo che la bellezza vera può toccare le corde profonde del cuore e aiutare a seguire il Vangelo come una cosa bella. Non solo come uno sforzo volontaristico, ma scoprendo quella dimensione di gioia e bellezza che, a volte, dimentichiamo. La bellezza ci porta in alto e in profondità nella nostra vita. E quindi diventa via di evangelizzazione».

I bisognosi dell’Europa

Nell’immaginario collettivo, quando si parla di missione, normalmente si pensa ai missionari che aiutano i poveri, bisognosi dal punto di vista materiale. Padre Daniele, all’inizio di questa chiacchierata, ha detto che in Certosa i missionari accolgono bisognosi, riferendosi però a bisogni di altro tipo: di spirito, profondità, senso.

«Questa forse è una delle nuove dimensioni della missione nella nostra Europa, ma anche in tutto il mondo. Nella mia piccola esperienza, vedo che c’è un tremendo bisogno di essere ascoltati. Le persone hanno bisogno di qualcuno che stia con loro e che possa ascoltare le loro storie. Purtroppo, sono sempre meno quelli che hanno tempo o possibilità per farlo.

Una casa di spiritualità come questa è un luogo per l’ascolto.

Personalmente anche io sono stato aiutato qui alla Certosa dai missionari che c’erano all’epoca e che mi hanno offerto un accompagnamento spirituale.

Gli incontri oceanici sono importanti, ma non bastano.

Trovo più importante, invece, che le persone, i giovani, possano fare un cammino personale di dialogo nel quale, se c’è una certa sensibilità da ambo i lati, si può andare davvero in profondità, toccando anche punti difficili che ciascuno si porta dentro.

Questo accompagnamento crea una relazione che può diventare una vera amicizia spirituale.

Ritengo che l’apertura all’ascolto realizzi veramente lo stile missionario, uno stile che non dimentica i bisogni materiali, ma che è capace di guardare anche i bisogni del cuore, la solitudine, le ferite interiori che, a volte, sono più devastanti della povertà materiale. Solo con un dialogo profondo si possono affrontare.

Qui accogliamo anche persone fragili che a volte non trovano spazio nelle parrocchie o in forme di Chiesa troppo strutturate. Persone che hanno difficoltà a credere, ma anche che vivono traumi o fatiche particolari, come ad esempio una qualche forma di dipendenza».

Un luogo per tutti

Tra le attività proposte dai Missionari della Consolata in Certosa, ci sono corsi di preparazione al matrimonio, esercizi spirituali per laici e religiosi, trekking spirituali, la scuola di preghiera per giovani e giovanissimi, i fine settimana per famiglie e adulti, il deserto giovani, il ritiro di agosto per famiglie.

Il target di persone che frequentano l’antico monastero è ampio.

«La Certosa è aperta tutto l’anno. È bello accogliere persone che stanno compiendo una ricerca e che vogliono fare un cammino serio di vita cristiana.

Quest’anno stiamo facendo un cammino sugli incontri di Gesù, sottolineando che la spiritualità vera è vera umanità: siamo chiamati ad approfondire l’umanità di Cristo per umanizzare la nostra vita.

Poi ogni anno proponiamo iniziative come il capodanno, il triduo pasquale, una settimana biblica nella quale quest’anno affronteremo la missione tramite le lettere di san Paolo e l’inizio della comunità cristiana».

 

Un piccolo Tabor

Nel contesto del ripensamento che i Missionari della Consolata stanno compiendo sulla propria missione in Europa, il ruolo che la Certosa si ritaglia è molto particolare. «Possiamo citare alcuni documenti dell’Imc che ci invitano a essere sempre più una presenza significativa di ricerca di senso e spiritualità in funzione di una crescita nell’umano.

L’icona del monte è molto appropriata per questo luogo: la Certosa è un piccolo Tabor nel quale uno può raccogliersi insieme ad altri per fare l’esperienza di una trasfigurazione, l’esperienza di un Dio vicino. È un luogo abitato dove si respira una presenza secolare di preghiera.

Come i certosini avevano il motto di san Bruno che recitava “la croce resta fissa mentre il mondo ruota”, anche noi missionari della Consolata vogliamo costruire la nostra vita attorno a ciò che è essenziale (il Vangelo, il silenzio, la relazione con Dio e con gli uomini) e condividerlo con tutti».

Luca Lorusso


Per un tuffo nel passato

Dalla Certosa ai monti della Valle di Pesio, e tanto altro. Uno squarcio nella vita degli «apprendisti» missionari negli anni Quaranta.
Un eccezionale documentario in bianco e nero di padre Alfredo Deagostini, ora conservato e digitalizazto dall’l’Archivio Nazionale Cinema Impresa di Ivrea, e reso disponibile sul canale Youtube Cinemareligioso nel Fondo IMC-Istituto Missioni Consolata.

 




Raab: una donna sorprendente


Anche se le donne citate nella Bibbia, Antico e Nuovo Testamento, non sono moltissime, spesso però ricoprono un ruolo molto significativo o sono destinatarie di una particolare attenzione da parte dell’autore. Quattro di loro, come abbiamo già scritto nella puntata di aprile, vengono anche inserite dall’evangelista Matteo, a sorpresa, nella genealogia di Gesù (Mt 1,1-16).

Nel mese di aprile ci eravamo lasciati affascinare in particolare, tra quelle quattro donne, da Tamar. Almeno un’altra, tuttavia, merita di essere approfondita meglio, anche perché è normalmente poco conosciuta.

Il suo nome è Raab (o Racab, a seconda di come si decide di traslitterare una consonante ebraica che nella nostra lingua non esiste), e la sua presenza in una genealogia così importante non può non stupirci. Raab, infatti, è una prostituta e abita a Gerico al tempo della conquista dell’antica città da parte degli israeliti guidati da Giosuè, e non è, quindi, ebrea.

Un’invenzione letteraria?

Gerico è una città importante fin da tempi antichissimi. Posta nella valle del Giordano, vicino alla sua foce nel Mar Morto, gode della presenza di una sorgente di acqua che ne fa un’oasi in uno dei contesti più afosi e profondi del mondo. Per questo è stata abitata dai tempi più antichi, sia pure in modo non continuo, fortificata numerose volte e altrettante distrutta.

Nel libro di Giosuè, al capitolo 6, si racconta il crollo delle mura ciclopiche della città, che avviene per opera divina, senza che gli ebrei debbano combattere.

Questo racconto dell’Antico Testamento, già da decenni, è stato messo in dubbio, sia pure con qualche dibattito, dagli studi archeologici che avrebbero dimostrato che al tempo in cui verosimilmente gli ebrei potrebbero essere entrati nella terra di Canaan, XIII-XII secolo a.C., Gerico non era abitata. Il grande racconto della sua distruzione sembrerebbe essere stato inventato.

D’altronde, negli stessi capitoli (Gs 7-8), si racconta anche la distruzione della vicina città di Ai, che era però stata abbandonata intorno al XVIII secolo a.C. e mai più ricostruita.

Proprio su questi testi, in effetti, si era scatenata nel XVIII secolo d.C.  una accesa polemica tra alcuni biblisti e alcuni ricercatori. Gli archeologi, infatti, dicevano che la datazione degli scavi testimoniava che Gerico non poteva essere stata distrutta al tempo in cui si sarebbe dovuto datare l’episodio raccontato nel libro di Giosuè, e che quindi la Bibbia non poteva essere utilizzata come fonte storica affidabile.

Chi difendeva il testo sacro, invece, tentava di armonizzare i dati archeologici con quelli biblici, con esiti, però, poco riusciti.

Un testo religioso

Facendo questo discorso, non dobbiamo dimenticare che i libri della Bibbia sono molto diversi tra loro: alcuni hanno pretese e dignità di libri storici veri e propri (sia pure se scritti con le modalità dell’antichità, che non sono le nostre), altri sono racconti che tendono più verso il leggendario. Gli uni e gli altri, peraltro, di solito non hanno come primo interesse quello storico, ma il senso religioso.

È probabile che i racconti di Gs 2-8 siano nati come resoconti popolari leggendari che volevano spiegare il motivo della presenza di ruderi imponenti di città che un tempo dovevano essere ampie e poderose, difese da mura impressionanti. Chi e come aveva potuto abbatterle? Di certo non sarebbe stato possibile senza l’intervento divino.

Peraltro, il racconto della conquista di Gerico e di Ai è l’occasione per l’autore sacro per mostrare la differenza tra un’azione compiuta fidandosi di Dio (nella conquista di Gerico, Gs 2 e 5, le mura crollano senza che nessuno le tocchi) e una compiuta affidandosi ad amuleti magici e alla forza umana (la presa di Ai avviene solo dopo una sanguinosa sconfitta e dopo che gli israeliti si sono liberati dagli idoli che contestano la centralità di Dio: Gs 7-8).

All’interno di questi racconti, e in particolare di quello della presa di Gerico, si inserisce l’episodio di Raab, che di certo voleva edificare e incoraggiare e che, probabilmente, voleva suggerire uno stile di comportamento.

Ed è questo che ci interessa in particolare.

Un aiuto imprevisto

Nel capitolo 2 del libro di Giosuè, si narra che il condottiero, successore di Mosè, invia due esploratori a indagare sulle misure di fortificazione della città. Costoro si rifugiano in casa di Raab, di cui il testo ebraico dice che è una prostituta. Già alcune traduzioni antiche, forse per ridurre lo scandalo, la presentano come locandiera (professione che peraltro spesso si trovava a collaborare con la prostituzione). Di certo Raab non è una donna ricca né potente: la sua casa si trova a ridosso delle mura della città, ossia là dove più si risentiranno le conseguenze negative di un assedio. A quei tempi, accetta di vivere vicino alle mura chi non può permettersi un posto migliore. E la presenza in quelle aree di poveri o trafficanti allontana ancor più da esse le persone ricche di mezzi, conoscenze altolocate o ambizioni.

Insomma, la dimora di Raab non può di certo dirsi lussuosa o privilegiata. Non stupisce che i due esploratori di Giosuè decidano di fermarsi proprio lì: nei bassifondi della città è più facile passare inosservati.

Il re di Gerico, però, già preoccupato per l’avvicinarsi degli ebrei, apparentemente invincibili, viene informato che in città sono giunti due forestieri e sospetta (a ragione) che possano essere delle spie. Sguinzaglia quindi le sue guardie. Queste vengono a sapere dove alloggiano i due esploratori e si recano da Raab pretendendo che lei li consegni loro affinché vengano interrogati, torturati e magari uccisi. Lei, però, che ha nascosto gli israeliti dentro ceste di biancheria, svia le guardie del re sostenendo che i due sono già fuggiti quando stava per scendere la notte.

Salvatrice salvata

Quando le guardie si sono allontanate, Raab informa i due dello scampato pericolo e chiede loro che sia risparmiata la vita sua e dei suoi familiari quando gli ebrei conquisteranno Gerico. Lei, come altri abitanti della città, sa quali grandi imprese Dio ha compiuto con loro, e non vuole opporre resistenza, anzi vuole unirsi al popolo di quel Dio meraviglioso. Di più, si ricorda di salvare anche i suoi parenti, di cui sappiamo che non vivono con lei e, forse, immaginiamo, possono anche trovare la sua professione disdicevole.

Gli esploratori le promettono che saranno risparmiati tutti quelli che saranno radunati nella casa alla cui finestra, come segno di riconoscimento, porranno un filo di colore scarlatto.

Quindi Raab li fa scappare calandoli dalla finestra fuori dalle mura della città, le cui porte, nel frattempo, sono state chiuse, e li invita a nascondersi per tre giorni, prima di tornare nel loro accampamento.

Quando, pochi giorni dopo, le mura della città di Gerico cadranno davanti agli israeliti, che si limiteranno a suonare le trombe lungo una specie di processione, Giosuè vieterà che sia fatto del male a Raab e famiglia, che «è rimasta in mezzo ad Israele fino ad oggi» (Gs 6,25).

Ricordata nel Nuovo Testamento

Raab sarà citata anche in altri due libri del Nuovo Testamento. La lettera di Giacomo insiste sul fatto che la fede ha bisogno di farsi concreta, di tradursi in atti pratici, se non vuole essere astratta o morta, e riporta, pure la vicenda di Raab, come esempio di fiducia che si traduce in fatti (Gc 2,25).

La lettera agli Ebrei, quando dispone un elenco di persone capaci di scommettere e rischiare fidandosi della promessa affidabile di Dio, esempi di fede luminosa, raccoglie quasi tutti nomi maschili, ma vi inserisce anche quello di Raab (Eb 11,31).

Proprio il Nuovo Testamento è responsabile di una curiosità abbastanza strana. In entrambi i passi citati, infatti, viene precisato il fatto che Raab era «prostituta», con un termine specifico che altrove si può leggere solo nell’Apocalisse, dove è riferito alla Bestia malvagia che si contrappone all’opera di Dio (Ap 17,1.5.15.16; 19,2).

Sembrerebbe che questo voglia indurre a pensare male di Raab (prostituta, traditrice), ma si tratta in realtà di un giudizio esteriore, contraddetto dalla sua scelta e opera: proprio per ciò che ci si poteva aspettare da lei, il suo gesto acquista il senso di una fiducia piena e totale, anche contro ogni apparenza.

Il senso di un racconto

Se la storia della conquista di Gerico è stata inventata, dobbiamo pensare che quella di Raab sia vera?

Non lo sappiamo. Sappiamo però che, anche se fosse inventata, si tratterebbe di una vicenda autentica, utile, che parla di Dio e dell’uomo che entra in relazione con lui. Il suo senso, in origine, doveva allora essere molto chiaro a tutti. L’ingresso del popolo ebraico nella terra di Canaan, dicono gli storici, deve essere stata non tanto una conquista, ma una lenta infiltrazione. Il libro di Giosuè, però, preferisce presentarla come una lotta armata (benché l’area interessata agli scontri sia di fatto molto piccola). Questo perché il racconto di una conquista era più semplice da capire per gli israeliti contemporanei all’autore del libro, e poi perché favoriva la presa di posizione: con Dio o contro di lui.

La vicenda di Raab sta a dimostrare che chi si schiera dalla parte del Dio d’Israele, aiutandone i protetti, viene protetto a sua volta, perché l’adesione a Dio, persino in tempi antichi, non dipende dall’appartenenza a un popolo, dal sangue, dalla genealogia, ma dalla presa di posizione, dal decidersi per lui, dal fidarsi di lui.

Matteo (Mt 1,5), poi, inserisce Raab nella sua genealogia forse anche per un altro motivo: la vicenda di Gesù si iscrive in una storia davvero umana, fatta di impurità, di scelte apparentemente sconvenienti, di situazioni imbarazzanti. Dio non si vergogna di entrare in questa umanità. Solo, cerca persone che siano autentiche, che si mettano in gioco, che sappiano prendere una decisione anche quando è per loro rischiosa. Dio sogna non degli esecutori ubbidienti e meno ancora dai pedigree purissimi, ma persone ardenti che sappiano fare scelte e mettersi seriamente e personalmente in gioco.

Angelo Fracchia
(Camminatori 05-continua)




Giuseppe Allamano e la guerra


Un libro di recente pubblicazione, dal titolo «Un’enciclica sulla pace in Ucraina», (Terra santa edizioni, 2022) raccoglie gli appelli accorati e gli inviti alla pace rivolti da papa Francesco nell’ultimo anno ai responsabili delle nazioni e a tutta l’umanità. Il testo richiama tutti, particolarmente i cristiani, a essere donne e uomini di pace, a supplicare il Dio della pace, dell’amore e della speranza affinché illumini i governanti e questi si impegnino a fare cessare la guerra nel cuore dell’Europa e in ogni altra parte del mondo. Più volte il Papa si chiede a quante tragedie l’umanità deve ancora assistere prima che si convinca che ogni guerra è soltanto una strada di morte e che attraverso di essa si hanno soltanto vinti e vittime e nessun vincitore.

Sappiamo che la guerra è un male che accompagna il cammino dell’umanità dai tempi più antichi. Giuseppe Allamano e il suo collaboratore Giacomo Camisassa hanno partecipato indirettamente alle nefaste vicende della guerra del 1915-1918, sia in Italia come in Africa, attraverso le peripezie dei loro missionari e missionarie. I prodromi della Grande guerra iniziarono già nel 1914 e si manifestarono pienamente l’anno successivo nelle gravi ristrettezze economiche e poi nel richiamo alle armi di molti studenti missionari e giovani sacerdoti. Nel 1915 complessivamente 38 missionari vennero chiamati alle armi. Confessò l’Allamano stesso, parlando confidenzialmente alle missionarie: «Dopo la partenza del primo scaglione stavo discorrendo con il can. Camisassa, ed egli, tanto più sensibile quanto meno lo dimostrava all’esterno, esclamò: “Povero Istituto!” e proruppe in pianto».

L’Allamano seguì i suoi giovani «militari» con una corrispondenza fitta, calda e paterna. Consigliò loro di arruolarsi nella sanità, offrì suggerimenti pratici per la loro vita spirituale, infuse in loro fiducia e coraggio. La nuova casa delle missionarie, non ancora totalmente terminata, venne sequestrata come deposito di medicinali per i soldati in guerra. La prima vittima del conflitto fu lo studente Baldi (+1917), costretto a combattere in prima linea. Anche tra le missionarie si ebbero alcune vittime a motivo delle ristrettezze nel vitto, per il freddo invernale e a causa delle continue trepidazioni. In Kenya, dove c’era una mortalità altissima tra gli oltre 300mila portatori locali (carriers) arruolati a forza dagli inglesi per sostenere le loro truppe contro i tedeschi del Tanganyka, i missionari e le missionarie offrirono la loro prestazione spirituale e medica a favore degli africani nei molti ospedali da campo. Ne partirono circa una quarantina, tra cui suor Irene Stefani, ora beata. Erano accompagnati anche da alcuni dei primi cristiani offertisi come volontari.

Nel novembre1918, con un solenne Te Deum cantato al Santuario della Consolata, i fedeli di Torino poterono ringraziare il Signore che l’orrenda follia della guerra era terminata. Anche l’Allamano, con cuore riconoscente, poté finalmente riabbracciare i suoi missionari ritornati dalle armi.

padre Piero Trabucco

Le spiritualità dell’Allamano

La spiritualità dell’Allamano può essere paragonata alla casa di un fabbricante di tamburi africano. In essa si trovano tamburi realizzati con diverse pelli di animali. Ogni tamburo produce un suono diverso con un proprio significato e una propria funzione.

Spirito di comunità

Definita in termini molto semplici, la spiritualità si riferisce al modo con cui viviamo la nostra vita. Essa è composta da diversi elementi che corrispondono ad altrettante scelte consapevoli fatte da individui o gruppi per vivere la propria vita in modo più profondo. Quindi la spiritualità riguarda la vita vissuta in profondità.

Se la spiritualità riguarda le scelte consapevoli, allora possiamo parlare di spiritualità al plurale perché scegliamo di vivere la nostra vita secondo vari stili.

Sulla base di quanto detto, possiamo parlare della spiritualità di Giuseppe Allamano?

Il padre fondatore parla frequentemente dello spirito di comunità. Lo faceva, per esempio, quando diceva: «Dimostri di essere veramente un missionario della Consolata se hai lo spirito della comunità e regoli la tua vita quotidiana secondo esso»; e poi ancora: «Lo spirito dà vita alle singole comunità così come a ciascun membro»; e in un’altra occasione: «Devi possedere lo spirito dei Missionari della Consolata nei tuoi pensieri, parole e azioni».

Spiritualità al plurale

Leggendo gli scritti spirituali dell’Allamano e considerando che la spiritualità ha a che fare con i modi in cui viviamo la nostra vita, possiamo riconoscere diverse spiritualità ben articolate ed espresse nella sua vita:

  1. la spiritualità mariana, che pone Maria al centro del nostro apostolato missionario come nostra madre;
  2. la spiritualità eucaristica, che ci ricorda la centralità dell’Eucaristia come fonte e culmine della nostra vita cristiana;
  3. la spiritualità missionaria che è la caratteristica distintiva di un vero missionario della Consolata;
  4. la spiritualità dell’autorità che parla del ruolo dei superiori come padri spirituali e pastori di anime;
  5. la spiritualità femminile, che sottolinea il ruolo della donna nel lavoro missionario di evangelizzazione, con Maria come modello;
  6. la spiritualità economica, che parla dell’uso corretto dei beni temporali, dei possedimenti e della loro amministrazione, basata sul voto di povertà.

Spiritualità ecologica

Un cenno particolare per la sua attualità merita la spiritualità ecologica dell’Allamano (la numero 7): essa si intravede nei suoi scritti per l’uso frequente che fa di immagini che appartengono alla natura; per lui esiste uno stretto legame fra la vita della natura e la vita delle persone e dei missionari. Così come la natura sostiene la vita nel mondo, allo stesso modo la missione sostiene la vita di un missionario della Consolata. Poi, così come la natura ha la sua origine in Dio, lo stesso succede con la missione di un missionario della Consolata.

Questo linguaggio ha profonde radici bibliche che possiamo trovare in alcune analogie proprie di San Paolo, ad esempio nella Lettera ai Romani quando, scrivendo della relazione fra Ebrei e Gentili, Paolo afferma che «se tu, infatti, dall’olivo selvatico che eri, secondo la tua natura, sei stato tagliato via e, contro natura, sei stato innestato su un olivo buono, quanto più essi, che sono della medesima natura, potranno venire di nuovo innestati sul proprio olivo!» (Rm 11,24).

Giuseppe Allamano, per esempio, applica questo linguaggio ecologico paolino quando parla dei doveri dei superiori e della necessità della formazione. Per lui i Missionari della Consolata sono come «piante tenere o delicate» nel giardino della chiesa. Ai superiori spetta allora il ruolo del «taglio e potatura» perché il Signore desidera che loro crescano bene, retti e prosperi; «tagliano tutto ciò che è difettoso» nei missionari affinché un giorno possano produrre abbondanti frutti di santificazione e lavoro apostolico.

La stessa allegoria la troviamo con l’immagine, anche questa molto biblica, della vite. «Prima che cominci la primavera, è opportuno che il contadino poti la vite. La vite piange, ma pensa ai bei rami che cresceranno, e allora lui non si pente».

Oggi, quando l’umanità sta affrontando una grave crisi ecologica, questi dettagli della spiritualità di Giuseppe Allamano sono importanti perché, anche se Dio ha creato tutto da sé, ci ha lasciato in eredità la missione della cura della Casa comune. Questa visione è pienamente in linea con l’ecologia integrale proposta da papa Francesco nella sua enciclica Laudato si’.

Come il suono di tamburi diversi

La parola «Spirito» non è sinonimo di spiritualità: lo spirito è ciò che è nel profondo, il principio vitale, ciò che definisce un’identità particolare. La spiritualità si riferisce alla nostra relazione con questo spirito, come riconosciamo e siamo aperti a uno spirito particolare. In questo senso, la nostra spiritualità si riferisce a come viviamo in relazione allo spirito che Dio ha ispirato al padre Allamano quando questi ha fondato la sua comunità.

Quindi a cosa possiamo paragonare la spiritualità dell’Allamano? Può essere paragonata alla bottega di un fabbricante di tamburi africano. Nel suo laboratorio si trovano tamburi fatti con pelli di animali diverse. Ogni tamburo produce un suono diverso con significati e funzioni diverse: c’è quello che avvisa la gente della morte di un membro importante della comunità; c’è quello che chiama a un raduno urgente e quello che annuncia il principio o la fine di un conflitto. Anche se questi tamburi sono differenti, tutti, in diverso modo, contribuiscono alla vita della comunità.

padre Charles Orero


Disponibilità, Presenza, Carità

Padre Franco Gioda, missionario per trent’anni in Mozambico dove ha conosciuto la povertà, la fame e la guerra civile che ha devastato quel paese per lunghi anni, era un grande innamorato della Consolata e del fondatore. Riportiamo alcuni suoi pensieri espressi nell’ultima omelia pronunciata poco tempo prima della sua morte avvenuta il 17 ottobre 2021.

Due icone mariane

Nel Vangelo abbiamo due icone che ci parlano della Madonna che consola: Maria che va da Elisabetta a portare Gesù, e Maria ai piedi della croce. Le contempliamo in relazione a Giuseppe Allamano, rettore del santuario della Consolata per 46 anni e formatore del clero della diocesi a cui trasmetteva «la spiritualità della Consolata», cioè non solo una devozione, ma uno stile di vita da imitare.

Questo stile di vita si caratterizza per disponibilità, presenza e delicatezza nella carità. Troviamo queste tre caratteristiche molto ben scolpite in Maria di Nazaret e anche nell’Allamano.

L’annunciazione

Maria di Nazaret nell’annunciazione vive un’esperienza profonda di Dio che si inserisce nella sua vita e dà la sua disponibilità piena alla sua richiesta. Capisce ben poco di quanto le viene chiesto, ma una cosa la intuisce e cioè che deve mettersi nelle mani di Dio e fidarsi completamente di lui.

Con la forza dello Spirito parte, quindi, e va a incontrare Elisabetta. Non va semplicemente a salutarla, ma ad aiutarla per tre mesi finché si compie la sua maternità. Ecco la disponibilità di Maria.

Poi Maria ritorna nel suo mistero di Nazaret. E qui immaginiamo il suo colloquio con Gesù, fatto di delicatezza, di carità e di dolcezza. Notiamo bene che Maria ha capito chi fosse veramente Gesù solo nella Pentecoste.

Maria sotto la croce

Nella seconda icona contempliamo Maria nel Calvario: cosa fa Maria sotto la croce? Umanamente niente. Non estrae i chiodi dalla croce, ma è presente. Lì possiamo vedere anche spiritualmente il nostro cammino di missionari: chi può cammina, va, non si ferma, e chi è anziano e non può andare rimane fermo ai piedi della croce, rimane vicino a Cristo che sta soffrendo. Cosa fa? Niente e tutto. A una persona che sta morendo si tiene la mano affinché senta che qualcuno le vuole bene. Questo è quello che fa Maria.

Disponibilità

Disponibilità, presenza e carità: tre caratteristiche che sono espressione di una spiritualità allamaniana e nostra. Innanzitutto, la disponibilità a compiere la volontà di Dio con ottimismo sapendo che è lui che dirige tutto, e lui «ha scelto te che sei peccatore, quindi fidati del Signore!».

Ci sono molte difficoltà nella vita missionaria, ma non bisogna essere pessimisti dicendo che «tutto va male», dimenticando la parabola del seminatore che «esce» non per seminare, ma per «gettare» il seme e dove cade fruttificherà, oggi e domani forse no, ma il terzo giorno forse sì.

Io stesso ho constatato in Mozambico che, dopo tanti anni, si ricordavano di «quel missionario» che era stato «in quella missione» solo poche volte e poi avevano dovuto chiuderla per la guerra… il seme è rimasto. Non giudichiamo il seme, ma affidiamoci alla forza di Dio.

Ricordiamo la comunità di Efeso che nel digiuno e nella preghiera ha sentito la voce dello Spirito: «Riservate per me Barnaba e Paolo». Quella era una comunità ottimista che riteneva valido il partire per annunciare Cristo a popoli che non lo conoscevano.

E così oggi: vale ancora il fatto che persone lascino tutto e vadano a incontrare i miliardi di persone che non conoscono Cristo.

Presenza

In tempo di guerra in Mozambico molti missionari sono andati via. Noi della Consolata siamo rimasti: è un orgoglio religioso giusto. Ed è anche grazie a questa presenza che in quel paese è nata una Chiesa nuova fondata sul lavoro dei catechisti, una Chiesa che nasce dalla base e che sta portando molti frutti di vita cristiana. Il missionario, quindi, non dice: «Qui non c’è nessuno, qui non vale la pena lavorare». La sua presenza viva, attiva, positiva è seme di nuovi frutti.

Carità

Da giovane ho parlato con alcuni preti del mio paese che avevano conosciuto l’Allamano e mi raccontavano che lui, quando in chiesa vedeva un po’ di gente, aspettava e poi si accostava a questa e a quella persona e le chiedeva se avesse bisogno di qualcosa, se voleva che pregasse per lei. Emerge, cioè, la sua dimensione personale che era «il fiore della carità», stare vicino, accompagnare, aiutare. Una dimensione che trasmetteva ai missionari con il «comando» di amare gli africani.

Le tre perle dell’evangelizzazione

Ecco, dunque, l’importanza di vivere l’icona di Maria che va a portare Gesù a Elisabetta e quella di Maria che sta ai piedi della croce. Se siamo giovani, chiediamo la grazia dell’ottimismo che cancella la sedentarietà e, se siamo anziani, chiediamo la grazia di essere come Maria ai piedi della croce che fa tutto anche se sembra che faccia niente.

In questa prospettiva noi viviamo le tre perle dell’evangelizzazione. La disponibilità: «Fai di me ciò che vuoi»; la presenza: il samaritano che si fa carico dell’uomo che giace mezzo morto lungo la strada, e il fiore della carità che lo spinge a pagare per lui.

padre Franco Gioda

 




Mosè, in faccia a Dio


Ci sono personaggi biblici che ci costringono a spiegare chi sono, per quale motivo sono importanti e dove andarli a rintracciare. Altri, invece, sono molto conosciuti e si ergono in tutta la loro maestosità spaventandoci quasi per quanto sono solenni e centrali. Tra questi spicca senza dubbio Mosè, colui che parlava faccia a faccia con Dio come con un amico (Es 33,11), colui che può riassumere in sé tutta la legge («Mosè e i profeti» è una sintesi dell’Antico Testamento utilizzata dallo stesso Gesù in Lc 16,29).

Raccontare tutto ciò che si dice nella Bibbia di questo uomo centrale è impossibile. Ma per suggerire che cosa la sua vicenda possa insegnare anche a noi e al nostro cammino di fede, può essere sufficiente concentrarci sulla sua chiamata, e poco di più.

Doppio traditore?

Le vicende della vita di Mosè sono narrate in gran parte nel libro dell’Esodo (che abbiamo approfondito nelle 20 puntate di questa rubrica durante il 2021 e 2022, ndr). Da questo veniamo a sapere della persecuzione scoppiata contro gli ebrei da parte del faraone egizio, che avrebbe richiesto alle levatrici di eliminare alla nascita tutti i maschi (Es 1). Mosè, dapprima nascosto dalla madre, viene poi affidato alle acque del Nilo e salvato dalla figlia del faraone, la quale chiamerà ad allevare questo piccolo ebreo, senza saperlo, proprio la sua madre naturale (Es 2).

Fin qui sembrerebbe una storia avventurosa e non senza precedenti. Tutti nell’antichità sapevano che era stato salvato dalle acque, allo stesso modo, anche Sharru-kin, chiamato da altri Sargon, ritenuto il fondatore e il più grande re dell’Impero accadico intorno al XXIII secolo a.C.

Ma il mondo biblico ci stupisce sempre un po’. Lungi dall’indulgere a toni celebrativi o agiografici, la Bibbia, come sempre, ci presenta una vicenda, quella di Mosè, che proprio perfetta non è.

Ci viene narrato, infatti, che questo ebreo cresciuto alla corte del faraone, dopo essere uscito a vedere che cosa accadeva nel regno, incontra una guardia egizia che percuote un ebreo, e la uccide (Es 2,12). Anche se il Dio degli ebrei aveva vietato di uccidere ben prima della legge che avrebbe dato loro sul Sinai (Gen 9,5-6), nelle tradizioni umane un gesto di questo tipo è normalmente considerato eroico. Però Mosè non legge nel proprio gesto un atto di riscatto o l’occasione per acquisire un ruolo accanto ai suoi fratelli, anzi, al contrario, lo nasconde, e, quando il giorno dopo, scopre che in giro si sa dell’omicidio (Es 2,13-14), fugge nel deserto. Qui, nei pressi di un pozzo, incontra la sua futura moglie, Sipporà. Questa è figlia di un sacerdote, Ietro, il che potrebbe sembrare uno sviluppo nobilitante per Mosè, ma di fatto si tratta di un sacerdote di una tribù di pastori seminomadi, i Madianiti, stanziata nelle zone più povere del deserto. Lo stesso Ietro, peraltro, non deve essere in una situazione più florida dei suoi conterranei, se al pascolo deve mandare le proprie figlie nubili.

Insomma, l’inizio della vicenda di Mosè è segnato da un omicidio, una fuga e una «sistemazione» in un contesto di emarginati poveri e insignificanti. Tradisce chi lo ha allevato, senza unirsi ai suoi consanguinei; uccide e non se ne pente, ma ha paura delle conseguenze; si accasa in un contesto nobile, ma di un popolo disprezzato. E dopo essere cresciuto alla corte del faraone, inizia a fare il pastore per il proprio suocero (Es 3,1).

L’incontro e la chiamata

È qui che accade l’incontro che gli stravolge la vita. Mosè vede da lontano un rovo che brucia ma non si consuma, e decide di avvicinarsi a controllare. Inizia la vicenda della chiamata dell’uomo più importante dell’Antico Testamento. Sarà qualcosa di stravolgente e unico? Potrà insegnarci qualcosa?

Di certo possiamo dire che tutto inizia da un Dio che inscena qualcosa di straordinario (un fuoco che non consuma), ma perché la straordinarietà del segno venga colta c’è bisogno di attenzione e disponibilità da parte di Mosè, che vede il fenomeno e decide di non tenersene fuori, ma di avvicinarsi a vedere (Es 3,2-3).

Qui Dio lo chiama, svelandogli di aver visto l’oppressione del suo popolo e di voler intervenire. E inizia uno dei dialoghi più imprevisti e sorprendenti di tutta la Bibbia, tra Dio e un uomo.

Il Signore condivide, infatti, con il pastore improvvisato i propri piani: Mosè farà uscire il popolo di Dio dalla sua schiavitù e lo condurrà in una terra che verrà liberata dagli attuali occupanti, anche se quel popolo neppure si ricorda di essere stato legato in passato a quello stesso Dio.

In situazioni del genere altri personaggi biblici si mettono entusiasticamente a disposizione. Mosè no. La prima obiezione è che gli ebrei chiederanno come si chiama il Dio che vuole liberarli. È l’occasione per una delle definizioni divine più affascinanti e sfuggenti: «Sono (ma anche ero, sarò) ciò che sono (ero, sarò): tu dirai agli israeliti che “Io sono (ma anche ero, sarò)” mi ha mandato a voi» (Es 3,14).

Sfugge da qualunque definizione, si limita a dire che ci sarà, che resterà in relazione, che il popolo vedrà ciò che farà, aspetto, questo, più importante di qualunque nome o descrizione.

Mosè però non è soddisfatto. Dice che non gli crederanno. Dio allora gli insegna tre prodigi da compiere per mostrarsi credibile (Es 4,1-9), ma Mosè obietta ancora di non essere capace a parlare bene ottenendo in risposta l’osservazione che è stato Dio a plasmare la sua bocca, e che suo fratello Aronne potrà parlare al posto suo (Es 4,10-16).

A questo punto, Mosè decide di parlare in modo chiaro ed esplicito: «Signore, manda chi vuoi mandare» (Es 4,13), che nel modo di esprimersi dell’ebraico sottintende «… ma non me; manda un altro». Mosè ha finito le obiezioni, ma non vuole essere inviato. Dio, dal canto suo, si arrabbia, ma poi gli prospetta la soluzione, e gli rinnova l’invio.

Il più grande uomo sulla terra, colui che parlava con Dio faccia a faccia… non avrebbe voluto ascoltarlo, ha tentato di tutto per sottrarsi alla chiamata. E Dio si è anche irritato, ma non lo ha castigato, ha ribattuto con altre argomentazioni, si è impegnato alla pari con l’uomo. Dio ha un piano, un progetto, ma non agisce indipendentemente dall’uomo, chiede e insiste per avere la sua approvazione e collaborazione.

Il chiamato diventa colui che chiama

Non accompagniamo Mosè in tutto il suo percorso: i primi colloqui con il faraone, le piaghe, la notte di Pasqua, la fuga con tutto il popolo, il passaggio del mare, il cammino nel deserto tra sete fame e mormorazioni, la salita sul monte, il ritorno a valle e la scoperta che il suo popolo, non vedendolo arrivare, si era fuso un vitello d’oro da adorare.

Due episodi ulteriori però ci possono insegnare molto.

Proprio quando Mosè scende dal Sinai e trova il popolo in festa intorno a un idolo, sembra che sia Dio stesso a perdere definitivamente la pazienza: «Mosè, basta. Io adesso li distruggo. A te darò un altro popolo, e sarai grande. Ma questi, sono irrecuperabili» (Es 32,9-10).

A questo punto il Mosè timido e pigro, che aveva paura di sfidare il faraone, obietta a Dio stesso: «Perché dovresti distruggerli? Vuoi che si dica che non sei stato capace di nutrirli nel deserto? Ricordati delle promesse fatte ai patriarchi…» (Es 32,11-14). E Dio cambia idea, si pente.

È Mosè a ricordargli la sua parola, la sua dignità, il suo ruolo.

È Mosè a richiamare Dio ai propri doveri. Mosè, come un amico, alla pari, ricorda a Dio la sua vocazione. Era stato il Signore a insistere e argomentare perché l’uomo assumesse la propria chiamata, è l’uomo ora a rammentarla a Dio, come in un rapporto, appunto, tra amici.

Vedere Dio

Quindi, dopo aver riconfortato l’Altissimo, Mosè si occupa delle cose umane, stroncando con durezza il culto del vitello…

Subito dopo, però, e prima di tornare sul monte per riscrivere le tavole divine che ha spezzato, Mosè esprime un desiderio assolutamente comprensibile, dopo tanta strada e tante avventure insieme: «Mostrami la tua gloria» (Es 33,18).

L’uomo che ha guidato un popolo intero in imprese inimmaginabili, che parla faccia a faccia con Dio, chiede di poterne vedere la gloria. Questa non è semplicemente l’esaltazione di qualcuno, ma il suo senso profondo, la sua immagine più autentica e intima. Mosè chiede di capire Dio, ricerca e domanda che possiamo comprendere benissimo (noi potremmo dire, in termini diversi e più laici, che vogliamo cogliere il senso di ciò che facciamo).

E Dio, che da Mosè si è lasciato convincere e convertire, si nega. «Nessun uomo può vedermi e restare vivo» (Es 33,20), che a prima vista interpretiamo come «Chi mi vede, muore».

Il Signore ha tuttavia un piano di riserva: «Passerò davanti a te, coprendoti il volto. Vedrai solo le mie spalle, dopo che sarò passato» (v. 22).

Questa ultima indicazione aiuta forse a comprendere meglio il brano, anche alla luce del senso esistenziale che possiamo riconoscervi. Dio si può vedere solo alle spalle, dopo che è passato, dopo che ha già agito. In fondo, è ciò che ci accade con tutto ciò che è più autentico e profondo nelle nostre esistenze: ne cogliamo appieno il senso e il valore quando si sono chiuse, quando l’esperienza non è più attiva. Ecco che allora l’affermazione divina ha un doppio valore. Da una parte, si potrebbe parlare pienamente di Dio solo quando tutta la storia con lui si fosse chiusa, quando fosse conclusa e definita. Dall’altra, Dio sostiene che, almeno da parte sua, finché ci sarà vita, lui non si tirerà fuori dalla storia della relazione con Mosè, o con gli altri esseri umani. Si può vedere la gloria di Dio, il suo volto, solo morendo, perché solo allora, nella morte, si potranno tirare le somme definitive. Dio, infatti, non ha intenzione di ritirarsi dal rapporto con noi, e ci resterà sempre accanto, tutti i giorni della nostra vita. Non quindi «Chi mi vede, muore», bensì: «Per vedermi pienamente, occorre essere morti».

E noi?

C’è quindi qualcosa che possiamo imparare dal grande padre Mosè?

Di certo cogliamo che Dio non privilegia i perfetti, chi non ha dubbi o incertezze o limiti. Mosè è pieno di difetti, eppure diventa l’«amico di Dio». Non conta la perfezione, ma la capacità di mettersi sempre in discussione, in cammino.

E la vita di Mosè, a ben vedere, non si presenta neppure essa come perfetta: al di là delle colpe, dei limiti di parola o di carattere, guida per più di quaranta anni il popolo nel deserto ma muore prima di arrivare alla terra promessa. Eppure, resta colui con cui Dio parlava faccia a faccia. Dio non misura la nostra vita sulla qualità o quantità delle nostre realizzazioni, ma sulla profondità della relazione (anche complessa e contorta) con lui. E se non è lui a «giudicarci» sui nostri risultati, perché dovremmo farlo noi?

Angelo Fracchia
(Camminatori 04-continua)




Un gemito inesprimibile


Com’è possibile sperare ancora, Signore? Ci guardiamo attorno e vediamo l’intera creazione che geme e soffre le doglie del parto. E insieme a essa, gemiamo anche noi (Rm 8).
Cosa sperare ancora, in questo tempo che pare uccidere il futuro? Su questa Terra scossa da crisi ambientali, pandemie, conflitti armati, disastri naturali, carestie di umanità?

Possiamo attenderci ancora la salvezza? Una qualsiasi salvezza?

Il mondo attende la rivelazione dei figli di Dio. Ma cosa riveleranno?

Ci salveranno dalla morte? Saranno in grado di guarire le ferite che da troppo tempo aspettano di essere rimarginate? Oppure ci chiederanno di rassegnarci, in attesa dell’aldilà?

Questo ti domandi mentre cerchi nelle tenebre i segni di un’alba che tarda. E senti un soffio che ti lambisce il cuore, un canto che ti abbraccia, una preghiera insistente che intercede per te. È un gemito inesprimibile. Ti tenta con l’invito di sostituire l’angoscia con la pace.

La speranza è quella di non morire? O quella di vivere? Di resistere alla morte, o di attraversarla scoprendola abitata, iniettata di Lui.

Se Lui ti salva, ti salva dalla morte, o nella morte?

Quello che speriamo, non lo vediamo. Ciò che il nostro cuore teme ingombra la visuale, e ciò che desidera pare impossibile.

Hai sentito dire che le ferite possono diventare feritoie. Cosa puoi vedere se ci guardi attraverso? Vedi Lui e il suo amore da cui ha origine ogni cosa e nel quale tutto è ricapitolato e custodito. La vita eterna già oggi.

E fiumi di acqua viva sgorgano dal tuo seno (Gv 7,38).

Buon cammino nello Spirito, da amico

Luca Lorusso


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