La terra spremuta


Francesco continua il suo impegno per la salvaguardia della casa comune. Dopo la «Laudato si’» del 2015, a ottobre 2023 è uscita la «Laudate Deum». In essa si parla dei mutamenti climatici in atto e di cosa sarebbe indispensabile fare. Senza attendere domani.

«Sono passati ormai otto anni dalla pubblicazione della lettera enciclica Laudato si’, quando ho voluto condividere con tutti voi, sorelle e fratelli del nostro pianeta sofferente, le mie accorate preoccupazioni per la cura della nostra casa comune. Ma, con il passare del tempo, mi rendo conto che non reagiamo abbastanza, poiché il mondo che ci accoglie si sta sgretolando e forse si sta avvicinando a un punto di rottura. Al di là di questa possibilità, non c’è dubbio che l’impatto del cambiamento climatico danneggerà sempre più la vita di molte persone e famiglie. Ne sentiremo gli effetti in termini di salute, lavoro, accesso alle risorse, abitazioni, migrazioni forzate e in altri ambiti».

Inizia così l’esortazione apostolica di papa Francesco, Laudate Deum, resa pubblica il 4 ottobre 2023, in continuazione con la sua precedente enciclica Laudato si’, pubblicata nel 2015.

Un nuovo appello che scaturisce dalla constatazione di come l’umanità non stia facendo ciò che dovrebbe per arrestare i processi di degrado ambientale di cui è responsabile.

Allarme confermato dai dati sull’accumulo di anidride carbonica (CO2) nell’atmosfera che, assieme alla deforestazione, è alla base dei cambiamenti climatici. Secondo il Noaa, l’ente statunitense che si occupa di oceani e atmosfera, nel 2010 la concentrazione di CO2 era di 388 parti per milione; nel 2020 la troviamo a 412 parti per milione.

Intanto, anche la deforestazione è continuata a ritmi sostenuti. Benché oggi sia meno intensa rispetto al secolo scorso, la Fao ci informa che, fra il 2015 e il 2020, si è continuato a deforestare al ritmo di dieci milioni di ettari l’anno, un’area grande all’incirca come quella del Belgio.

Il paradigma tecnocratico

Rispetto alla Laudato si’, la nuova esortazione apostolica è molto più breve perché si limita a poche sottolineature essenziali. Fondamentalmente vuole richiamarci alla necessità di impegnarci di più per la soluzione dei problemi ambientali e sociali che abbiamo creato e vuole rimarcare alcuni concetti già espressi nell’enciclica di otto anni fa.

Un tema su cui torna con forza è il paradigma tecnocratico che papa Francesco indica come il principale responsabile dei guasti socio-ambientali nei quali ci stiamo dibattendo.

Il punto di partenza dell’analisi condotta da papa Francesco è che alla base degli squilibri ambientali ci sia l’uso distorto della tecnologia. Un passaggio della Laudato si’ precisa che «l’intervento dell’essere umano sulla natura si è sempre verificato, ma per molto tempo ha avuto la caratteristica di accompagnare, di assecondare le possibilità offerte dalle cose stesse. Si trattava di ricevere quello che la realtà naturale da sé permette, come tendendo la mano. Viceversa, ora ciò che interessa è estrarre tutto quanto è possibile dalle cose attraverso l’imposizione della mano umana, che tende a ignorare o a dimenticare la realtà stessa di ciò che ha dinanzi».

Presunzione di onnipotenza

Studiando la storia ci si accorge che il punto di rottura è avvenuto nel 1600 quando iniziarono le prime scoperte scientifiche. Constatando che, attraverso l’uso della ragione, l’essere umano poteva capire fenomeni prima avvolti nel mistero e che poteva trovare soluzioni in precedenza inimmaginabili, ci siamo montati la testa fino a sentirci padroni del mondo.

Un concetto che il filosofo Cartesio è giunto a teorizzare quando nel suo libro Discours de la méthode, apparso nel 1637, afferma: «Le nozioni di fisica mi hanno fatto vedere che è possibile giungere a conoscenze molto utili alla vita e che possiamo diventare gestori e padroni della natura».

Un senso di onnipotenza che è diventato catastrofico quando si è sposato con altri miti che hanno cominciato a strutturarsi, anch’essi attorno al 1700, con l’affermarsi della classe imprenditoriale e mercantile. In particolare, il mito della ricchezza e del progresso.

Per dirla con papa Francesco, da questi miti «si passa facilmente all’idea di una crescita infinita o illimitata, che ha tanto entusiasmato gli economisti, i teorici della finanza e della tecnologia». Ciò suppone la menzogna circa la disponibilità infinita dei beni del pianeta, che conduce a «spremerlo» fino al limite e oltre.

Si tratta del falso presupposto che «esiste una quantità illimitata di energia e di mezzi utilizzabili, che la loro immediata rigenerazione è possibile e che gli effetti negativi delle manipolazioni della natura possono essere facilmente assorbiti». Per questo nella Laudato si’, papa Francesco sostiene che «è arrivata l’ora di accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo procurando risorse perché si possa crescere in modo sano in altre parti».

Già il predecessore Benedetto XVI diceva che «è necessario che le società tecnologicamente avanzate siano disposte a favorire comportamenti caratterizzati dalla sobrietà, diminuendo il proprio consumo di energia e migliorando le condizioni del suo uso».

Il cinismo del sistema

Se c’è un aspetto che il capitalismo non è disposto a discutere è la crescita e, lungi dall’idea di dover porre un freno a produzione e consumi, riduce la tematica ambientale a una mera questione di tecnologia.

L’assunto è che basti ottenere energia elettrica da sole e vento invece che da gasolio, alimentare le auto con batterie elettriche invece che tramite combustibili fossili, bruciare i rifiuti in termovalorizzatori invece che accumularli in discarica e la sostenibilità è garantita.

Sull’onda di questa febbre tecnologica c’è – addirittura – chi propone di produrre energia elettrica dal nucleare o di risolvere il problema climatico con tecniche di geoingegneria.

Imprese faraoniche, ancora allo stato sperimentale, come l’idea di seppellire l’anidride carbonica nel sottosuolo o di «sbiancare» le nuvole affinché riflettano parte della radiazione solare fuori dal sistema terrestre. Tecniche costose di cui non si conoscono le conseguenze e che, nel lungo periodo, potrebbero provocare più danni del male che intendono curare. Ma sono comunque perseguite perché rappresentano una grande occasione di guadagno per industrie del comparto chimico, satellitare, minerario, nucleare. Il che confermerebbe il cinismo di un sistema che ha sempre visto di buon occhio le distruzioni belliche e i disastri naturali come occasioni di rilancio degli affari.

Rispetto alla tecnologia, nella Laudate Deum papa Francesco è categorico: «Ritengo essenziale insistere sul fatto che “cercare solamente un rimedio tecnico per ogni problema ambientale che si presenta, significa isolare cose che nella realtà sono connesse, e nascondere i veri e più profondi problemi del sistema mondiale”. È vero che gli sforzi di adattamento sono necessari di fronte a mali irreversibili a breve termine; anche alcuni interventi e progressi tecnologici per assorbire o catturare i gas emessi sono positivi; ma corriamo il rischio di rimanere bloccati nella logica di rattoppare, rammendare, legare con il filo, mentre sotto sotto va avanti un processo di deterioramento che continuiamo ad alimentare. Supporre che ogni problema futuro possa essere risolto con nuovi interventi tecnici è un pragmatismo fatale, destinato a provocare un effetto valanga».

Papa Francesco ritiene che la strada maestra per risolvere la crisi climatica sia la riduzione di anidride carbonica a livello planetario, individuando negli accordi multilaterali lo strumento principe per ottenere questo risultato: «Per ottenere un progresso solido e duraturo, mi permetto di insistere sul fatto che vanno favoriti gli accordi multilaterali tra gli Stati».

Ricchi e poveri

Affinché gli accordi possano condurre a risultati tangibili, serve un altro atteggiamento da parte dei paesi ricchi. Di fondo devono convincersi che, avendo contribuito di più alla creazione del problema, debbono dare di più per la sua soluzione. Non a caso papa Francesco scrive: «La realtà è che una bassa percentuale più ricca della popolazione mondiale inquina di più rispetto al 50% di quella più povera e che le emissioni pro capite dei paesi più ricchi sono di molto superiori a quelle dei più poveri. Come dimenticare che l’Africa, che ospita oltre la metà delle persone più povere del mondo, è responsabile solo di una minima parte delle emissioni storiche?».

Oltre ad accettare di tagliare in maniera considerevole le proprie emissioni, i paesi ricchi dovrebbero acconsentire di sostenere economicamente i paesi più poveri, i quali, di fronte ai cambiamenti climatici, hanno tre tipi di spese: quelle per trasformare il proprio parco energetico, quelle per difendersi dai cambiamenti climatici e quelle per compensare i danni provocati dai cambiamenti stessi.

Somme enormi che, per il solo continente africano e limitatamente ai primi due tipi di spesa, ammontano a 2.800 miliardi di dollari, per il decennio 2020-2030. Un ammontare da utilizzarsi per il 70% per la transizione e il rafforzamento energetico e per il 30% per resistere meglio ai cambiamenti climatici. I governi africani hanno però ammesso di poter coprire appena il 10% del fabbisogno, ossia 264 miliardi di dollari. Tutti gli altri dovranno venire da altri soggetti. Ed è qui che dovrebbe entrare in gioco la solidarietà internazionale, la quale però fa acqua da tutte le parti.

Parole, fondi e danni

Dopo molti anni di negoziazione, i paesi ricchi hanno accettato di costituire un fondo a favore dei paesi del Sud del mondo, affinché possano avviare la transizione energetica e possano costruire le opere utili a proteggersi dai cambiamenti climatici.

In teoria dovrebbero essere 100 miliardi l’anno, ma la raccolta si è fermata a 85. Per di più, la maggior parte delle somme concesse dal fondo è sotto forma di prestito, peggiorando in tal modo il debito del Sud del mondo che già si trova a livelli preoccupanti. Tuttavia, il fondo non copre i danni che il Sud del mondo sta già subendo a causa dei cambiamenti climatici. Come esempi valgano la riduzione dei raccolti agricoli nell’Africa subsahariana, per la scarsità di piogge o, al contrario, i danni da straripamenti dei fiumi, dovuti all’eccesso di piogge, in Asia meridionale. Da un paio di anni i paesi più vulnerabili chiedono la costituzione di un fondo specifico per la copertura dei danni subiti. Tuttavia, alla data di pubblicazione della Laudate Deum, si era ancora al nulla di fatto.

Papa Francesco sostiene che «i negoziati internazionali non avanzano in maniera significativa a causa delle posizioni dei Paesi che privilegiano i propri interessi nazionali rispetto al bene comune» e indica come rimedio la partecipazione dal basso: «Le istanze che emergono dal basso in tutto il mondo, […] possono riuscire a fare pressione sui fattori di potere. È auspicabile che ciò accada per quanto riguarda la crisi climatica. Perciò ribadisco che “se i cittadini non controllano il potere politico – nazionale, regionale e municipale – neppure è possibile un contrasto dei danni ambientali”».

Parole chiare che ci impongono di convertirci a maggiore partecipazione.

Francesco Gesualdi

 

Nota: lo scorso dicembre, si è tenuta negli Emirati arabi uniti la Conferenza delle parti (Cop28). Su di essa rimandiamo al nostro sito web e al prossimo numero della rivista.




Il litio della Serbia: Un rio rosso sangue


La multinazionale mineraria Rio Tinto ha una lunga storia di conflitti ambientali e sociali. Uno degli ultimi riguarda la valle del Jadar in Serbia, dove, insieme al governo, ma senza consultare le popolazioni locali, vuole estrarre litio per la «transizione energetica».

Qual è il filo che unisce un villaggio spagnolo dell’Andalusia latifondista di fine Ottocento, una caverna nello Juukan Gorge dell’Australia occidentale e il fiume Jadar in Serbia?

La multinazionale mineraria anglo australiana Rio Tinto. Una delle più grandi al mondo, con 150 anni di storia, tutti tristemente macchiati da conflitti e ripetute violazioni di diritti umani e ambientali.

Rio Tinto rosso sangue

La storia dell’impresa iniziò a Londra nel 1873. Già pochi anni dopo, in Andalusia, Spagna, dove l’azienda estraeva la pirite da cui si ricavava il rame con un processo chimico che avvolgeva la zona di fumi tossici, fu coinvolta in una strage.

Il 4 febbraio 1888, infatti, dodicimila lavoratori manifestarono con le loro famiglie nella piazza del municipio di Rio Tinto, provincia di Huelva, al grido di «Abajo los humos» (abbasso i fumi), incontrando l’esercito che uccise, si stima, 200 persone.

Per quel massacro l’impresa non riconobbe mai nessun tipo di responsabilità e continuò a operare, esportare materiali e fare profitti in Spagna, anche durante la dittatura franchista, fino al 1954, quando ritirò i suoi investimenti e li rivolse altrove, in particolare nell’attuale Zambia, in Canada e Australia.

© Mars sa Drine e Earth Thrive2021

Alti profitti (e debiti ecologici e sociali)

Così inizia il curriculum di quella che è oggi un gigante minerario presente in almeno trentasei paesi, e con un fatturato, al netto delle tasse, da 10,4 miliardi di dollari nel 2020.

Durante i suoi 150 anni, la Rio Tinto è stata accusata di corruzione, violazione dei diritti umani e delitti ambientali.

L’EjAtlas (l’Atlante globale di giustizia ambientale) raccoglie almeno trenta casi di conflitti di questa azienda con popolazioni locali e organizzazioni sociali in tutti i continenti.

Sull’isola di Bougainville, in Papua Nuova Guinea, ad esempio, la miniera di rame di Panguna è stata la causa di una guerra decennale contro la popolazione che protestava per gli impatti negativi della sua attività estrattiva sulla salute umana e sull’ecosistema, e per l’accaparramento indebito dei benefici. Le vittime si stimano nell’ordine di 20mila. Rio Tinto ha beneficiato di connivenze con l’esercito e non ha mai riconosciuto nessuna responsabilità.

In Australia, nel 2020, Rio Tinto ha fatto esplodere una caverna nella gola dello Juukan, un sito archeologico di più di 4.000 anni, considerato un luogo sacro dagli aborigeni locali.

In Mongolia, l’acquisizione di terre e la contaminazione di riserve idriche sono al centro delle preoccupazioni in Oyu Tolgoi, dove ai pastori nomadi è impedito l’accesso a terra e acqua a favore della più grande miniera di rame e oro al mondo.

In Madagascar si accusa Rio Tinto di rilasciare acque contaminate, e persino materiale radioattivo, nella zona costiera.

La multinazionale ha un bilancio da capogiro, ma anche il suo debito ecologico e sociale lo è.

foto Nina Djukanovic

La jadarite di Serbia

Negli ultimi anni, come tutte le grandi aziende, anche Rio Tinto cerca di affermarsi nell’estrazione di materiali «critici» per la transizione energetica e digitale. Ed eccoci, dunque, giunti in Serbia: nel 2004, mentre la società conduceva nella valle del Jadar, culla del grano serbo, ispezioni geologiche alla ricerca di borati, usati nei fertilizzanti, trovò un nuovo minerale, fino a quel tempo sconosciuto, una combinazione di borati e litio, cui fu dato il nome jadarite.

Il litio è un minerale centrale per il modello energetico attuale e, in specifico, per le batterie delle auto elettriche.

Quello del Jadar fu destinato in gran parte all’industria tedesca. La sua domanda mondiale è raddoppiata negli ultimi tre anni e le previsioni dell’Agenzia internazionale dell’energia ne indicano per il 2040 una crescita di tredici volte l’attuale.

I piani Next generation e di ripresa dell’economia post pandemia dell’Unione europea incalzano tale tendenza lasciando poco spazio al dibattito. Sarebbe, infatti, necessario ripensare la transizione energetica in termini diversi da quelli della crescita economica attraverso l’aumento di tecnologie. Invece, per ripartire, continuiamo a insistere sulla stessa ricetta che ha portato alla crisi.

foto Nina Djukanovic

La «miniera verde»

Rio Tinto ha costruito gran parte delle sue fortune sul carbone e sull’uranio. Ha venduto le sue ultime partecipazioni nel carbone nel 2018 e ha chiuso l’ultima miniera di uranio all’inizio del 2021.  Tuttavia, l’azienda è ben lontana dal diventare un’«impresa verde». Le sue operazioni per l’estrazione di ferro, rame e alluminio causano enormi emissioni di gas serra, e, come detto, molte sono oggetto di critica per l’impatto ambientale e le violazioni dei diritti umani. Inoltre, è accusata dall’opinione pubblica e dai suoi azionisti di ritardare l’azione contro il cambiamento climatico rifiutando di fissare obiettivi di riduzione delle emissioni Scope 3 (quelle indirette derivanti dalle sue attività).

Progetto Jadar

Torniamo alla valle del fiume Jadar: nel 2017 il governo serbo e la Rio Tinto hanno firmato un memorandum d’intesa, considerato dai due cofirmatari come uno dei progetti minerari più innovativi del mondo, che avrebbe fatto della Serbia un paese leader nella «transizione verde».

La costruzione degli impianti sarebbe dovuta iniziare nel 2022, ma a gennaio dello stesso anno, la prima ministra serba Ana Brnabic ha annunciato la cancellazione del progetto da 2,4 miliardi di dollari a causa delle proteste che aveva generato. Va notato, per inciso, che il governo serbo, mentre sostiene gli investimenti privati nel litio, continua a sovvenzionare le operazioni di estrazione del carbone, una politica criticata dalla Energy community e denunciata dalla Ong serba Renewables and environmental regulatory institute (Reri) per il superamento dei livelli di inquinamento.

foto Stuart Rankin_flickr

Le premesse dello stop

L’azienda è presente nell’area del Jadar da quasi due decenni, ma le informazioni cruciali sul progetto sono state divulgate solo quando il governo ha pubblicato una bozza del nuovo Piano territoriale che, nel novembre 2019, ha definito l’area come destinata all’esplorazione mineraria. Dopo 30 giorni di «approfondimento pubblico» senza alcuna modifica significativa, il Piano è stato approvato nel marzo 2020.

Le organizzazioni locali hanno sottolineato che la popolazione non era stata coinvolta nel processo di consultazione.

Da allora, le voci del malcontento si sono fatte più forti e si è assistito a una mobilitazione aperta a livello locale e nazionale. Il Piano territoriale, secondo i critici, presentava molteplici e gravi difetti che lo rendevano «illegittimo».

La Rio Tinto aveva commissionato la stesura del Piano territoriale al ministero delle Costruzioni, dei Trasporti e delle Infrastrutture, ma la bozza del Piano è stata prodotta, presentata e approvata dal Governo prima di una serie di altre procedure che l’azienda avrebbe dovuto seguire: ad esempio, la valutazione di impatto ambientale.

Nel frattempo, la società ha portato avanti i lavori di esplorazione fino al 2020.

La quantità e il volume di minerale da estrarre e lavorare non sono stati dichiarati in modo definitivo nel Piano. Esso, infatti, cita una stima, prodotta dalla società nel 2017, di 136 Mt (136 milioni di tonnellate). Successivamente, nel dicembre 2020, la società ha invece dichiarato che le risorse erano pari a 155,9 Mt.

Inoltre, il Piano territoriale è stato sviluppato per un periodo di funzionamento della miniera di 30 anni, mentre il direttore di Rio Sava (la sezione serba di Rio Tinto), in una successiva intervista, ha parlato di «più di 50 anni». Difficile dunque sapere a chi e a cosa credere.

© London Mining Network Action

Coltivare o estrarre?

La valle del Jadar si estende su pianure coltivate e colline punteggiate da ventidue villaggi che vanno da un centinaio di abitanti a poco più di 2.500.

Gli agricoltori locali coltivano diversi prodotti, soprattutto lamponi e prugne, si dedicano all’apicoltura, all’allevamento di bestiame, alla pastorizia ovina e caprina. Alcune Ong locali denunciano che gli abitanti della zona hanno saputo solo nell’autunno del 2020 che i loro appezzamenti erano stati riconvertiti da lotti agricoli a edificabili (per la futura costruzione degli impianti) e che sarebbe stato, quindi, impossibile per loro richiedere prestiti agricoli, oltre al fatto che avrebbero pagato tasse più alte.

Dal giugno 2020, l’azienda ha avviato il processo di acquisizione dei terreni che continua ancora oggi, nonostante lo stop al progetto. Gli abitanti del luogo hanno riferito di aver subito pressioni per vendere.

Lo sviluppo della miniera comporterebbe l’acquisto di appezzamenti da almeno trecento proprietari privati e lo spostamento di oltre cinquanta famiglie di agricoltori, con impatti imprecisati su molte altre aziende agricole nell’area circostante.

Rio Tinto sostiene di aver sviluppato «forti relazioni» con le comunità locali. Tuttavia, le organizzazioni territoriali e gli abitanti lamentano una scarsa comunicazione con l’azienda e la mancanza di informazioni sugli impatti socio ambientali e gli aspetti tecnici del progetto. I residenti hanno riportato di sentirsi «abbandonati» dallo stato nel trattare con una multinazionale il cui capitale è più grande dell’intero Pil del Paese.

Terra: storia e biodiversità

Nella zona interessata dal Piano territoriale ci sono cinquantadue siti del patrimonio culturale, tra cui località preistoriche, siti di epoca romana, insediamenti del Medioevo.

La zona mineraria era prevista tra due importanti aree naturali: il monte Cer e le pendici dell’Iverak.

La catena montuosa è una zona importante per la biodiversità e l’avifauna. Vi sono presenti tre specie inserite nella lista rossa dell’Iucn (Unione mondiale per la conservazione della natura): l’assiolo eurasiatico, il picchio verde eurasiatico e il picchio rosso medio.

Il Cer è in procinto di essere riconosciuto come Landscape of outstanding features (panorama con caratteristiche eccezionali). A poco più di 5 km a est e a sudest dall’area del progetto si trova il «paesaggio di particolare pregio Tršić-Tronoša», abitato da 145 specie vegetali e animali protette.

La rete idrografica

Una delle preoccupazioni maggiori riguarda l’inquinamento delle fonti idriche.

Nella zona di estrazione prevista scorrono i fiumi Jadar e Korenita, e il sottosuolo è ricco di acque sotterranee. Venti chilometri a valle, il Jadar confluisce nel Drina, il principale fiume che scorre tra la Serbia e la Bosnia-Erzegovina unendosi poi alla Sava e al Danubio. In particolare, i bacini idrografici dei fiumi Jadar e Korenita e dei loro affluenti sono soggetti a un aumento della frequenza e gravità delle inondazioni improvvise, tra cui quelle devastanti del maggio 2014 e del giugno 2020.

La Serbia occidentale sta soffrendo un impatto del cambiamento climatico superiore alla media globale, con un aumento dell’intensità delle precipitazioni e delle inondazioni, oltre che dei periodi di siccità.

La terra ferita non dimentica

La miniera di Rio Tinto non sarebbe stata l’unica nel territorio. Nella più ampia regione intorno al Jadar e alla vicina città di Loznica, non si sono dimenticate le storiche miniere di stagno e antimonio che hanno lasciato problemi di tossicità e inquinamento. Drammatica è stata la recente lotta contro l’inquinamento causato dalla fonderia e dalla discarica di Zajača, con elevati livelli di piombo rilevati nel sangue dei bambini locali.

Nel bacino di Korenita, a seguito delle inondazioni del maggio 2014, 100mila tonnellate di rifiuti tossici sono fuoriuscite dalle strutture in disuso della miniera di antimonio di Stolice, contaminando 27 km di costa e 360 ettari di terreno coltivabile.

Poiché la società responsabile è fallita poco dopo (e il suo direttore è stato accusato di frode fiscale), la bonifica è stata lasciata nelle mani del governo.

La condizione problematica della democrazia, dello stato di diritto e dei media nel Paese, i numerosi problemi, soprattutto nell’ambito delle valutazioni di impatto ambientale e dei permessi di costruzione, sommati alla percezione di una mancanza di comunicazione da parte delle autorità e dell’azienda, hanno spinto i cittadini a pensare che il processo non si stesse svolgendo nel loro interesse ma a favore dell’investitore.

© Mars sa Drine e Earth Thrive

Resistenza e futuro

Con questa memoria che fa male e indigna, le Ong locali e di altre zone del Paese, hanno presentato appelli e petizioni alle autorità, organizzato dibattiti pubblici e proteste, e lavorato per attrarre l’attenzione dei media. Vale la pena di menzionare la raccolta di 38mila firme cittadine per proporre la discussione della legge che abolirebbe esplorazione ed estrazione di litio nel paese. L’iniziativa popolare è stata consegnata al governo nel maggio 2022. Un anno dopo, l’esecutivo non ha ancora inserito questo punto all’ordine del giorno, cosa che sarebbe obbligato a fare, dopo la verifica delle firme, entro trenta giorni.

Le firme paiono «scomparse» e alcuni rappresentanti dell’opposizione hanno presentato una denuncia penale contro i responsabili nel parlamento.

Azioni coordinate delle Ong locali e internazionali hanno portato rappresentanti della società civile presso l’assemblea generale annuale degli azionisti di Rio Tinto a Londra nel 2020. Diverse lettere aperte sono state inviate a dirigenti e investitori.

Le risposte, tuttavia, sono state considerate insufficienti.

Ad aprile 2023, nell’ambito della campagna internazionale «Rio Tinto: against people, climate and nature» organizzata in coincidenza con la settimana dell’assemblea generale di Londra, sono state consegnate 500mila firme contro l’estrazione del litio nella valle del Jadar, raccolte in Serbia e in altri paesi.

Questa lotta non è isolata: fa parte di un’ondata di proteste civili in tutta la Serbia contro l’inquinamento e contro la costruzione di piccole dighe.

Le recenti privatizzazioni di grandi imprese minerarie e di fonderie statali, assieme alle dinamiche non trasparenti attorno all’esplorazione geologica, hanno rafforzato la determinazione dei movimenti locali a rivendicare il loro «diritto di dire no» al progetto Jadar.

Gli abitanti dei villaggi e i loro sostenitori offrono alternative centrate sull’agricoltura diversificata e biologica, la conservazione ecologica, la cura e lo sviluppo ecoturistico del ricco patrimonio culturale, storico, naturale e paesaggistico.

Infine, ma non meno importante, chiedono il diritto all’aria, alla terra e all’acqua pulite per loro e le generazioni future.

Benché, per il momento, il progetto di Rio Tinto risulti «cancellato», l’impresa non demorde.

L’acquisto di terre non si è mai fermato e l’azienda continua a essere presente sul territorio concedendo piccoli fondi caritatevoli per ottenere consensi.

La pressione internazionale è alta, ma il presidente serbo rimpiange lo stop al progetto.

D’altra parte, il litio fa gola a molti. Se la cosiddetta «transizione energetica» non viene pensata in altro modo, la valle del Jadar diventerà un’ulteriore zona di sacrificio in nome di una illusione di sostenibilità.

Daniela Del Bene

 Si ringrazia Mirko Nikolić per il suo supporto nella revisione dei contenuti e nella ricerca di foto dai territori del Jadar.


Questo articolo fa parte di una collaborazione fra Missioni Consolata e l’Ejatlas (Environmental justice atlas) per far conoscere ai nostri lettori storie e analisi riguardanti alcuni dei conflitti ambientali presenti nell’Atlante.
• www.ejatlas.org
• www.envjustice.org
• https://cdca.it (atlante conflitti ambientali italia).




Idrogeno in Amazzonia


Una centrale elettrica a idrogeno nel cuore della foresta pluviale guianese. In nome della transizione energetica si rischia di devastare l’ambiente e uccidere l’identità originaria dei popoli indigeni.

Transizione energetica, crisi climatica, green new deal e nuovi patti per il clima. Ne abbiamo sentite tante di possibili «soluzioni» e «politiche rivoluzionarie» da parte di governi e imprese per affrontare i problemi ambientali.

Una di queste è l’idrogeno, considerato una fonte energetica pulita e abbondante. Soprattutto se si tratta di idrogeno «verde», prodotto a partire da fonti rinnovabili. Ma è proprio così?

L’opposizione indigena

Nel momento in cui scriviamo, dall’altra parte dell’Oceano, presso il villaggio Prospérité, nella zona nord ovest della Guyana francese, quasi al confine con il Suriname, si stanno preparando azioni di protesta per fermare la distruzione di una vasta area di foresta pluviale destinata alla più grande centrale solare a idrogeno del mondo, la Centrale électrique de l’Ouest Guyanais (Ceog).

La popolazione indigena locale e molte organizzazioni della società civile hanno espresso a più riprese la loro opposizione al progetto, o almeno la loro perplessità sulla sua sostenibilità, ma le autorità lo hanno approvato ugualmente, e persino adoperato metodi repressivi per eseguire la deforestazione.

Un pezzo di Unione europea

La Guyana francese è un dipartimento d’oltremare della Francia, situato sulla costa settentrionale del Sud America.

Confinante con il Suriname a ovest e con il Brasile a est e a sud, la Guyana francese ha una popolazione di circa 300mila abitanti, la metà della quale vive nella capitale Caienna.

È la seconda regione più grande della Francia e la più grande regione ultraperiferica dell’Unione europea. Il 98,9% del suo territorio è coperto da foreste.

Il parco amazzonico presente sul suo territorio, che rappresenta il più grande parco nazionale dell’Unione europea, copre il 41% della superficie del Paese.

La centrale solare a idrogeno

Il progetto prevede la costruzione di una centrale solare collegata a un elettrolizzatore alcalino ad alta pressione da 16 Mw (megawatt) che divide l’acqua per produrre idrogeno. L’accumulo di energia avverrebbe durante il giorno e il suo sfruttamento durante la notte.

La capacità di stoccaggio, sotto forma di serbatoi di idrogeno, sarà di 128 Mwh (megawattora), che sarà convertita in elettricità da una cella a combustibile.

Secondo il progetto, la centrale potrà consegnare alla rete 10 Mw di giorno e 3 Mw di notte. Dovrebbe entrare in funzione nel 2024, e durerà 25 anni.

Il progetto fu presentato nel 2020 nei pressi del villaggio Prospérité da Meridiam, fondo d’investimenti vicino a Macron, Sara e Hydrogène de France.

La Ceog promette di ridurre le emissioni di CO2 e di porre fine alle frequenti interruzioni di elettricità nella zona con una fornitura stabile per 70mila persone, soprattutto alla vicina città di Saint Laurent du Maroni.

Perché le proteste?

Sembrerebbe un progetto buono e poco contaminante, ma i leader indigeni locali, conosciuti come yapoto, appartenenti alla popolazione dei Kali’na, l’hanno rifiutato fin dall’inizio.

La comunità di Prospérité che abita la terra interessata ha lottato per più di 30 anni per ottenere la tutela consuetudinaria del proprio territorio e la delimitazione di una Zona protetta a uso collettivo (Zduc, Zone de droit d’usage collectifs). Essa denuncia che la Ceog ha impiegato meno di un anno per ottenere i permessi necessari a disboscare 76 ettari di foresta per impiantare i pannelli solari.

Gli abitanti del villaggio temono che la costruzione del parco solare impedirà loro l’accesso a un vicino torrente, loro fonte d’acqua, e ai loro tradizionali territori di caccia e coltivazione.

Se questo dovesse accadere, il loro rapporto con la terra e la trasmissione delle pratiche tradizionali alle generazioni future verrebbero compromessi.

In sintesi, i Kali’na considerano il progetto come un attacco alla loro identità di popolo originario e al loro modo di vivere.

Distruggere la foresta significa per loro affermare l’oppressione della cultura occidentale sulle culture indigene.

Ascoltare la Terra

Nel dicembre scorso, «Reporterre», sito d’informazione indipendente sui temi ecologici con sede a Parigi, ha intervistato Roland Sjabere, lo yapoto di Prospérité, e il portavoce della Jeunesses autochtones de Guyane (Gioventù indigena della Guyana), Christophe Yanuwana Pierre, in occasione di una loro visita di denuncia in Francia.

Sjabere ha affermato di non volersi opporre allo «sviluppo» in quanto tale, ma di criticare piuttosto uno sviluppo frettoloso e orientato al profitto, «l’écolonialisme», l’ecocolonialismo, basato su infrastrutture giganti che non tengono conto della presenza dell’altro nei territori destinati alla loro costruzione.

Il popolo kali’na chiede che la centrale venga trasferita lontano dai loro insediamenti, o quantomeno che le autorità chiedano il consenso alla comunità indigena; ma l’azienda sostiene che i fondi sono già stati impegnati e che andrebbero persi se si dovesse sviluppare un nuovo progetto.

In sostanza, le decisioni sono già state prese senza le consultazioni che le convenzioni internazionali prevedono per i territori indigeni (ad esempio la 169 dell’Organizzazione mondiale del lavoro).

Nelle parole dei due leader intervistati da «Reporterre», il popolo kali’na ha «stretto un’alleanza con la foresta. Se essa è minacciata, noi dobbiamo aiutarla. Questa è la nostra missione in cambio della felicità che la foresta ci offre.

È una necessità per l’equilibrio della nostra comunità e della nostra civiltà. Non possiamo vivere senza la foresta. Le apparteniamo. Attaccandola, le autorità ci danneggiano. […] Sentiamo come una minaccia che aleggia perché i nostri territori spirituali sono colpiti.

Certo, abbiamo anche molti argomenti legali e razionali per lottare contro questi progetti aberranti, ma la nostra lotta è alimentata da molte altre cose, radicate nella nostra cultura. La Terra ci parla e noi dobbiamo imparare ad ascoltarla».

Associazioni in campo

La posizione delle popolazioni indigene viene sostenuta anche da gruppi di ambientalisti. Questi ultimi denunciano in particolare l’impatto sugli habitat di specie rare e in via di estinzione, come l’opossum d’acqua.

Nel febbraio 2022, le associazioni Maiouri nature guyane, Village Prospérité Atopo WePe, Kulalasi e l’Association pour la protection des animaux sauvages hanno intentato una causa contro le autorità della Guyana francese chiedendo la revoca della licenza ambientale per il progetto della Ceog, a causa della scarsa valutazione di impatti sulle specie minacciate.

Tuttavia, a luglio, il tribunale amministrativo del Paese ha confermato l’autorizzazione.

Una seconda causa, tuttora in esame, è stata intentata dagli abitanti del villaggio insieme all’Association nationale pour la biodiversité nel novembre 2022.

Dal canto loro, i promotori del progetto affermano che esso non minaccia la biodiversità o le pratiche tradizionali della popolazione locale e aggiungono che gli abitanti del villaggio sono stati debitamente consultati fin dall’inizio, e che è stato loro offerto il passaggio gratuito alle loro terre abituali e un progetto di sviluppo comunitario.

Tuttavia, esiste una forte asimmetria di potere tra i soggetti in causa che si esprime, ad esempio, nel fatto che tali consulte e i materiali informativi sono stati fatti in lingua francese, ignorando che essa non è la lingua madre degli abitanti locali.

Il riconoscimento della specificità dei gruppi umani e delle loro culture è un principio chiave della giustizia ambientale. La sua mancanza è una strategia molto diffusa nello sviluppo di infrastrutture e progetti estrattivi.

Nel caso della Ceog, l’impossibilità da parte delle comunità locali di comprendere i documenti disponibili ha portato alla firma di accordi indesiderati.

Ancora colonialismo

Oltre ai documenti non tradotti, le forti e ripetute pressioni sullo yapoto affinché accetti il progetto in cambio di una compensazione economica, sono metodi collaudati che fanno parte della lunga storia coloniale, non ancora finita, della Guyana francese: un territorio che subisce da secoli la spoliazione delle sue terre, lo sterminio dei suoi abitanti originari, la deportazione di schiavi, le piantagioni intensive, l’uso del suo territorio come colonia penitenziaria, le miniere, gli impianti industriali nel cuore della foresta.

Sui libri di storia si studia il colonialismo come una forma di dominazione oramai passata. Per gli abitanti della Guyana francese il colonialismo non è mai finito, lo vivono in un continuum storico nel quale cambia le sue vesti e il suo linguaggio, ma applica drammaticamente gli stessi meccanismi.

AmaZone a Défendre

La costruzione della centrale è iniziata nel settembre 2021. A gennaio 2023, sedici ettari erano già stati disboscati, con il taglio di numerosi alberi di valore spirituale per il popolo kali’na.

Nell’ultimo anno, a fronte della sordità delle autorità, la mobilitazione si è radicalizzata e ha adottato la nozione della zone autochtone à défendre (Zad), «zona indigena da difendere», coniata in Francia da comunità di agricoltori e attivisti in opposizione all’aeroporto di Notre-Dame-des-Landes nel 2010.

Il concetto di zone autochtone à défendre è stato, dunque, adattato al contesto guianese e modificato in AmaZone a Défendre.

Nell’intervista ai due leader, il sito «Reporterre» riporta: «Usiamo un linguaggio comprensibile in Francia per dimostrare che siamo determinati a difendere le nostre terre e a condurre una forte resistenza […]. I promotori del progetto della centrale si aspettavano che ci saremmo indignati solo con la bocca e con la parola. Credevano che noi indigeni fossimo deboli, incapaci di sollevarci. Noi dimostriamo loro il contrario. Ci opponiamo fisicamente con le nostre braccia, i nostri corpi, i nostri figli, le nostre famiglie e riusciamo a respingere le macchine. Le autorità hanno la polizia e l’amministrazione, noi abbiamo la nostra conoscenza ancestrale, il legame con la Terra e l’amore per i vivi. Sono forze da non sottovalutare».

Proteste e repressione

Nell’ottobre 2022 la protesta ha alzato i toni, spinta dalla mancanza di volontà politica per una negoziazione giusta.

Gli abitanti mobilitati contro il progetto hanno cercato di sabotare il magazzino delle attrezzature di costruzione con bombe molotov, e hanno costruito capanne nell’area destinata alla centrale.

I rifugi, alla stessa maniera di quelli impiantati dalle tante famiglie e attivisti francesi nella zona dell’aeroporto, vogliono ribadire il messaggio che la foresta è la loro casa e che sono determinati a non cederla.

La protesta ovviamente si è scontrata con l’apparato repressivo dello Stato. La polizia ha usato gas lacrimogeni sui manifestanti e ha arrestato due abitanti del villaggio, un ambientalista e persino Roland Sjabere, lo yapoto di Prospérité, prelevato dal villaggio all’alba e portato in custodia a 150 km di distanza, senza rispettare il suo diritto di parlare con la famiglia.

In risposta agli arresti, le famiglie hanno organizzato una mobilitazione molto più ampia per l’11 novembre 2022, invitando i sostenitori di tutta la Guyana francese ad «andare fino alle ultime conseguenze» per difendere Prospérité.

Con tristezza, ma determinazione, lo yapoto ha dichiarato di «non essere più per il dialogo» e ha ribadito la richiesta di uno spostamento equo del progetto.

Anche il presidente della Jeunesses autochtones de Guyane, ha risposto alla repressione della polizia: «Le persone chiedono rispetto, fanno valere i loro diritti millenari, ma sono considerate criminali. Abbiamo fatto il gioco dello Stato per un po’, ma se vogliono affrontare la resistenza, ci solleveremo. Siamo pronti a combattere».

La montagna d’oro

Oltre che con la Ceog, il popolo kali’na deve fare i conti anche con altri progetti industriali: enormi centrali a biomassa, siti di estrazione dell’oro, miniere come la Montagne d’Or, promossa dal consorzio russo-canadese della Columbus Gold e Nordgold. Riguardo quest’ultima, dopo forti opposizioni, nel 2019 il governo ha annunciato l’abbandono del progetto a causa della sua incompatibilità con i requisiti ambientali. Tuttavia, una miniera d’oro fa gola a troppi, e finché la Francia non tornerà a negoziare il codice minerario e non porrà dei limiti chiari su che cosa e dove può essere estratto, ogni progetto sarà soggetto a possibili riattivazioni.

La protesta arriva in Francia

La mobilitazione ha fatto appello anche alla Francia metropolitana. Il presidente del Ceog e fondatore di Meridiam è un uomo vicino a Macron. Una sua donazione alla prima campagna elettorale del presidente ha alimentato la preoccupazione per un possibile trattamento di favore nei suoi confronti da parte delle autorità francesi.

Per quanto riguarda Macron, recentemente è stato criticato per aver permesso la deforestazione dell’Amazzonia in Guyana mentre stigmatizzava sulla scena mondiale quella brasiliana con toni severi contro Bolsonaro.

Lo yapoto di Prospérité aveva già visitato Parigi ed era intervenuto alla manifestazione per la giustizia climatica durante la Cop 26 nel novembre 2021.

Una delegazione di Kali’na è stata invitata a presentare il proprio caso all’Assemblée nationale – il parlamento francese – lo scorso dicembre 2022.

Nel gennaio 2023, Jean-Luc Melenchon, leader del partito di sinistra La France insoumise, ha visitato il cantiere della Ceog in Guyana e ha dato il suo sostegno alla lotta per fermarne la costruzione.

In una tribuna di «Le Monde» indirizzata a Macron, una rete di associazioni indigene della Guyana e i loro sostenitori hanno chiesto che il progetto venga delocalizzato: «Questo progetto viola il nostro diritto a dare un consenso libero, preventivo e informato, protetto anche dal diritto costituzionale, all’informazione e alla partecipazione pubblica».

E hanno avvisato ulteriormente: «Vi ricordiamo che un fondo di investimento, prima di produrre elettricità, cerca di ottenere un profitto. Corriamo il rischio che quella che chiamate “transizione energetica” diventi solo una nuova schiavitù dei popoli e degli ambienti naturali».

Daniela Del Bene


ATLANTE DELLA GIUSTIZIA AMBIENTALE

Questo articolo fa parte di una collaborazione fra Missioni Consolata e l’Ejatlas (Environmental Justice Atlas) nell’ambito della quale portiamo a conoscenza dei nostri lettori storie e analisi riguardanti alcuni dei conflitti ambientali presenti nell’Atlante.
Per tutti i casi menzionati nell’articolo sono disponibili nell’Atlas le relative schede informative.
www.ejatlas.org
www.envjustice.org
http://cdca.it (atlante conflitti ambientali italia).




Ripresa e resilienza,

quale Italia ci aspetta?

testo di Francesco Gesualdi |


Al nostro paese stanno arrivando i soldi dell’Ue. La domanda è: come utilizzarli? Riprendere la strada della vecchia economia o cercare una vera svolta verso l’equità e la sostenibilità?

In Italia, il piano messo a punto per poter ricevere e spendere i soldi resi disponibili dall’Unione europea, nell’ambito del progetto Next generation Eu, è stato battezzato «Piano nazionale di ripresa e resilienza», in sigla Pnrr. E, per dargli un tocco di patriottismo, è stato sottotitolato: «Italia domani».

Il documento non è di facile lettura, non foss’altro per la sua lunghezza: ben 269 pagine. Del resto, la posta in gioco è alta: dalle sue scelte dipenderà l’assetto dell’economia e della società italiana dei prossimi decenni. Non a caso la stesura del piano è stata la pietra d’inciampo che ha fatto cadere il governo Conte 2.

Ripresa e resilienza, crescita e sostenibilità

Troppi soldi in ballo che hanno inevitabilmente acceso appetiti e divergenze non solo finanziarie, ma anche ideologiche, perché quei soldi potrebbero essere utilizzati per rafforzare l’economia produttivista, vecchia maniera, o per imprimere una svolta in una logica di equità e sostenibilità.

La copertina del documento sul Pnrr, scaricabile dal web.

Una contrapposizione riportata nel titolo stesso del piano tramite le due parole «ripresa e resilienza». Dove per ripresa si intende il rilancio dell’economia intesa come crescita di produzione, Pil, vendite, affari, esportazioni; per resilienza si intende l’introduzione di tutti quei cambiamenti utili ad arrestare il deterioramento della situazione ambientale. La pretesa del piano, tuttavia, è di aver saputo affrontare i due aspetti non come esigenze in contrapposizione fra loro, ma come due percorsi  complementari che si sostengono a vicenda.  Sarà davvero così? Il sistema si illude di poter tenere insieme crescita e sostenibilità, ma può farlo perché dimentica l’equità. In realtà, quando pensa a un «mondo verde», tiene a mente solo il miliardo di persone che popola i paesi del Nord. Senza dichiararlo, la sua idea di sostenibilità è quella dell’apartheid, un mondo nel quale le poche risorse e gli scarsi spazi ambientali esistenti sono messi al servizio esclusivo di una minoranza di cui i paesi del Nord sono la componente pigliatutto, mentre tutti gli altri non sono neppure presi in considerazione.

Per questo possiamo fantasticare di mobilità basata sull’auto elettrica per chiunque, senza pensare che se il poco cobalto, nickel, litio, esistente sul pianeta ce lo prendiamo tutto noi, gli altri non potranno neanche disporre di un pannello solare per accendere il frigorifero. Purtroppo, solo il tempo potrà stabilire se certe previsioni rientrano nella categoria del catastrofismo o del realismo. Ma allora sarà troppo tardi, esattamente come è successo per gli avvertimenti relativi ai cambiamenti climatici: gli scienziati più attenti hanno cominciato a segnalare il problema attorno agli anni Settanta del secolo scorso, ma i governi hanno riconosciuto l’esistenza del fenomeno solo attorno al 2010.

Sia come sia, è comunque certo che la stesura del Next generation Eu non è stato il massimo della partecipazione democratica. Nella fretta di passare alla fase esecutiva, la Commissione europea ha imposto tempi di presentazione del progetto troppo brevi che la concomitante caduta del governo ha ulteriormente corroso. Fatto sta che nel paese non c’è stato dibattito e neanche il Parlamento ha avuto la possibilità di dire la sua. L’unico progettista è stato il governo, prima sotto la guida di Conte, poi di Draghi, mentre il Parlamento si è limitato a una funzione poco più che notarile con tempi di discussione che hanno permesso solo dichiarazioni di voto.

I fondi in gioco: 236 miliardi di euro

Alla fine, i soldi complessivi che il Pnrr conta di spendere entro il 2026, ammontano a 236 miliardi di euro, 44 in più di quelli messi a disposizione dall’Unione europea tramite il Recovery fund. Un’aggiunta, in parte finanziata da prestiti ottenuti direttamente dal sistema bancario e finanziario (Fondo complementare), in parte da ulteriori sostegni offerti dall’Unione europea attingendo a un fondo speciale denominato React.

Volendo ricapitolare, le fonti di finanziamento si possono analizzare sotto due grandi profili: la provenienza e la natura. Dal punto di vista della provenienza, l’87% giunge dall’Unione europea, il rimanente 13% dal sistema creditizio privato. Dal punto di vista della natura, si tratta per il 65% di prestiti e per il 35% di somme a fondo perduto. In termini monetari, mettendo insieme i soldi provenienti dal Recovery fund e quelli ottenuti dal fondo React, le sovvenzioni a fondo perduto sono 82 miliardi. Ma sarebbe sbagliato considerarli tutti in entrata perché l’Unione europea conta di recuperare i soldi che regalerà tramite un aumento di contribuzione da parte degli stati membri. Sulla reale entità della somma netta incassata dall’Italia esistono numerosi calcoli molto diversi fra loro. Alcuni danno un’entrata netta di circa di 10 miliardi di euro, altri di una quarantina di miliardi. La verità è che le incognite sono ancora troppo ampie per azzardare ipotesi fondate.

Le riforme: quali e per chi?

Va precisato subito che nessuno distribuisce pasti gratis e, analizzando meglio l’offerta dell’Unione europea, si scopre che essa condiziona il proprio sostegno alla realizzazione di una serie di riforme che, a suo avviso, i singoli paesi devono adottare per migliorare la propria situazione e di riflesso quella dell’Unione europea. Non a caso il Pnrr elenca un numero indefinito di riforme che lo stato italiano si impegna a realizzare in ambiti che spaziano dalla giustizia al fisco, dalla pubblica amministrazione alla concorrenza. Tutte con ottimi propositi considerato che, secondo il Pnrr servono per garantire al paese equità, efficienza, celerità. Parole rassicuranti, ma finché gli annunci non si trasformano in proposte di legge rimane difficile capire dove andremo davvero a parare e se si tratta di modifiche condivisibili.

A gettare acqua sulle aspettative c’è che il Pnrr pone troppa enfasi sulla crescita dandoci la sensazione che le riforme siano finalizzate solo a creare un contesto attraente per gli investitori e a rendere più spediti i progetti di investimento.

In questa prospettiva, ad esempio, si possono leggere la riforma della giustizia e degli appalti. Da tempo tutti gli organismi internazionali denunciano che la lentezza della giustizia italiana tiene alla larga gli investitori stranieri che non sopportano l’idea di dover aspettare anni per risolvere eventuali liti commerciali con i propri clienti, fornitori o concorrenti. Pertanto, quando si parla di riforma della giustizia si pensa soprattutto a rendere più spediti i contenziosi civili in cui le imprese incappano con grande frequenza. E se, nel caso della giustizia, la preoccupazione è che la riforma possa essere solo parziale, nel caso degli appalti il timore è che, pur di accelerare i lavori, si indeboliscano i controlli sull’impatto ambientale delle opere, sulla correttezza contabile delle imprese, sulle loro eventuali connessioni con soggetti mafiosi, sul rispetto dei diritti dei lavoratori. Del resto, già in passato abbiamo visto come il concetto di riforma fosse tutto impostato in chiave pro imprese e pro investimenti, trasformandosi, di fatto, in un processo di demolizione dei diritti dei lavoratori nel campo delle assunzioni, dei licenziamenti, della sicurezza, dell’attività sindacale. Dunque, è meglio drizzare le orecchie quando sentiamo pronunciare la parola «riforme».

Le sei «missioni» del piano

Mappa tricolore dell’Italia. Foto MMedia – Pixabay.

Volendoci focalizzare sulle spese previste dal Pnrr, che poi rappresentano l’argomento forte del piano, si possono analizzare sotto vari profili: per finalità, per settori, per ripartizione geografica, per ricaduta sociale per ricaduta ambientale. Ma volendo seguire l’ordine espositivo utilizzato dal Pnrr, si può senz’altro cominciare dicendo che le spese sono suddivise in sei grandi capitoli, più religiosamente definiti «missioni»: innovazione, transizione ecologica, mobilità sostenibile, istruzione e ricerca, inclusione e coesione, salute.

L’innovazione assorbe 50 miliardi, il 21% della spesa complessiva, e serve in gran parte a potenziare il processo di digitalizzazione della pubblica amministrazione, ma soprattutto del settore produttivo privato che assorbirà i 4/5 della spesa.

La transizione ecologica assorbe 70 miliardi, il 30% della spesa complessiva, ed è finalizzata a interventi per promuovere l’economia circolare, per mitigare la produzione di anidride carbonica, per potenziare la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili. In questo capitolo ricadono anche le spese per il superamento dei veicoli a motore e per la riqualificazione energetica degli edifici.

La cosiddetta mobilità sostenibile assorbe 31 miliardi, il 13% della spesa complessiva e si riferisce in gran parte all’ammodernamento del sistema ferroviario (alta velocità), autostradale, portuale. Per tale ragione aveva più senso chiamare questa sezione «ammodernamento infrastrutturale».

Istruzione e ricerca assorbono 34 miliardi di euro, il 15% della spesa complessiva ed è suddivisa in due grandi capitoli: istruzione pubblica e ricerca al servizio delle imprese.

L’inclusione e coesione assorbe 30 miliardi, il 13% della spesa complessiva ed è finalizzata a migliorare gli uffici di collocamento, ad assistere l’imprenditorialità giovanile e femminile, a fornire protezione sociale a chi subisce contraccolpi occupazionali a causa dell’innovazione tecnologica.

Infine, la sanità assorbe 20 miliardi, l’8% della spesa complessiva, ed è finalizzata a potenziare la medicina del territorio e altre infrastrutture sanitarie.

Il senso del limite e l’ottica della sobrietà

Il Pnrr è stato molto elogiato dalle imprese e molto criticato dalle associazioni ambientaliste. Alle imprese è piaciuto perché prevede molti soldi per loro. Va detto, infatti, che non tutte le spese preventivate dal piano saranno eseguite direttamente dal governo o dagli enti locali. Parte di esse saranno delegate a famiglie e imprese. Le famiglie, ad esempio, riceveranno soldi per interventi di miglioramento energetico alle proprie abitazioni. Le imprese, invece, per l’ammodernamento energetico, informatico o ambientale delle proprie attività produttive. Per quale importo, il piano non lo dice con precisione: verosimilmente oltre i 40 miliardi di euro che poi rappresentano il 17% dell’intero stanziamento.

Gli ambientalisti contestano al piano di non impegnarsi abbastanza per limitare la produzione di rifiuti e di CO2, ma solo di volerne ridurre gli effetti. Gli rimproverano di concentrarsi troppo sui trasporti di lunga distanza e poco su quelli locali, di non spendere abbastanza per la difesa del territorio.

In una parola gli contestano di non fare nessun tentativo per invertire il senso di marcia verso una società che faccia i conti con il senso del limite, una società che cioè tenti di riorganizzare produzione, consumo, mobilità rifiuti, edifici, servizi pubblici in un’ottica di sobrietà che però garantisca a tutti di vivere dignitosamente nel rispetto della piena inclusione lavorativa.

«Transizione» non significa «conversione»

Questa prospettiva avrebbe richiesto non solo più investimenti verso l’energia elettrica di tipo rinnovabile, verso la mobilità pubblica locale di tipo sostenibile, verso un programma integrale di recupero e riciclaggio di tutti i rifiuti, verso la ristrutturazione edilizia generalizzata finalizzata al risparmio energetico, ma anche più impegno per la messa in sicurezza del territorio indebolito da decenni di cementificazione selvaggia e di abbandono delle zone montane. Più impegno per organizzare una formazione scolastica capace di mettere i cittadini in condizione di saper badare a se stessi tramite la «prosumazione» (consumazione di ciò che si produce) ossia ricorrendo il meno possibile agli acquisti. Più impegno per potenziare i servizi pubblici gratuiti specie nelle periferie e nelle zone più disagiate con il duplice compito di promuovere il ripopolamento delle zone abbandonate e di evitare lunghi ed estenuanti spostamenti per il semplice godimento di servizi essenziali. Interventi, insomma, per evitare che la stretta sui carburanti si trasformi in un castigo per i più poveri. Ed è con questa attenzione di tipo sociale che gli ambientalisti ci richiamano alla necessità di non limitarci a una pura e semplice «transizione tecnologica», ma di procedere verso una vera e propria «conversione ecologica». Più di un cambio di tecnologia, un cambio dell’essere.

Francesco Gesualdi

 




Clima, cibo, economia: dalla Cop26 al G20

testo di Chiara Giovetti |


La conferenza sul clima Cop26, il vertice Onu sui sistemi alimentari e il G20 si sono svolti o stanno per svolgersi in questo autunno 2021. Le decisioni e gli indirizzi che forse emergeranno da questi eventi potrebbero rivelarsi decisivi per il futuro del pianeta e del modo in cui affronteremo le crisi sanitarie, alimentari e ambientali che verranno.

Il 23 settembre si è tenuto a New York il vertice delle Nazioni Unite sui sistemi alimentari, uno degli eventi previsti nell’ambito del cosiddetto Decennio di azione sulla nutrizione@ che è iniziato nel 2016 e si concluderà nel 2025. Lo scorso luglio a Roma, presso la Fao, agenzia Onu per il cibo e l’agricoltura, si è svolto il prevertice, ospitato dal governo italiano.

Il 30 e 31 ottobre sarà la volta del G20@, il forum internazionale che riunisce i 19 paesi del mondo più industrializzati (Argentina, Australia, Brasile, Canada, Cina, Francia, Germania, India, Indonesia, Italia, Giappone, Messico, Russia, Arabia Saudita, Sudafrica, Corea del Sud, Turchia, Gran Bretagna e Stati Uniti) più l’Unione europea, che si svolgerà a Roma.

Infine, dal 31 ottobre al 12 novembre avrà luogo a Glasgow, in Scozia, la 26° Conferenza delle parti aderenti alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, o Cop26@. L’Italia organizza la Conferenza insieme al Regno Unito e ha ospitato a settembre gli eventi preparatori come il vertice pre-Cop@, l’ultimo incontro ministeriale prima dell’inizio dei lavori a Glasgow, con l’obiettivo di «fornire a un gruppo selezionato di paesi un ambiente informale per discutere e scambiare opinioni su alcuni aspetti politici chiave dei negoziati e offrire per questi ultimi una guida politica».

I tre eventi affrontano temi fra loro profondamente legati: clima, cibo, economia. Due degli incontri, la Cop26 e il G20, hanno anche il potenziale di definire accordi che determineranno davvero le successive azioni dei paesi partecipanti. Lo ha sottolineato lo scorso luglio il presidente del Consiglio italiano, Mario Draghi, in occasione del prevertice sui sistemi alimentari alla Fao: «La presidenza italiana del G20 ha individuato le priorità per migliorare la sicurezza alimentare globale. Tra queste, l’impatto negativo dei cambiamenti climatici sarà al centro della Cop26 che l’Italia presiede con il Regno Unito. […] Alla Cop26, a Glasgow, vogliamo raggiungere un accordo ambizioso sul clima»@.

Disinfezione prima della messa a Tura Mission contro il Covid-19

Premesse: il fallimento della Cop25

L’ultima Conferenza sul clima, svolta a Madrid nel 2019, era stata un insuccesso. Marlowe Hood, corrispondente dell’agenzia Afp, ha individuato cinque possibili motivi del fallimento@: il primo era, a suo dire, la gestione amatoriale dei negoziati, dovuta alla non impeccabile leadership del paese organizzatore, il Cile, che non avrebbe svolto in modo efficace il ruolo di mediatore che è fondamentale in incontri diplomatici di questo tipo.

Il secondo motivo era la presenza ingombrante di lobbisti delle aziende che producono combustibili fossili (la volpe nel pollaio, rimarcava Marlowe), con le conseguenti interferenze in negoziazioni il cui scopo è in larga parte quello di ridurre la dipendenza del pianeta proprio da quei prodotti. Vi era stato poi il «corrosivo effetto-Trump», cioè il disimpegno – per non dire il boicottaggio – sulle questioni climatiche manifestato dagli Usa nel quadriennio della presidenza di Donald Trump. Infine, l’atteggiamento tiepido della Cina che, con il 29% di emissioni di CO2, «ha in mano il destino del pianeta»: alla Cop25 Pechino «ha puntato i piedi e, sostenuta dall’India, ha invocato il principio secondo cui i paesi ricchi devono assumere un ruolo guida nell’affrontare il cambiamento climatico, denunciando il loro fallimento nel mantenere le promesse fatte», vincolando poi al rispetto di queste ultime la propria disponibilità a prendere impegni. Secondo diversi esperti, infatti, la Cina adotterà delle misure significative solo se l’Unione europea confermerà il suo obiettivo di impatto zero entro metà secolo e si impegnerà a ridurre le emissioni di almeno il 55% entro il 2030.

Infine, concludeva Hood, il fallimento della Cop25 è stato probabilmente il sintomo di una più ampia crisi della cooperazione e del multilateralismo legata all’ascesa di nazionalismi e populismi e alla tendenza dei governi a contrarre la spesa pubblica.

Che cosa dovrà decidere la Cop26

La conferenza di Glasgow dovrà, dunque, riprendere le fila di un dialogo interrotto nel 2019 e puntare a decisioni più ambiziose possibile. A cominciare dall’impegno per mantenere l’aumento della temperatura globale sotto il grado e mezzo, che a sua volta richiede il raggiungimento dell’obiettivo di azzerare le emissioni entro il 2050 e maggior decisione e incisività nel promuovere le alternative ai combustibili fossili.

Se il rientro degli Usa nell’accordo di Parigi sul clima, deciso dal presidente Joe Biden, e le alluvioni dello scorso agosto in Germania e Belgio@ sono elementi che suggeriscono un’aumentata sensibilità dei governi all’urgenza di reagire al cambiamento climatico, permangono comunque forti resistenze. Durante l’incontro del G20 a Napoli dello scorso luglio, il presidente della Cop26, Alok Sharma, ha riferito alla Bbc@ che il tema del cambiamento climatico è stato in effetti affrontato dalle venti principali economie del mondo – responsabili dell’80% delle emissioni – e si è visto un generale consenso circa la necessità di eliminare il carbone dalla produzione di energia. Purtroppo, Cina e India, due attori di primaria importanza nell’eventuale processo di decarbonizzazione, si sono opposte con decisione.

Altro elemento che rappresenta un’incognita è il ruolo della pandemia sui negoziati della Cop26. Se, da un lato, molte persone nel mondo sembrano aver recepito la pandemia come un motivo di riflessione sulla sostenibilità della presenza umana sul pianeta, dall’altro, opinioni pubbliche le cui economie sono provate da lockdown e restrizioni potrebbero mostrarsi restie ad accettare i costi degli investimenti richiesti per un’efficace transizione verso fonti di energia e stili di vita più sostenibili.

I negoziatori dovranno tenere conto di tutti questi aspetti e anche delle proposte e richieste emerse dal 28 al 30 settembre dallo Youth Summit@ il vertice che ha riunito a Milano 400 giovani, di età compresa fra i 18 e i 29 anni, da 197 paesi – in modo da includere il punto di vista delle generazioni che saranno più esposte alle conseguenze del cambiamento climatico.

Il G20 e la cooperazione

Il G20, o Gruppo dei 20, e gli incontri fra i leader e i ministri dei paesi che lo compongono, ha le sue origini nella necessità di coordinare gli sforzi delle principali economie del mondo per reagire alle crisi finanziarie della fine dello scorso millennio, a cominciare da quella del 1999 che interessò diversi paesi asiatici – Thailandia, Indonesia, Corea del Sud, Malaysia – e si estese poi a Brasile e Russia@.

In quell’anno e per i successivi nove, alle riunioni del G20 parteciparono i ministri delle finanze e i governatori delle banche centrali dei paesi membri. Con la crisi finanziaria del 2008, su iniziativa del presidente Usa George W. Bush cominciarono i vertici del G20 che coinvolgevano i capi di Stato e di governo. Dal 2010 questi incontri hanno cadenza annuale con il paese ospitante che cambia ogni anno@.

Le decisioni prese ai summit non sono vincolanti da un punto di vista giuridico, ma il loro peso politico e di indirizzo può essere molto elevato. Fra i temi connessi alla cooperazione e allo sviluppo che il vertice di Roma dovrà affrontare, vi è la ristrutturazione del debito per i paesi a basso e medio reddito. Nelle economie fragili, l’espansione della spesa pubblica e il maggior indebitamento imposti dalla pandemia rischiano di risultare insostenibili e così, già a novembre dell’anno scorso, i paesi del G20 avevano deciso di congelare il debito. Un provvedimento temporaneo e di emergenza che il summit di Roma dovrebbe tentare di sostituire con un accordo più articolato di riduzione o rinegoziazione@.

Altro tema che dovrebbe ricevere attenzione da parte dei leader del G20 è quello dell’accesso al cibo, dal momento che le persone in condizione di grave insicurezza alimentare sono aumentate dai 690 milioni del 2019 agli 820 milioni attuali, in larga parte a causa della pandemia@.

Il vertice Onu sui sistemi alimentari

Proprio del cruciale tema del cibo si è occupato il vertice Onu sui sistemi alimentari che si è svolto a New York il 23 settembre scorso. Il suo obiettivo, si legge sul sito istituzionale, era di suscitare la consapevolezza che occorre «lavorare insieme per trasformare il modo in cui il mondo produce, consuma e concepisce il cibo»@.

Per sistemi alimentari si intende tutta la «costellazione di attività coinvolte nella produzione, lavorazione, trasporto e consumo di alimenti». Uno dei principali problemi che il vertice intendeva affrontare era quello dei sistemi alimentari fragili e a rischio di collasso, «come milioni di persone in tutto il mondo hanno sperimentato in prima persona durante la crisi del Covid-19».

L’obiettivo era quello di individuare soluzioni e stabilire principi di riferimento che possano guidare il cambiamento di questi sistemi nella direzione di una maggior sostenibilità e garantire a tutti l’accesso al cibo. Alla chiusura di questo articolo (fine agosto 2021, nda) non è possibile dare conto dei risultati del vertice; certamente però le critiche che hanno preceduto il suo svolgimento sono state numerose e aspre.

Il prevertice di luglio e le critiche

Queste critiche sono emerse già in occasione del prevertice che si è svolto alla Fao nel luglio scorso, attraverso prese di posizione come quelle della piattaforma Csm (Civil society and indigenous peoples’ mechanism)@ che riunisce organizzazioni della società civile attive nella lotta all’insicurezza alimentare e alla malnutrizione: nonostante affermi di essere un «vertice del popolo» e un «vertice delle soluzioni», è l’accusa del Csm, questo summit favorisce piuttosto una maggiore concentrazione nelle mani delle multinazionali, promuove catene del valore globalizzate insostenibili e rafforza l’influenza dell’agroindustria sulle istituzioni pubbliche. E lo fa proponendo «false soluzioni, come i modelli falliti degli schemi volontari per la sostenibilità aziendale, soluzioni “naturali” che includono tecnologie rischiose come gli organismi geneticamente modificati e la biotecnologia e l’intensificazione sostenibile dell’agricoltura». Queste soluzioni, continua il Csm, non sono né sostenibili, né abbordabili per i produttori alimentari su piccola scala e non affrontano le ingiustizie strutturali come l’accaparramento di terre e risorse, l’abuso di potere da parte delle grandi aziende e la disuguaglianza economica.

Anche il Vaticano ha preso posizione nel dibattito. Nel suo intervento al prevertice, il cardinale Peter Kodwo Turkson, prefetto del dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale, ha ricordato che per individuare soluzioni davvero sostenibili è opportuno guardare ai popoli indigeni e alla loro capacità di adattare i metodi di coltivazione alle condizioni che via via si presentano, mentre occorre porre un freno all’opposto tentativo di spazzare via queste conoscenze: «L’utilizzo delle tecniche tradizionali si è dimostrato fondamentale per la vitalità e la resilienza delle colture e delle specie alimentari indigene, mentre l’introduzione di specie straniere, accompagnate da fertilizzanti, pesticidi, erbicidi, “compromette gravemente questa vitalità, e l’agricoltura tradizionale locale in Africa lo dimostra”»@.

Chiara Giovetti




L’ad gentes della cooperazione

testo di Chiara Giovetti |


Salute mentale in Costa d’Avorio, biogas per le scuole del Kenya, rifugiati venezuelani in Brasile. Sono tre degli ambiti nei quali i missionari della Consolata si impegneranno in questo 2020,  cercando di coniugare la più che centenaria esperienza di lotta alla povertà con gli attuali temi dell’inclusione e dell’ambiente.

(© AfMC/Ariel Tosoni)

1. Costa D’Avorio

La malattia mentale, terra di nessuno della sanità

«Si può dire che i malati mentali siano l’ad gentes del mondo della salute: quelli che nessuno ha ancora avvicinato, di cui nessuno vuole occuparsi». Padre Matteo Pettinari, missionario italiano che lavora a Dianra, Costa d’Avorio, usa questa immagine per sottolineare come la salute mentale sia ancora un ambito inesplorato e ai margini, così come ad gentes indica appunto la missione che si rivolge a chi ancora non è stato raggiunto dall’annuncio del Vangelo.

Insieme ai confratelli padre Ariel Tosoni, argentino, e padre Raphael Ndirangu, kenyano, padre Matteo ha avviato un dialogo con la sanità pubblica ivoriana, in particolare con il professor Asséman Médard Koua, direttore dell’ospedale psichiatrico di Bouaké – struttura sanitaria che si occupa della salute mentale di tutta la regione settentrionale del paese – e con la sua équipe. «L’ospedale in cui il professor Koua lavora», spiega padre Ariel, «dovrebbe gestire i pazienti psichiatrici di un bacino d’utenza pari a undici milioni di persone».

Numeri in linea con quelli riportati sul sito di Samenta-com@, il progetto di salute mentale comunitaria lanciato dal ministero della Salute e igiene pubblica ivoriano e dalla tedesca Mindful-Change-Foundation.

In Costa d’Avorio, si legge sul sito, a partire dal 2002 la popolazione è stata colpita psicologicamente e socialmente dalle varie crisi, cioè dai disordini e conflitti che hanno scosso il paese nel primo ventennio del XXI secolo. L’offerta e l’accesso alle cure per la salute mentale sono limitati: due ospedali psichiatrici pubblici e circa trenta psichiatri per oltre 26 milioni di abitanti.

Secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, le persone colpite da disturbi mentali e neurologici sono presenti in tutte le regioni del mondo, in tutti i contesti sociali e in ogni fascia d’età, indipendentemente dal livello di reddito dei loro paesi. A livello mondiale, il peso di questi disturbi sul carico complessivo delle malattie è del 14%; nei paesi a basso reddito tre su quattro pazienti affetti da tali disturbi non hanno accesso alle cure di cui hanno bisogno.

(© AfMC/Ariel Tosoni)

«Chi li aiuterà se non voi?»

In Costa d’Avorio esiste un coordinamento chiamato Urss-Ci, acronimo di Unione dei religiosi e delle religiose nella salute e nel sociale in Costa d’Avorio, del quale i missionari della Consolata sono parte. «Il professor Koua ci ha avvicinato in quanto membri Urss-Ci», spiegano ancora i padri Matteo, Ariel e Raphael. «La sanità pubblica fatica a seguire questi malati, ci ha detto il medico: se anche voi religiosi impegnati nell’ambito sanitario restate prigionieri di timori e remore e li rifiutate, allora chi li aiuterà?».

A questo primo dialogo è succeduta poi una sessione di formazione che lo psichiatra ha tenuto al centro sanitario Beato Joseph Allamano (Csja) di Dianra, gestito dai missionari della Consolata, e l’avvio di una collaborazione che ha coinvolto anche il neonato Distretto sanitario di Dianra per mezzo del suo direttore.

Sono già attivi alcuni servizi che permettono di seguire pazienti affetti da epilessia e da malattie psichiatriche: tutte persone che la comunità emargina perché le considera possedute.

«Fin dalla prima visita del professor Koua al centro sanitario», racconta padre Matteo, «abbiamo toccato con mano l’urgenza di fornire servizi in questo ambito. Noi missionari non avevamo fatto preventivamente una grande pubblicità alla cosa. Avevamo giusto segnalato, durante la messa e nelle comunità di base, che sarebbe venuto un medico specializzato in salute mentale e che, se qualcuno conosceva persone con disturbi di questo tipo, poteva farle venire per una consultazione: si sono presentate 72 persone solo il primo giorno».

Oggi il centro di Dianra lavora applicando un protocollo e utilizzando schede fornite da Samenta-com; offre consultazioni ai pazienti per identificarne con precisione, sulla base di una serie di domande contenute nelle schede, il tipo di disturbo e definire poi la terapia.

(© AfMC/Ariel Tosoni)

Formare operatori

ll 2020 sarà dunque l’anno in cui si penserà a come dare maggior forma, struttura ed efficacia a questa collaborazione appena partita e già così significativa. «Certo», riconoscono i missionari di Dianra, «non possiamo fare un centro psichiatrico. Ma se già con la formazione del nostro personale sanitario siamo in grado di accompagnare diverse di queste persone che prima erano lasciate ai margini, perché non pensare a uno spazio piccolo e semplice da costruire – ad esempio un appatam, la versione locale della paillote – che diventi una sorta di centro dove i pazienti possano svolgere attività diurne?».

Lo spazio, per come lo stanno concependo i missionari, potrebbe ospitare corsi di teatro, danza e varie forme di arte-terapia che vanno dalla pittura alla musica e alla scrittura, e diventerebbe un luogo dove, anche grazie all’aiuto di volontari, si ferma la dinamica di emarginazione e ci si sforza, viceversa, di invertirla, riavvicinando di nuovo i pazienti psichiatrici al resto della comunità attraverso l’arte come strumento di socializzazione.

Immagini della costruzione dell’impianto di biogas finanziato dalla Caritas italiana nel 2019 (© AfMC/Denis Mwenda)

2. Kenya, il biogas

Energia pulita per le scuole

La ricerca di fonti energetiche rinnovabili resa urgente negli ultimi anni dalla necessità di limitare le emissioni di anidride carbonica ha portato maggior attenzione sulle cosiddette biomasse, di cui fanno parte i rifiuti biodegradabili derivanti dall’agricoltura e dall’allevamento. Il biogas può essere prodotto a partire da questi rifiuti e utilizzando i cosiddetti digestori.

I digestori, spiega la Fao, sono grandi serbatoi in cui il biogas viene prodotto attraverso la decomposizione di materia organica mediante un processo chiamato digestione anaerobica. Sono chiamati digestori perché il materiale organico viene «mangiato» e digerito dai batteri per produrre biogas@.

Nel 2019, una delle strutture educative gestite dai missionari della Consolata in Kenya, la scuola materna e primaria Familia Takatifu (Santa Famiglia) di Rumuruti, in Kenya, ha utilizzato questo metodo per dotarsi del gas necessario a soddisfare il fabbisogno di energia della cucina che serve gli oltre 700 allievi della scuola.

Il progetto, finanziato da Caritas Italiana nell’ambito del suo programma che sostiene ogni anno centinaia di microprogetti nel mondo, si è concluso lo scorso gennaio e ha visto diverse fasi: lo scavo dello spazio dove collocare il digestore, la costruzione di quest’ultimo in cemento, l’introduzione della biomassa nel digestore, la sua messa in funzione per la produzione di biogas e l’installazione nelle strutture della scuola di un impianto in grado di portare il gas dal punto dove viene prodotto alla cucina.

Immagini della costruzione dell’impianto di biogas finanziato dalla Caritas italiana nel 2019 (© AfMC/Denis Mwenda)

I vantaggi del biogas

«La scuola ora usa il sistema a biogas per la cottura dei cibi, la bollitura dell’acqua e anche, in parte, per l’illuminazione», riporta il responsabile di progetto padre Denis Mwenda Gitari. «Il residuo prodotto, inoltre, si può usare come fertilizzante per l’orto della scuola e», conclude il missionario, «il biogas ci permette ora di risparmiare sui costi necessari a garantire la qualità e la continuità delle attività scolastiche».

Già nel 2013 a Familia ya Ufariji, la casa per i ragazzi di strada che i missionari della Consolata gestiscono nella capitale Nairobi, si era installato un biodigestore che usava scarti e rifiuti della struttura integrati con quelli derivanti dall’allevamento di sei mucche e tre vitelli@. Nel corso del 2020 si tenterà poi di portare il biogas anche nella scuola primaria di Mukululu.

Le tecnologie per la produzione di questo tipo di energia si sviluppano continuamente e cercano di adattarsi alle esigenze e al potere d’acquisto delle comunità rurali dove vengono utilizzate. Il Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo delle Nazioni Unite (Ifad) promuove, nel suo portale dedicato alle soluzioni per lo sviluppo rurale individuate dalle comunità locali@ , un sistema per la produzione di biogas che è più flessibile@ perché utilizza plastica e non cemento per costruire digestori trasportabili, facili da installare e rapidamente produttivi.

Costruzione dell’impianto di biogas per la scuola Familia Takatifu a Rumuruti (© AfMC/Denis Mwenda)

 


3. Boa vista

La migrazione venezuelana

La situazione politica ed economica del Venezuela non ha ancora smesso di spingere migliaia di persone a emigrare. L’Alto Commissariato Onu per i rifugiati parla di 4 milioni e mezzo di migranti e rifugiati Venezuelani nel mondo@.

Alimentação crianças – alimentazione dei bambini (© AfMC/Jaime Patias)

Il reportage di Marco Bello e Paolo Moiola, di cui nel numero scorso di MC è uscita la prima puntata@ – vedi questo MC pag. 10 -, ha raccontato la vita dei migranti venezuelani arrivati nello stato brasiliano di Roraima e, in particolare, delle oltre 630 persone che vivono in uno spazio occupato e autogestito a Boa Vista. Ka Ubanoko, questo il nome dello spazio, ospita 150 famiglie indigene in prevalenza di etnia warao, ma ci sono anche gruppi E’ñepa, Cariña, Pemon e 76 famiglie non indigene.

Un’équipe itinerante di missionari della Consolata assiste questi rifugiati e migranti: da fine luglio 2019, cento bambini e venti adulti hanno cominciato a ricevere ogni martedì e venerdì un pasto preparato sul posto da volontari. I fondi per l’intervento sono venuti da donatori privati che sostengono direttamente l’Istituto missioni Consolata (Imc), da benefattori della città di Boa Vista e da alcune parrocchie del Sud del Brasile più sensibili alla situazione dei migranti e dei rifugiati.

Dallo scorso dicembre, grazie al sostegno di un donatore statunitense, è stato possibile intensificare e stabilizzare il programma di lotta alla malnutrizione, estendendolo a 12 mesi (cioè per tutto il 2020) e aumentando fino a 150 i bambini e a trenta gli adulti assistiti.

(© AfMC/Jaime Patias)

Bambini sradicati

«Una delle conseguenze più preoccupanti di questa situazione», riportava lo scorso autunno il consigliere generale Imc, padre Jaime Patias, al rientro dalla sua visita a Ka Ubanoko, «è che questi bambini, completamente sradicati, non riceveranno per mesi, forse per anni, alcuna forma di istruzione». Uno dei rischi connessi alla crisi venezuelana, in altre parole, è quello di far crescere una generazione di giovani privi di formazione e di competenze, limitando molto le loro possibilità di contribuire in modo attivo alla ricostruzione del loro paese.

Alimentação crianças – alimentazione dei bambini – volontari al lavoro per preparare il cibo (© AfMC/Jaime Patias)

Per questo, prima del pasto, i bambini seguiti dall’équipe missionaria ricevono almeno una formazione civico-sociale. Nel corso del 2020 si valuterà la fattibilità di un intervento il cui obiettivo sia quello di fornire a questi bambini una formazione più continua e strutturata.

Chiara Giovetti