Il ghetto dei miracoli

testo e foto di Amarilli Varesio |


In un quartiere malfamato della capitale un giovane musicista ha un’idea geniale. Crea uno spazio per lottare contro il degrado dando lavoro ai giovani. Qui la plastica trova una seconda vita, e gli ortaggi fioriscono in bottiglie e scarpe vecchie.

Un bambino a torso nudo fa rotolare abilmente il cerchio della ruota di una bicicletta su un sentiero di spazzatura senza farlo cadere. Corre su un pianoro di rifiuti compatti, schivando taniche rotte, cumuli di stracci, galline e mucche che pascolano alla ricerca di scarti alimentari. Otto anni fa, questo luogo era per metà una palude e per l’altra un parco giochi per i bambini di Kwamokya (uno degli slum più grandi di Kampala, la capitale dell’Uganda). Il ghetto, come lo chiamano gli stessi abitanti del quartiere, si trova incastonato tra le colline della città, all’ombra di lussuosi grattacieli e supermarket, come l’Acacia Mall.

«Ogni volta che alziamo lo sguardo, ci ricordiamo da dove veniamo», commenta Patrick Mujuzi, il fondatore di Ghetto research lab (Grl). L’uomo indossa degli stivali di plastica bianchi sporchi di fango, e un cappello di lana rossa che non riesce a trattenere tutti i suoi dreadlocks. È musicista, produttore musicale e professore di storia e religione. Mi racconta come Kwamokya sia diventato famoso nel paese negli ultimi anni poiché vi è cresciuto Robert Kyagulanyi (conosciuto come Bobi Wine), 39 anni, musicista reggae e principale oppositore dell’attuale presidente Yoweri Museveni (al potere da 36 anni, oggi al sesto mandato) alle elezioni presidenziali del gennaio 2021. Prima delle votazioni, i caccia volavano bassi, vicini alle case, per spaventare i moltissimi sostenitori del «presidente del ghetto», e la polizia reprimeva violentemente qualsiasi manifestazione di protesta. A Kwamokya, attaccare volantini di Museveni sulle case, anche se si era oppositori, era diventata una strategia per proteggersi quando la polizia faceva irruzione.

Il cancello del Ghetto research lab a Kwamokya, Kampala. (Foto Amarilli Varesio)

Arriva la polizia

Nel gennaio 2021, la polizia è andata anche al Ghetto research lab per cercare i sostenitori di Bobi Wine. Patrick ricorda bene quella sera. Fuori dal cancello i poliziotti avevano trovato un ragazzo che fumava marijuana e quello era diventato il pretesto principale della loro visita. «Ci hanno fatti uscire tutti dalla sede e hanno chiesto chi fosse il capo. Mi hanno indicato. Noi eravamo una quindicina e loro il doppio, tutti armati di bastoni e pistole. Mi hanno strappato due dreadlocks e poi mi hanno picchiato, calciandomi tra le gambe e sulla testa. Poi mi hanno trascinato di peso fino alla sede della polizia. Sono rimasto tre giorni all’ospedale. Fortunatamente ho delle conoscenze politiche. Alcuni parlamentari hanno chiamato i poliziotti che avevano organizzato l’attacco e hanno ordinato loro di liberarmi immediatamente. Mi hanno rilasciato, ma per quei fatti nessuno è stato condannato».

L’impunità della polizia è una storia ben conosciuta agli abitanti del ghetto. Quasi ogni sera, i poliziotti si muovono in gruppo per il quartiere con il warrag (l’alcol) in una mano e la pistola nell’altra. Picchiano chiunque attraversi il loro cammino, a meno che non ricevano dei soldi. A quel punto ti ringraziano.

«Per fare una perquisizione dovrebbero avere un mandato. Io conosco la legge. Mica sono tutti stupidi nel ghetto, dicevo loro. Ma più parlavo, più mi picchiavano».

Dopo quell’episodio, una volta uscito dalla clinica, Patrick per sicurezza, non si è fatto vedere nel quartiere per qualche giorno.

Ora, il bambino a torso nudo corre con la ruota sotto il braccio per scampare al temporale torrenziale che si è aperto sopra di noi senza preavviso.

Ci dirigiamo verso la sede in bambù di Ghetto research lab, che sorge su un angolo della discarica. In questa zona, il governo non permette di costruire strutture permanenti per via della vicinanza alla linea dell’elettricità che arriva da Jinja, la città che sorge presso le sorgenti del fiume Nilo. Nonostante la terra appartenga al governo, Grl paga un affitto di 9 milioni di scellini ugandesi (2.108 euro) all’anno a un uomo che si ritiene il padrone della zona.

Il capannone in bambù è circondato da piante di papaya, banana, seneci nel pieno della fioritura che traboccano da scarpe bucate appese alle pareti e vecchi pneumatici, di misure diverse, impilati e pieni di terra. In questi ultimi crescono pomodori, fragole, spinaci.

All’interno della sede, l’ambiente è fresco e ventilato. Anatre e galline scorrazzano libere tra le macchine da cucito, che vengono utilizzate per insegnare il mestiere ai giovani del quartiere, e tra le gambe della gente. C’è chi, spaparanzato sulla poltrona, guarda un film sul televisore comune, chi lava i vestiti a mano. Per una decina di persone, Grl è diventata la propria casa.

Patrick si mette a preparare la colazione a base di cipolla, pomodori, avocado e zenzero per tutti. Nel 2008, una volta finita l’università, aveva deciso di raggiungere il fratello a Kwamokya per dargli una mano con lo studio di registrazione e ne era diventato il manager. «Attraverso quel lavoro, sono entrato in contatto con moltissime persone del quartiere e ho capito, tramite loro, cosa vuol dire vivere nel ghetto. Non riuscivo a fare pranzo perché sapevo che loro non avevano mangiato. Tanti ragazzi rubavano i cellulari, mentre le ragazze si prostituivano perché avevano fame. Erano guidati dalla disperazione. I miei amici mi davano pochissimi soldi per registrare le canzoni, molti erano senza lavoro. Piano piano ho capito che dovevo creare un posto dove poter connettere le idee e realizzare dei progetti per dare lavoro ai giovani. Così, mi sono messo a pensare, e nei rifiuti del ghetto ho visto la soluzione per dare il pranzo ai miei amici».

Imparare sbagliando

È il 2013 quando Patrick crea un gruppo con i ragazzi che frequentano lo studio di registrazione. Sono in 24. L’obiettivo è quello di promuovere la propria musica e, allo stesso tempo, trovare delle soluzioni per risolvere i problemi dello slum, come la disoccupazione giovanile e la degradazione ambientale, attraverso l’idea che «si impara facendo e sbagliando».

Per sfamare i suoi amici, Patrick decide inizialmente di occuparsi di agricoltura urbana. Lui sperimenta e, se le tecniche funzionano, le trasmette ai ragazzi. «Raccoglievamo buste di plastica e vecchi sacchi. Li riempivamo di terra e vi coltivavamo piante o fiori. Per esempio, riempivamo di terra un sacco di 50 kg e lo bucavamo su tutta la lungehzza per infilarvi semi di cipolle e pomodori. Facevano inoltre in modo che l’acqua bagnasse anche le piante che crescevano in fondo». Patrick e il gruppo realizzano concime naturale con gli scarti vegetali, saponi naturali e sistemi di acqua ponica (un sistema di coltivazione in assenza di terreno, unito all’allevamento dei pesci). Ben presto, alcuni giornali locali si interessano a quelle attività alternative che vengono portate avanti nel ghetto.

Grazie alla visibilità ricevuta, il gruppo partecipa a delle esibizioni artistiche ed esegue la pianificazione dei giardini urbani per alcuni privati. Ma l’indipendenza economica è ancora lontana perché le entrate non sono stabili.

Nel frattempo, Patrick organizza anche giornate di pulizia del ghetto. «All’inizio raccoglievamo la plastica e la bruciavamo perché, all’epoca, non avevamo altre idee. Ci mettevamo a bordo strada con le casse e i microfoni e raccontavamo alle persone che passavano quello che stavamo facendo. Ma poi ho capito che bruciare la plastica impattava lo strato d’ozono. Dovevamo trovarne un uso alternativo intelligente».

Il Grl ha costruito la propria sede su parte della discarica di Kwamokya. (Foto Amarilli Varesio)

Bagni di plastica

Mentre si salta da una sponda a un’altra dei canali che scandiscono i vicoli angusti tra le case, non bisogna lasciarsi ingannare dalla solidità apparente del terreno. Nascosti sotto sottili strati di terra mista a plastiche varie, rimangono acquattate le cosiddette «flying toilets», i sacchetti di plastica in cui la gente chiude i propri bisogni, lasciati per strada, al riparo da occhi indiscreti. Patrick sa che l’igiene è una delle sfide più grandi di Kwamokya.

Dopo due anni, finalmente, il gruppo trova una soluzione economica e soddisfacente per ridurre l’inquinamento da plastica nel ghetto: i bottle bricks, mattonelle derivate dalla fusione delle bottiglie. «Mi ci è voluto del tempo per arrivarci. Dopo aver trovato l’idea giusta, ho scoperto che in Asia c’erano tante case costruite con i mattoni di plastica, ma dentro c’era la terra, non altra plastica». Intanto, nel 2016, Patrick e i suoi amici si registrano ufficialmente come Ghetto research lab, un’organizzazione non profit che ha l’obiettivo di formare i giovani su pratiche sostenibili, e aiutarli a diventare economicamente indipendenti. Poi, nel 2018, la Lupererial foundation, una fondazione gestita da un ricco indiano, proprietario di moltissimi lodges turistici in Uganda, dona 15 milioni di scellini ugandesi a Grl, raccolti tramite una «goat race» (gara di capre, tipica di certi gruppi etnici, ndr), per costruire due bagni pubblici. Vengono coinvolte decine di madri single che abitano nelle baracche attorno alla discarica. Le donne raccolgono e riempiono 35mila bottigliette con sacchetti di plastica. «Il governo voleva chiudere una scuola di Kwamokya perché non aveva le latrine per gli studenti. Grazie a questo progetto, quei bambini possono continuare a studiare».

Attualmente, però, la fusione delle bottiglie di plastica per la creazione delle mattonelle è in sospeso, per via dei fumi neri e tossici che vengono emanati nel processo. Il gruppo sta cercando di costruire delle macchine che non producano emissioni. A ogni modo, da ogni fallimento nascono nuove idee. Infatti Grl impara a realizzare le compost toilet da un’organizzazione americana, Give Love. «Avevano costruito delle compost toilet nella regione del Karamoja, nel Nord Est dell’Uganda, ma il progetto era fallito, perché la gente non le usava. Un amico che lavorava con loro me li ha fatti conoscere, convinto che, grazie a me, in Kwamokya quel progetto sarebbe decollato». Grl costruisce, quindi, delle compost toilet per un gruppo di 40 disabili di Kwamokya. «Per loro, andare in bagno era un grosso problema. Le latrine erano lontane ed era complicato raggiungerle. Ciascuno, adesso, ha un bagno in casa. Noi andiamo da loro una volta a settimana per raccogliere il loro «oro», e gli diamo il cesto pulito indietro. Dopo un anno, possiamo vendere il concime a cinquemila scellini al chilo».

Un’università dove sporcarsi le mani

La conversazione con Patrick viene interrotta per l’ennesima volta da un nuovo visitatore. Manu, un rifugiato congolese, saluta Patrick, che ricambia il saluto col pugno chiuso. Poi si allontana col prototipo di sacco solare che purifica l’acqua in quattro ore, ricavato da bottiglie di plastica. Al Grl, le idee e le sinergie sono molte e la voglia di offrire maggiori opportunità di lavoro ai giovani è il sogno più grande di Patrick. «Vorrei che il Grl diventasse un’università, ma non come quelle che conosciamo tutti. Vorrei che fosse un posto per tutti, anche per chi non ha soldi, nel quale sono necessarie solo la curiosità e la voglia di sporcarsi le mani. Un professore universitario, che poco tempo fa è morto di Covid, mi ha donato dieci ettari di terreno da utilizzare per dieci anni. Questo è il secondo anno che non lo uso. Il mio sogno è di implementare su scala maggiore quello che facciamo qui, creare un centro di ricerca più grande dove insegnare la pratica agli studenti che imparano solo la teoria, le “Muzungu things” (cose da bianchi, nda)».

La mamma di Patrick viene ad avvertirci che il pranzo è pronto. Si è sistemata con le pentole e i tavoli dentro il Grl perché l’affitto di un locale (tipo ristorante di strada) è troppo caro per lei. Nella pentola fumante sta cucinando il matoke, il frutto del platano, avvolto nelle sue foglie. Di fianco a lei, svetta una pianta di marijuana rigogliosa e il contrasto è immediato. Quasi leggendomi nella mente, Patrick risponde al mio sguardo divertito. «Sono un lavoratore sociale, ho a che fare con i giovani del ghetto. Questa è la ragione per cui fumo e per cui ho i dreadlocks. Solo diventando come loro, i giovani si avvicinano e ti ascoltano. Solo così si è in grado di cambiarli. Io spiego loro che si può lavorare anche fumando».

D’un tratto, vediamo i ragazzi accalcarsi attorno al televisore e commentare le scene con tono indignato. Il telegiornale mostra le immagini appena riprese dell’attentato contro il ministro del Lavoro e dei trasporti. Katumba è sopravvissuto all’attacco, ma gli assassini hanno ucciso la figlia e l’autista. Patrick scuote la testa amareggiato. «Sento che devo entrare in politica, questo sentimento cresce ogni giorno dentro di me. Tra qualche anno chiamerò i media per dire che sto arrivando. Bobi Wine mi ha ispirato, ma non è quella la mia motivazione principale. Io so che qui in Uganda entrare in politica equivale a morire. Non voglio abbandonare i miei figli (si riferisce ai giovani del centro, ndr). Ma mi stanno provocando. E sento che le persone voterebbero per me, anche se non sono un uomo ricco, ma la gente mi conosce. Se Bobi Wine non vince nei prossimi anni, allora quando questo presidente morirà, ci proverò».

Amarilli Varesio

Il negozio dove vengono esposti i saponi naturali e i vestiti creati dalle allieve del corso di cucito del Grl. (Foto Amarilli Varesio)




Cambogia: Sei amici e una dose

testo e foto di Luca Salvatore Pistone


Nei sobborghi di Phnom Penh, tra baracche e immondizia, è venduta e comprata la droga sintetica. Molti ne fanno uso anche per non sentire le fatiche di una vita al limite. Le metanfetamine lasciano strascichi pesanti a livello psichiatrico. Il governo reprime sia spacciatori che consumatori.

Crystal meth, ice e yaba sono i nomi più comuni con cui è conosciuto un particolare tipo di metanfetamina in Cambogia. Come negli altri paesi della regione, anche qui quello della dipendenza da metanfetamina è un fenomeno che interessa un numero sempre maggiore di giovani. Negli ultimi anni la polizia cambogiana si è prepotentemente lanciata in massicce campagne anti droga che hanno portato all’arresto di migliaia di tossicodipendenti e spacciatori trattati alla stessa stregua davanti alla legge. Numerose organizzazioni umanitarie denunciano le ripetute violazioni dei loro diritti fondamentali, e intanto le carceri cambogiane continuano a registrare cifre record di detenuti.

Arun, Phirun, Bourey, Jack, Soumy e Munny sono amici di lunghissima data. Sono tutti nati e cresciuti a Mean Chey, un quartiere periferico di Phnom Penh, uno slum, un susseguirsi di baracche e palafitte che si ergono su una palude e un fiumiciattolo che confluisce nel Tonlé Sap, l’imponente fiume che
bagna la capitale. Nel fitto intreccio di viuzze che costituiscono Mean Chey, il sole difficilmente penetra, mentre la pioggia ad ogni temporale allaga le abitazioni dai tetti di plastica e lamiera.

Questi giovani, che hanno tutti un’età compresa tra i 23 e i 27 anni, si trovano di primo pomeriggio per farsi una fumatina di crystal meth. Lo fanno a casa di Arun, un’unica stanza con un lettone dove il giovane dorme con la madre e le due sorelle. «Dai – esclama l’ospite rivolgendosi a Phirun -, fa presto a cacciare la bottiglia e le cannucce, io ho già pronti stagnola e accendino. Dobbiamo sbrigarci prima che torni mia madre da lavoro, altrimenti dà di matto e per me sono guai». È al padrone di casa che spetta la preparazione della pipa ad acqua fatta di materiali facilmente reperibili. Al gruppetto di compari non rimane altro da fare che aspirare dalla cannuccia e attendere che il crystal meth faccia effetto.

Chi usa le droghe

Nel Sud Est asiatico, sono soprattutto i ceti più bassi a fare sistematicamente uso di metanfetamine. Ma anche la borghesia medio alta non ne è estranea. Droghe di questa famiglia, che si presentano sotto forma di piccoli cristalli, vengono assunte durante le serate in discoteca; dalle prostitute prima di iniziare ad accogliere i clienti; dagli operai e dai tassisti per lavorare il maggiore numero di ore possibile. Si tratta di potenti eccitanti che, se assunti per lungo tempo, possono portare a serie malattie psichiatriche spesso irreversibili.

In Cambogia il prezzo di una dose può variare dai 5 ai 10 dollari statunitensi, una cifra considerevole se si tiene presente che una buona fetta della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno.

Terminato il rituale, dopo aver bevuto qualche lattina di birra e Coca-Cola calda, i sei ragazzi si alzano ed escono per accomodarsi nell’atrio della catapecchia di Arun. Qui rimangono per qualche minuto in silenzio mentre osservano dei bambini, loro fratellini e cuginetti, che giocano a piedi nudi in una pozza d’acqua da un intenso colore blue cobalto. Attorno a loro, ovunque, ci sono rifiuti ed escrementi tra i quali galline e pulcini vengono lasciati liberi di girare. «Mean Chey – sentenziano unanimi i vecchi amici – è una pattumiera a cielo aperto, non c’è altro da aggiungere. E di posti come questo la Cambogia è piena».

Bourey, di professione conducente di moto taxi, è il primo dei sei ragazzi a sbottonarsi un po’: «Quando mi faccio di crystal meth, difficilmente mi accontento di una sola dose, e così ogni volta spendo fino a 20 dollari. Lo so, sono tanti soldi, ma lo faccio anche perché una volta che sono fatto ho più energie per lavorare tutta la notte. Questa roba mi piace perché mi fa sentire invincibile e quindi mi fa guadagnare di più. Il problema è quando finisce l’effetto. La testa non va più a mille e mi ritrovo qui, in mezzo a questo schifo. Non posso smettere, ci ho provato ma non ci riesco in alcun modo».

Reprimere anziché curare

Negli ultimi anni la polizia, assistendo a un netto aumento del fenomeno, ha lanciato delle energiche campagne antidroga che sulla carta prevedono l’arresto di trafficanti e consumatori e l’inserimento, per questi ultimi, in centri di riabilitazione. In realtà ci sono stati solo una miriade di arresti arbitrari e odiosi abusi. Ogni anno si contano circa 10mila arresti.

L’Alto commissariato delle Nazioni unite per i diritti umani (Unhchr) ha espresso la propria preoccupazione in merito alla parità di trattamento riservata a spacciatori e tossicodipendenti, indipendentemente dalla quantità di droga con cui si viene colti in flagrante, e alla scarsa assistenza medica dopo l’incarcerazione dovuta alla mancanza di fondi. In un suo recente rapporto, l’Organo internazionale per il controllo degli stupefacenti (Incb) del Consiglio economico e sociale delle Nazioni unite, descrive la Cambogia come un hub regionale per il traffico di eroina, cocaina e metanfetamine, e avverte che la produzione casalinga di crystal meth per il mercato interno è in aumento. Da parte sua, il Centro cambogiano per i diritti umani (Cchr) parla di sovraffollamento delle carceri e di tempi biblici in attesa anche solo della prima udienza davanti a un giudice.

«Col tempo – illustra Ouk Tha della Rete cambogiana per le persone che fanno uso di droghe (Cnpud), che conosce molto bene i ragazzi di Mean Chey – abbiamo raccolto un gran numero di prove a favore dell’innocenza dei tossicomani da noi assistiti e contro i metodi brutali di cui la polizia si serve, ma raramente ci viene data occasione di depositarle in tribunale. Ciò che più ci preoccupa è la difficoltà che i tossicodipendenti hanno ad accedere alle cure sanitarie, e questo anche perché le autorità giudiziarie si prendono lunghissimi tempi prima di fare la cernita tra spacciatori e soggetti con problemi di dipendenza da droga».

La storia di Jack

Jack è assorto tra i suoi pensieri. «Non è più lo stesso – racconta Arun, con il volto triste – da quando sua moglie è stata arrestata». Da alcuni mesi la donna, anch’essa tossicodipendente, si trova in carcere perché sorpresa dalla polizia mentre acquistava una dose di crystal meth.

Jack torna in sé e prende la parola: «In quella retata hanno portato via sia lei che lo spacciatore. Di solito acquistavo io la roba per entrambi. Ma quella volta ha voluto fare tutto lei perché era in astinenza, aveva avuto una crisi. Da quando me l’hanno portata via sono sconvolto e faccio sempre più uso di questa schifezza. Ho iniziato pure con la ketamina con la speranza di alleviare il dolore, di distrarmi, ma continuo a stare malissimo. Un giorno mi fermerò. E devo farlo al più presto. Se continuo così, non avrò più denaro per comprare il latte a nostro figlio che ora è in carcere con mia moglie».

Le recenti crociate della polizia contro le metanfetamine hanno portato all’abbattimento di numerose abitazioni dentro le quali avvenivano reati legati al consumo di queste sostanze. Case ubicate nelle numerose baraccopoli di Phnom Penh dove le forze dell’ordine sono determinate più che mai a mostrare i muscoli per arginare la diffusione del crystal meth tra i giovani.

Palafitte

Trapaing Chhouk, nel distretto periferico di Sen Sok, è uno slum come tanti nella capitale cambogiana. Un labirinto di passerelle di legno traballanti che collegano circa duecento fetide palafitte che, chissà come, rimangono in piedi su un putrido laghetto. Qui vivono circa mille persone. A meno che non ci si voglia arrischiare ad attraversare distese di rifiuti di dubbia natura, per addentrarsi nel ghetto di Trapaing Chhouk, l’unico modo è percorrere una delle due strettissime passerelle presenti. «Grazie a queste passerelle – spiega Sek, cinquantenne del posto -, quei delinquenti tenevano facilmente sotto controllo tutti i movimenti. Quando sospettavano stesse per verificarsi una retata dei poliziotti, era sufficiente un fischio e in pochi secondi la droga veniva nascosta».

La prima cosa che balza agli occhi dei visitatori di Trapaing Chhouk è l’imponente mole di cannucce di plastica che si trovano sparse ovunque per terra. «Dove ci sono degli spazi vuoti – continua Sek -, fino a poche settimane fa c’erano delle case. Sono state tutte rase al suolo dai poliziotti perché lì ci vivevano i drogati o ci facevano i loro loschi affari gli spacciatori. A dimostrazione di ciò, sul terreno, rimangono tutte queste cannucce con cui si fuma la metanfetamina nelle bottigliette piene d’acqua. Saranno migliaia e migliaia. Capito quanta droga è passata e continua a passare da queste parti? E se si presta attenzione, si noterà che tra le cannucce ci sono anche delle siringhe. I drogati si iniettano quella roba anche in vena».

Preoccupa l’aumento dei soggetti che assumono metanfetamine tramite iniezione e che contraggono l’Hiv. Il governo nazionale, sostenuto dalle Nazioni unite, ha da tempo avviato l’iniziativa «90-90-90». Questa prevede che entro la fine del 2020, il 90 per cento delle persone con l’Hiv dovrà conoscere la propria diagnosi; il 90 per cento delle persone con l’Hiv dovrà ricevere un valido trattamento; il 90 per cento delle persone con l’Hiv che riceve una terapia antiretrovirale dovrà raggiungere e mantenere la soppressione virale. Secondo le autorità sanitarie cambogiane, nel paese il 25 per cento di tossicomani che si inietta droghe è malato di Aids.

Metodi drastici

«Senza droga – confida Pol, una donna sulla sessantina, mentre vende cibo fatto in casa sull’uscio della sua baracca – viviamo più tranquilli. Prima dell’intervento della polizia, qui a Trapaing Chhouk regnava il caos. Schiamazzi, liti e baccano sia di giorno che di notte. Non si riusciva a dormire. A parte questo, noi gente per bene non abbiamo mai avuto problemi con quei drogati, non hanno mai rubato a casa nostra o dato particolari noie. Piazzavano come vedette dei ragazzini esterni al ghetto, nel caso in cui arrivasse la polizia. La nostra paura più grande era che potessero coinvolgere i nostri figli o che questi potessero essere scambiati per spacciatori dai poliziotti e quindi arrestati».

«Tremo – è il turno di Chea, coetanea e vicina di casa di Pol – se penso a quando avvengono le demolizioni. Utilizzare qui le ruspe è impensabile e così fanno tutto a mano con picconi e pale. Un rumore infernale che ti entra nel cervello. Hanno arrestato almeno una settantina di giovani, quasi tutti sotto i trent’anni. Vivevano qui da diverso tempo perché ritenevano Trapaing Chhouk un luogo sicuro. E in effetti così era: da tanti anni eravamo finiti nel dimenticatoio delle autorità, nessuno si sognava di mettere piede qui. Poi all’improvviso il problema della droga è diventato una priorità per la polizia e così, suo malgrado, Trapaing Chhouk ha attirato l’attenzione di molti».

Una delle polemiche sorte attorno alle demolizioni che avvengono a Trapaing Chhouk è che le case abbattute non erano di proprietà di tossicodipendenti e spacciatori, bensì di persone che abitano al di fuori del ghetto. Sono pochi i casi in cui i locatori sono stati segnalati alla polizia per essere stati a conoscenza di ciò che avveniva dentro le baracche. Numerosi invece i proprietari che hanno chiesto dei risarcimenti alla municipalità. «Non credo – dice Chea – che sia stato giusto abbattere case di proprietà di persone che non hanno commesso quei crimini. Non erano presenti, secondo me non potevano sapere che cosa accadeva al loro interno. So che hanno esposto le loro rimostranze alla municipalità ma non hanno ancora ricevuto risposta».

«L’intervento della polizia – dice infine Sek – è stato positivo. La polizia antidroga ora controlla tutto, ha eseguito delle indagini nelle case dove si faceva uso di droghe e dove la gente veniva ad acquistarne. Seguivano i clienti, li fermavano, li arrestavano, li interrogavano e raccoglievano informazioni. Così in breve tempo hanno potuto individuare le case incriminate e demolirle. In generale ci riteniamo soddisfatti perché qui non circola quasi più droga, i nostri giovani sono più al sicuro e non subiamo più alcun tipo di molestia. Ora possiamo cominciare a tirare un bel sospiro di sollievo».

Luca Salvatore Pistone*

Questo slideshow richiede JavaScript.


*Sul tema delle droghe l’autore ha già pubblicato: Filippine: la (sporca) guerra della droga, MC marzo 2019;
Come il fisico, così lo spirito, MC maggio 2020.
Sulle droghe si veda anche Chiara Giovetti alle pp. 64-67 di questo numero.

 




Tondo Manila,

la porta dell’inferno sulla terra

testo e foto di Daniele Romeo |


«Vivere in una discarica, nelle Filippine, è più divertente». Sembra lo slogan di una pubblicità. In realtà è una frase sarcastica popolare tra le migliaia di persone che vivono a Manila in mezzo alla spazzatura. Vivere all’aperto, allevare animali, bambini che giocano e corrono a piedi nudi. Un sogno per molte famiglie. La gente a Tondo Manila ha tutto questo, ma non nel modo in cui lo possiamo immaginare noi nel nostro mondo.

Manila conta 14 milioni di abitanti ed è apparentemente sicura. La polizia presidia tutti i punti nevralgici di una città dove le disuguaglianze sono tangibili ad ogni angolo. Quartieri ricchi e protetti nel perfetto stile delle grandi metropoli asiatiche. Periferie poverissime fatte di baraccopoli, come Tondo Manila, dove vivono gli oltre 4 milioni di squatters della città nella quale oltre il 50% della popolazione vive sotto la soglia della povertà. Privi delle minime condizioni igieniche, di acqua potabile e spesso anche di energia elettrica. In luoghi come Tondo anche il semplice rumore di una motocicletta fa scappare i bambini perché temono l’arrivo della polizia per arrestare o uccidere qualcuno che conoscono.

Qui decine di organizzazioni umanitarie cercano in tutti modi di salvare il crescente numero di bambini di strada che patiscono la fame quotidianamente. Tondo è il più grande distretto di Manila. Una delle aree più densamente popolate del mondo con circa 70mila abitanti per chilometro quadrato. È diventato tristemente famoso per una discarica chiamata Smokey Mountain.

È qui che operano i Missionari Canossiani nella parrocchia di San Paolo Apostolo. Padre Giovanni Gentilin e padre Allan Dizon sono le mie guide nel documentare le condizioni delle persone che vivono in questi luoghi che solo le immagini possono raccontare. Senza il supporto di padre Allan sarebbe impossibile accedere e addentrarsi in quello che sembra essere ancora oggi, nonostante il lavoro di bonifica da parte delle istituzioni, quanto di più vicino all’inferno sulla terra.

The Smokey Mountain

Smokey Mountain, fino a qualche tempo fa, era un mondo al di là di ogni nostra immaginazione. Era una gigantesca montagna di immondizia di circa 50 metri di altezza creata da oltre due milioni di tonnellate di rifiuti.

L’ambiente era proibitivo e inadatto alla vita degli esseri umani. Eppure, tra cumuli di spazzatura e sentieri fangosi che si facevano largo tra le baracche e le fognature a cielo aperto, c’erano scavengers, spazzini, uomini, donne e bambini, scavavano senza sosta con la speranza di trovare tesori da vendere. Aprivano uno a uno i sacchi di rifiuti provenienti dai fast food della città alla disperata ricerca di residui alimentari «integri», da pulire e bollire per essere rivenduti come pagpag alla stessa comunità.

Pagpag significa «scrollare di dosso» e si riferisce all’arte di rimuovere lo sporco e i vermi dal cibo raccolto prima di renderlo nuovamente presentabile per rivenderlo.

Smokey Mountain era diventato lo stigma di Manila tanto da costringere le autorità a spostare la popolazione in altre aree intorno. Il sito è stato ufficialmente chiuso e la discarica, oggi coperta di terra, sembra essere una collina verde, un’oasi in un contesto di cemento. L’area è stata ribattezzata Paradise Heights e vi sono state costruite molte unità abitative. Sulla collina, alcune famiglie vivono e coltivano frutta e verdure e allevano animali. Quasi idilliaco se non fosse per le pessime condizioni in cui versano.

Happyland

Chiusa la discarica di Smokey Mountain, gli scavengers sono finiti a «colonizzare» le discariche vicino al porto, costruite su terra strappata al mare e riempita di spazzatura compattata.

La baraccopoli più grande di Tondo si chiama Happyland, dalla parola locale hapilan che significa spazzatura puzzolente. Happyland è diventata la fotocopia di quello che era la Montagna fumante. Non si sa con certezza quante persone vivano in quest’area, riciclando rifiuti per 2 o 3 dollari al giorno.

Varie Ong private e internazionali lavorano nell’area e anche missionari. Mirano a migliorare le condizioni delle persone nei bassifondi di Happyland. Ma, come mi racconta padre Allan, essendoci migliaia di persone, il loro intervento sembra uno sforzo senza fine. Nonostante questo, i bambini in quelle strade sembrano felici. Corrono scalzi sul «morbido pavimento» fatto di rifiuti, cibo decomposto e persino ratti morti; giocano a nascondino e cercano di godersi l’infanzia. Hanno cani come animali domestici e guardiani, galline per la produzione di uova e carne, e galli da impegnare nei combattimenti (una passione nazionale). Questi bambini sono dei combattenti sin dalla nascita.

Daniele Romeo
www.iviaggididan.it

Questo slideshow richiede JavaScript.