Etica e affari, un matrimonio difficile


Ben&Jerry’s, azienda Usa di successo, non vuole più vendere i propri gelati nei territori palestinesi occupati da Israele. Ne è nato un intricato conflitto politico e legale. È possibile tenere insieme ricerca del profitto e principi etici?

Nella storia del capitalismo, di dispute fra imprese se ne sono viste tante, ma che una filiale portasse in tribunale la propria capogruppo, questo no, non era mai capitato. È quanto è successo negli Stati Uniti per una vicenda che riguarda addirittura il conflitto israelo-palestinese. Il dilemma è se vendere o non vendere nei territori occupati da Israele. Non riuscendo a trovare un accordo sul piano politico, le due parti stanno cercando di spuntarla tramite sofisticate battaglie legali. Mentre scriviamo, il contenzioso è ancora in corso, ma qualunque sarà il suo esito vale la pena raccontarlo per i molteplici aspetti che solleva.

Dal vermont al mondo

Le due parti in gioco sono Unilever e Ben&Jerry’s. La prima è una potente multinazionale inserita nel settore dei prodotti igienici, cosmetici e alimentari. La seconda è un’impresa di gelati nota soprattutto al pubblico americano. In effetti, Ben& Jerry’s nacque negli Stati Uniti per iniziativa di due piccoli imprenditori, Bennet Cohen e Jerry Greenfield, che, nel 1978, decisero di aprire una gelateria in una località del Vermont, loro città natale. L’iniziativa ebbe successo e in breve Ben&Jerry’s divenne una catena di gelaterie con punti vendita in tutta la nazione. L’attività andava così bene che attirò l’attenzione dei giganti del settore, tanto che, nell’anno 2000, Unilever se la comprò. L’assorbimento fu totale, ma i vecchi proprietari riuscirono a porre come condizione che l’azienda continuasse a essere gestita da loro secondo i propri principi etici.

Nel panorama del mondo degli affari i due imprenditori rappresentavano senz’altro un’eccezione perché erano convinti che obiettivo dell’impresa debba essere non solo il perseguimento del profitto, ma anche il rispetto per l’ambiente, dei lavoratori e delle comunità in cui l’attività è svolta. Un filone di pensiero che più tardi diede origine a particolari imprese denominate «B Corporation» (vedi MC giugno 2022), dove «B» sta per «benefit», a indicare che sono organizzate per portare vantaggio a tutti. Dagli Stati Uniti, l’idea approdò anche in Europa, Italia compresa, dove la B Corporation ha trovato spazio nella legislazione, sotto il nome di «società benefit». Una denominazione che può essere utilizzata da tutte quelle realtà imprenditoriali che oltre ad avere «lo scopo di dividere gli utili, perseguono una o più finalità di beneficio comune e operano in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni ed altri portatori di interesse».

Un tratto del muro divisorio tra Israele e Palestina. Foto Olaf-Pixabay.

Una forza per il bene?

Nel mondo, le B Corporation sono qualche migliaio, tutte convinte di poter cambiare il mondo, come si legge in un pieghevole del loro movimento: «Insieme stiamo costruendo un movimento di persone che usano il mondo degli affari come una forza per il bene». Che sia un po’ esagerato? I toni da crociata religiosa sono sempre un po’ inquietanti.

Personalmente ritengo che eleggere le imprese a «forza per il bene» sia un tentativo (maldestro) per giustificare il capitalismo fondato su presupposti ideologici che conducono allo sfruttamento del lavoro, all’esaurimento delle risorse, all’accumulo di rifiuti, alle guerre per il controllo delle risorse e l’espansione dei mercati. In una parola a tutte le situazioni di crisi che oggi affliggono l’umanità. Tuttavia, fatta questa precisazione, sicuramente le società benefit rappresentano un passo avanti sulla strada della sostenibilità, della trasparenza, della dignità personale. Un risultato attribuibile a un mix di conversioni personali e di pressione decennale esercitata dalla società civile tramite azioni di investimento etico e di consumo critico.

Nel 2006 nacque anche un sistema di certificazione che dà la patente di società «per il bene» a tutte quelle imprese che dimostrano di rispettare regole stringenti in ambito sociale e ambientale. Certificazione che Ben&Jerry’s ottenne nel 2012 impegnandola a «essere economicamente sostenibile e nello stesso tempo capace di un cambio sociale positivo […] finalizzato a garantire il soddisfacimento dei bisogni umani ed eliminare ogni forma di ingiustizia». Per di più nella sua carta dei valori si legge: «Sosteniamo le vie nonviolente per l’ottenimento della pace e della giustizia. Crediamo che le risorse pubbliche siano utilizzate in maniera più produttiva quando sono messe al servizio dei bisogni umani piuttosto che spese in armamenti».

Nonostante queste precise prese di posizione, Ben&Jerry’s non aveva avuto problemi a catapultarsi in Israele dove approdò nel 1987, concedendo la licenza d’uso del proprio marchio all’impresa israeliana Avi Zinger. Così i gelati a marchio Ben&Jerry’s si vendevano in tutti i territori occupati da Israele, compresi quelli colonizzati dopo il 1967 in aperta violazione con le ripetute risoluzioni Onu secondo le quali «tali occupazioni sono illegali e rappresentano un ostacolo alla realizzazione dell’obiettivo dei due stati, l’unica soluzione che può garantire una pace duratura».

La presenza nei territori occupati non era vissuto da Ben&Jerry’s come un tradimento dei propri valori, ma l’incoerenza non era sfuggita a un gruppo del Vermont che agisce a sostegno del popolo palestinese in collaborazione con il movimento Bds («Boycott, divestment, sanctions», boicottaggio, disinvestimento, sanzioni).

La Puma, nota azienda produttrice di scarpe sportive, è oggetto di un boicottaggio internazionale per essere sponsor di squadre israeliane. Foto BDS Movement.

BDS e danno economico

Sorto nel 2005, il Bds è un movimento che intende costringere Israele al rispetto delle leggi e delle convenzioni internazionali attraverso il danno economico. La stessa strategia utilizzata negli anni Ottanta del secolo scorso nei confronti del regime del Sudafrica che fu costretto a capitolare di fronte alla fuga delle imprese straniere e alle sanzioni economiche messe in atto contro il paese. In effetti, il movimento Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni si propone l’obiettivo di fare pressione sul governo di Israele tramite l’isolamento economico. Una delle strategie consiste nel prendere di mira le imprese che conducono i propri affari nei territori occupati a vantaggio esclusivo o prevalente dei coloni occupanti.

Alcuni esempi sono Puma (vedi foto), Axa, Hewlett Packard su cui è esercitata ogni forma di pressione per convincerle a ritirarsi da Israele o quanto meno dai territori occupati dopo il 1967.

Nei confronti di Ben&Jerry’s la prima iniziativa di pressione venne assunta nel 2011 tramite una lettera inviata dal gruppo del Vermont che però non ricevette risposta. Per cui vennero assunte iniziative sempre più incisive, fino a dichiarare un vero e proprio boicottaggio nel 2015. Lo scrollone finale si ebbe nel maggio 2021 quando davanti alla sede centrale di Ben&Jerry’s, si presentò una folla concitata che con una sola voce gridava «Vergogna!». Erano lì per commemorare ciò che i palestinesi chiamano «Nakba», ossia l’evacuazione forzata di centinaia di migliaia di palestinesi avvenuta nel 1948, per fare spazio allo stato di Israele.

Questa volta, Ben&Jerry’s accusò il colpo e, dopo due mesi, il 19 luglio 2021, annunciò di avere deciso di rivedere la propria presenza in Israele, cominciando con il non rinnovare il contratto di licenza stipulato con Avi Zinger in scadenza a fine dicembre 2022.

Gelati antisemiti?

Un barattolo di gelato di Ben&Jerry, azienda Usa che, per problemi etici, non vuole vendere a Israele.

In un primo momento la capogruppo Unilever si era schierata a fianco della propria controllata appellandosi anch’essa a motivazioni etiche. Ma poi la ragione economica ebbe il sopravvento e madre e figlia finirono per vie legali. Il governo israeliano aveva bollato la scelta di Ben&Jerry’s come antisemita e subito le azioni di Unilever avevano cominciato a perdere valore. Sui social israeliani circolavano filmati di ministri nell’atto di gettare nella pattumiera i gelati di Ben&Jerry’s ancora integri. In America, invece, su alcuni quotidiani comparvero annunci a tutta pagina firmati dall’organizzazione ebraica Simon
Wiesenthal Center
, che invitavano negozi e supermercati a cessare la vendita dei gelati Ben&Jerry’s colpevoli di antisemitismo. Iniziative che ebbero il loro effetto sul piano finanziario: vari fondi pensione e altri investitori istituzionali annunciarono di voler vendere le quote che avevano in Unilever sostenendo che cedendo alle richieste di Bds la multinazionale aveva violato la legislazione americana. Sul versante opposto si diffuse la notizia che un pacchetto importante di azioni era stato comprato da Nelson Peltz, niente po’ po’ di meno che presidente del Simon Wiesenthal Center. Una scelta compiuta con lo scopo evidente di condizionare Unilever dall’interno.

Etica e affari

Intanto, nel marzo 2022, Zinger, il licenziatario israeliano, si era rivolto alla magistratura statunitense affinché impedisse a
Unilever di sospendere il contratto di licenza, come preannunciato dalla direzione di Ben&Jerry’s. Ma la contesa non venne mai discussa in tribunale perché, nel giugno 2022, Unilever annunciò di essersi accordata con Zinger per venderle la proprietà del marchio Ben&Jerry’s, e questa era valida per tutti i territori controllati da Israele. Una decisione che irritò la direzione di Ben&Jerry’s che reagì denunciando la capogruppo per abuso e violazione contrattuale.

Ora la parola è di nuovo agli avvocati, ma comunque vada a finire, crescono i dubbi che etica e affari possano davvero unirsi in matrimonio come sostiene il movimento delle B Corporation.

Francesco Gesualdi

 

I siti dei protagonisti:




Da prospettiva a solida realtà


Si tratta di imprese (virtuose e innovative) in rapida crescita. Introdotte nel 2016 nell’ordinamento giuridico italiano come una nuova forma societaria, sono ora presenti nel nostro paese con oltre mille enti.

Le Società Benefit (Sb) rappresentano una forma d’impresa virtuosa e innovativa, che potrebbe essere definita l’evoluzione del concetto stesso di azienda: mentre quelle tradizionali, infatti, esistono per rispondere a bisogni reali della società, ma lo fanno allo scopo principale di avere un profitto, le Società Benefit integrano nella propria ragione sociale, oltre agli obiettivi di profitto, lo scopo di generare un impatto positivo sulla società e sull’ambiente.

A differenza delle organizzazioni non profit (Onlus, Aps, OdV, ecc.), le Società Benefit fanno parte della realtà for profit, non rinunciando a mantenere il proprio scopo di lucro. A esso aggiungono però il perseguimento di uno o più benefici su persone, comunità, territorio e ambiente, beni e attività culturali e sociali, enti e associazioni, oltre ad altri portatori di interesse, ovvero l’ecosistema all’interno del quale le Sb orientano il proprio agire quotidiano e di medio lungo periodo. Il tutto in modo responsabile, sostenibile e trasparente, con una gestione che richiede ai manager un serio bilanciamento tra l’interesse dei soci (shareholder) e l’interesse della collettività (stakeholder).

Alcune protagoniste dei corsi di formazione nel campo dell’assistenza domiciliare sostenute da Promos

Un approccio fortemente «cristiano»

Tale approccio al mondo del lavoro e dell’impresa recepisce anche i valori e le indicazioni che vengono dalla dottrina sociale della Chiesa.

Era il 2015 quando, nell’enciclica Laudato si’, papa Francesco si esprimeva nei seguenti termini: «Il lavoro dovrebbe essere il principale ambito di sviluppo personale, dove si mettono in gioco molte dimensioni della vita: la creatività, la proiezione nel futuro, lo sviluppo delle capacità, l’esercizio dei valori, la comunicazione con gli altri, un atteggiamento di adorazione. Perciò la realtà sociale del mondo di oggi, al di là degli interessi limitati delle imprese e di una discutibile razionalità economica, esige che si continui a perseguire quale priorità l’obiettivo dell’accesso al lavoro per tutti» (LS, 127).

In seguito, il concetto è stato ulteriormente ribadito e approfondito nell’enciclica Fratelli tutti, ancora più incentrata sul tema dell’amicizia sociale. Ne citiamo un passaggio, a titolo di esempio: «L’attività degli imprenditori effettivamente è una nobile vocazione orientata a produrre ricchezza e a migliorare il mondo per tutti. Dio ci promuove, si aspetta da noi che sviluppiamo le capacità che ci ha dato e ha riempito l’universo di potenzialità. Nei suoi disegni ogni persona è chiamata a promuovere il proprio sviluppo e questo comprende l’attuazione delle capacità economiche e tecnologiche per far crescere i beni e aumentare la ricchezza.

Tuttavia, in ogni caso, queste capacità degli imprenditori, che sono un dono di Dio, dovrebbero essere orientate chiaramente al progresso delle altre persone e al superamento della miseria, specialmente attraverso la creazione di opportunità di lavoro diversificate. Sempre, insieme al diritto di proprietà privata, c’è il prioritario e precedente diritto della subordinazione di ogni proprietà privata alla destinazione universale dei beni della terra e, pertanto, il diritto di tutti al loro uso» (FT, 123).

Parole forti e incisive, che certamente hanno avuto un ruolo importante nel plasmare la mentalità di quei soggetti, imprenditori socialmente orientati e politici che, animati da spirito di servizio per il bene della comunità, hanno investito tempo e risorse affinché il «modello Benefit» si potesse realizzare e sviluppare.

Alcune giovani a scuola, in Kenya, grazie al contributo di Promos

Fenomeno in espansione

Se nel 2017 si parlava di Società Benefit come di un fenomeno nuovo, nato sulla scia delle B Corp (Benefit Corporation) statunitensi. Oggi quello che ci troviamo di fronte è una solida realtà. A fine 2021 le Sb in Italia hanno sfondato quota mille, il doppio rispetto al solo anno precedente, a conferma di una crescita esponenziale. Non c’è regione della penisola che non presenti almeno una realtà produttiva caratterizzata dalla forma giuridica introdotta dalla legge entrata in vigore nel 2016. A inizio 2022 in Lombardia erano oltre 300 e sul podio vi è anche il Lazio (oltre 120) con l’Emilia Romagna (oltre 100).

A dispetto della pandemia, pertanto, il numero delle Società Benefit in Italia è aumentato. Un’ulteriore conferma del successo che sta prendendo forma, è l’inclusione della «categoria Società Benefit» tra quelle contemplate nell’«Oscar di bilancio», premio organizzato da Ferpi – Federazione relazioni pubbliche italiana – con Borsa italiana e Università Bocconi, che viene assegnato fin dal 1954 alle imprese più meritevoli nelle attività di rendicontazione finanziaria e che rappresenta il riconoscimento più importante nell’ambito della comunicazione dei risultati di impresa.

Un impatto da condividere

Un elemento fondamentale nella disciplina delle Società Benefit è rappresentato dal fatto che, annualmente, tali realtà hanno l’obbligo di produrre una «Relazione di impatto» che sia pubblica, possibilmente realizzata da un ente terzo indipendente, che metta di fronte ai propri azionisti e ai propri clienti quanto concretamente realizzato nel corso dell’anno precedente per avvicinarsi al raggiungimento delle «Finalità di beneficio comune» dichiarate nello statuto. Si tratta di un aspetto fondamentale, utile a evitare i tristemente noti fenomeni di greenwashing o social washing, che fanno sì che l’impegno verso la sostenibilità sia solo una questione di marketing, senza un reale impatto positivo sull’ambiente e sulle comunità.

La capacità di comunicare in maniera trasparente ed efficace il perseguimento del beneficio comune è uno degli asset strategici più importanti per una Società Benefit. La comunicazione non finanziaria, ovvero la redazione annuale della «Relazione di impatto» rappresenta, infatti, non solo una opportunità di comunicazione e di posizionamento nel mercato, ma un vero e proprio strumento di gestione, relativo all’intero andamento della vita aziendale. Ad oggi, le Società Benefit sono le uniche realtà tra le imprese profit non quotate in Borsa a dovere redigere una comunicazione non finanziaria da allegare al bilancio, il che rappresenta un unicum nell’intera Unione europea, con l’Italia che costituisce l’esempio a cui guardare.

La premiazione di Reynaldi nel corso del Festival dell’Economia Civile

Un virtuosismo contagioso

Diventare Società Benefit rappresenta, certamente, un grande impegno e una grande responsabilità sociale, ma anche una immensa soddisfazione. Oltre a una dichiarazione di intenti, è una strada percorsa concretamente da numerose realtà che hanno saputo coniugare la ricerca del profitto con un concreto impegno sociale. A titolo di esempio segnaliamo due aziende torinesi che si sono distinte per il loro operato, anche durante la pandemia.

Il Festival dell’economia civile, svoltosi a Firenze a fine 2020, ha nominato l’azienda cosmetica torinese Reynaldi Srl SB «Ambasciatrice dell’economia civile» per l’impegno nella produzione responsabile dal punto di vista sociale e ambientale, investendo al contempo in formazione e attivando progetti di cooperazione in Burkina Faso, Kenya e Sudan per la produzione di materie prime di altissima qualità da utilizzare in ambito cosmetico, riconoscendo alle comunità locali un giusto prezzo, una concreta possibilità di crescita e la garanzia di richiesta continuativa.

Un altro esempio è la Promos SrL Sb, che pone al centro del proprio operato l’accompagnamento di altre realtà che si affacciano al mondo delle Benefit Corporation aiutandole a migliorare il proprio impatto sociale, ambientale ed economico. Il tutto, senza dimenticarsi di chi è meno fortunato, impegnandosi in progetti di sostegno scolastico per orfani in Kenya, nella regione del Meru, e a Capo Verde, a Mindelo. Si occupa anche della realizzazione di corsi di formazione professionale certificata per donne straniere nel campo dell’assistenza domiciliare e, in collaborazione con la Caritas italiana, sta attivando percorsi di formazione gratuita a livello nazionale per i rifugiati che provengono dall’Ucraina.

Sono solo due testimonianze di un modo diverso di fare impresa, che mette al centro il bene comune, ci invita ad «andare oltre» le logiche del solo profitto e ci ricorda che ciò è davvero possibile.

Paolo Rossi

* Già volontario nel Tharaka, Meru, Kenya, presidente di Col’or Ong di Orbassano (To) e assegnista di ricerca nel campo del Social Business Modelling presso l’Università del Piemonte Orientale.


Archivio

Paolo Rossi, Le Società Benefit: una realtà in crescita, MC maggio 2017.




Le Società Benefit: una realtà in crescita


Una grande ambizione: essere un nuovo modello economico alternativo alla vecchia concezione di impresa orientata solo al profitto. Dal vecchio modello industriale e societario prendono l’obiettivo di generare utili e ricchezza, e dal mondo del no profit quello di essere impegnate al servizio del bene comune. È solo un cambio di pelle o una risposta genuina ai bisogni del nostro tempo?

Oltre la metà della popolazione mondiale oggi possiede un buon tenore di vita, ma vive in un mercato saturo che porterà il suo benessere a diminuire. Al contempo, quasi tre miliardi di persone hanno ancora bisogno di tutto. In Italia, nel prossimo quinquennio, mancheranno poco meno di 100 miliardi di Euro per coprire la spesa sanitaria e i bisogni sociali. Lo stato se n’è sempre occupato da solo o sostenendo privati che non hanno rischiato di tasca propria: perciò, se alla fine il modello non è stato efficiente, chi ci ha rimesso è sempre stato «solo» il contribuente.

Mentre i bisogni della popolazione crescono e aumenta la domanda sociale, i governi si trovano in una crescente condizione di ristrettezza di risorse. Ma i bisogni insoddisfatti sono un problema irrisolto che non conviene a nessuno e allora si devono cercare altre risorse. Questo richiede un approccio nuovo che non sia il solito aumento delle tasse. Nel mondo ci sono imprenditori e finanzieri che hanno iniziato a ragionare sulla possibilità che il connubio impresa-finanza possa essere utilizzato anche per generare maggior benessere sociale e soddisfare gli interessi di tutte le parti: secondo loro l’impresa può creare risorse e generare impatto sociale e la finanza può essere un vero moltiplicatore di ricchezza.

Nasce la «Società Benefit»

Alle svariate «forme giuridiche d’impresa» esistenti se n’è quindi aggiunta una nuova: la Benefit Corporation (società Benefit – B Corp). Le sue origini risalgono al 2006 e hanno portato alla formalizzazione nel 2010, negli Usa, della forma giuridica delle B Corp, che ora esiste in 31 stati degli Usa, e che ha stimolato la recentissima nascita in Italia delle «Società Benefit». Nel 2014 le prime B Corp italiane certificate (da B Lab, una organizzazione no profit a cui tutte le società Benefit fanno riferimento, vedi www.bcorporation.eu) hanno promosso un progetto politico e giuridico la cui disciplina è entrata in vigore a partire dal 1 Gennaio 2016.

Il 26 febbraio dello stesso anno le prime cinque aziende italiane hanno trasformato la propria forma giuridica da mera società for profit a società Benefit e da allora decine di altre aziende italiane si sono trasformate (alla data odierna sono più di 80). Attualmente nel mondo sono oltre 2.000 le B Corp certificate e si stima che altre 50.000 stiano valutando la propria identità per ottenere la certificazione. Città come New York City hanno addirittura dato vita a progetti come il Best for NYC, per incoraggiare imprenditori sociali a stabilire le loro attività sul proprio territorio, per il miglioramento dell’intera città e delle proprie attività di welfare.

Primi in Europa

Una volta tanto l’Italia ha fatto scuola e ha introdotto, prima in Europa e prima al mondo fuori dagli Usa, le società Benefit per consentire a imprenditori, manager, azionisti e investitori di distinguersi sul mercato attraverso una forma giuridica virtuosa e innovativa. Tali società rappresentano l’evoluzione del concetto stesso di azienda poiché, mentre le società tradizionali esistono con l’unico scopo di creare profitto e distribuire dividendi agli azionisti, le società Benefit integrano nella propria ragione sociale, oltre agli obiettivi di profitto, lo scopo di avere un impatto positivo sulla società e sull’ambiente.

A differenza delle altre organizzazioni non profit (Onlus, Aps/Associazioni di promozione sociale, Imprese Sociali, ecc.) le società Benefit mantengono sì lo scopo di lucro, ma a questo aggiungono il perseguimento di uno o più effetti positivi o la riduzione di effetti negativi su persone, comunità, territorio e ambiente, beni e attività culturali e sociali, enti e associazioni e altri portatori di interesse. Il tutto in modo responsabile, sostenibile e trasparente con una gestione che richiede ai manager un serio bilanciamento tra l’interesse dei soci e l’interesse della collettività.

Un profitto condiviso

Il profitto come obiettivo primario è sempre stato il criterio dominante nei processi decisionali ma molti ora vedono questo come un ostacolo nella creazione di valore a lungo termine per tutti gli stakeholder (o attori, secondo la Treccani: «Chi ha interessi nell’attività di un’organizzazione o di una società, ne influenza le decisioni o ne è condizionato»), inclusi gli azionisti stessi, i cosiddetti shareholder. Gli azionisti sono sempre più coscienti che non si può più solo speculare sul breve termine e che comportamenti non in linea con l’aspettativa dei clienti alla lunga penalizzano, perché questi non comprano più né prodotti né servizi. Il meccanismo è analogo a quanto è successo nel biologico, dove c’erano individui che volevano un prodotto più sano e più rispettoso dell’ambiente e, mentre all’inizio questo rappresentava solo una nicchia, oggi è diventato un vero settore di mercato.

Le società Benefit pertanto vanno oltre un semplice modello di breve periodo e prendono in considerazione tutte le parti interessate nelle loro decisioni: ciò garantisce loro la flessibilità necessaria a creare valore per tutti gli stakeholder nel lungo periodo, anche a fronte di cessioni parziali e acquisizioni, entrata di nuovi manager, capitali, passaggi generazionali o quotazioni in borsa.

Non i migliori del mondo ma migliori per il mondo

Non appare trascurabile anche il fatto che i nuovi talenti per lavorare scelgono le aziende che hanno un impatto sociale positivo. È un fatto importante che il 77% dei millenials affermi che «lo scopo dell’azienda è parte fondamentale del motivo per cui hanno scelto di lavorare in essa». I millennials (generazione nata tra i primi anni ‘80 e il 2000, ndr) costituiscono da soli oltre il 50% della futura forza lavoro, che diventerà il 75% entro il 2025.

Inoltre, le informazioni non finanziarie sono diventate fondamentali poiché la maggior parte degli investitori ritiene che le imprese non siano adeguatamente trasparenti in merito ai rischi non finanziari e quasi la metà degli investitori esclude determinati investimenti sulla base di informazioni non finanziarie (come impatto sull’ambiente, inquinamento e riciclo, trattamento dei dipendenti in particolare le donne, uso di materie prime certificate, non essere associati con produzione e vendita di armi, ecc.). In fondo non si vuole un’azienda che sia «la migliore del mondo» ma «migliore per il mondo».

Ridefinire il «valore»

Aristotele pensava che ci fosse un «giusto prezzo per ogni cosa» e Marx pensava che il valore fosse generato dal lavoro ma, più di recente, la maggior parte degli economisti ha accettato che l’unico concetto di valore che abbia senso nasce dall’interazione tra domanda e offerta sui mercati: «qualcosa ha valore solo se qualcuno è disposto a pagare per essa». Tale definizione di valore costringe gli economisti a osservare il comportamento reale, piuttosto che cercare di scoprire realtà nascoste. Molti elettori sono disposti a pagare le tasse per le forze di polizia e le scuole primarie e molti governi sono in grado di fornire questi servizi. Molti donatori sono disposti a finanziare l’assistenza sanitaria per i bambini nei paesi in via di sviluppo e molte associazioni locali sono in grado di fornire tale assistenza. In questi ambiti, analizzare il valore sociale non è difficile, perché i legami tra ciò che vogliono i finanziatori e ciò che i fornitori possono offrire è chiaro. Ma, per altre questioni sociali i legami tra domanda e offerta sono carenti e, in alcuni casi, la domanda effettiva può mancare perché finanziatori, politici o privati cittadini non percepiscono un bisogno come sufficientemente urgente da giustificare l’impiego delle loro risorse.

Consorzio Auxilium

A Torino, nel 2016, è nato il Consorzio Auxilium, facente capo a una generazione di imprenditori che credono nelle società Benefit e che desiderano, al contempo, promuovere un approccio culturale al tema del valore di impresa che non sia basato solo in termini di profitto.

Attraverso gli strumenti legali e finanziari messi a disposizione dal mondo delle Sb, essi hanno la possibilità di spiegare ai stakeholder e ai shareholder come le risorse investite in tali aziende possono contribuire al raggiungimento di risultati coerenti con la propria mission, generando al contempo un impatto sociale positivo.

Al Consorzio si aderisce per spirito mutualistico e di interesse reciproco, ma anche con l’obiettivo dichiarato che una percentuale del fatturato generato per mezzo degli scambi promossi dal Consorzio sia destinata ad alimentare attività sociali di vario genere, a partire dall’ambito locale. Nel suo primo anno di vita il Consorzio ha dato lavoro a famiglie «trovate» davanti ai supermercati della Città, promosso corsi di italiano per l’integrazione degli stranieri, attivato progetti di formazione, finanziato progetti di cooperazione sociale e internazionale… e siamo solo all’inizio.

Paolo Rossi*

* Ha una laurea in Economia e master in Sviluppo umano e ambiente, con esperienze di studio, volontariato e lavoro all’estero; è presidente della Col’Or Ong, impegnato nel Consorzio Auxilium e assegnista di ricerca presso l’Università del Piemonte Orientale.

Bibliografia e Sitografia

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