Donne che scrivono la storia
Cosa accade quando le vicende della gente commune si incontrano con la grande Storia? Ce lo illustrano le autrici de «Le storie siamo noi». Una preziosa operazione di riscatto della memoria e della tradizione orale, in cui emerge il ruolo di avanguardia delle donne, protagoniste spesso dimenticate.
«Ognuno di noi lascia una traccia. Quando si cammina scalzi sulla spiaggia, sul prato bagnato, nel fango, i piedi imprimono un’orma. Dentro c’è la nostra biografia rara, anzi unica».
Così scrive Anna Grieco ne La notte uterina, uno dei 59 racconti contenuti nel volume «Le storie siamo noi», pubblicato nel febbraio scorso dall’editore Fernandel di Ravenna.
La raccolta, realizzata da diciotto autrici di età compresa tra i 45 e gli 80 anni, ci guida attraverso un inedito viaggio nel tempo: dal 1908 ai giorni nostri la «Storia» con la S maiuscola incrocia le vicende della gente comune, vissute in prima persona da chi scrive o sentite narrare dai propri famigliari e da testimoni ormai scomparsi.
Si tratta di una preziosa operazione di riscatto della memoria e della tradizione orale, che permette di salvare dall’oblio persone, avvenimenti, territori altrimenti destinati a essere cancellati per sempre dallo scorrere del tempo.
Donne resilienti
L’idea di realizzare questa raccolta è nata all’interno delle «Donne di parola», un gruppo di scrittura attivo dal 1997 nella periferia nord di Torino, coordinato da Claudia Manselli.
«All’epoca il Centrodonna della VI Circoscrizione, nel quartiere popolare Barriera di Milano, propose un corso di avvicinamento alla scrittura pensato per le donne, cui si chiedeva il coraggio di mettersi in gioco, di cercare la propria voce, vincendo insicurezze e tabù», ricorda Claudia. «Ci s’incontrava e si scriveva una volta alla settimana, dalle cinque alle sette. Molte donne erano sorprese dalle loro capacità, sperimentate prima solo nella costrizione dei temi scolastici.
Leggere ad alta voce un proprio testo risultava sconcertante anche quando apparivano doti inaspettate.
Alcune cercavano di schermirsi, quasi sempre svalutandosi».
Da quella prima esperienza è scaturito il desiderio di continuare l’avventura, grazie anche alla disponibilità di Claudia che a un certo punto ha scelto di offrire i suoi insegnamenti a titolo gratuito, «perché i rapporti tra noi fossero liberi da secondi fini».
Per oltre vent’anni le Donne di parola hanno perseverato nella loro ricerca di una scrittura personale, capace di rompere il silenzio dettato dalle convenzioni e dalle convenienze sociali, rivendicando il diritto, la libertà e la gioia di esprimersi.
La musa ispiratrice del gruppo – formato oggi da casalinghe, impiegate, docenti, assistenti sociali, pensionate, ecc. – è stata da sempre Professioni per le donne di Virginia Woolf, in cui la scrittrice inglese uccide simbolicamente l’angelo del focolare colpevole di inibire la creatività femminile.
Con l’arrivo della pandemia la potenza della parola, fino a quel momento impiegata per ripensare le proprie esistenze e le proprie identità creando condivisione e scambi culturali, si è trasformata anche in uno strumento di resilienza e di rivincita contro l’isolamento.
«Durante il lockdown, quand’eravamo rinchiusi in casa, impossibilitati a portare avanti le nostre attività e a incontrare le persone care, ero piuttosto abbattuta, perciò ho accolto con piacere l’invito di un’amica, “veterana” del gruppo, a cimentarmi anch’io negli esercizi di scrittura che Claudia proponeva ogni settimana e su cui ci confrontavamo in videoconferenza», racconta Stefania Garini. «Ero abituata a scrivere per lavoro ma non mi ero mai dedicata alla scrittura creativa, ed ero convinta di non avere fantasia; grazie a questa esperienza ho scoperto di possedere qualità che ignoravo. Sono grata alle Donne di parola che mi hanno accolta tra loro e mi hanno insegnato tanto.
Nei due anni più gravi della pandemia, l’esperienza nel gruppo è stata per me una sorta di prevenzione dal disagio psichico, che mi ha permesso di sentirmi meno sola, occupare il tempo e trovare un senso nuovo a giornate in tono minore».
Proprio durante la pandemia Claudia Manselli ha avuto un’idea: perché non creare una raccolta di fatti originali, facendo emergere i momenti in cui le storie individuali – quelle di cui magari rimane solo un oggetto, una foto, un ricordo personale che altrimenti andrebbe perduto – si sono imbattute nella storia collettiva?
Rapporti di forza
Ecco dunque fissate sulla carta vicende che si intersecano con le due guerre mondiali, il fascismo, le migrazioni, il ’68, la legge Basaglia, il terrorismo, i referendum su divorzio e aborto, le stragi di mafia. E ancora l’incendio al cinema Statuto, i mondiali di calcio, le vittime dell’Eternit, fino alla pandemia da Covid-19.
In alcuni casi «Le storie siamo noi» racconta fatti direttamente legati agli eventi della grande storia: il bambino che a cinque anni conosce per la prima volta il padre, reduce di guerra; la piccola sfollata in seguito all’alluvione del ‘66, costretta ad andare a servizio da una famiglia che la relega nello sgabuzzino; gli studenti che manifestano contro la guerra del Vietnam; il giovane obbligato a sposarsi con rito civile perché il Sant’Uffizio ha lanciato una scomunica contro gli aderenti al partito comunista; il malato di mente torturato nel manicomio dove l’elettrochoc è ancora la norma.
In altri racconti gli avvenimenti storici restano sullo sfondo e a emergere sono i dettagli della vita quotidiana e del folclore: il lavoro nei campi, i chilometri a piedi per raggiungere la scuola, le vacanze in colonia, il festival di Sanremo visto in tv al bar del paese, l’ascensore che funziona inserendo monete da dieci lire.
A volte bastano poche, semplici pennellate per ricostruire un’intera epoca, con i suoi processi produttivi e le sue gerarchie sociali. Scrive Pierisa Cavallero in Nascite e prodigi: «Nelle stanze di sopra si allestivano i graticci per i futuri bachi da seta. Si sceglievano i locali più luminosi e meno umidi, quelli che si potevano aerare. […] La famiglia dormiva nelle stanzette accanto alla stalla. Si mettevano diversi materassi di foglie di granturco a terra e ci si accampava lì. Solo gli anziani suoceri avevano il privilegio di riposare su un pagliericcio coperto da un piumino d’oca».
Nel racconto Oro, Maria Muresan ricorda l’infanzia in Romania, quando i contadini dei collettivi dovevano cedere allo Stato tre quarti del raccolto: «Per poter vivere, di notte si andava a rubare quello che si lavorava di giorno, cioè il mais, le barbabietole, il grano. Una sera io, che avrò avuto nove anni, e mia sorella Violeta, che aveva un anno e mezzo di più, siamo andate a rubare le nostre patate. Nello stesso campo abbiamo incontrato i figli dei vicini, bambini come noi. Ci siamo spaventati tutti, ma una volta capito chi eravamo, abbiamo iniziato a giocare a nascondino».
Un antidoto al «presentismo»
Come scrive nell’introduzione al volume Valentina Pazè, docente di filosofia politica all’Università di Torino: «Grande è l’attenzione per i dettagli, a partire dalla descrizione degli ambienti e degli oggetti della vita quotidiana: le case di ringhiera della Torino di inizio secolo, le battane e le fiocine usate dai ladri di anguille, l’acqua di rose per farsi belle il giorno del matrimonio, lo sciaraball (carretto, nda) per muoversi nelle campagne, il lume a petrolio che rischiara le stanze degli anni Sessanta ancora prive di elettricità. Le vicende rimandano in parte a un mondo che non c’è più (i maestri che bacchettano sulle mani gli scolari, le lenzuola d’inverno intiepidite con un mattone caldo, l’olio di fegato di merluzzo, i peccati mortali e veniali da studiare a memoria al catechismo, il Carosello prima di andare a dormire), in parte a eventi e sentimenti perenni: la nascita, la morte, l’amicizia, l’abbandono, lo sconforto, la paura, la ribellione. E lo spaesamento di chi vive diviso tra due mondi, come testimoniano le molte storie dedicate al tema dell’emigrazione».
Le vicende narrate permettono di spostarsi non solo nel tempo ma anche nello spazio, attraverso il nostro Paese e oltre:
dal Piemonte alla Campania, dal Veneto alla Puglia fino alla Transilvania, al Burkina Faso, a Cuba, agli Stati Uniti e nelle terre dell’emigrazione italiana, in un viaggio storico-geografico ma soprattutto antropologico.
I lettori più anziani possono ritrovare pezzi e ricordi della propria giovinezza, rivivere momenti che sono stati importanti per la loro emancipazione, mentre i più giovani possono trarne una migliore comprensione del passato e confrontarsi pure con memorie più recenti che coinvolgono anche loro.
In questo senso, secondo Pazè, il libro costituisce un «antidoto alle amnesie e al “presentismo” (considerare solo il presente, dimenticando il passato, ndr) di cui è malato il nostro tempo».
Spinte in avanti
A differenza di quello che molti si aspettano dalla letteratura femminile, in «Le storie siamo noi» l’argomento sentimentale viene solo sfiorato dalle varie autrici, interessate piuttosto a dinamiche di solidarietà sociale, riconoscimento dei diritti umani e civili, impegno politico. In linea con José Saramago, quando afferma che «la storia è spuma che arriva alla spiaggia del presente, mare che muove quell’onda e ci spinge avanti».
In particolare, quel che emerge ai margini della storia è il ruolo delle donne, depositarie da sempre di drammi, gioie, scelte eroiche, cambiamenti epocali. «Insieme abbiamo scoperto che la verità, quella profonda, deve essere faticosamente cercata, anche con dolore», ci dicono le Donne di Parola. E può accadere che il prezzo da pagare sia troppo alto. Questo spiega perché, dei sessanta racconti originari, uno sia stato escluso dalla pubblicazione per scelta dell’autrice: avrebbe causato troppo dolore ad alcuni dei discendenti, ancora in vita, della protagonista del racconto, una donna che nel ’46 ha compiuto atti coraggiosi, ma anche scabrosi per i suoi tempi. Una donna le cui tracce sulla sabbia verranno cancellate dalla spuma del mare.
Nel libro un’attenzione importante è dedicata alla natura, presenza costante che emerge a tratti con il suo volto più duro (quando si presenta come siccità, grandinate, alluvioni), ma più spesso si mostra quale fonte di vita, rigenerazione fisica e morale, energia spirituale.
È qui, come leggiamo nel racconto Bosco del Vaj, di Elena Leonelli, che «troviamo la quiete e la forza di reagire alla barbarie dei nostri tempi». Ed è sempre nella natura – come anche nella scrittura – «che cresce il desiderio di un mondo migliore, la speranza nelle nuove generazioni, la necessità di un contatto più stretto con le radici del bene e con la parte più vera di noi».
Stefania Maiorino