Amazzonie, riflessioni post Sinodo panamazzonico

Testi di: Gaetano Mazzoleni, Paolo Moiola, Jaime C. Patias. A cura di: Paolo Moiola |



Dopo un lungo e tormentato percorso storico

Un sinodo sull’Amazzonia, finalmente

Questo sinodo era un’esigenza storica. Non è nato all’improvviso, ma da un lungo percorso della Chiesa e del papato. Un missionario e antropologo con una lunghissima esperienza nell’Amazzonia commenta il documento finale (senza trascurare qualche puntatina polemica verso i critici).

Dopo oltre cent’anni dall’enciclica Lacrimabili statu di san Pio X sulle condizioni disumane dei popoli amazzonici, finalmente è stato realizzato un sinodo sulla Panamazzonia e sui suoi abitanti. Questa affermazione potrebbe meravigliare molti lettori, ma molto di più ha sorpreso qualche manipolo di cattolici – si potrebbe dire – «più papisti del papa», che hanno fatto di tutto per ostacolare e disturbare la realizzazione di questo sinodo speciale. Ma andiamo con ordine.

Diversi gli invasori, identici i risultati

La prima domanda da porsi è: perché un sinodo speciale sull’Amazzonia? La risposta è duplice: la prima legata all’attualità ambientale, la seconda alla preoccupazione della Chiesa per i più deboli.

Nei mesi scorsi i mass media ci hanno inondato di pessime notizie ambientali. Da un lato, la fascia equatoriale del mondo, in cui si trovano realtà come il bacino amazzonico, il bacino del Congo e la zona del Sud Est asiatico, aree che hanno registrato preoccupanti segni di distruzione da parte dell’uomo (con probabili ripercussioni sui cambiamenti climatici globali). Dall’altro, i mesi di giugno e luglio sono stati caratterizzati da notizie allarmanti sulla foresta amazzonica in fiamme.

Le problematiche della regione amazzonica erano già state affrontate dalla Chiesa con la bolla di Benedetto XIV Immensa Pastorum Principis del 20 dicembre 1741, la bolla di Urbano VIII del 22 aprile del 1639 Commissum nobis e, ancora più indietro nel tempo, la bolla Pastorale Officium di papa Paolo III, datata 29 maggio 1537.

La citata enciclica di San Pio X, Lacrimabili statu, datata 7 giugno 1912, aveva come oggetto la tutela dei diritti umani e naturali degli amerindi amazzonici. Ai tempi, queste popolazioni erano oggetto di indicibili soprusi. Era l’epoca dello sfruttamento del caucciù (fine secolo XIX – prima metà del secolo XX), un periodo storico corrispondente all’inizio dell’industria automobilistica nel mondo occidentale. Il ciclo del caucciù si sarebbe concluso con l’arrivo dei derivati del petrolio, dopo la seconda guerra mondiale.

Denunciando quelle situazioni disumane, san Pio X si dimostrò un papa antesignano rispetto alla sensibilità per le condizioni dei popoli indigeni e dell’Amazzonia. Dopo oltre 100 anni da quella denuncia, l’esperienza dimostra che sono cambiati gli invasori, ma i fatti si ripetono: conquista, occupazione, distruzioni, profitto, oro, morti e sempre le stesse persone che perdono.

Questi due elementi – il progressivo degrado della situazione ambientale e la condizione delle popolazioni autoctone amerindie – indicavano alla Chiesa la necessità di fare qualcosa.

Così, quando papa Francesco ha parlato per la prima volta della necessità di un sinodo sull’Amazzonia, la mia prima reazione è stata un’esclamazione di gioia: «Finalmente. Era ora!». Non solamente perché lo consideravo giusto, utile o una novità assoluta, ma per la sua esigenza storica.

Una Chiesa che ascolta

foto Paolo Moiola

Scorrendo le pagine del Documento finale del Sinodo speciale, uscito a fine ottobre, mi pare esplicito l’invito a riflettere su diverse problematiche: ambientali, ecologiche, antropologiche ed ecclesiali.

La Chiesa «in uscita» si mette in «ascolto» del grido di aiuto dell’Amazzonia e delle popolazioni indigene che l’abitano per riflettere su come annunziare, vivere, celebrare il messaggio evangelico ed essere Chiesa radunata dall’Eucaristia. Riascoltando le voci dell’Amazzonia, il sinodo speciale invita tutte le persone di buona volontà, nello spirito di Francesco d’Assisi, a prendersi cura della «casa comune», a praticare la solidarietà con i più poveri che devono recuperare la loro dignità di persone, di figli di Dio e la loro identità culturale. «Cristo indica l’Amazzonia»: con questa affermazione di san Paolo VI comincia il primo capitolo (numeri 5 – 19) del Documento finale. È un grido che viene da lontano: dalla Lacrimabili statu di san Pio X, attraversa tutto l’arco temporale e di pensiero del Concilio Vaticano II e arriva fino ai nostri giorni.

Per la Chiesa latinoamericana il percorso verso l’Amazzonia e i suoi abitanti si è snodato attraverso gli incontri della Conferenza episcopale latinoamericana (Celam): Medellìn (1968), Puebla (1979), Santo Domingo (1992), Aparecida (2007), ma anche e forse soprattutto i molteplici incontri promossi dal «Dipartimento di Missioni» (Demis) dello stesso Celam con la guida del papa.

Dalla connessione all’alleanza

«Connessione» è un’ulteriore prospettiva essenziale del Documento finale perché presenta la stretta unione tra il grido della terra e quello dei poveri con la denuncia della distruzione del creato, dello sterminio del mondo naturale, della minaccia alla vita umana di coloro che abitano quei territori, ma anche con l’annuncio e la testimonianza della buona notizia di Gesù.

La connessione si fa alleanza quando si parla di Chiesa e popoli indigeni: Chiesa alleata del mondo amazzonico. Cristo, indicandoci l’Amazzonia, ci segnala le grandi sfide globali, la crisi socio-ambientale, il dramma delle migrazioni forzate e la convivenza tra culture e religioni differenti. L’ascolto dell’Amazzonia è un invito per la Chiesa alla conversione integrale perché ne riconosce il suo messaggio di vita: la voce e il canto dell’Amazzonia che diventa nello stesso tempo un grido di tutto il territorio e dei suoi abitanti. Dall’ascolto sorge la proposta di nuovi cammini di conversione pastorale, culturale, ecologica e sinodale.

© Vatican Media

Il percorso di una conversione pastorale (20 – 40) riguarda tutti i battezzati chiamati a costruire una Chiesa samaritana, misericordiosa e solidale. Una Chiesa missionaria impegnata nel dialogo ecumenico, interreligioso e culturale con volto e cuore indigeno o contadino (caboclo, ribereño, colono, afrodiscendente, …), migrante e giovane. Alla Chiesa della Panamazzonia è chiesto di diventare essa stessa missionaria. L’ascolto della Panamazzonia si trasforma – inoltre – in una conversione culturale (41 – 64).

Alleandosi con i popoli amazzonici la Chiesa si sente in dovere di rispettare e far rispettare i loro valori, le loro culture e il loro stile di vita come risultato di una forza vitale di adattamento storico. La Chiesa difende i diritti dei popoli amazzonici e denuncia tutti gli attacchi contro la vita delle loro comunità, il loro ambiente, con molteplici forme di sfruttamento.

Questa presa di posizione implica un’apertura sincera all’altro visto come fratello da cui si può imparare – ce lo dimostra la millenaria esperienza di adattamento dei popoli amerindi – e non come mezzo di cui servirsi a nostro beneficio. Per la Chiesa la difesa della «vita» e dei diritti dei popoli amerindi è un principio evangelico. L’alleanza tra popoli indigeni e Chiesa si realizza nell’ottica della fraternità, si manifesta in una sempre maggiore inculturazione della fede nella vita dei popoli amazzonici. In un’atmosfera di fraternità la Chiesa deve svolgere la missione di evangelizzare, il che non ha nulla a che vedere con il proselitismo, rifiutando al tempo stesso ogni forma di «evangelizzazione di stile coloniale».

I nuovi cammini di conversione ecologica (65 – 85) indicano che lo sfruttamento illimitato della «casa comune e dei suoi abitanti» deve essere fermato. Un’ecologia integrale non è un cammino tra i tanti che la Chiesa può scegliere per il suo futuro e quello di questo territorio, ma è l’unica via possibile e urgente; non esiste altro percorso praticabile per salvare la regione e i popoli indigeni. I cambiamenti nel sistema economico mondiale e la solidarietà globale sono urgenti e necessari.

Anche se la Chiesa non ha il potere di cambiare immediatamente e ovunque i modelli di sviluppo distruttivi e predatori, essa segnala e mostra da che lato sta. Il fondamento è la dottrina sociale della Chiesa, che implica espressamente l’ecologia. Deve impegnarsi per uno sviluppo equo, solidale e sostenibile con una denuncia coraggiosa dello scempio prodotto dall’estrattivismo.

L’introduzione del «peccato ecologico»

Nel porre in rilievo nuovi cammini di sviluppo «amichevoli» verso la casa comune, la Chiesa fa un’opzione chiara per la difesa della vita, della terra (territorio) e delle culture originarie amazzoniche (78).

In tale luce si comprende il «peccato ecologico» (82): ogni azione o omissione contro Dio, il prossimo, la comunità e l’ambiente. Tra le proposte concrete, spicca quella di un fondo mondiale per coprire parte dei bilanci delle comunità amazzoniche e la creazione di un osservatorio socio-ambientale pastorale che lavori in alleanza con i vari attori ecclesiali nel Continente – a partire dal Consiglio episcopale latinoamericano (Celam) – e con i rappresentanti delle etnie native.

Nell’orizzonte di comunione e partecipazione si devono cercare nuovi cammini ecclesiali, soprattutto, nella ministerialità e nella sacramentalità della Chiesa con volto amazzonico (86-119). La Chiesa ha bisogno di nuove esperienze sinodali, di un nuovo cammino fatto insieme, di una cultura del dialogo e dell’ascolto per rispondere alle sfide pastorali. In particolare, nel documento si sottolinea a questo riguardo la corresponsabilità dei laici.

Il volto femminile

Un’intera sezione del Documento è poi dedicata alla «presenza e all’ora della donna», al volto femminile della Chiesa amazzonica. Il ruolo straordinario dell’evangelizzazione al femminile viene riconosciuto con forza chiedendo la possibilità che anche le donne possano accedere ai ministeri di lettorato, accolitato e di dirigente di comunità.

Il testo del Documento finale è il risultato dello «scambio aperto, libero e rispettoso» svoltosi nelle tre settimane di lavori del Sinodo, per raccontare le sfide e le potenzialità dell’Amazzonia, «cuore biologico» del mondo, un cuore esteso su 9 paesi e abitato da oltre 33 milioni di persone, di cui circa 2,5 milioni di indigeni. Questa regione, seconda area più vulnerabile al mondo (dopo l’Artico) a causa dell’uomo, si trova «in una corsa sfrenata verso la morte» e ciò esige urgentemente una nuova direzione che consenta di salvarla, pena un impatto catastrofico su tutto il pianeta.

foto Paolo Moiola

Amazzonia, «locus theologicus»

Questo, per sommi capi, il contenuto del documento finale di un sinodo benedetto, anche se arrivato molto tardi.

Penso di poterlo affermare sulla base dei miei 45 anni trascorsi nella regione amazzonica. Una regione dove, durante la stagione delle piogge (invierno), i fiumi si gonfiano, straripano e mandano a farsi benedire tutti i confini stabiliti «politicamente». Durante questa stagione i confini cambiano. È la legge della Panamazzonia, diversa dalla legge degli stati.

Come è diversa quella che dice: «I fiumi uniscono, non dividono». Diretta conseguenza di un altro principio: «Chi proibisce agli uccelli dell’altra sponda di venire a questa e viceversa? O chi impedisce ai pesci di questo lato del fiume di passare liberamente e tranquillamente all’altro?». Questa è saggezza e filosofia panamazzonica o, se si preferisce, «pensiero mistico religioso» di quell’area.

Qualcuno si è scandalizzato per espressioni come «buon vivere» o, ancora di più, «Pacha Mama» (madre terra). Eppure, un noto salmo biblico recita: «Venite ammirate le opere del Signore: ha fatto cose stupende sulla terra» (come, per esempio, il bacino e la selva amazzonica). In effetti, ci vuole così poco per riconoscere la foresta panamazzonica come un «locus theologicus»: basta viverci dentro.

Gaetano Mazzoleni

foto Paolo Moiola

 


Il documento finale del sinodo, una lettura laica:

L’Amazzonia, cuore biologico del mondo

Come l’Instrumentum laboris, anche il documento finale del Sinodo panamazzonico ha tra i propri meriti la chiarezza delle posizioni. Almeno quando parla della situazione politica, ambientale e antropologica.

Link ai documenti del Sinodo:

La situazione dell’Amazzonia, cuore biologico della Terra, è drammatica. Sono necessari – ricorda nei passaggi iniziali il documento finale del Sinodo – dei cambi radicali e urgenti nonché una nuova direzione che permetta di salvarla (2 – questi numeri si riferiscono al documento finale).

Nella regione amazzonica coesiste una realtà plurietnica e multiculturale, dato che, oltre ai popoli originari, esistono popolazioni meticce nate dall’incontro tra popoli diversi (8). I popoli indigeni hanno come orizzonte il «buon vivere», che significa vivere in armonia non soltanto con se stessi e con gli altri esseri umani, ma anche con la natura e con l’essere supremo (9).

Questa realtà plurietnica, pluriculturale e plurireligiosa richiede un’apertura al dialogo, riconoscendo la molteplicità degli interlocutori: oltre ai popoli indigeni, quelli rivieraschi, i contadini, gli afrodiscendenti, le organizzazioni della società civile, i movimenti sociali popolari, lo stato (23). Senza dimenticare le altre chiese cristiane e denominazioni religiose, anche se le relazioni tra cattolici e pentecostali, carismatici ed evangelici non sono facili (24). Va poi precisato che, in Amazzonia, il dialogo interreligioso si rivolge specialmente alle religioni indigene e ai culti afro. Queste tradizioni meritano di essere conosciute, comprese nelle loro espressioni e nelle loro relazioni con la foresta e la madre terra (25).

Nella foresta non soltanto la vegetazione è in connessione, ma anche i popoli sono collegati in una rete di alleanze che porta vantaggi per tutti. Grazie a questo sistema di interrelazioni e interdipendenze il pur fragile equilibrio dell’Amazzonia si è preservato nel tempo (43).

La visione indigena e quella occidentale

Il pensiero dei popoli indigeni offre una visione integrale della realtà, una visione capace di comprendere le molteplici connessioni esistenti tra tutti gli elementi del creato. Questo contrasta con la corrente dominante del pensiero occidentale che, per comprendere la realtà, tende a frammentarla, senza riuscire ad articolare una visione complessiva e unitaria. Oltre a ciò, nei popoli indigeni s’incontrano anche altri valori come la reciprocità, la solidarietà, il senso di comunità, l’eguaglianza (44).

L’avidità per la terra è alla radice dei conflitti che portano all’etnocidio, così come all’assassinio e alla criminalizzazione dei movimenti sociali e dei suoi dirigenti. La demarcazione e la protezione delle terre indigene è un obbligo degli stati nazionali e dei loro rispettivi governi. Senza dubbio, buona parte dei territori indigeni sono sprovvisti di protezione e quelli già demarcati (per esempio, la terra degli Yanomami) sono invasi a causa dell’estrattivismo minerario e forestale, dei grandi progetti infrastrutturali, delle coltivazioni illecite (in primis, la coca) e dei latifondi che promuovono le monocolture e l’allevamento estensivo (45).

Come spiega molto bene la Laudato si’, l’«ecologia integrale» ha il suo fondamento nel fatto che tutto è in connessione. Questo significa che ecologia e giustizia sociale sono intrinsecamente unite (66). Una delle cause principali della distruzione dell’Amazzonia è il cosiddetto «estrattivismo predatorio» che risponde alla logica dell’avarizia, propria del paradigma tecnocratico dominante (67).

foto Paolo Moiola

La visione indigena e quella occidentale

Risulta scandaloso che si criminalizzino i leader indigeni e le comunità per il solo fatto di reclamare i propri diritti. In questi ultimi anni, la regione amazzonica ha visto un continuo incre-
mento dello sfruttamento delle risorse naturali (legname, petrolio, oro e molto altro) e lo sviluppo di megaprogetti infrastrutturali (dighe, centrali elettriche, strade). Tutto questo si è tradotto in pressioni dirette sui territori ancestrali senza la possibilità per gli indigeni di ottenere giustizia (69).

È evidente che l’intervento dell’uomo ha perso il suo carattere «amichevole», per assumere un’attitudine vorace e predatoria che tende a sfruttare le risorse naturali disponibili fino al loro esaurimento (71). Molte attività estrattive, come le miniere su grande scala (quelle illegali in particolare, si pensi all’estrazione dell’oro), riducono in maniera sostanziale il valore della vita in Amazzonia. In effetti, si appropriano della vita dei popoli e dei beni comuni della terra, concentrando potere economico e politico nelle mani di pochi. A peggiorare le cose, molti di questi progetti distruttivi si realizzano nel nome del progresso e sono appoggiati o permessi dai governi locali, nazionali e stranieri (72).

Il futuro dell’Amazzonia è riposto nelle mani di tutti noi. Esso dipende principalmente dall’abbandono immediato del modello di sviluppo attuale che distrugge la foresta, non porta benessere e pone in pericolo l’immenso tesoro naturale amazzonico e i suoi guardiani (73).

La Chiesa riconosce la conoscenza tradizionale dei popoli indigeni rispetto alla biodiversità, una conoscenza viva e sempre in marcia. Il furto di essa è chiamata biopirateria, una forma di violenza contro queste popolazioni (76).

Nel nuovo modello sostenibile e inclusivo diventa una necessità urgente lo sviluppo di politiche energetiche che riducano drasticamente l’emissione di biossido di carbonio (CO2) e degli altri gas legati al cambiamento climatico. Inoltre, va assicurato l’accesso all’acqua potabile, che è un diritto umano fondamentale (77).

La difesa della vita dell’Amazzonia e dei suoi popoli necessita di una profonda conversione personale, sociale e strutturale (81). Occorre adottare comportamenti responsabili che rispettino e valorizzino i popoli dell’Amazzonia, le loro tradizioni e conoscenze, proteggendo la loro terra e cambiando i nostri modi di vivere. Dobbiamo ridurre il consumo eccessivo e la produzione di rifiuti solidi, stimolando il riuso e il riciclaggio. Dobbiamo ridurre la nostra dipendenza dai combustibili fossili e dall’uso delle plastiche. Dobbiamo cambiare le nostre abitudini alimentari, visto l’eccessivo consumo di carne e pesce. Dobbiamo attivarci nella semina di alberi. Dobbiamo cercare alternative sostenibili nell’agricoltura, nel campo energetico e nella mobilità. Dobbiamo promuovere a tutti i livelli l’educazione all’ecologia integrale (84).

© Guilherme Cavalli-Cimi

Valorizzare la donna e le lingue autoctone

La saggezza dei popoli ancestrali afferma che la madre terra ha un volto femminile. Sia nel mondo indigeno che in quello occidentale la donna è la persona che lavora in una molteplicità di campi (101). Eppure, nella vita quotidiana le donne sono vittime di violenza fisica, morale e religiosa. La Chiesa si schiera in difesa dei loro diritti e le riconosce come protagoniste e guardiane della creazione e della casa comune (102).

Avviandosi alla conclusione, il Documento finale ricorda che la Chiesa cattolica deve dare una risposta alla richiesta delle comunità amazzoniche di adattare la liturgia valorizzando la cosmovisione, le tradizioni, i simboli e i riti originari nelle loro dimensioni trascendenti, comunitarie ed ecologiche (116). E tutto va fatto usando le lingue proprie dei popoli che abitano l’Amazzonia (118).

Paolo Moiola

© Vatican Media


Scheda


Contro il sinodo e contro papa Francesco: Tribalista ed ecologista

Il Sinodo panamazzonico ha avuto molti avversari interni alla Chiesa cattolica. Per capirne di più, abbiamo dato un’occhiata ai loro siti.

Povero padre Corrado Dalmonego, non solo hanno messo il suo essere missionario tra virgolette («questo “missionario”»), ma ne hanno anche travisato il cognome (Dalmolego), segno – lo diciamo per inciso – non di sbadataggine ma di sciatteria. L’ambito è il sito dell’agenzia Corrispondenza Romana e la firma è quella di Cristina Siccardi, saggista torinese molto critica verso il pontificato di papa Francesco. È la stessa persona che sul medesimo sito, il 6 novembre, scriveva scandalizzata: «Il papa in persona, il 4 ottobre scorso, alla vigilia del Sinodo, ha partecipato ad una cerimonia nei giardini del Vaticano, insieme a vescovi e cardinali, guidata in parte da sciamani, dove sono stati usati degli oggetti che nulla hanno a che vedere con il Cattolicesimo, in particolare la donna nuda e incinta, la Pachamama. Papa Francesco ha anche riverito due vescovi che portavano in processione la Pachamama sulle loro spalle nella Sala del Sinodo, per essere poi collocata in un luogo d’onore. E statue di figure femminili nude in legno sono state venerate nella Basilica Vaticana, di fronte alla Tomba di San Pietro!».

Sarebbe interessante sapere il parere di Cristina Siccardi sul nudo nell’arte sacra o, senza andare lontani, sui corpi nudi della Cappella Sistina.

Corrispondenza Romana è il sito – uno di quelli ascrivibili al fondamentalismo cattolico anti papa Francesco (vedere riquadro) – che ha esultato per il gesto, definito «coraggioso», del giovane austriaco che «il 21 ottobre ha rimosso dalla chiesa di Santa Maria in Traspontina (una delle sedi esterne del Sinodo, ndr) e ha gettato nel Tevere le statuette di Pachamama, la divinità pagana rappresentante la “Madre Terra” amerindia».

© Guilherme Cavalli-Cimi

Il Sinodo è una minaccia

L’offensiva contro il malcapitato padre Corrado – missionario in Amazzonia (Catrimani, Roraima, Brasile), giovane ma preparatissimo, tanto da essere chiamato come uditore al Sinodo – era iniziata già a giugno 2019 con un attacco firmato dal cileno José Antonio Ureta sempre su Corrispondenza Romana.

Ureta così descrive gli Yanomami tra i quali padre Dalmonego opera: «Gli Yanomami sono un gruppo etnico composto da 20 a 30 mila indigeni che vivono nella foresta tropicale in modo molto primitivo […]. I loro vestiti sono molto sommari e li usano a malapena come ornamento ai polsi, alle caviglie e come cintura attorno alla vita. Gli uomini della tribù generalmente hanno varie mogli, comprese adolescenti appena entrate nella pubertà. Gli uomini sono soliti consumare la pianta “epená” o virola, che contiene una sostanza allucinogena». José Antonio Ureta è membro di «Tradizione, famiglia e proprietà», un movimento nato in Brasile che lotta contro «la grave minaccia che il Sinodo sull’Amazzonia rappresenta per la civiltà occidentale» e contro «un’ecologia falsa, i cui promotori cercano di controllare la società con il pretesto di salvare l’ambiente». Lo stesso Ureta e la citata Cristina Siccardi sono tra i cento firmatari della protesta (Contra Recentia Sacrilegia) per – si legge testualmente (9 novembre) – «gli atti sacrileghi e superstiziosi commessi da Papa Francesco, il Successore di Pietro, durante il recente Sinodo sull’Amazzonia tenutosi a Roma». Le accuse dei firmatari verso il pontefice partono tutte dal suo atteggiamento definito sacrilego verso la «dea pagana Pachamama». Nell’elenco si trova anche Roberto De Mattei, storico, presidente della «Fondazione Lepanto», direttore della rivista Radici Cristiane e di Corrispondenza Romana, nonché discepolo di Plinio Corrêa de Oliveira, fondatore del movimento «Tradizione, Famiglia e Proprietà». È sul sito da lui stesso diretto che de Mattei ha attaccato il nuovo «Patto delle Catacombe», firmato il 20 ottobre nelle catacombe di Domitilla in una celebrazione presieduta dal cardinale Hummes. Il professore ha usato parole sarcastiche per descrivere l’evento, definendolo «il patto socio-cosmico dell’era di Greta Thunberg» (Corrispondenza Romana, 22 ottobre). Molti dei firmatari del documento Contra Recentia Sacrilegia sono statunitensi come statunitense è il sito National Catholic Register. È il sito che ha attaccato (Edward Pentin il 17 ottobre) duramente anche la Repam (presieduta dal cardinal Hummes) e il Cimi (guidato da dom Roque Paloschi), la prima molto impegnata nell’organizzazione del Sinodo, il secondo da anni in prima linea nell’impagabile difesa dei popoli indigeni e dell’Amazzonia.

foto Paolo Moiola

I tre vaticanisti

L’offensiva anti Sinodo e anti papa Bergoglio è proseguita sulle pagine web di alcuni vaticanisti. «Il sinodo dell’Amazzonia è passato agli archivi, ma lo “scandalo” che ne ha accompagnato il cammino è lontano dall’essere sanato», scrive Sandro Magister nel suo blog Settimo Cielo il 13 novembre. Poi parla di idolatria a causa di quella «statuetta lignea di una donna nuda e gravida». Infine, boccia il Sinodo per «l’irrilevanza, se non l’assenza, dell’annuncio cristiano e l’enfasi scriteriata data invece alla cultura e alla religiosità pagane, senza esercitare su di queste il necessario giudizio». Secondo l’autore, oggi il «populismo» di papa Francesco è focalizzato sulle tribù amazzoniche e sull’«esaltazione del “buen vivir”» (30 novembre).

In un suo precedente scritto (30 ottobre), Magister aveva individuato il vero punto nevralgico – a suo dire – del Sinodo amazzonico: «È di dominio pubblico che questo sinodo è stato ideato e organizzato precisamente con questo obiettivo primario: “aprire” all’ordinazione di “viri probati” in Amazzonia per poi estendere la novità a tutta la Chiesa».

Anche Aldo Maria Valli, vaticanista della Rai, si concentra (con una certa dose di sarcasmo verso alcuni suoi critici) sulla questione dell’ordinazione di uomini sposati (viri probati). «In seguito al molto discusso Sinodo amazzonico – scrive il 16 novembre – si sta facendo più vicina l’ipotesi non di permettere a tutti i preti di sposarsi, bensì di ordinare, in certe aree, uomini sposati, anzi anziani sposati (poveri anziani!). Ma sappiamo come vanno queste cose. E dovrebbero saperlo anche i maestrini che pretendono di darmi lezioni. Dopo che è stato aperto un pertugio, da esso può passare di tutto. Nel caso specifico, si tratta di un pertugio amazzonico, che sembra lontano da noi, ma non lo è. Serviva un pretesto, e di solito il pretesto arriva da un caso limite».

Per parte sua, Marco Tosatti, un altro vaticanista (dai toni ancora più ruvidi e perentori), la butta tutta in politica: nella lotta tra la sinistra perdente (quella del Pd, di Repubblica, di Zuppi, «cardinale in quota Pd», Tosatti dixit) e la destra vincente (quella di Salvini, Meloni, ma anche – sostiene il vaticanista – di Casa Pound, il movimento neofascista), papa Bergoglio è schierato inopinabilmente con la prima. Però, ha perso, pure sul Sinodo, anche se questo si è svolto – scrive Tosatti – «in una situazione di manipolazione altissima» (29 ottobre), su alcuni temi come i viri probati e il diaconato femminile. Ma – avverte – occorre stare vigili perché il papa è il «detentore del mazzo», un pontefice che «si scaglia contro i cattolici che non sentono e pensano esattamente come lui», un papa con una «memoria selettiva» (16 novembre) perché esprime timori per un ritorno in auge di idee naziste, ma non dice nulla della Cina, del Nicaragua e del Venezuela.

Insomma, per costoro è tutto chiaro: papa Francesco non solo è un vero cattocomunista, ma ha riportato in vita la teologia della liberazione. Magari – come ha suggerito Julio Loredo, presidente per l’Italia di Tradizione, Famiglia e Proprietà (il Giornale, 20 novembre) – nelle sue forme aggiornate: la teologia indigena e la teologia ecologica. Loredo è la stessa persona che, a febbraio 2019, con chiaro intento spregiativo aveva definito la Chiesa «tribalista ed ecologista».

Paolo Moiola

Siti contro (la giostra delle citazioni)

  • https://www.corrispondenzaromana.it
  • http://www.ncregister.com (Stati Uniti)
  • https://lanuovabq.it
  • https://anticattocomunismo.wordpress.com
  • https://www.rossoporpora.org
  • https://www.fondazionelepanto.org
  • https://www.radicicristiane.it/
  • https://www.radiospada.org/
  • https://www.radioromalibera.org/
  • https://www.marcotosatti.com/
  • http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/

Quelli sopra elencati sono gli indirizzi dei principali siti contrari (o fortemente contrari) al Sinodo panamazzonico e a papa Francesco. Gli ultimi tre appartengono ad altrettanti vaticanisti: Aldo Maria Valli, Marco Tosatti e Sandro Magister. Va detto che nomi e contenuti all’interno di questi siti si ripetono spesso perché alcune persone sono presenti in vari ambiti (Roberto de Mattei su tutti) e perché la citazione reciproca è molto praticata. È giusto ed opportuno che i lettori li conoscano anche per comprendere meglio l’entità della battaglia interna che il papa argentino si trova a dover affrontare.

Pa.Mo.


© Vatican Media


Il documento finale del sinodo: una lettura missionaria

Il grido della Terra: dopo l’ascolto, l’azione

Il Sinodo è stato un successo, ma adesso viene il difficile: passare dall’ascolto all’azione. E questa dovrà sfidare «altari» e «troni». La Chiesa sarà sempre missionaria, ma in modo diverso. La «conversione» passa anche attraverso un nuovo tipo di presenza sul territorio amazzonico e al fianco dei popoli che lo abitano.

Il Sinodo per l’Amazzonia dello scorso ottobre è stato una benedizione per la Chiesa e per l’umanità. Allo stesso tempo, ha posto sul tavolo le principali sfide per la missione in un mondo globalizzato e minacciato. L’intero processo di preparazione e realizzazione di questo evento ecclesiale convocato da papa Francesco ha rafforzato la convinzione che territorialità e popoli determinano una missione che deve includere l’ecologia. Questa prospettiva aveva già acquisito slancio durante la visita del papa a Puerto Maldonado in Perù (gennaio 2018), un gesto che aveva sottolineato l’importanza di ascoltare gli indigeni e gli altri popoli.

La sfida ad «altari» e «troni»

Questo processo di ascolto del «grido dei poveri e del grido della terra» sfida «altari» e «troni» nella ricerca di nuovi modi di essere Chiesa. Il rinnovamento desiderato comporta necessariamente la conversione.

Durante l’assemblea sinodale, svoltasi dal 6 al 27 ottobre a Roma, la riflessione ha avuto come temi: la conversione pastorale, la partenza missionaria, la conversione culturale, il dialogo ecumenico, interreligioso e interculturale, la conversione sinodale, i nuovi ministeri, la teologia, catechesi e formazione inculturata, il riti amazzonici, la Chiesa povera, con e per i poveri. Temi che rappresentano una sfida alla missione della Chiesa e, quindi, si scontrano con «altari» al proprio interno (come raccontato a pag. 41 di questo dossier, ndr).

D’altra parte, temi come conversione integrale, conversione ecologica, modelli di sviluppo sostenibile, cura della casa comune, promozione ecologica integrale, grido dei poveri e grido della terra, interdipendenza tra tutti gli esseri, ecc., sfidano i «troni» del sistema capitalista attuale che è neoliberista e predatore.

È bene sottolineare che tutte queste domande sono interconnesse da una «spiritualità dell’ascolto» e dall’annuncio della buona novella con uno «spirito profetico».

Nel pontificato di Francesco, le basi per questo cambiamento sono state poste nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium (2013)* e nell’enciclica Laudato si’ (2015). Allo stesso modo, il documento finale del sinodo (che dovrebbe orientare l’esortazione post sinodale) indica un passaggio dall’ascolto alla conversione integrale ponendo l’Amazzonia come «luogo teologico» simbolico per l’intera Chiesa universale.

© Vatican Media

I nuovi percorsi della Chiesa

Una lettura missionaria del documento finale aiuta a mettere in luce che il tema della missione è ben articolato in cinque percorsi (e altrettanti capitoli) di «conversione»: integrale, pastorale, culturale, ecologica e sinodale.

Quando, a inizio del capitolo 2 del documento, si legge: «Una chiesa missionaria in uscita richiede da noi una conversione pastorale» (20), scorgiamo la sintonia tra il sinodo e la teologia della missione del Concilio Vaticano II e delle conferenze dell’episcopato latinoamericano (Celam). Infatti, al numero 21 si legge: «La Chiesa, per sua natura, è missionaria e ha la sua origine nell’“amore fontale di Dio” (AG 2). Il dinamismo missionario che scaturisce dall’amore di Dio si irradia, si espande, trabocca e si diffonde in tutto l’universo. “Siamo inseriti dal battesimo nella dinamica dell’amore attraverso l’incontro con Gesù, che dà un nuovo orizzonte alla vita” (DAp 12). Questo straripamento spinge la Chiesa alla conversione pastorale e ci trasforma in comunità viventi, lavorando in gruppi e reti al servizio dell’evangelizzazione. La missione così intesa non è opzionale, un’attività della Chiesa tra le altre, ma la sua stessa natura: la Chiesa è missione! “L’azione missionaria è il paradigma dell’intera opera della Chiesa”(EG 15)» (Doc. finale 21).

Ciò che colpisce è la convinzione che la missione appartiene a tutti, la Chiesa è missione, e quindi «ogni cristiano è una missione» di Dio nel mondo. Con ciò, la missione cessa di essere qualcosa di esterno come «ornamento» e diventa qualcosa di essenziale: «La vita è missione» (EG 273) e questo pone la Chiesa sulla soglia per entrare «nel cuore di tutti i popoli» (Doc. finale 18).

© Guilherme Cavalli-Cimi

Una revisione dello stile missionario

Proponendo la conversione nei modi più diversi, il sinodo ribadisce che la «gioia del Vangelo» prima di essere diretta verso gli altri è diretta alla Chiesa stessa e ai suoi missionari. La conversione integrale si manifesta principalmente attraverso la conversione pastorale (missionaria) e sinodale. Per i missionari questa conversione richiede una seria revisione dello stile di missione che presuppone una presenza incarnata nella realtà e nella vita dei popoli. «La nostra conversione pastorale sarà samaritana, in dialogo, accompagnando le persone con volti concreti di indigeni, contadini, discendenti africani (quilombolas), migranti, giovani e abitanti delle città. Tutto ciò comporterà una spiritualità di ascolto e annuncio» (Doc. finale 20).

La conversione pastorale implica anche una prospettiva missionaria di itineranza, vicinanza e una presenza più efficace con i popoli, superando le visite sporadiche (desobrigas) e creando relazioni permanenti nella missione. Il sinodo sottolinea l’importanza di gruppi itineranti composti da diversi carismi, istituzioni e congregazioni, religiose e religiosi, laici e sacerdoti che lavorano formando una rete viaggiante (Doc. finale 39 e 40). Non bisogna più camminare da soli. La missione si svolge in una rete e in comunione ecclesiale. Il desiderio è che la Chiesa assuma in Amazzonia la sinodalità missionaria (Doc. finale 86-88).

© Guilherme Cavalli-Cimi

Davanti alla realtà amazzonica

Questo sinodo è stata una cosa unica. Le numerose attività (incontri, dibattiti, celebrazioni, mostre) della «Tenda amazzonica: la casa comune» (con sede principale nella chiesa della Traspontina in via della Conciliazione, a Roma) durante l’assemblea sinodale hanno portato a Roma rappresentanti dei popoli del territorio panamazzonico per «ascoltare insieme» con Francesco, i padri e le madri sinodali. Francesco ha invitato la periferia a sedersi nel centro del cristianesimo, la «foresta amazzonica» è stata piantata nella «foresta di pietre» e la «città eterna» è stata ossigenata.

Nella missione, i protagonisti sono la realtà e i suoi popoli che, oltre ad essere valorizzati, devono anche assumersi la loro responsabilità. «Questo sinodo vuole essere un forte appello per tutti i battezzati in Amazzonia ad essere discepoli missionari. (…) Pertanto, crediamo che sia necessario generare un maggiore impulso missionario tra le vocazioni native; l’Amazzonia deve essere evangelizzata anche dai suoi abitanti» (Doc. finale 26). In questo senso, la proposta di nuovi «ministeri per uomini e donne in modo equo» (95) e l’«elaborazione di un rito amazzonico» (119) sono encomiabili.

L’ambiente e il «peccato ecologico»

© Guilherme Cavalli-Cimi

Un altro momento saliente di questo sinodo è stato quello di affermare che l’ecologia integrale e la cura della casa comune sono parti costitutive della missione della Chiesa. Pertanto, l’azione evangelizzatrice con i suoi progetti e missionari non può dimenticare la cura della vita del pianeta. In questo senso, la definizione di «peccato ecologico come azione o omissione contro Dio, contro il prossimo, la comunità e l’ambiente» (Doc. finale 82) rappresenta un aggiornamento importante dell’insegnamento della Chiesa per la pratica della fede cristiana.

Decolonizzare la missione

Il sinodo per l’Amazzonia segue la linea della Conferenza di Medellin che, nel 1968, ha dato una contestualizzazione al Concilio Vaticano II in America Latina. Esso ha avuto anche il contributo di altri continenti. Questo cambio di prospettiva è importante per la «decolonizzazione» della missione e l’allontanamento dal pensiero eurocentrico. È bene ricordare che papa Francesco è un figlio del Concilio e del Sud, un fattore rilevante per «decolonizzare» la missione. L’Amazzonia ci sfida a passare dalla visione della missione come «espansione» alla missione come «incontro» senza proselitismo. «Siamo tutti invitati ad avvicinarci alle popolazioni amazzoniche su una base di uguaglianza, rispettando la loro storia, le loro culture, il loro stile del ben vivere. […] Rifiutiamo un’evangelizzazione in stile coloniale. Proclamare la buona novella di Gesù implica riconoscere i semi della Parola già presenti nelle culture» (Doc. finale 55).

Nonostante resistenze e incomprensioni, questo sinodo è un kairos, un momento tempestivo di grazia e speranza. Molto al di là del ricco documento prodotto, stiamo affrontando un processo che dovrebbe condurre a nuovi percorsi per una Chiesa divenuta molto più consapevole che, senza una conversione integrale e sinodale, non ci saranno cambiamenti reali nel suo modo di essere e di vivere la missione.

Jaime C. Patias

Firma del Patto delle Catacambe – © Guilherme Cavalli-Cimi


Dal 16 novembre 1965 al 20 ottobre 2019

Il «Patto delle catacombe» rivive e si rinnova

Nelle catacombe di Domitilla è stato firmato un nuovo patto. Per la casa comune. Per una Chiesa dal volto amazzonico, povera e serva, profetica e samaritana.

Il Concilio Vaticano II aveva ispirato, durante il suo svolgimento, un gruppo di vescovi guidati da mons. Helder Camara (1909-1999) a costruire una Chiesa servitrice e povera. Questa utopia prese forma il 16 novembre 1965, nelle Catacombe di Santa Domitilla a Roma, dove pochi giorni prima della chiusura del Vaticano II, quarantaquattro padri conciliari celebrarono un’eucaristia e, con un gesto profetico, firmarono l’«Alleanza della Chiesa dei poveri e dei servi», meglio noto come il «Patto delle catacombe». Molti altri vescovi si unirono successivamente al Patto. I firmatari del documento si impegnarono a vivere in condizione di povertà, a rinunciare a tutti i simboli o privilegi di potere e a mettere i poveri al centro del loro ministero pastorale.

Questa alleanza è stata considerata il seme della Chiesa di Francesco, che tre giorni dopo essere stato eletto successore di San Pietro, disse ai giornalisti: «Come vorrei una chiesa povera per i poveri!». Bergoglio conosceva bene la «barca» che stava cominciando a guidare. Ed è stata la sua sensibilità per «il grido dei poveri e il grido della terra» che lo ha portato a convocare il Sinodo speciale per l’Amazzonia, alimentato dall’enciclica Laudato si’ (2015) e dalla riaffermazione di una Chiesa che «non può dimenticare i poveri e la cura della Creato». Il pontificato di Francesco è diventato un forte richiamo alla conversione della Chiesa e dei poteri politici ed economici. È ovvio che ciò disturba coloro che, nella Chiesa, ignorano i poveri e non vogliono né perdere i loro privilegi, né mettere in discussione i potenti del mondo globalizzato che obbediscono solo ai desideri del profitto.

© Caldeira Ferreira Julio César

Una nuova alleanza per la casa comune

Sebbene non facesse parte della programmazione ufficiale del sinodo, il 20 ottobre 2019,  giornata missionaria mondiale, potrebbe anch’essa divenire una data storica, perché nella stessa sede del Patto del 1965, è stato firmato un nuovo Patto, questa volta per la casa comune: una chiesa dal volto amazzonico, povera e serva, profetica e samaritana. La proposta era stata costruita nei mesi precedenti il sinodo e aveva preso forma nelle prime due settimane della sua realizzazione a Roma.

Prima dell’alba di domenica 20 ottobre, cinque pullman parcheggiati in Via dei Cavalleggeri, vicino alla sala del sinodo, aspettavano un variegato gruppo composto da vescovi sinodali, esperti, leader pastorali, indigeni e religiosi e altre persone coinvolte nelle attività della tenda «Amazzonia, casa comune». La destinazione del gruppo erano le catacombe di Santa Domitilla nel moderno quartiere Ardeatino di Roma.

Con 17 chilometri di gallerie, quattro piani e oltre 150mila tombe, queste catacombe sono tra le più grandi di Roma. Vi furono sepolti numerosi martiri del primo cristianesimo, tra cui la stessa Flavia Domitilla, nipote dell’imperatore Vespasiano che donò la terra ai cristiani, e Nereo e Aquilleo che diedero il nome alla basilica semi sotterranea costruita alla fine del IV secolo su richiesta di papa Damaso I.

Mentre il gruppo scendeva le scale verso la basilica, il silenzio e la commozione hanno preso il sopravvento. La canzone «Alla luce dei martiri della fede», del noto cantautore Antonio Cardoso, annunciava il significato di quella visita. «Torniamo qui – dice il testo – tutte le volte che è necessario. Dopo il Concilio ci siamo incontrati per camminare con i poveri e Gesù. Torniamo qui per riscattarci in Amazzonia. Cerchiamo tutte le alleanze in queste tombe alla luce dei martiri della fede». E, usando la tintura rossa estratta dal seme dell’urucum (annatto) dell’Amazzonia, tutti hanno lasciato le loro impronte digitali su un panno morbido, simbolo della memoria del Gesù martire e di coloro che, per fede in lui, hanno versato il loro sangue.

Tra martiri e profeti

Padre Oscar Beozzo ha ricordato la storia del Patto del 1965, sottolineando che allora le guide del gruppo erano l’arcivescovo Helder Camara, l’arcivescovo Leonidas Proaño, vescovo degli indigeni in Ecuador, e l’arcivescovo Enrique Angelelli, che in seguito sarà assassinato dalla dittatura militare argentina.

L’eucaristia è stata presieduta dal cardinale Claudio Hummes, presidente della Rete ecclesiale panamazzonica (Repam), che era accompagnato dal cardinale Pedro Barreto, arcivescovo di Huancayo in Perù, vicepresidente della stessa organizzazione.

Il ricordo del Patto del 1965 era rinnovato dalla stola di dom Helder usata a messa dal cardinale Hummes, che, emozionato, alla fine l’ha consegnata a dom Erwin, uno dei grandi profeti viventi dell’Amazzonia. Era presente anche una tunica di dom Helder, indossata da dom Adriano Ciocca, vescovo di São Felix do Araguaia, dove vive dom Pedro Casaldáliga, uno di coloro che hanno realizzato il patto all’estremo. Il calice e la patena usati nella messa appartenevano a padre Ezequiel Ramin, un missionario comboniano italiano, martirizzato nel 1985 a Cacoal, Rondônia, Brasile, per volere dei proprietari terrieri della regione.

© Caldeira Ferreira Julio César

Nella casa comune tutto è connesso

A differenza del primo, questo Patto per la casa comune è stata firmato da tutti i presenti (oltre 200 persone, tra cui 80 padri sinodali e due membri di altre chiese delegate fraterne nel Sinodo) con rilievo per la partecipazione degli indigeni e delle donne. Si tratta di un documento aperto che può ancora essere firmato in occasione di riunioni o attività in difesa della casa comune in tutto il mondo.

Chi firma i suoi 15 impegni rinnova l’opzione preferenziale per i poveri e si prende cura della casa comune con un’ecologia integrale in cui tutto è interconnesso (la sostenibilità della foresta, dei fiumi e del bioma amazzonico); valorizza e difende la diversità culturale, le tradizioni spirituali e lo stile di vita dei popoli amazzonici; desidera camminare ecumenicamente con altre comunità cristiane e religioni; valorizza le comunità e riconosce i ministeri; segue uno stile di vita sobrio, semplice e solidale; vuole ridurre la produzione di rifiuti e l’uso di materie plastiche, e favorire la produzione e la commercializzazione di prodotti agroecologici; difende i perseguitati e la vita dove essa è minacciata.

Saper ascoltare le voci scomode

Di fronte alle sfide ecologiche, sociali ed ecclesiali, questo nuovo Patto è una risposta alle preoccupazioni di papa Francesco che, anche alla messa di chiusura del Sinodo (il 27 ottobre), ha nuovamente ricordato: «Quante volte, anche nella Chiesa, le voci dei poveri non vengono ascoltate e talvolta sono derise o messe a tacere perché scomode. Chiediamo la grazia di saper ascoltare il grido dei poveri: è il grido di speranza della Chiesa». E come afferma il Patto: «Con loro abbiamo sperimentato il potere del Vangelo che opera nei piccoli».

Jaime C. Patias

foto Paolo Moiola


Hanno firmato questo dossier:

  • Gaetano Mazzoleni. Missionario della Consolata, dopo gli studi di teologia, si è specializzato in antropologia culturale presso la Catholic University of America di Washington. Ha vissuto in Colombia dal 1965 al 2010 con un intervallo di un anno in Venezuela. Durante la sua lunga esperienza si è sempre occupato di popoli indigeni, prima come missionario, poi come missionario e antropologo.
  • Jaime C. Patias. Missionario della Consolata, giornalista, attualmente è membro della Direzione generale dell’Istituto Missioni Consolata con responsabilità sulla regione americana.
  • A cura di Paolo Moiola, giornalista redazione MC.

foto Paolo Moiola




Amazzonia (Catrimani). «Niente foto, per favore»

testo e foto di Paolo Moiola


Trascorso oltre mezzo secolo dalla sua fondazione, la Missione Catrimani prosegue la sua esperienza nella terra degli Yanomami. Una terra assediata dai garimpeiros che avanzano e fanno disastri nella più totale impunità. La malaria è sempre presente e le «attrazioni» dei Bianchi catturano una parte degli indigeni. Eppure, nonostante tutti questi problemi, la Missione Catrimani rimane un posto unico. Che merita una lunga vita.

Sono ancora a Manaus quando mi raggiunge una email di padre Corrado Dalmonego, responsabile della Missione Catrimani nella Tiy, la Terra indigena yanomami. Dice di essere di passaggio a Boa Vista e che tra pochi giorni tornerà in foresta. «Ti interesserebbe venire con me?», domanda. Se mi interessa? È da anni che ho a che fare con gli Yanomami, ma li ho sempre incontrati a Boa Vista. In vari luoghi: alla sede della loro associazione Hutukara, come nella filiale del Banco do Brasil, però sempre fuori dal loro contesto territoriale.

«Certo che accetto», rispondo. «Per farti spazio sull’aereo io rinuncerò a caricare un sacco di pane secco», spiega il missionario. Mi ha paragonato a un sacco di pane e neppure fresco, penso tra me e me. Vabbè se questo è il prezzo da pagare, lo pago. Purtroppo però non è il solo. «Niente foto agli Yanomami, per favore», aggiunge padre Corrado. Anche se la mania dei selfie ha svilito il ruolo delle foto, per un giornalista non poter fotografare è un divieto pesante. Tuttavia, non discuto. «Va bene – rispondo -. Accetto le tue condizioni».

Dopo una notte in bus, al mattino raggiungo Boa Vista, capitale dello stato di Roraima.

Per raggiungere Catrimani

A Boa Vista operano alcune compagnie di piccoli aerei (quasi sempre Cessna) che monopolizzano il mercato: il business è grosso. Non certo per merito dei pochi missionari, però. A parte qualche eccezione, non sono loro a volare nella Terra indigena Yanomami. Sono (purtroppo) i garimpeiros e coloro che stanno dietro il malaffare minerario. Va ricordato che, in linea teorica, chiunque voglia entrare in terra indigena dovrebbe chiedere il permesso alla Funai1.

Negli anni Ottanta-Novanta, durante le invasioni del territorio yanomami e ye’kwana, vennero identificate 82 piste d’atterraggio clandestine2. Quante siano oggi è difficile dirlo anche perché le operazioni di contrasto sono molto più blande che nel recente passato.

Perché – viene da chiedersi – andare alla Missione Catrimani con un aereo? Perché raggiungerla via fiume è pericoloso a causa della presenza delle rapide. Raggiungerla via terra è invece lungo e difficile: sono 5 giorni di cammino con esperte guide indigene. Tuttavia – occorre sottolinearlo con forza -, è un bene che vie semplici da percorrere non ce ne siano: una strada sarebbe la fine di tutto, come ha dimostrato la devastante esperienza della Perimetral norte, la via oggi abbandonata che portò morti e distruzione a metà degli anni Settanta.

Dalla savana alla foresta

Il decollo è tranquillo, favorito da una giornata relativamente limpida. Schiacciato sullo stretto sedile posteriore, alla mia sinistra una pila di scatole di cartone contenenti non so cosa e un paio di sacchi di yuta con alimenti, i piedi posti sopra le nuove batterie solari per la missione, accompagnato dal pigolio continuo delle decine di pulcini che, chiusi all’interno di uno scatolone bucherellato, viaggiano nel vano bagagli sulla coda del Cessna, in tutto questo ammiro (e filmo) il panorama sotto di noi.

I primi 15 minuti di volo mostrano un paesaggio dominato dal lavrado, la savana amazzonica. Poi, l’ecosistema cambia: inizia la foresta e qualche rilievo, che può superare i 1.000 metri d’altezza.  Sono le propaggini della Serra da Mocidade, dai missionari chiamata Serra dos Opikɨtheri per ricordare i loro veri abitanti. Da qui in avanti inizia la Terra indigena yanomami (Tiy).

Ecco il fiume Catrimani, che – lo raccontò negli anni Sessanta padre Silvano Sabatini nei suoi appassionati reportage3 – sarebbe un punto di riferimento se non fosse che il giovane pilota del Cessna ha un Gps portatile (posato sulle sue ginocchia).

Ecco alcune maloche (yano) ed ecco la Missione Catrimani. Il Cessna fa alcune virate per mettersi in condizione di atterrare sulla pista in terra battuta.

La pista della Missione Catrimani, costruita dai padri Bindo Meldolesi e Giovanni Calleri, venne ufficialmente inaugurata il 7 marzo 1966, quando vi atterrò il primo aereo4. All’epoca era una striscia di terra ed erba lunga circa 400 metri e larga 30, con tutt’attorno una fitta foresta. Oggi, essa è lontana dalla pista varie decine di metri, lasciando spazio a una radura (e ciò – a dire il vero – non è un buon segno dal punto di vista ambientale).

Il piccolo aereo tocca terra con qualche scossone dovuto al terreno sconnesso ma senza difficoltà.

La pista è a circa duecento metri dalle costruzioni della missione, dalla quale qualcuno ci fa cenni di saluto. Uno Yanomami dall’età imprecisabile (ma non giovane) ci viene incontro e saluta padre Corrado. Strano – penso tra me e me – che non ci siano più persone. Saprò più tardi che, proprio in questi giorni, quasi tutti gli Yanomami di Catrimani sono ospiti in altre maloche per una festa.

Iniziamo subito a scaricare i numerosi bagagli stipati sul velivolo, che si fermerà soltanto poche ore. Nel frattempo, l’anfitrione indigeno è tornato con una carriola, che però non è utile per trasportare le pesanti batterie solari. Così, lui ed io assieme, parlando a gesti e sorrisi, uno da una parte e uno dall’altra, le solleviamo e le portiamo verso la missione.

Per la salute, per l’istruzione

Ci sono alcune donne con neonati in braccio e vari bambini, subito attratti dallo scatolone con i pulcini, anch’essi atterrati sani e salvi come gli umani. E ci sono due suore della Consolata, che mi accolgono con calore.

Sono l’italiana Giovanna Geronimo e Noemi del Valle Mamani, argentina di etnia kolla. È invece in trasferta la suora che da più tempo vive a Catrimani, la keniana di etnia kikuyu Mary Agnes Njeri Mwangi5.

La missione è un piccolo complesso composto da casette di legno a un piano, la maggior parte di un color verde foresta che s’intona perfettamente con l’ambiente amazzonico. Le suore m’invitano a dissetarmi in quella che ospita la cucina e il refettorio, luogo giusto per scambiare qualche parola. Suor Giovanna, nativa di Martina Franca, è l’ultima arrivata essendo qui dal settembre 2018, ma opera in Brasile da oltre 30 anni. Suor Noemi è a Catrimani dall’agosto del 2009, pur con una pausa di alcuni anni. «Mi occupo degli insegnanti – spiega -. Una sorta di accompagnamento pedagogico». L’insegnamento – e questa è una conquista fondamentale – avviene sia nella lingua indigena che in portoghese. «Il primo anno è in yanomae, gli altri due in portoghese», precisa la suora.

Usciamo per una visita alla missione, che si conferma molto curata: erba tagliata, piante da frutto, fiori, nulla fuori posto.

Ci dirigiamo verso la casetta che ospita l’ambulatorio gestito dalla Sesai (Secretaria especial de atenção à saúde Indígena), organizzazione pubblica per la salute indigena che il presidente Bolsonaro vuole eliminare o almeno ridimensionare.

L’ambulatorio è una stanza essenziale alle cui pareti interne sono appesi manifesti informativi. Ci sono i farmaci e poi, poggiato su un bancone, lo strumento forse più importante: il microscopio per l’individuazione del parassita della malaria. «In questo momento – racconta suor Noemi -, c’è un aumento dei casi di malaria per varie cause, non ultima la rottura della macchina che serve per spargere lo spray anti zanzare».

Nel frattempo, arriva anche l’infermiere di turno in questo periodo. Si chiama João Lima Dias, 47 anni. «La difficoltà principale – mi spiega – nasce dal fatto che dobbiamo seguire 22 comunità. Dato che siamo pochi, è difficile curare tutte le persone nelle varie maloche disperse sul territorio».

Saluto João, perché padre Corrado vuole mostrarmi la maloca (yano) di una delle comunità più vicine.

La maloca e il suo mondo

Camminiamo veloci all’ombra di un bosco non fitto. All’improvviso questo lascia il posto a una piccola radura occupata da una maloca a cielo aperto, casa della comunità Maamatheri (dove il suffisso – theri indica gruppo, comunità, e maama significa pietra). Passiamo da un’entrata che è poco più di un pertugio, ma che dà accesso a un mondo.

La yano ha una intelaiatura di base fatta di sottili pali di legno ai quali vengono applicate foglie di una palma (nota come ubim, nome scientifico geonoma) e liane per formare le pareti e il tetto. La grande tettoia forma una sorta di anello al cui centro rimane una piazza utilizzata per feste e danze, distribuzione di alimenti, cerimonie con gli sciamani, accoglienza degli ospiti.

La maloca è una casa comunitaria, cioè polifamiliare o, per meglio dire, a famiglia estesa (- theri). «Qui vivono 30 persone – spiega padre Corrado dal centro della piazzetta -. Nella maloca ciascuna famiglia occupa uno spicchio delimitato dalle amache stese attorno a un fuoco». Non ci sono dei contenitori tipo armadi: tutto è in vista. Gli unici oggetti che riesco a vedere sono alcune pentole di varie dimensioni. Ci sono anche un tavolone, delle panche e una lavagna: è il piccolo spazio destinato alla scuola.

Oggi, sotto la grande tettoia circolare, razzolano le galline e giocano alcuni bambini. L’unico adulto è una donna che, seduta sul pavimento in terra battuta, è intenta a grattugiare i tuberi della manioca con la cui farina gli Yanomami preparano delle focacce chiamate naxihi (beijù, in portoghese). Dal tetto scende una grata in legno su cui ci sono un paio di pesci arrostiti. Mi spiegano che sono noti come aracu.

Nella maloca le amache sono poche, segno che la maggior parte degli abitanti è in trasferta. «Sì – mi spiega padre Corrado -, come ti ho detto gli abitanti sono andati a una festa». Visto che la yano è quasi disabitata, il missionario mi concede di scattare qualche foto. Quello di padre Corrado è un atteggiamento di difesa verso gli Yanomami sotto due punti di vista: uno culturale per rispettare o preservare la concezione dell’ũtupë, l’immagine spirituale della persona6; uno antropologico volto a frenare la reazione di una parte degli indigeni che ai fotografi hanno iniziato a chiedere un compenso per lasciarsi fotografare. Chissà cosa avrebbe fatto padre Corrado se fosse stato presente quando, nel marzo 2014, accompagnata da una troupe della Bbc, passò dalla missione una celebrità internazionale come l’ex calciatore David Beckhamp7.

Il Rio Catrimani

Lasciata Maamatheri, c’è il tempo per una visita alla sponda del Catrimani, il fiume che bagna la missione e che le dà il nome. L’acqua pare normale, ma non c’è certezza che i detriti – in primis, il pericolosissimo mercurio – prodotti dai garimpeiros installatisi a monte non siano giunti fin qui. La sponda opposta dista vari metri e dal letto del fiume spuntano rocce e sassi.

La pesca è praticata dagli Yanomami ma non ha mai avuto il rilievo della caccia ed è sempre stata un’attività (praticata con la tecnica del veleno sparso in acqua) prevalentemente femminile.

Sulla riva, all’ombra degli alberi, è legata una piccola barca. Risalendo il Catrimani con piccole imbarcazioni a motore in 4-5 ore si raggiungono le ultime comunità; scendendo si può arrivare, dopo 3-4 giorni, fino al Rio Branco, il fiume che attraversa Roraima da Nord a Sud. Padre Corrado chiosa: «Queste sono le nostre strade. Perché qui i fiumi non ci dividono, ma al contrario ci uniscono.

Unica

Non c’è più tempo: il pilota vuole ripartire. Debbo risalire sul Cessna. Sul sedile posteriore si accomoda un anziano Yanomami che ha chiesto di essere portato a Boa Vista. Io mi sistemo accanto al pilota.

Alla Missione Catrimani ho trascorso soltanto mezza giornata, la grande maggioranza degli Yanomami era in trasferta e praticamente non ho potuto scattare foto. Eppure, a dispetto di tutto questo, è stata un’esperienza unica perché unica è la Missione Catrimani.

Paolo Moiola

Note:

(1) Sulle modalità di entrata in terra indigena si veda quanto scritto nel sito: http://www.funai.gov.br.

(2) Isa, Mineria Ilegal en los Territorios Yanomami y Ye’kuana (Brasil-Venezuela), 2017.

(3) Silvano Sabatini, Le prodezze del vostro aereo, in «Missioni Consolata», n. 9, maggio 1968.

(4) Bindo Meldolesi, Il campo è pronto!, in «Missioni Consolata», n. 7-8, luglio-agosto 1966.

(5) Una sua intervista è stata pubblicata sul numero di marzo.

(6) Su questo concetto proprio degli Yanomami si rimanda a Corrado Dalmonego, «Il corpo e l’immagine», in Nohimayu – L’incontro, Editrice Emi, Verona, settembre 2019. (Qui sopra la copertina del libro.)

(7) Da quella visita è stato ricavato un documentario: David Beckhamp – Into The Unknown.

In precedenza:

(1) Suor Mary Agnes (marzo);

(2) Davi Kopenawa (aprile);

(3) Enock Taurepang (maggio);

(4) dom Sergio Castriani (giugno);

(5) dom Mário Antônio da Silva (luglio);

(6) Convegno Yanomami; lettura dell’Instrumentum laboris del Sinodo panamazzonico (agosto-settembre).




Gli Yanomami e le decisioni condivise

Testo e foto di Paolo Moiola


Dal 2015 associazioni e leader degli Yanomami si riuniscono per elaborare un «Piano di gestione territoriale e ambientale» (Pgta) della loro terra. Un sistema che, usando parole del mondo bianco, si potrebbe definire di «democrazia partecipativa». L’ultima assemblea si è tenuta sul lago Caracaranã, nella terra indigena Raposa Serra do Sol, a circa 200 chilometri da Boa Vista, capitale di Roraima. Vi raccontiamo come si è svolta.

La Br-401 conduce in Guiana. È asfaltata, liscia, dritta e poco trafficata: motivo d’orgoglio per i politici locali che si autocelebrano con alcuni cartelloni pubblicitari posti lungo la strada.

Siamo in Amazzonia, ma il paesaggio sembra suggerire altro. Al posto della foresta c’è il cosiddetto lavrado, un ecosistema molto simile alla savana. Anche qui l’agrobusiness, l’industria agricola, sta facendo danni con la diffusione dell’allevamento estensivo e delle monocolture. «Riso, soia e Acacia mangium», mi spiega Carlo Zacquini che guida l’auto.

L’Acacia mangium è una pianta di origine asiatica, caratterizzata da una rapida crescita. Certamente più consone all’ambiente originale del lavrado sono le piante di burití (Mauritia flexuosa), una palma che dà frutti commestibili usati in svariati modi, tra cui sotto forma d’olio.

Passiamo accanto a varie fattorie: fazenda Arizona, fazenda Nova Altamira, fazenda Rio das Pedras e molte altre di cui non riesco ad annotare il nome perché fratel Carlo non toglie mai il piede dall’acceleratore.

Percorsi poco più di cento chilometri, lasciamo la 401 per girare a sinistra su una strada sterrata rossa. Direzione municipio di Normandia. Di lì a poco, superato il fiume Tacutu, un cartellone ci avverte che stiamo entrando nella terra indigena Raposa Serra do Sol, abitata in prevalenza da Macuxi ma anche da Taurepang, Ingarikó, Patamona e Wapichana.

Una nuova deviazione prima di arrivare alla cittadina di Normandia ci conduce in breve alla nostra meta: il lago Caracaranã sulle cui sponde i Macuxi gestiscono una piccola struttura, spesso adibita a luogo d’incontri.

L’ingresso è un cancello di legno tipo fazenda o ranch. Con accanto un cartello sbilenco ma leggibile: «Proibido entrada com bebidas alcoólicas» (Proibita l’entrata con bevande alcoliche).

Ci vengono ad aprire e posteggiamo accanto alle uniche due automobili presenti. Un’ottima cosa in ottica ambientalista.

Gli Yanomami e gli altri

Il posto è bello. Alberi (quasi tutti di caju, Anacardium occidentale), prati, una spiaggetta di sabbia bianca che delimita un lato del lago, piccolo ma delizioso.

La struttura ricettiva che è stata costruita è semplicissima e poco impattante. Ci sono alcune piccole costruzioni in muratura a un solo piano e poi varie capanne senza pareti sotto le quali gli ospiti appendono le loro amache. Al centro c’è un capannone, anch’esso senza pareti, dove si svolgono gli incontri plenari.

In questi giorni (ben sette in totale) la struttura sul lago Caracaranã ospita una riunione delle organizzazioni e dei leader Yanomami arrivati, spesso dopo viaggi lunghi e complicati, da varie comunità sparse sul loro vastissimo territorio.

Uno striscione dai colori vivaci, steso davanti al capannone delle riunioni, presenta l’evento: «Plano de Gestão territorial e ambiental Terra indígena Yanomami». In basso sono riportati nomi e loghi dei partecipanti.

Gli organizzatori sono due: Hutukara, la principale tra le associazioni degli Yanomami (quella guidata da Davi Kopenawa) e Isa, l’Istituto socioambientale brasiliano cui vanno ascritti molti meriti. Tra i collaboratori, le altre organizzazioni Yanomami e la Missione Catrimani. Tra i finanziatori (indispensabili) figurano la Norvegia, il Fondo Amazzonia, l’Unione europea.

Gli indigeni presenti sono oltre ottanta, in maggioranza uomini, ma ci sono anche donne e alcuni bambini. Portare alle assemblee persone che abitano in comunità distanti e spesso isolate richiede sempre uno sforzo organizzativo e finanziario importante.

All’assemblea partecipano anche due organizzazioni governative: la Fundação Nacional do Índio (Funai) e l’Instituto Chico Mendes de Conservação da Biodiversidade (IcmBio), che dipende dal ministero dell’Ambiente. Si tratta di due organizzazioni controverse (soprattutto la Funai), ma qui i loro rappresentanti – tutti giovani – sembrano molto bendisposti e coinvolti.

Come gestire la terra indigena?

Cosa sia il «Piano di gestione territoriale e ambientale» viene spiegato nel materiale conoscitivo distribuito al banco dell’organizzazione: «È un documento che contiene le proposte di come gli Yanomami e gli Ye’kuana debbono prendersi cura della loro terra e di come il governo e le istituzioni partner debbono lavorare per migliorare la protezione territoriale, l’assistenza sanitaria e l’educazione, la gestione dei redditi e la valorizzazione delle conoscenze tradizionali».

La gestione territoriale e ambientale della Terra indigena yanomami è una tematica complessa. In primis, perché riguarda un territorio che si estende su 96.650 chilometri quadrati (più o meno la grandezza del Nord Italia meno l’Emilia) di Amazzonia, uno spazio che genera enormi appetiti tra i non indigeni.

Detto questo, la prima impressione sull’assemblea indigena del lago Caracaranã è molto positiva: l’organizzazione è ineccepibile. Un cartello appeso nel capannone centrale riporta l’elenco dei gruppi tematici: protezione e controllo, governo, redditi, conoscenze tradizionali, risorse naturali, salute, educazione. Ogni gruppo discuterà una serie di proposte sul tema prescelto, dovendo rispondere a due domande fondamentali: come attuare le varie proposte e con chi, distinguendo tra indigeni e non-indigeni.

Una volta formati, i sette gruppi si distribuiscono negli spazi della struttura: chi attorno a un albero, chi sotto una tettoia. Per agevolare e coordinare le discussioni ci sono dei facilitatori (moderatori), ruolo assunto dai non indigeni.

Fratel Carlo Zacquini, dopo aver salutato a destra e a manca, si aggrega come partecipante a un gruppo. Io, unico estraneo, sono libero di passare da un gruppo all’altro per scattare foto e fare qualche filmato (dopo il permesso ottenuto da Davi Kopenawa).

La lingua utilizzata è il portoghese ma, non essendo compresa da tutti i partecipanti, in ogni gruppo c’è una persona che fa da traduttore. Davi Kopenawa è sotto il capannone centrale nel gruppo in cui si parla di governança (governo). Qui ci sono anche alcune donne che, pur avendo neonati tra le braccia, non rinunciano alla partecipazione. Nel gruppo su proteção e fiscalização (protezione e controllo) due ragazze dell’Istituto Chico Mendes (IcmBio) conducono i lavori, sotto lo sguardo attento degli indigeni e di tre rappresentanti della Funai. Qui la presenza dei non indigeni è forte perché si discute di uno dei problemi più gravi: l’invasione della Terra indigena yanomami da parte dei garimpeiros, i cercatori d’oro illegali. Le proposte per affrontare il problema sono scritte con un pennarello su un cartoncino bianco posto in terra, in mezzo al gruppo. Più tardi saranno votate o respinte da ogni partecipante.

Sotto alcuni alberi, a pochi metri dalla spiaggia e dal lago, un altro gruppo sta discutendo con grande partecipazione (ma senza animosità). In quanto bianco, la mia attenzione è verso due Yanomami, provenienti dallo stato di Amazonas, che hanno viso e petto dipinti di nero. La grande maggioranza dei partecipanti al convegno indossa vestiti da «bianco» (nelle comunità, i vestiti sono invece ridotti al minimo sufficiente per coprire i genitali), ma nessuno ha rinunciato alle pitture corporali o ad alcuni oggetti simbolici (copricapi di piume, collane, pendagli per collo e orecchie, cinture di perline).

È invece sotto una tettoia con i partecipanti seduti sulle loro amache il gruppo che si occupa di salute. L’unico in piedi è un giovane relatore bianco che parla con scioltezza la lingua indigena. Le uniche parole che riesco a intendere sono i nomi di alcuni farmaci che non arrivano nelle aldeias (comunità) indigene.

Il gruppo sulle conoscenze tradizionali è sotto un albero, vicino alla cucina. È moderato da padre Corrado Dalmonego, responsabile della Missione Catrimani. Con lui un altro missionario della Consolata, padre Izaias Melo Nascimento, che sta preparandosi per aggregarsi a Catrimani.

Con Mauricio Ye’kuana

È ora del pranzo. La fila che porta davanti ai pentoloni dove alcune signore distribuiscono il cibo è lunga ma ordinata. Oggi servono carne di maiale con riso e fagioli.

È qui che conosco Mauricio del popolo Ye’kuana. Gli Ye’kuana condividono con gli Yanomami la terra indigena e rappresentano circa il 3 per cento della popolazione totale che è di circa 24.800 persone.

Mauricio ha soltanto 32 anni, ma già dal 2008 fa parte del consiglio di Hutukara. Vive in una comunità della regione di Auaris, al confine con il Venezuela e per questo parla anche un po’ di spagnolo, oltre al portoghese e alla lingua madre del suo popolo.

Il giovane Ye’kuana spiega: «In questi giorni siamo riuniti per decidere come difendere la nostra terra. Dobbiamo arrivare a un manifesto da presentare allo stato perché capisca come noi vogliamo gestire il territorio».

Poi conferma quanto è di dominio pubblico: «Il grande problema di oggi è l’attività mineraria dentro la terra indigena. I garimpeiros inquinano i boschi in cui noi viviamo con tranquillità e armonia. I nostri bambini e i vecchi hanno problemi di salute perché i minatori usano grandi quantità di mercurio che poi finisce nel pesce che noi mangiamo. Noi chiediamo allo stato di agire perché faccia ritirare questi invasori. Vogliamo evitare che accadano fatti come il massacro di Haximu del 1993 (quando un gruppo di garimpeiros uccise 16 Yanomami, comprese donne e bambini, ndr)».

Mauricio parla di 5mila invasori, ma altri, tra cui lo stesso Davi Kopenawa, sostengono che siano più di 20mila.

La lotta continua

È un peccato dover tornare a Boa Vista, mentre qui, al lago Caracaranã, si discuterà ancora per alcuni giorni. Il risultato finale sarà il «Piano di gestione territoriale e ambientale della Terra indigena Yanomani».

Un sistema decisionale che nel mondo dei Bianchi potrebbe essere chiamato di «democrazia partecipativa». Un successo importante per le comunità indigene, pur nella consapevolezza che la lotta per difendere i loro diritti e la terra faticosamente conquistati è lungi dall’essere conclusa.

Paolo Moiola


L’«Instrumentum Laboris»

Ascoltare le grida amazzoniche

A metà giugno è stato reso pubblico lo «strumento di lavoro» su cui verterà la discussione dei partecipanti al Sinodo Panamazzonico del prossimo ottobre. Si tratta di 147 punti ricchissimi di osservazioni, critiche e proposte per il presente e il futuro dell’Amazzonia e dei suoi abitanti.

Nato da un lungo processo d’ascolto iniziato da papa Francesco a Puerto Maldonado (19 gennaio 2018), l’Instrumentum Laboris è la base teorica su cui lavorerà il Sinodo panamazzonico. Con il titolo di Amazzonia: nuovi cammini per la Chiesa e per un’ecologia integrale, esso si compone di tre parti: «La voce dell’Amazzonia», «Ecologia integrale» e «Chiesa profetica in Amazzonia: sfide e speranze». La sua divisione in parti e capitoli trova la propria unità in una numerazione progressiva che si conclude con il punto 147.

La voce dell’Amazzonia

Si parte dall’affermazione che l’Amazzonia è la seconda area più vulnerabile del pianeta, dopo l’Artico, in relazione ai cambiamenti climatici di origine antropica (punto 9). Qui la vita è minacciata dalla distruzione e dallo sfruttamento ambientale, dalla sistematica violazione dei diritti umani fondamentali dei popoli originari (diritto al proprio territorio, all’autodeterminazione, alla consultazione e al consenso previi) (14). I cambiamenti climatici e l’aumento degli interventi umani (deforestazione, incendi e cambiamenti nell’uso del suolo) stanno portando l’Amazzonia a un punto di non ritorno (16). Oggi essa è diventato luogo di una bellezza ferita e deformata, di dolore e violenza. La molteplice distruzione della vita umana e ambientale, le malattie e l’inquinamento di fiumi e terre, l’abbattimento e l’incendio di alberi, la massiccia perdita della biodiversità, la scomparsa delle specie (più di un milione degli otto milioni di animali e piante a rischio), costituiscono una cruda realtà che chiama in causa tutti. La violenza, il caos e la corruzione dilagano. Il territorio è diventato uno spazio di scontri e di sterminio di popoli, culture e generazioni (23).  A dispetto di tutto questo, l’Amazzonia è il luogo della proposta del «buon vivere», della promessa e della speranza di nuovi cammini di vita. La vita in Amazzonia è integrata e unita al territorio, non c’è separazione o divisione tra le parti. Questa unità comprende tutta l’esistenza: il lavoro, il riposo, le relazioni umane, i riti e le celebrazioni. Tutto è condiviso, mentre gli spazi privati – tipici della modernità – sono minimi. La vita è un cammino comunitario dove i compiti e le responsabilità sono divisi e condivisi in funzione del bene comune. Non c’è posto per l’idea di un individuo distaccato dalla comunità o dal suo territorio (24).  I popoli amazzonici originari hanno molto da insegnarci. Dobbiamo riconoscere che, per migliaia di anni, essi si sono presi cura della loro terra, dell’acqua e della foresta, e sono riusciti a preservarli fino ad oggi (29). Lo sfruttamento della natura e dei popoli amazzonici (indigeni, meticci, lavoratori della gomma, coloro che vivono sulle rive dei fiumi e persino quelli che vivono nelle città) provoca una crisi di speranza (31).

L’attuale crisi socio-ambientale può condurre all’autodistruzione. Secondo papa Francesco occorre realizzare un dialogo interculturale in cui i popoli indigeni siano i principali interlocutori (35), avendo sempre presente che l’Amazzonia è un mondo plurietnico, pluriculturale e plurireligioso (36).

Il dialogo incontra però pesanti resistenze. Gli interessi economici e un paradigma tecnocratico respingono ogni tentativo di cambiamento. I suoi sostenitori sono disposti a imporsi con la forza, trasgredendo i diritti fondamentali delle popolazioni presenti nel territorio e le norme per la sostenibilità e la conservazione dell’Amazzonia (41).

Intessuta di acqua, territorio, identità e spiritualità dei suoi popoli, la vita in Amazzonia invita al dialogo e all’apprendimento della sua diversità biologica e culturale (43).

Ecologia integrale

La seconda parte dell’Instrumentum Laboris tratta i gravi problemi causati dagli attentati alla vita nel territorio amazzonico (44). L’Amazzonia è oggetto di contesa su più fronti. Uno risponde ai grandi interessi economici, avidi di petrolio, gas, legno, oro, monocolture agro-industriali, ecc. Un altro è quello di un conservatorismo ecologico che si preoccupa del bioma ma ignora i popoli amazzonici (45).

Per prendersi cura dell’Amazzonia, le comunità aborigene sono interlocutrici indispensabili, poiché – lo abbiamo già evidenziato – sono proprio loro che normalmente si prendono meglio cura dei territori (49). L’abbattimento massivo degli alberi, la distruzione della foresta tropicale per mezzo di incendi boschivi intenzionali, l’espansione della frontiera agricola e delle monocolture sono la causa degli attuali squilibri climatici regionali e globali, con grandi siccità e inondazioni sempre più frequenti (54).

La cultura amazzonica, che integra gli esseri umani alla natura, diventa un punto di riferimento per la costruzione di un nuovo paradigma di ecologia integrale. La Chiesa dovrebbe assumere nella sua missione la cura della Casa comune con azioni per il rispetto dell’ambiente, programmi di formazione, denunce dei casi di violazione dei diritti umani e di distruzione estrattivista (56).

La popolazione originaria dell’Amazzonia è stata vittima del colonialismo nel passato e di un neocolonialismo nel presente. L’imposizione di un modello culturale occidentale ha inculcato un certo disprezzo per il popolo e i costumi del territorio amazzonico, definendoli addirittura «selvaggi» o «primitivi». Oggi, l’imposizione di un modello economico estrattivista occidentale colpisce ancora una volta le comunità amazzoniche invadendo e distruggendo le loro terre, le loro culture, le loro vite (76).

L’educazione implica un incontro e uno scambio (93). In Amazzonia, essa non deve significare imporre ai popoli amazzonici le proprie cosmovisioni: parametri culturali, filosofie, teologie, liturgie e costumi estranei (94). La cosmovisione dei popoli indigeni amazzonici è diversa perché comprende la chiamata a liberarsi da una visione frammentata della realtà, incapace di percepire le molteplici connessioni, interrelazioni e interdipendenze.

Da qui deve nascere l’educazione per un’ecologia integrale. Per comprendere questa visione, vale la pena di applicare lo stesso principio della salute: l’obiettivo è quello di osservare tutto il corpo e le cause della malattia e non solo i sintomi (95). Tale educazione «deve tradursi in nuove abitudini» tenendo conto dei valori culturali. L’educazione, in una prospettiva ecologica e in chiave amazzonica, promuove il «buon vivere», il «buon convivere» e il «fare bene», che deve essere persistente e percepibile per avere un impatto significativo sulla Casa comune (97).

Passare dall’educazione ecologica alla conversione ecologica implica riconoscere la complicità personale e sociale nelle strutture di peccato, smascherando le ideologie che giustificano uno stile di vita che aggredisce la creazione (101).

Chiesa profetica in Amazzonia: sfide e speranze

La terza e ultima parte dell’Instrumentum parla del volto amazzonico della Chiesa, che deve trovare la sua espressione nella pluralità dei suoi popoli, culture ed ecosistemi (107). È una Chiesa che si lascia alle spalle una tradizione coloniale monoculturale, clericale e impositiva e sa discernere e assumere senza timori le diverse espressioni culturali dei popoli (110). Costruire una Chiesa dal volto amazzonico significa abbandonare la tendenza a imporre una cultura estranea all’Amazzonia che impedisce di comprendere i suoi popoli e di apprezzare le loro cosmovisioni (111).

Essere Chiesa in Amazzonia in modo realistico significa porre profeticamente il problema del potere, perché in questa regione le persone non hanno la possibilità di far valere i loro diritti contro le grandi imprese economiche e le istituzioni politiche. Oggi, mettere in discussione il potere nella difesa del territorio e dei diritti umani significa mettere a rischio la propria vita. La Chiesa non può rimanere indifferente a tutto questo (145).

Nel lungo percorso per la stesura dell’Instrumentum Laboris, sono state ascoltate le voci dell’Amazzonia. Voci che chiedono di dare una nuova risposta alle diverse situazioni e di cercare nuovi cammini che rendano possibile un kairós per la Chiesa e per il mondo (147).

a cura di Paolo Moiola




Roraima. Il vescovo: continueremo a lottare per i diritti di tutti

Testo e foto di Paolo Moiola |


Secondo vicepresidente della Conferenza dei vescovi brasiliani (Cnbb), dom Mário Antônio Da Silva è vescovo di Roraima. Ha assunto la guida di questa diocesi di frontiera nel settembre 2016, trovandosi ad affrontare i problemi di sempre (la questione indigena), ma anche problemi inediti. Come l’arrivo di migliaia di venezuelani bisognosi di tutto. Dom Mário si è rimboccato le maniche, senza perdersi d’animo.

Boa Vista. Una targa ricorda che l’edificio – una struttura bassa e lunga non priva di eleganza – è stato costruito nel 1924 dai missionari benedettini per fungere da ospedale. Successivamente è diventato sede vescovile e tale è rimasto oggi. Ad attenderci sulla veranda che guarda sul giardino e sulla nuova struttura costruita a lato per ospitare il centro pastorale diocesano, c’è dom Mário Antônio da Silva, vescovo di Roraima dal settembre 2016. Sostituisce dom Roque Paloschi, che a sua volta aveva preso il posto di dom Apparecido José Dias, il successore di dom Aldo Mongiano, missionario della Consolata.

Nato nel 1966 a Itararé (San Paolo), vescovo dal 2010, dal 6 maggio secondo vicepresidente della Conferência Nacional dos Bispos do Brasil (Cnbb), dom Mario è consapevole ma non spaventato dalle sfide che deve affrontare in uno stato amazzonico che il governo Bolsonaro tiene sotto stretta osservazione. In primo luogo, per la presenza di numerosi popoli indigeni e di due importanti riserve: quella degli Yanomami e la Raposa Serra do Sol. Oltre a ciò, da circa un anno, si è aperta anche la questione della frontiera Nord con il Venezuela da cui transitano moltissimi venezuelani in fuga dal loro paese.

 

Da Manaus a Boa Vista

Monsignor Mário Antônio, lei è stato vescovo ausiliario in una metropoli come Manaus. Che situazione ha trovato qui a Boa Vista?

«Ho trovato una situazione sociale complessa, ma anche una Chiesa unita. Con molte potenzialità. Con un laicato diffuso, soprattutto all’interno dello stato. E soprattutto con la presenza di missionari e missionarie di numerose congregazioni del Brasile e di varie parti del mondo. Ho trovato una Chiesa profetica e attenta alle questioni sociali e politiche».

La popolazione di Roraima è inferiore alle 600mila unità (quasi due terzi residenti a Boa Vista), ma ha una composizione sociale particolare rispetto ad altri stati brasiliani.

«Sì, nel senso che essa è composta per la maggior parte da migranti. Però, allo stesso tempo c’è una presenza di popolazione indigena – intendo i popoli originari di qui – abbastanza grande essendo calcolata in circa l’11 per cento del totale. Sono i veri, primi abitanti. In Roraima hanno ottenuto conquiste importanti. In primis, l’omologazione delle loro terre. Ci sono comunità consolidate, altre che hanno bisogno di aiuti per una vita più autonoma».

Però, le conquiste indigene di cui lei parla oggi sembrano messe in discussione.

«Ci sono varie minacce provenienti sia dal governo nazionale che da quello statale. È una situazione che ci preoccupa. Oggi più che mai le popolazioni indigene debbono unirsi per far valere i loro diritti al territorio e alla cultura. Allo stesso tempo, hanno necessità di un accompagnamento pubblico su questioni come la salute e l’istruzione».

L’emergenza migratoria

Fuori dalle stazioni dei bus e lungo le strade di Boa Vista si vedono gruppi di venezuelani. Com’è la situazione della migrazione dal vicino Venezuela?

«La migrazione è in atto da tempo. Negli ultimi due anni – 2017 e 2018 – c’è però stato un flusso migratorio senza eguali. Soprattutto di venezuelani che entrano in Brasile attraverso il nostro stato di Roraima e precisamente da Pacaraima, la città sul confine con il Venezuela. Si stimano oltre 55mila arrivi dei quali 30mila stanno in capitale, il 10 per cento della sua popolazione. Vengono per fame, per trattamenti medici, per lavoro. Necessitano di alloggi: un 10 per cento sta negli abrigos (rifugi) dei militari, l’altro 90 per cento in altri luoghi, in parte anche nelle strade e nelle piazze. La maggior parte vive nell’informalità e spesso è sfruttata come manodopera a buon mercato. E poi ci sono i migranti che entrano nei circuiti dell’illegalità per l’opportunismo dei gruppi criminali, brasiliani e non. Soprattutto nell’ambito della distribuzione della droga».

Oltre all’immigrazione dei venezuelani, c’è quella degli indigeni di etnia Warao che vivono in quel paese.

«I Warao sono stati i primi ad arrivare. Oggi sono in un rifugio qui in capitale e in un altro a Pacaraima, al confine. La prima sfida è tenere unite le famiglie. La seconda è la comunicazione perché molti di loro parlano soltanto la lingua indigena».

Qual è stata la reazione della popolazione locale a questa ondata migratoria?

«La popolazione ha reagito in maniera molto differente. Alcuni accolgono, danno lavoro, sono tolleranti. Altri invece non hanno rispetto per la dignità dell’essere umano e mostrano attitudini xenofobe sia a parole che con atti di violenza. Per questo come Chiesa, assieme ad altre organizzazioni nazionali e internazionali, siamo impegnati a lottare per superare queste situazioni d’ostilità e xenofobia».

Le Chiese neopentecostali

Come Chiesa cattolica che rapporti avete con le altre chiese?

«L’ecumenismo ci spinge a una relazione di prossimità con le altre confessioni. Con momenti celebrativi, di studio ed anche opere sociali. Mi riferisco alle Chiese bibliche tradizionali».

Però in tutto il Brasile crescono i seguaci delle Chiese neopentecostali. Che tipo di rapporti avete con loro?

«La relazione con le Chiese evangeliche neopentecostali è molto complicata. Sembra che esse abbiano un progetto religioso-politico. Anzi, più politico che religioso. Dove arrivano, facendo uso della fede e della parola di Dio, facendo leva sulla tematica profetica, approfittando della questione del dizimo (il tributo in denaro versato dai fedeli alla propria chiesa, ndr), ma anche dell’ingenuità della gente, purtroppo portano divisioni. Inoltre, disorganizzano le comunità nella lotta sociale per i diritti e per le necessità (di salute, istruzione, abitazione, eccetera). Insomma, queste chiese non lavorano per l’armonia».

E voi, come lavorate?

«Noi sentiamo la necessità di lavorare per rinforzare la popolazione, soprattutto quella più fragile».

Su Bolsonaro e il suo governo

Il 12 ottobre 2018, tra il primo e il secondo turno delle elezioni, lei scrisse una lettera pastorale che parlava di democrazia e dittatura e che le attirò addosso molte critiche.

«Era una lettera pastorale di riflessione e orientamento per votare in maniera etica, cosciente e libera, optando per un candidato che favorisse la vita e la democrazia. Abbiamo ricevuto molte reazioni, anche offensive».

Alla fine ha vinto Jair Bolsonaro. Monsignore, che dice?

«Che il risultato è preoccupante. Ma è certo che noi continueremo nelle nostre battaglie a difesa dei popoli indigeni e dei piccoli contadini. Della salute e della casa. Della popolazione che vive nelle periferie come di quella che sta nell’interiore dello stato. E lavoreremo per la difesa dell’ambiente perché veramente ci sia sostenibilità nella produzione e rispetto del creato».

Più Amazzonia nella Cnbb

Lo scorso maggio la 57.ma assemblea generale della Conferenza dei vescovi del Brasile (Cnbb) ha rinnovato i proprio vertici. Il nuovo presidente è dom Walmor Oliveira de Azevedo, arcivescovo di Belo Horizonte (Minas Gerais). Come secondo vicepresidente è stato nominato proprio dom Mário Antônio da Silva.

La sua nomina è una scelta significativa perché dimostra l’attenzione della Chiesa brasiliana per l’Amazzonia e per quel Sinodo panamazzonico, al quale il governo di Brasilia guarda con malcelato sospetto.

Anche per questo, a fine maggio, Bolsonaro e dom Walmor si sono incontrati a porte chiuse a Palácio do Planalto, sede della presidenza della Repubblica. Difficile però che meno di un’ora di colloquio sia riuscita a cancellare mesi di accuse e incomprensioni.

Paolo Moiola

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Migranti dal Venezuela: Più solidarietà che xenofobia

Secondo Acnur, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, i migranti venezuelani (inclusi rifugiati e richiedenti asilo) sono 3.706.624 (dato aggiornato all’11 aprile 2019). La cifra effettiva potrebbe però essere più alta in quanto molti stati non conteggiano i migranti irregolari. La gran parte di queste persone ha scelto di migrare in un paese latinomericano, con preferenza per Colombia, Perù, Ecuador, Cile e Argentina. Per il Brasile si calcola un numero d’arrivi inferiore rispetto ai paesi di lingua spagnola: 240mila venezuelani, ma la metà di essi lo avrebbe già lasciato. La principale porta d’ingresso nel paese è la città di Pacaraima, nello stato di Roraima (mappa a lato).

Come sempre capita quando ci sono migrazioni consistenti, in ogni paese ci sono stati episodi d’intolleranza e xenofobia, ma in generale la solidarietà ha prevalso. In Brasile, l’esercito ha attivato dal marzo 2018 l’«Operazione accoglienza» (Operação Acolhida). Gli interventi più consistenti sono però in mano alla Chiesa cattolica con la Caritas, la diocesi di Roraima e le congregazioni missionarie. Oltre all’accoglienza immediata, è stato attivato il programma «Cammini di solidarietà» (Caminhos de Solidariedade) che invia i migranti in diverse diocesi di vari stati brasiliani.

Paolo Moiola




«Gli indigeni, organizzati e perseguitati»


Testo e foto di Paolo Moiola


Dagli Ashaninka alla metropoli di Manaus, finora il percorso di dom Sérgio Eduardo Castriani si è svolto tutto all’interno dell’Amazzonia. Un mondo affascinante al quale oggi l’arcivescovo guarda con crescente preoccupazione. Disboscamenti, incendi, offensiva contro i diritti dei popoli indigeni. Tutte le problematiche da tempo esistenti si sono aggravate dopo l’avvento di Bolsonaro alla presidenza del Brasile.

Manaus. Dom Sérgio Eduardo Castriani, oggi arcivescovo di Manaus, conosce bene l’Amazzonia. «Sono quarant’anni che vi abito», ricorda con orgoglio. Iniziò nel 1979 a Feijó, in Acre, stato brasiliano confinante con Perù e Bolivia, dove lavorò a lungo con gli Ashaninka (Kampas). Un periodo ricordato con nostalgia. Tanto che, durante il nostro incontro, dom Sérgio – classe 1954 – si alza per andare nel suo studio a prendere una vecchia foto in bianco e nero: «Eccomi vestito da indigeno», dice indicandomi un giovane ritratto con una tipica tunica ashaninka.

Dall’Acre egli fu destinato al Nord, municipio di Tefé, stato di Amazonas dove ebbe la possibilità di conoscere molte altre etnie: Mayorunas (Matsés), Miranhas, Cocamas, Kambebas, Kanamaris, Kulina, Katukinas, Tikuna. Nominato vescovo, rimase a Tefé fino al 2012 quando divenne arcivescovo.

La metropoli amazzonica oggi conta oltre due milioni di abitanti ed è in continua e rapida espansione. «Ma – precisa dom Sérgio – risulta sempre più invivibile. Perché la qualità della vita in certi quartieri è di volta in volta peggiore. La questione della sicurezza di fronte al dominio delle bande rende la vita difficile alle persone comuni. Per parte loro, i ricchi sono sempre più chiusi in strutture abitative (condominios fechados) per accedere alle quali si possono incontrare più difficoltà che per entrare in un paese straniero».

Su Bolsonaro e il suo governo

Monsignor Castriani, dopo i primi mesi di governo Bolsonaro, lei è più pessimista o più ottimista?

«Sono più realista, perché si sta confermando lo scenario peggiore. Il Brasile sta cambiando in peggio, ma nulla che non sia stato detto durante la campagna elettorale».

Come mai i brasiliani hanno premiato un personaggio pericoloso come Jair Bolsonaro?

«Con l’elezione di Bolsonaro il popolo brasiliano ha dato una risposta alla crisi economica, etica e morale del paese. Bolsonaro significa quello che è nuovo, anche se è sbagliato. La gente è stanca dei politici. Il Partito dei lavoratori (Partido dos trabalhadores, Pt) ha avuto le sue opportunità per fare qualcosa di diverso. Personalmente ho partecipato alle due elezioni di Lula. Allora c’era molta speranza. Però hanno fatto tutto quello che facevano gli altri, a cominciare dalla corruzione. Con il Pt le banche hanno guadagnato molto denaro. In tanti hanno detto di no. Poi, al secondo turno dello scorso ottobre, molti hanno comunque votato Pt perché non volevano Bolsonaro ma non perché volessero il Pt. Io ho votato Pt perché non potevo votare un tipo come Bolsonaro. Disgustoso. Parla con il linguaggio che si sente dai barbieri. Detto questo, bisogna anche ammettere che molta gente buona lo ha votato. Il mio medico per esempio ha votato per lui. Eppure è un uomo intelligente. Il suo argomento era la ricerca del nuovo, il fatto di non volere più il Pt al potere».

Rimanendo in tema di elezioni, le chiese neopentecostali si sono schierate per il nuovo presidente.

«Già quattro anni fa Bolsonaro ha cominciato la sua campagna con le chiese pentecostali. Si tratta di chiese che hanno molti seguaci fedelissimi che obbediscono al pastore. E che portano avanti questo discorso moralista contro le persone Lgbt (Lesbiche, gay, bisessuali, transgender, ndr) e omofobico. Bolsonaro si diceva cattolico, ma è stato battezzato nel Giordano dai neopentecostali (nel maggio 2016 in Israele dal pastore – oltre che politico e imprenditore – Dias Pereira detto Everaldo della chiesa Assembleia de Deus, ndr). In ogni caso, lui fa il gioco dei pentecostali, come d’altra parte lo fece Dilma. All’inaugurazione del suo secondo mandato invitò Macedo davanti al quale s’inchinò, mentre il nunzio apostolico (della Santa Sede) rimase in secondo piano».

 

C’è una spiegazione a questa scelta di campo delle chiese evangeliche?

«Il potere. E poi esse dispongono di uno strumento in più. Tutto il mondo vuole salute e denaro. Sempre più denaro. Le chiese evangeliche danno un supporto teologico attraverso la “teologia della prosperità”. Con essa si può giustificare tutto, anche ruberie e corruzione, perché la ricchezza è considerata una benedizione di Dio. Se i loro uomini andranno al potere, per il Brasile questo sarà un pericolo molto grave. Non dimentichiamo che il presidente ha la possibilità di nominare moltissime persone in posti di responsabilità».

Il Consiglio indigenista missionario (Cimi) e la Commissione pastorale della terra (Cpt) sono due organismi della Chiesa cattolica brasiliana che fanno un lavoro straordinario. Adesso avranno più problemi?

«Senza alcun dubbio: il primo per il discorso delle terre indigene, il secondo per la questione della proprietà privata. D’altra parte, problemi ne avevano avuti anche con Dilma. Ricordo che un uomo pacifico come dom Roque Paloschi, presidente del Cimi, subì una persecuzione giudiziaria nel Mato Grosso do Sul.

In ogni caso, Bolsonaro si è presentato dicendo che il Cimi e la Cnbb (la Commissione dei vescovi brasiliani, ndr) sono “la parte marcia della Chiesa cattolica”. Il problema è che, in questo momento storico, non abbiamo soltanto un presidente siffatto, ma anche un apparato giudiziale conservatore e un congreo conservatore dominato dallo schieramento Bbb».

Già, Bbb: Biblia, boi, bala («Bibbia, vacche, pallottole»). D’altra parte, anche lo slogan elettorale di Bolsonaro è stato Brasil acima de tudo, Deus acima de todos («il Brasile sopra tutto, Dio sopra tutti»). Non le pare un uso improprio della religione?

«Sì, è stato un utilizzo strumentale della fede per affermare che Dio sta con lui, con il presidente eletto. Dio gli ha dato il mandato. Un discorso neopentecostale. Pericolosissimo perché così si può giustificare tutto».

I governi del Pt

Torniamo a parlare di ambiente. L’Amazzonia come può essere salvata?

«La situazione dell’Amazzonia è urgente. Negli ultimi 40 anni ho visto cambiare tutto: dalla foresta al clima alle città. Tuttavia, il Brasile ha una buona legislazione ambientale. Se fosse applicata, ci sarebbero pochi problemi. Purtroppo, anche sotto il Pt – in particolare durante il secondo mandato di Dilma – è andata male perché ha distrutto l’Ibama (Instituto Brasileiro do Meio Ambiente e dos Recursos Naturais Renováveis) e gli altri organi di controllo».

Monsignore, lei ha votato per Haddad, ma mi pare sia molto critico verso il Pt.

«Sì, è vero ho scelto Haddad, ma sono molto severo verso il Pt. Se lei va a leggere gli editoriali degli ultimi anni della rivista Porantin, edita dal Cimi, sono tutti critici verso quei governi. Ricordo che la Cnbb non è mai stata consultata o ricevuta da Dilma».

Durante i governi del Partito dei lavoratori è stato fatto qualcosa per l’Amazzonia e i suoi abitanti?

«Quando iniziò, io vidi che all’interno dell’Amazzonia per la prima volta ci furono famiglie che ebbero dei soldi. Fu una liberazione. Anche se si dice che il denaro è lo sterco del diavolo, tuttavia senza soldi non può esserci libertà. La bolsa familia è stata uno strumento importantissimo come lo è stata l’arrivo dell’elettricità. Queste sono state conquiste del governo di Lula nei suoi primi anni. Però dopo le cose sono cambiate perché è entrata la corruzione e, con il potere, il partito è diventato elitista. Il mio ideale è stato il Pt dei primi tempi».

Il Pt di Lula, dunque. Però ora lui è in prigione, condannato a una lunga pena detentiva. Se lo aspettava?

«Non me lo aspettavo. Un presidente deve essere giudicato dalla storia. Per il paese Lula ha fatto cose buone. Le accuse nei suoi confronti erano troppo poco per condannarlo. Io credo che lui non abbia fatto nulla di male. Il problema è il sistema che vige nel Brasile. Tutti i partiti fanno lo stesso e il Pt non è stato diverso».

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«Sono diversi. Per fortuna»

Lasciando da parte il governo presente e quelli del passato, come descriverebbe la situazione dei popoli indigeni?

«Nel 1979, quando arrivai in Acre, un ministro dell’Interno disse che gli indigeni sarebbero spariti in 10 anni. Invece sono la popolazione che più è cresciuta nel paese. Io penso che i popoli indigeni siano i poveri più organizzati del Brasile e che, al tempo stesso, siano i più perseguitati proprio perché organizzati».

Monsignore, ha senso parlare d’integrazione?

«La cultura indigena è completamente diversa. Io ho conosciuto molti indigeni sia nell’entroterra che in città. Di solito, a un certo punto delle nostre conversazioni, io debbo ricordare loro: “Io non sono indio. Non lo sono”. Questo per spiegare che non arrivo a capire tutto ciò che mi dicono. Attenzione però, questa è una ricchezza per il Brasile: sarebbe terribile perdere questa diversità. Per fortuna, i popoli indigeni hanno una grande resistenza».

A proposito di cultura, risponde al vero che gli indigeni sono più rispettosi verso l’ambiente?

«Sì, in generale. E questo vale anche per ribeirinhos (comunità che vivono in prossimità dei fiumi, ndr) e caboclos (meticci nati dall’unione di un indio con un bianco, ndr). Ma tutto dipende da quanto sono entrati in contatto con noi bianchi».

Lei è passato da due piccole città – Feijó e Tefé – a una metropoli come Manaus. Qui come vivono i cosiddetti «indigeni urbani»?

«Con tutti i problemi di chi vive nelle periferie. In più essi non sono considerati indiani dal governo, ma c’è una grande resistenza culturale con un buon numero di organizzazioni indigene. Il pregiudizio è ancora grande tra la popolazione bianca. A volte, inoltre, anche coloro che discendono da indigeni tendono a non accettare le loro origini».

(Official White House Photo by Tia Dufour)

Bolsonaro e il Sinodo

È cosa nota che il governo Bolsonaro guardi con sospetto e timore al Sinodo Panamazzonico del prossimo ottobre. Lei come se lo spiega?

«Il Sinodo è esattamente l’opposto di tutto quello che il governo Bolsonaro e i suoi pensano: partecipazione popolare, valorizzazione dei popoli originari, preservazione dell’ambiente. Si tratta di concetti la cui comprensione negli uni e negli altri è diametralmente contraria. Come la lettura che essi fanno dal momento della loro conquista del potere: la Chiesa cattolica sta cercando di riconquistare il potere perduto in favore delle chiese pentecostali e del mondo laico».

Nonostante tutte le difficoltà, lei pensa che il Sinodo sarà un successo?

«È già un successo nella misura in cui è iniziato un processo di riflessione che certamente avrà anche delle conseguenze pratiche».

Paolo Moiola


Riflessioni sull’etnoturismo

Un selfie con gli indigeni?

Due città amazzoniche importanti: Manaus in Brasile e Iquitos in Perù. Due comunità indigene – i Bora (originari della regione del Rio Putumayo) a Iquitos, i Desana (della regione del Rio Uaupés) a Manaus – che, indossando vestiti tradizionali e con i volti dipinti, accolgono nella maloca gruppi di turisti davanti ai quali si esibiscono in danze e canti.

I turisti si mostrano entusiasti dello spettacolo offerto, scatenati con le loro macchine fotografiche, le telecamere e soprattutto con gli immancabili smartphone.
Difficile dire se, per questi indigeni, sia giusto o sbagliato mostrarsi così. Difficile dire se sia una scelta volontaria o soltanto dettata da questioni di sopravvivenza. Difficile capire se, dopo queste visite, i turisti avranno una conoscenza più approfondita del mondo indigeno e una maggiore empatia con esso oppure soltanto una foto o un selfie da mettere su Facebook, Instagram o su altri social network. Alcune ricerche suggeriscono che scattare selfie faccia bene allo spirito di chi li fa. Sarebbe bello che facesse bene anche all’esistenza di chi – volente o nolente – li subisce.

Paolo Moiola

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Consiglio indigeno di Roraima: «Per la terra e per il rispetto»


Il Consiglio indigeno di Roraima (Cir) riunisce nove etnie. In Brasile, è considerato una delle organizzazioni indigene più attive. Come testimonia anche la vittoria ottenuta per il riconoscimento e la difesa della terra indigena Raposa Serra do Sol. Abbiamo incontrato il coordinatore generale del Cir, Enock Batista Tenente, un Taurepang di 29 anni.

Testo e foto di Paolo Moiola

Boa Vista. Sul murale, al centro del disegno con le piume colorate, è posta la sigla Cir. Sta per «Conselho indígena de Roraima» (Consiglio indigeno di Roraima), la principale organizzazione indigena dello stato amazzonico brasiliano. Formalmente essa esiste dal 1990, ma in realtà è operativa dagli anni Settanta.

Il Cir ha come obiettivo la lotta per garantire i diritti e l’autonomia dei popoli indigeni di Roraima, uno stato che conta (almeno) nove etnie: Macuxi, Wapichana, Ingarikó, Patamona, Sapará, Taurepang, Wai-Wai, Yanomami e Yekuana.

Questa varietà di soggetti fa sì che la struttura organizzativa del Cir sia improntata alla massima partecipazione. Ogni anno si tiene una grande assemblea generale che costituisce il maggiore organo deliberativo. L’ultima – la 48ª – si è svolta al lago Caracaranã, nella terra indigena Raposa Serra do Sol, dall’11 al 15 marzo.

Per parlare del consiglio indigeno e dell’attuale situazione politica brasiliana, nella sede del Cir, a Boa Vista, capitale di Roraima, incontriamo Enock Batista Tenente, che da due anni riveste il ruolo di coordinatore generale, in questo aiutato dal vice Edinho Batista de Sousa e da Maria Betania Mota de Jesus, in rappresentanza del movimento delle donne indigene.

Enock, 29 anni e 3 figli piccoli, ci accoglie nel suo ufficio «da bianco» indossando però un copricapo di piume colorate.

«Senza terra non esistiamo»

Enock, a chi è venuta l’idea del Conselho Indígena de Roraima?

«Il Cir è stato creato dai nostri leader con una partecipazione importantissima della Chiesa cattolica. Oggi esso coordina 237 comunità in 11 regioni dello stato di Roraima».

Quali etnie sono rappresentate nell’attuale coordinamento generale del Cir?

«La giunta è composta dal sottoscritto Taurepang e da due Macuxi, Edinho e Maria Betania».

Taurepang e Macuxi, dunque. L’organizzazione però abbraccia altri gruppi indigeni.

«Certo. Il Cir raggruppa nove diverse etnie sotto una sola bandiera e con tre obiettivi: terra, educazione e salute. È una lotta dura visto che l’attuale congiuntura politica non è favorevole per i popoli indigeni. Anche se, per la prima volta, abbiamo eletto una deputata federale, Joênia Wapichana».

La terra rimane sempre la vostra priorità?

«Il nostro territorio è per noi il bene più prezioso. Senza territorio non possiamo avere né salute, né educazione. In una parola non esistiamo. Per questo siamo sempre pronti a dare la vita per la terra».

In che modo? Percorrendo quale strada?

«Non tirando le frecce, perché occorre sempre rispettare la vita del prossimo, sia esso un indigeno o un non indigeno.

Noi chiediamo che ci vengano assicurati i diritti garantiti nella Costituzione federale del 1988. Abbiamo persone preparate in legge per aiutarci in questo.

Noi non abbiamo invaso la terra di nessuno: chiediamo soltanto rispetto. Di essere rispettati nel diritto a vivere nel nostro territorio. Di essere rispettati come società, come esseri umani e come indigeni. E qui intendo dire Macuxi, Wapichana, Ingarikó, Patamona, Sapará, Taurepang, Wai-Wai, Yanomami, Yekuana».

È corretto dire che la diversità indigena è anche una diversità tra indigeni?

«Il Cir non ha una sola identità. Per questo è stato capace di unire le identità di nove popoli differenti. Perché non va dimenticato che noi siamo differenti: un Taurepang è differente da un Macuxi, un Macuxi è differente da Wapichana e così via. Eppure questa organizzazione è capace di unirci tutti in un luogo, in una sala per discutere della nostra vita. Il Cir è un’università e un tribunale: è tutto per noi».

Da fuori, cioè dal mondo non indigeno, vengono i garimpeiros e le grandi opere. Che ne pensa il Cir?

«Che non vogliamo i grandi progetti che distruggono la natura. Non vogliamo estrazioni minerarie nei nostri territori. Se il grande Creatore ha messo il petrolio sotto la terra è per lasciarlo lì».

Vi accusano di non volere il progresso, la civiltà, il futuro.

«I governanti ci dicono che siamo arretrati. Ma costoro non si sono mai seduti con noi per chiederci cosa vogliamo come società, popoli e individui. Noi non chiediamo cose che vengano da fuori: non ci occorrono quelle per essere felici. Vogliamo valorizzare ciò che esiste nelle nostre comunità: la nostra cucina, le nostra medicina, i nostri canti, le nostre danze. Soltanto questo e nulla di più».

Ci dica di Joênia.

«Nella elezione della dottoressa Joênia si è riflessa la nostra forza e unità. È un risultato ottenuto con molta lotta, ma soprattutto senza comprare voti e senza corruzione. Lei è la nostra deputata. La sua elezione è una cosa molto buona per noi».

Come la quasi totalità dei leader indigeni, anche lei pare avere una pessima opinione dei politici brasiliani. Adesso anche Joênia è un rappresentante politico.

«La tratteremo non come una politica, ma come una donna indigena. Lei non ha il profilo, la parola o i sorrisi di un politico. I politici hanno ingannato non soltanto la società indigena ma anche quella bianca. Per questo chiediamo a Joênia di comportarsi come un leader indigeno e non come un leader politico. Lei è nata nel movimento indigeno. È stata la prima donna indigena a difenderci nel Supremo tribunale federale nel giudizio sulla Raposa Serra do Sol. Ha appena vinto lo stesso premio che ricevette Martin Luther King» (Enock si riferisce allo United Nations prize in the field of human rights assegnatole il 25 ottobre 2018, ndr).

Enock, con un presidente come Bolsonaro e un Congresso così anti indigeno Joênia non avrà vita facile.

«Joênia è figlia del movimento indigeno di Roraima. E proprio per questo la gente crede nel suo lavoro. Lei non sarà mai sola. Perché noi siamo Joênia».

Paolo Moiola


Joênia Batista de Carvalho Wapichana

Donna, indigena, deputata

© Carlo Zacquini

Molti anni dopo Mario Juruna Xavante, un altro indigeno entra nel congresso brasilano. E, per la prima volta, è una donna.

Mario Juruna

Nata nel 1973, l’avvocata Joênia Batista de Carvalho detiene una serie di primati. Appartenente al popolo Wapichana, nel 1997 è la prima indigena del paese a ottenere la laurea in diritto (prima all’Università federale di Roraima e, anni dopo, anche all’Università dell’Arizona, negli Stati Uniti). Nel 2008 è la prima a difendere un caso davanti al Supremo tribunale federale, il massimo organo giudiziale del Brasile.

Nel 2018 si presenta alle elezioni per il congresso federale con la «Rede sustentabilidade», il partito fondato dalla candidata presidenziale ed ex ministra dell’ambiente Marina Silva. Nonostante lo scarso successo del suo partito, Joênia Wapichana ottiene 8.267 voti, un numero sufficiente per diventare la prima deputata indigena nella storia del Brasile. In precedenza, a Brasilia era arrivato solamente un indigeno: Mario Juruna del popolo Xavante, in carica dal 1982 al 1986.

Per la neodeputata il 2018 si conclude in bellezza: il 25 di ottobre le viene infatti assegnato dalle Nazioni Unite il prestigioso premio per i diritti umani (United Nations prize in the field of human rights), per la sua attività in difesa delle comunità indigene.

Joênia proviene dalla Terra indigena Raposa Serra do Sol, omologata dal presidente Lula nel 2005. Per oltre dieci anni il suo lavoro di responsabile legale del Conselho indígena de Roraima (Cir) ha riguardato la difesa della demarcazione e l’uscita da quei territori dei fazendeiros (arrozeiros, produttori di riso, per la precisione). Oggi si ritrova a difendere quella conquista dalla volontà del nuovo presidente Bolsonaro e del nuovo Congresso di rimettere tutto in discussione.

Paolo Moiola


Governo Bolsonaro, popoli indigeni e Cimi

«Il maggior latifondista del paese è l’indigeno»

In tutte le sedi le posizioni circa i diritti indigeni appaiono inconciliabili.

All’apertura della 40a sessione del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite (Ginevra, 25 febbraio 2019) Damares Alves, ministra brasiliana della donna, della famiglia e dei diritti umani, ha affermato che i popoli indigeni avranno «uno sguardo speciale» («um olhar especial») dal governo Bolsonaro. Volendo apparire credibile la ministra ha precisato di essere «madre socioaffettiva di una giovane indigena dell’etnia kamayurá».

Le affermazioni della ministra sono state molto criticate dalla delegazione del Consiglio indigenista missionario (Cimi) durante il suo incontro con Michelle Bachelet, alta commissaria dell’Onu per i diritti umani. «Sottolineiamo che le popolazioni indigene non vogliono una relazione socioaffettiva con lo stato brasiliano. I popoli indigeni non vogliono essere portati a casa alla fine della giornata. Vogliono una relazione (con lo stato) che riguardi i loro diritti», ha detto il responsabile degli affari internazionali del Cimi, Flávio Vicente Machado.

L’onorevole Ms. Damares Regina Alves, Ministero per le Donne, la Famiglia e i Diritti Umani | © UN/Violaine Martin

Il clima che si respira con il governo di Jair Bolsonaro è ben esemplificato da quanto detto da un funzionario della ministra dell’agricoltura Tereza Cristina, proprietaria terriera ed ex presidente del gruppo parlamentare degli agricoltori e allevatori (Frente parlamentar agropecuária). Il suo segretario speciale per le questioni fondiarie, Luiz Antonio Nabhan Garcia, latifondista e presidente dell’Unione democratica ruralista (l’associazione dei grandi proprietari terrieri del Brasile), ha affermato che «il più grande latifondista del paese è l’indigeno» («o maior latifundiário do país é o índio», 22 febbraio 2019).

Potrebbe essere una semplice opinione se non fosse che il ministero dell’agricoltura ha ricevuto dal presidente Bolsonaro (con Medida provisória n. 870 del 1 gennaio 2019) l’incarico per «l’identificazione, la delimitazione, la demarcazione e le registrazioni di terre tradizionalmente occupate da popolazioni indigene». Pertanto, quella di Nabhan Garcia è da considerarsi non tanto un’affermazione personale quanto piuttosto una vera e propria minaccia ai diritti costituzionali dei popoli indigeni del Brasile.

Paolo Moiola

 




Davi Kopenawa:

«Voi bianchi non capite»

Testo di Paolo Moiola |


L’intervista a Davi
• Amici, tanti ma non tutti
• Le invasioni dei garimpeiros.
• L’invasione dei missionari Francesco.

Governo Bolsonaro.
• Damares e Tereza.
• L’invasione dei cercatori d’oro, Garimpeiros.
• Contro la Chiesa, contro il Sinodo.

La sua autobiografia ha avuto successo. Lui giustamente rivendica il proprio ruolo nella lotta degli Yanomami per la terra, i diritti e la dignità. Ma Davi Kopenawa non si è montato la testa. Continua a girare il mondo per il suo popolo. E lo fa in modo credibile, in primo luogo evidenziando le differenze tra gli indigeni e quelli che lui indica come «i bianchi». Lo abbiamo incontrato a Boa Vista, appena rientrato da un viaggio.Boa Vista. Davi Kopenawa è appena tornato dal Canada. In precedenza era stato in Europa, Italia compresa1. Appare un po’ affaticato, ma anche tranquillo e pacato come sua consuetudine. Si siede su una vecchia sedia a dondolo arrugginita trovata nello spoglio cortiletto che sta sul retro della sede di Hutukara. All’appuntamento presso l’associazione yanomami2 non può mancare fratel Carlo Zacquini: non soltanto per tradurre ma anche per interpretare – dall’alto della sua lunga amicizia con Davi e della sua conoscenza della lingua yanomae – le risposte del leader indigeno. Perché noi napëpë, non Yanomami, noi bianchi insomma, abbiamo un modo di pensare completamente diverso. Perché le parole vanno capite senza dimenticare il contesto culturale della persona che le pronuncia. Perché è una mania tutta occidentale quella di inserire le risposte in categorie – filosofiche, sociologiche, antropologiche – già precostituite.

Capelli neri e lisci, maglietta rossa, senza ornamenti indigeni, Davi risponde alle domande con pazienza, senza mai alzare il tono della sua voce, in un portoghese semplice e ripetendo spesso i concetti.

Amici, tanti ma non tutti

Davi, pensa che tutti gli Yanomami la seguano?

«Tutto il popolo yanomami è il mio popolo. (Fa una pausa e ripete) Tutto il popolo yanomami è il mio popolo. Un popolo che vive nella terra di Amazonas e Roraima».

D’accordo. Ritiene però di avere qualche avversario anche tra gli Yanomami?

«Tra gli Yanomami alcuni mi sono amici, altri meno. Questi ultimi sono quelli che sono coinvolti con i non indigeni, soprattutto con i politici. Quelli a cui piace il denaro».

E tra i non indigeni, tra i bianchi, chi considera suoi amici?

«Sono amici coloro che lavorano con i popoli indigeni. Ad esempio, l’Istituto socioambientale (Isa) e la diocesi di Roraima, ma anche tutti coloro che difendono la natura. Purtroppo però la maggioranza dei bianchi non è amica. Non gli interessa sapere di noi».

Qualcuno le contesta che sia sempre in giro.

«Io viaggio nel mondo per il mio popolo, per la nostra gente. Non viaggio per divertirmi o per visitare le città, viaggio per portare nel mondo il nome del mio popolo e la sua condizione. Perché la situazione continua a essere problematica. Anche nel campo della salute».

Mi scusi: nel campo della salute c’è però la Sesai.

«La Sesai3 è un organo del governo federale e non degli indigeni. È vero che i responsabili ricevono molto denaro da Brasilia ma lo rubano, non lo utilizzano per la salute di noi indigeni. Così funziona il mondo dei bianchi4. E i politici sono sempre coinvolti».

La sua famiglia cosa pensa delle sue ripetute assenze?

«La mia sposa approva e capisce. I figli conoscono la mia lotta. Così come coloro che vivono nella mia comunità di Watoriki5. Nessuno di loro è triste perché apprezzano il lavoro che viene fatto. Già abbiamo ottenuto la terra yanomami che il governo brasiliano ci aveva rubato. Sono io che, al contrario, sto soffrendo. I miei nipoti hanno bisogno di me»6.

Il suo libro autobiografico, La caduta del cielo, è stato tradotto in varie lingue. Quando lo ha scritto, aveva un obiettivo specifico?

«Un non indigeno non sa, non capisce e non intende la nostra lingua. Il libro La caduta del cielo è stato scritto da me, ma in nome del popolo yanomami. Per studenti, antropologi, professori: per mostrare un modo di pensare diverso, quello del popolo Yanomami. Una parte dei bianchi ci considera come animali, come selvaggi. Io ho voluto dimostrare la mia sabiduria (conoscenza, ma anche saggezza, ndr), per mostrare il nostro cammino dall’inizio del mondo (secondo la cosmogonia Yanomami, ndr). Attraverso quelle pagine ho voluto andare incontro a chi non ci conosce. Dimostrare che lo Yanomami è sabio: sa pensare, sa parlare, sa raccontare la storia del mondo e della foresta. È un libro scritto per voi che vivete nelle città e che non conoscete la foresta e gli Yanomami».

Le invasioni dei garimpeiros

Siamo nella sede dell’associazione che lei guida. Che obiettivi persegue? E come si mantiene?

«Hutukara difende i diritti del popolo yanomami. L’associazione sta andando bene. Sta funzionando. Ha poco denaro ma lavora con i contributi di Rainforest, Cafod7, dell’ambasciata norvegese. Gli appoggi vengono da fuori. È il Brasile che non dà nulla».

Uno dei compiti di Hutukara è la difesa della terra indigena degli Yanomami. Le invasioni continuano?

«È una lotta che non finirà: oggi escono dalla nostra terra, ma domani rientrano. I garimpeiros portano malattie: malaria, tubercolosi. E poi malattie sessuali dato che arrivano senza donne e vanno con le nostre. Avvelenano l’acqua. Portano bevande alcoliche».

Lei considera l’assunzione di alcol un problema?

«Le bevande alcoliche dei bianchi sono veleno. Fanno male alla salute e al cervello. Non portano benefici per le persone. Fanno straparlare, fanno diventare matti».

Ha mai provato a dialogare con i garimpeiros?

«Non ci parliamo. Io non voglio discutere con loro. Io non parlo con degli invasori».

L’invasione dei missionari

Ne La caduta del cielo gli invasori di cui lei dice di ricordarsi fin da bambino sono missionari. Missionari dell’organizzazione statunitense New Tribes Mission8. Questi come si comportarono con voi?

«I missionari che sono entrati nella nostra terra non hanno mai lavorato bene. Sono venuti soltanto per apprendere la nostra lingua e le nostre conoscenze originarie».

Sul territorio degli Yanomami, in alcune aldeias (comunità indigene) ci sono missioni della Meva9, un’altra organizzazione evangelica di origine nordamericana. Di loro che ci può dire?

«Che i pastori della Meva mai ci hanno aiutato. Stavano con le braccia incrociate mentre noi lottavamo e soffrivamo».

In questo giudizio negativo rientrano anche i missionari cattolici di Catrimani?

«La Missione Catrimani è da noi da molti anni. È l’unica che rispetta la nostra cultura. Rispetta la religione degli xapiri e del nostro creatore che si chiama Omama. Io ricordo in particolare dom Aldo Mongiano10 che ci aiutò e fece un buon lavoro con noi. Assieme abbiamo sofferto e assieme abbiamo ricevuto minacce».

Francesco

Recentemente, lei ha presentato il suo libro in Italia. Come si è trovato con il cibo?

«L’Italia ha un mangiare differente da quello a cui io sono abituato. Non c’è farina (di manioca, ndr), non ci sono banane, non c’è carne di animali della foresta. Agli italiani piace molto la pasta che invece a me non piace. Comunque, io mangiavo pesce, pollo, patate e pane».

A parte la pasta, pensa che vi tornerà?

«Mi piacerebbe tornare per incontrare Francesco, il papa».

Paolo Moiola

NOTE

(1) Davi Kopenawa è stato in Italia nel settembre 2018 per presentare «La caduta del cielo», il suo libro autobiografico finalmente tradotto in italiano dalla casa editrice Nottetempo (Milano). Il video dell’incontro avvenuto all’Università di Torino è visibile a questo indirizzo di YouTube: www.youtube.com/user/pamovideo.

(2) Nella Terra indigena Yanomami operano sette associazioni: Ayrca (1998), Hutukara (2004), Apyb (2006), Kurikama (2013), Kumirayoma (2015), Taner (2015) e Hwvenama (2016). L’Hutukara, guidata da Davi Kopenawa, è la più conosciuta e rispettata.

(3) La Sesai – «Secretaria Especial de Saúde Indígena» – è un dipartimento del ministero della Salute brasiliano.

(4) Per semplicità, abbiamo usato il termine generico di bianchi (brancos, in portoghese). Il termine corretto in yanomae, la lingua di Davi Kopenawa, è napëpë, che significa non Yanomami.

(5) Watoriki – «montagna del vento» – è il nome della comunità della famiglia di Davi Kopenawa. Si trova all’estremo Nord Est dello stato di Amazonas.

(6) La sua famiglia è composta dalla moglie Fatima Larima e dai figli: Dario (M), Guiomar (F), Denise (F), Tuira (F), Vitório (M), Silvia (adottiva). Dario ha una figlia; Guiomar ha tre figli e due figlie; Denise ha un figlio e tre figlie. Questi sono i nomi usati in ambito «bianco».

(7) «Catholic Agency For Overseas Development», associazione cattolica inglese.

(8) Fondata nel 1942 dallo statunitense Paul W. Fleming, dal 2017 la «New Tribes Mission» (Ntm) ha cambiato il nome in «Ethnos 360». In Brasile è rimasta un’entità autonoma chiamata «Missão Novas Tribos do Brasil». Il sito web dell’organizzazione: www.novastribosdobrasil.org.br.

(9) Fondata nel 1930 da missionari nordamericani, oggi la Meva – «Missão evangélica da Amazônia» – è un’entità principalmente brasilana. Il sito web dell’organizzazione: www.meva.org.br.

(10) Dom Aldo Mongiano, missionario della Consolata, è stato vescovo di Roraima dal 1975 al 1996. Ebbe molti problemi con i politici e i fazendeiros locali a causa della sua vicinanza con i popoli indigeni.


Governo Bolsonaro

Damares e Tereza

La ministra Tereza Cristina © Marcos Corrêa/PR

Le due sole donne del governo Bolsonaro sono rappresentanti dei settori più anti indigeni della società brasiliana.

Damares Alves e Tereza Cristina sono le ministre del governo di Jair Bolsonaro: la prima è a capo del ministero della donna, della famiglia e dei diritti umani, la seconda di quello dell’agricoltura.

Donne forti con un percorso controverso. La Alves è una pastora evangelica, fondatrice di Atini, un’organizzazione che dichiara di lottare per la difesa dei diritti dei bambini indigeni. In particolare, essa si batte contro la pratica dell’infanticidio e dell’abbandono infantile, attuate presso alcune popolazioni indigene. I critici osservano però che il fenomeno è decontestualizzato e viene usato per criminalizzare i popoli indigeni.

La Cristina è un’imprenditrice agricola, nota per essere a favore della liberalizzazione dell’uso degli agrotossici tanto da meritare il soprannome di «musa del veleno» (musa do veneno). È molto legata al fronte parlamentare che riunisce i rappresentanti dell’agrobusiness (Frente Parlamentar da Agropecuária), di cui è stata anche presidente.

Damares e Tereza sono figure importanti sia per i dicasteri che guidano sia perché espressione diretta di settori che hanno appoggiato il presidente: quello delle chiese evangeliche e quello degli imprenditori agricoli.

Dal 1° gennaio 2019 al ministero della Alves è stata affidata la Fundação Nacional do Índio (Funai), prima alle dipendenze del ministero della giustizia. Allo stesso tempo, all’organismo governativo è stata tolta la sua attribuzione più delicata – quella che riguarda gli studi per l’identificazione, delimitazione e demarcazione delle terre indigene -, passata al ministero della Cristina, dominato dai fazendeiros, cioè dai principali oppositori dei diritti dei popoli indigeni.

La ministra Damares Alves. © Marcos Corrêa/PR

In questo modo le promesse di Bolsonaro di limitare le terre indigene e di aprirle allo sfruttamento minerario e agricolo potranno avere la strada spianata.

Damares Alves e Tereza Cristina, due donne in un governo con venti uomini, tra cui cinque militari (e altri due sono lo stesso presidente e il suo vice). A conti fatti, le uniche ministre del nuovo governo brasiliano potrebbero diventare la punta di lancia dell’offensiva di Bolsonaro contro i diritti dei popoli indigeni. Forse un’ulteriore astuzia del nuovo presidente, conosciuto (anche) per le sue posizioni maschiliste: alle ministre l’onere di decisioni controverse, agli uomini la riscossione dei dividendi, politici e non.

Paolo Moiola

L’invasione dei cercatori d’oro, Garimpeiros

Migliaia di uomini hanno invaso la terra yanomami per cercare oro. Facendo danni incalcolabili alla foresta, ai fiumi e ai popoli indigeni. Una breve cronologia.

  • 1970 – Sul finire degli anni Settanta inizia una corsa all’oro nei territori abitati dai popoli Yanomami e Ye’kwana, in Brasile e Venezuela.
  • 1980-’90 – Alla fine degli anni Ottanta e inizio dei Novanta si stima che nei territori indigeni siano presenti 40.000 minatori illegali (garimpeiros), cinque volte di più della popolazione residente. Nella foresta vengono identificate 82 piste d’atterraggio clandestine.
  • 1992 – A Rio de Janeiro, durante il Summit sulla terra delle Nazioni Unite (Eco 92, in portoghese), viene annunciata la nascita della Terra indigena Yanomami. La polizia federale inizia un’opera di repressione dell’attività mineraria illegale.
  • 1993, giugno-luglio – Si calcola che nei territori indigeni, soprattutto lungo la frontiera tra Brasile e Venezuela, siano ancora presenti tra i 10.000 e i 15.000 garimpeiros.
  • 1993, giugno-luglio – Lungo la frontiera con il Venezuela vengono trucidati da garimpeiros brasiliani 16 Yanomami venezuelani, comprese donne e bambini. Il fatto è conosciuto come il «massacro di Haximú», che verrà successivamente riconosciuto dalla giustizia brasiliana come un «crimine di genocidio».
  • 2002-2005 – Nuove invasioni di garimpeiros sia dal lato brasiliano che da quello venezuelano.
  • 2012-2015 – La polizia federale brasiliana lancia due grandi operazioni – Xawara (2012) e Warari Koxi (2015) – contro le invasioni di minatori illegali nelle terre indigene. Viene smantellata una rete criminale di impresari, funzionari pubblici, gioiellieri e padroni di garimpos. Gli investigatori stimano che ogni mese il gruppo estraeva 160 chili di oro.
  • 2013-2015 – In Venezuela, negli stati Amazonas e Bolivar, si assiste a nuove invasioni delle terre indigene da parte di minatori illegali.
  • 2016, aprile – Secondo il rapporto della «Global Initiative against Transnational Organized Crime» (Organized Crime and Illegally Mined Gold in Latin America) in Brasile il 10-15% dell’oro prodotto (circa 90 tonnellate all’anno) viene estratto illegalmente. Le esportazioni brasiliane sono rivolte soprattutto verso Svizzera, Stati Uniti e Canada.
  • 2018, 10 dicembre – Per la prima volta viene effettuato uno studio su 2.300 garimpos in sei paesi amazzonici (Brasile, Perù, Colombia, Venezuela, Ecuador, Bolivia). Il reportage multimediale dal titolo di Amazônia saqueada è firmato da Raisg, «Red Amazónica de Información Socioambiental Georreferenciada».
  • 2019, 2 marzo – In un convegno a Toronto (Canada), il ministro delle miniere e dell’energia, l’ammiraglio Bento Albuquerque, afferma che è intenzione del governo Bolsonaro espandere sulle terre indigene le attività minerarie.

Pa.Mo.

Fontiprincipali

Barche sul riuo Uraricuera

Contro la Chiesa, contro il Sinodo

Il governo del presidente Bolsonaro considera la Chiesa cattolica un potenziale nemico. E teme il Sinodo panamazzonico del prossimo ottobre.

In campagna elettorale – era il 17 ottobre 2018 – Bolsonaro aveva detto che i vescovi della Conferenza episcopale brasiliana (in sigla, Cnbb) sono «la parte marcia della Chiesa cattolica». Una volta raggiunta la presidenza, la sua offensiva si è fatta più diplomatica, ma non per questo meno dura. Anche perché il debito contratto nei confronti delle chiese evangeliche, che sono dirette «concorrenti» della Chiesa cattolica e che in campagna elettorale lo hanno apertamente appoggiato, è consistente. Secondo l’istituto Datafolha, dei 58 milioni di voti ricevuti da Bolsonaro lo scorso 28 ottobre 22 milioni erano di provenienza evangelica. E, nel nuovo Congresso, lo schieramento evangelico è fondamentale quanto quelli dei latifondisti e della sicurezza (formando la cosiddetta «bancada BBB, Bíblia, boi e bala»).

© Rafael Carvalho/PR

Per tutto questo l’articolo pubblicato (il 10 febbraio) dal quotidiano O Estado de S.Paulo, un giornale tradizionalmente conservatore e liberista, in cui si parlava di un governo Bolsonaro che vede la Chiesa cattolica come un potenziale oppositore ha suscitato discussioni ma non sorpresa.

Negare che governo Bolsonaro e Chiesa cattolica abbiano visioni opposte su tematiche quali i diritti dei popoli indigeni e la questione agraria significa negare l’evidenza. Il lavoro svolto dal Consiglio indigenista missionario (Cimi) e dalla Commissione pastorale per la terra (Cpt), organismi della Chiesa cattolica brasiliana, è sotto gli occhi di tutti. Per parte sua, il presidente Bolsonaro non ha rinunciato a lanciare avvertimenti circa le sue intenzioni. In un tweet del 2 gennaio ha scritto: «Oltre il 15% del territorio nazionale è delimitato come terra indigena e quilombolas. Meno di un milione di persone vive in questi luoghi isolati del Brasile, sfruttati e manipolati dalle Ong».

Ancora più di queste in Amazzonia lavora la Chiesa cattolica, tanto da spingere il generale Augusto Heleno, ministro della sicurezza istituzionale, a ordinare ai servizi segreti (Abin) di monitorare le sue iniziative in preparazione al Sinodo amazzonico in programma a Roma il prossimo ottobre. Un Sinodo che il governo Bolsonaro vede come portatore di un «programma di sinistra».

Lasciando da parte gli schemi ideologici, va detto che il documento preparatorio al Sinodo parla di una crisi scatenata «da una prolungata ingerenza umana» e una «mentalità estrattivista» e che i primi interlocutori debbono essere i popoli indigeni e tutte le comunità che vivono in Amazzonia. «Oggi – si legge nel documento – la ricchezza della foresta e dei fiumi amazzonici si trova minacciata dai grandi interessi economici che si concentrano in diversi punti del territorio».

Parole queste in evidente contrasto con la visione e i programmi del governo Bolsonaro. A oggi, prevedere un Sinodo innocuo pare dunque piuttosto azzardato.

Paolo Moiola

Yanomami di Haximu, sopravvissuti al massacro, fotografati nel Toototobi, con ceste nelle quali portano i corpi dei loro famigliari – foto di Carlo Zaquini /AfMC

 




Attorno al fuoco, nella casa comune


Dal Kenya alla foresta amazzonica brasiliana. È questo il percorso di Mary Agnes Nieri Mwangi, missionaria della Consolata che dal 2000 vive nella Missione Catrimani in Terra indigena yanomami (Tiy). Sorretta da un incredibile entusiasmo e ponendosi sempre dalla parte delle donne. Anche quando si tratta di affrontare tematiche complesse come la poligamia o delicate come l’infanticidio.

Boa Vista. Nella capitale di Roraima suor Mary Agnes Nieri Mwangi, missionaria della Consolata, è di passaggio. Ha (temporaneamente) lasciato la Missione Catrimani, in terra yanomami, per partecipare a una serie di riunioni. Il momento storico è delicato perché il nuovo presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, sta mettendo in discussione molte conquiste indigene. Come ha denunciato il Consiglio indigenista missionario (Cimi), poche ore dopo la sua entrata in carica (1 gennaio 2019), Bolsonaro ha varato misure impattanti. La Funai, l’organizzazione federale per la protezione e la promozione dei diritti indigeni, è passata dal ministero della Giustizia a quello della Donna, famiglia e diritti umani, diretto da Damares Alves, pastora evangelica. Allo stesso tempo, la Funai è stata privata delle sue competenze in fatto di terre indigene, che sono state trasferite al ministero dell’Agricoltura, diretto da Tereza Cristina, imprenditrice agricola. Il risultato di queste misure è che le due uniche donne del governo Bolsonaro incarnano palesi e giganteschi conflitti d’interesse sotto i quali rischiano di rimanere schiacciati i diritti dei popoli indigeni. In tutto questo, l’Amazzonia, da tempo in grave sofferenza, rischia ora di subire un attacco letale con l’apertura indiscriminata alle imprese minerarie e ai latifondisti.

CATRIMANI_la maloca

Cacciatori e contemplatori

Suor Mary, com’è stato passare dal suo Kenya alla terra degli Yanomami?

«Arrivare in Amazzonia, nelle terre indigene, per me è stata una novità molto grande. Ma ancora più grande è stata la gioia di conoscere popoli diversi dalla mia realtà. Quando arrivai a Catrimani, mi sembrava di essere in quelle missioni del mio paese nei primi anni del Novecento. Oggi è un gioiello».

Molto spesso il primo salto culturale che ci si trova ad affrontare è quello linguistico. Lei ha avuto problemi?

«No, perché il mio paese è plurilingue. Si parla inglese, kiswahili e poi il kikuyu, la mia lingua. In Kenya e in Italia ho imparato un po’ d’italiano. Quando entrai a Catrimani non parlavo né la lingua portoghese né quella indigena. Nei primi cinque mesi, in attesa di partecipare a un corso di portoghese, cominciai a studiare la lingua locale, lo yanomae. Dato che spesso è l’unica che viene parlata dagli Yanomami, conoscerla è essenziale. Si tratta di una lingua orale. Anche se, nel corso degli anni, noi missionari abbiamo svolto vari progetti di alfabetizzazione».

Suor Mary, volendo dare una sintetica definizione dei popoli indigeni, cosa direbbe?

«Che sono popoli amici. Che sanno accogliere. Che c’è tanto da imparare dal modo in cui loro ti ricevono».

E degli Yanomami?

«Anche se non sembra perché sono cacciatori, cioè uomini d’azione, gli Yanomami sono persone a cui piace raccontare, ascoltare e contemplare. Noi abbiamo l’abitudine di chiedere: “Come stai?”. Loro no, perché come stai lo vedono. Si tratta di una domanda inutile. Invece, è molto importante chiedere: «Cosa pensi?». È quasi un modo di salutare l’altro. E mettersi nella disposizione di ascoltarlo».

Mary Agnes Nieri Mwangi, missionaria della Consolata

Maloca, comunità, famiglia

Maloca è il termine generico per indicare un’abitazione che ospita più famiglie indigene. Lei come descriverebbe la maloca degli Yanomami?

«C’è una ricerca dell’armonia che è difficile da spiegare. Per prima cosa, quando costruiscono la loro casa comune, gli Yanomami hanno sempre un pensiero: dov’è il centro del mondo? L’armonia si cerca anche nelle attività esterne alla maloca che vanno condivise attraverso una proposta. Non si dice: “Oggi andiamo a cacciare lì”. No, questa non è la comunicazione yanomami, che invece dice: “Ho pensato, mi sembra che sia bene andare lì. Cosa ne pensate?”. Questi sono momenti comuni, ma ci sono anche quelli dedicati al nucleo familiare».

E, all’interno della casa comunitaria, cosa distingue una famiglia?

«Ogni nucleo familiare ha il suo fuoco. Non essendoci divisioni, se si vuole sapere quante famiglie ci sono nella maloca basta contare i fuochi. Ogni fuoco, una famiglia».

E all’interno della maloca e della famiglia come crescono i bambini?

«Imparando direttamente. I bambini più grandicelli prendono in braccio quelli più piccoli. Quelli di 2 o 3 anni sanno già fare il fuoco e già prendono in mano il coltello. Un tempo io mi preoccupavo, ma la mamma subito interveniva per dirmi che non capitava nulla. Alla fine anch’io ho trovato un equilibrio tra la cura esagerata dei bambini occidentali e la libertà d’imparare dei piccoli yanomami. Quanti di loro vanno al fiume a pescare e poi preparano quello che hanno trovato. Anche il cibo viene condiviso con gli adulti. Non esiste la distinzione cibo per adulti e cibo per bambini, come invece io ero abituata».

Banane per tutti, dunque?

«Sì, l’alimento preferito dagli Yanomami è la banana. Poi ci sono la manioca con la quale fanno una specie di pane, patate dolci e frutti della foresta, pesce e carne di selvaggina o di maiale. Per gli Yanomami esistono due tipi di fame, tanto che hanno una parola specifica – naiki – per parlare di fame da mancanza di carne e un’altra – ohi – per tutto il resto. La caccia è in pratica un’attività quotidiana: ogni giorno c’è qualcuno che la pratica. Se non va il papà, va il figlio o il cugino. Chi va un giorno, non va il giorno successivo perché deve preparare gli strumenti da caccia, in primo luogo le frecce».

I misteri dello sciamano

Chi è e che ruolo riveste lo sciamano – detto xapuri o xapiri – nella società yanomami?

«Prima di tutto, lo sciamano è una persona molto disponibile. Se arriva qualcuno a chiedere i suoi servizi, lui si alza dall’amaca e va. Non ho mai sentito qualcuno rifiutarsi. In generale, sciamano è una persona che, per tutta la sua vita, coltiva “il sentire con”, il condividere le preoccupazioni altrui».

Per «sentire» come dice lei, occorre però sempre assumere la yakoana, che è una sostanza allucinogena.

«È vero, gli sciamani usano la yakoana, perché aiuta nella intermediazione tra loro e gli spiriti. Anch’io – da infermiera – ho pensato alla condizione sciamanica come a un effetto allucinogeno indotto da questa droga (detto tra virgolette). Tuttavia, io ho visto che ci sono sciamani che riescono a fare i loro riti curativi senza necessariamente assumerla. In uno stato di sobrietà.

Io vedo in questo la forza dell’amore, anche se loro non parlano in questi termini ma soltanto di cura. Lo sciamano – inoltre – porta nel presente la memoria della comunità. Essendo loro dei popoli senza memoria scritta, questa funzione è essenziale».

Suor Mary, ci aiuti un po’ a fare chiarezza sui termini: si dice sciamano, xapuri o xapiri?

«Il termine che gli indigeni usano non è sciamano. Il termine è xapuri o xapiri a seconda del territorio yanomami considerato. Perché? Xapuri (xapiri) è anche il nome degli spiriti che lavorano con queste persone. Nel momento in cui lo sciamano è in contatto con lo spirito non è lui che parla, non è lui che cura: lui incarna lo spirito. In quel momento lui è xapuri. Accade, per esempio, nel momento finale della vita quando lo sciamano sentenzia: “Non c’è più nulla da fare per evitare la morte”. Parole dure da ascoltare, ma tutti i presenti le considerano parole dello spirito e non della persona fisica che hanno davanti agli occhi. Detto questo, per me lo sciamanesimo rimane un mistero».

Antropofagia e infanticidio: Yanomami primitivi?

Le ossa del defunto – trattate in una certa maniera – vengono mangiate dai parenti. Ciò ha fatto parlare di cannibalismo. «Il loro modo di trattare i morti è qualcosa che noi dobbiamo imparare. Oggi i nostri cimiteri sono pieni. Se noi pensiamo che, dopo morta, una persona diventi cenere, gli Yanomami agiscono cremando i cadaveri e mescolando nel cibo le ossa polverizzate. Di qui si è arrivati a sentenziare: gli Yanomami mangiano i morti. Chi parla così non conosce bene la loro cultura, il perché delle cose che si fanno. È un peccato. Non sempre quello che io vedo e penso è giusto. Questa è una cosa che mi dà molto fastidio».

Altra questione molto delicata è quella dell’infanticidio. Un altro elemento spesso usato per attaccare gli Yanomami come primitivi o peggio. Cosa ci può dire sull’argomento?

«Per prima cosa, voglio dire che infanticidio è una parola abusata. In tutti questi anni tra loro, io ho visto quanto le donne yanomami curino i loro bambini. Si provi a immaginare la vita nella foresta: tu devi andare a cacciare, cercare frutta, eccetera. Se hai bambini piccoli, devi pensare a come portarli con te. È molto comune vedere una Yanomami con un bimbo sulla schiena o sul davanti.

Ricordo che un giorno venne una donna a chiedermi di accompagnarla al posto di salute per mostrare che il suo bambino era morto: non voleva essere accusata di averlo ucciso. Io l’accompagnai. Se una donna ha già un bimbo piccolo e rimane incinta, chiede a un’altra di tenerlo. Tra loro le donne si aiutano. Insomma, prima di parlare di infanticidio, occorre pensare, perché il tema è molto delicato».

La poligamia: responsabilità e sorellanza

Rimaniamo in tema di bambini.  Quanti sono in media per famiglia?

«In media sono cinque per famiglia. Ma un uomo può arrivare anche a dieci, perché può avere più mogli. Dipende dalla sua forza e capacità di lavorare. Chi ha più di una moglie, in genere ne ha due. L’uomo yanomami è responsabile, cioè si prende cura delle mogli e dei figli. Le mogli vivono assieme nella stessa maloca. Alla fine sono come sorelle».

Lei parla di capacità di lavorare. Oggi ci sono Yanomami che lavorano per il governo guadagnando uno stipendio.

«Quando io arrivai le comunità yanomami non conoscevano i soldi. Per loro non avevano significato. Poi, quando alcuni indigeni divennero agenti di salute o microscopisti, cominciarono a ricevere una busta con il denaro. Nessuno pensava a depositarlo dato che si era in foresta. Dunque, lo riponevano in un posto qualsiasi e lì rimaneva.

Poco a poco le cose sono cambiate e i giovani yanomami hanno imparato a maneggiare il denaro. Ricordo che, quando andavamo in città, io li accompagnavo nei negozi. Se compravano – ad esempio – una camicia, davano i soldi e non aspettavano neppure il resto. Questa era una conseguenza del sistema della casa comune: quando hai quello di cui necessiti, il resto lo puoi condividere. Oggi i popoli indigeni conoscono i soldi. Sanno che, se ne hanno, possono ottenere qualcosa. E ciò può essere un pericolo».

La terra degli Yanomami e l’invasione dei garimpeiros

A parte la corruzione portata dai soldi dei bianchi, da fuori arriva un altro grande pericolo.

«È così. Gli Yanomami vivono su un territorio molto buono: le piante crescono senza bisogno di troppe cure, c’è acqua, il clima è buono. Purtroppo, ci sono anche i minerali che attraggono molti garimpeiros. Le garimpeiras sono un’eccezione».

Si tratta di persone singole o di vere imprese?

«Ci sono i garimpos che dietro hanno un padrone e ci sono altri che hanno un singolo minatore. Il fenomeno è molto complesso».

Tra i tanti danni prodotti dai garimpeiros, c’è l’inquinamento delle acque con il mercurio. Questo problema si è manifestato anche alla Missione Catrimani?

«Già negli anni Novanta i missionari hanno scavato un pozzo per non bere l’acqua del fiume contaminata da mercurio. In questi anni da noi c’è meno inquinamento, mentre è aumentato in altre zone. Certamente non possiamo dare per scontato che nel Catrimani non ci sia mercurio perché nella sua parte alta ci sono garimpos. Neppure siamo sicuri che l’acqua del nostro pozzo, che sta vicino al fiume, sia pulita».

Senza strade è meglio

Suor Mary, per tenere gli indigeni lontani dai bianchi la soluzione migliore è che non ci siano strade. Si tratta di un’affermazione esagerata?

«Io credo che la strada non sia per gli indigeni. Sono persone che non hanno bisogno di strade perché sono popoli della foresta. Loro hanno… il Gps nella testa (lo ripete due volte ridendo e indicando con le dita la sua testa, ndr).

Quando cammino con loro, io a volte non riesco ad orientarmi, a capire dove sono. A volte non sono capace neppure di trovare il sole perché non riesco a vederlo. Allora mi chiedono: “Ma cosa cerchi?” “Il sole”, rispondo io. “Ma come? È qui! Non lo vedi?”. E si mettono a ridere. La stessa cosa mi accade con i sentieri che io non vedo mentre loro sì. Voglio dire che ciò che io non vedo loro invece lo vedono. Dunque, la strada non è per i popoli indigeni, ma è per quelli come noi che non hanno il Gps nella testa».

Nessuna strada la raggiunge però la Missione Catrimani è un luogo d’incontri.

«È così. Pur nella loro grande semplicità, alla missione ci sono strutture che non si trovano altrove. Per questo è il luogo dove la Sesai, l’Isa, Hutukara e anche alcune facoltà universitarie federali organizzano incontri. Siamo arrivati a ospitare anche 200 persone che dormivano ovunque».

Catrimani, suore davanti alla missione

Donne indigene, donne yanomami

Suor Mary Agnes, lei lavora con le donne indigene. Come sono state accolte le sue iniziative nella comunità yanomami?

«All’inizio ci fu molta sorpresa. Gli uomini yanomami si chiedevano (suor Mary Agnes ride di gusto mentre racconta, ndr): “Cosa vogliono fare con le donne? Che razza di incontro è?, Cosa hanno da imparare le donne?, Tutto quello che c’è da imparare s’impara nella comunità”. Per me invece erano esperienze molto interessanti, un sogno che si avverava: lavorare con le donne. Dal 2002 accompagno le donne agli incontri. Il gruppo era composto da alcune donne, un uomo e una suora».

Dalla partecipazione agli incontri tra donne indigene siete passati all’organizzazione. Com’è avvenuto questo cambiamento?

«Era il 2006. Eravamo in sei: quattro donne, un uomo ed io. Andammo dalla Missione Catrimani alla Terra Raposa Serra do Sol. In quell’occasione le donne yanomami mi dissero: perché non lo facciamo anche da noi? Rimasi molto sorpresa da quella proposta, ma segnò l’inizio del nostro percorso».

Quando ci fu il primo incontro di donne indigene ospitato presso la Missione Catrimani?

«Organizzammo il primo incontro nel 2008, un’assemblea aperta anche a donne non-yanomami, progetto reso possibile dall’appoggio della Cei. Alla fine riuscimmo ad avere soltanto un aereo per quattro indigene da fuori, ma le donne yanomami arrivarono numerose da vari luoghi con bambini e mariti.

Fu più interessante la preparazione che la stessa assemblea. Gli uomini mi chiedevano: “Chi cucina se le donne sono sedute ad ascoltare?”. Io mi divertivo. Comunque, riuscimmo ad organizzarci. Le donne erano sedute in cerchio al centro della casa comune e attorno, sulle amache, c’erano uomini e bambini. Non c’era un vero tema dell’incontro. Il tema era lo stare insieme e parlare sulla vita della donna, yanomami e non yanomami.

Negli anni successivi abbiamo dovuto limitarci a invitare le Yanomami. Nel 2010 c’è stato un incontro dedicato alla salute. Nel 2018, per la prima volta, l’incontro – il decimo della serie – si è svolto fuori dalla Missione Catrimani, nella regione di Demini, quella di Davi Kopenawa».

La malaria a Catrimani

Suor Mary, per concludere, in foresta la malaria è ancora molto diffusa?

«Il problema è serio, anche se da tempo noi non contiamo morti. Alla missione siamo attrezzati con un microscopista. L’esame per scoprire la malaria è semplice: lo può fare anche un qualsiasi Yanomami che sappia leggere e scrivere. Questa circostanza ha aiutato molto a non avere eventi mortali. Il fatto che ci siano tanti casi, si pensa che dipenda dagli spostamenti dei garimpeiros e degli stessi indigeni».

Dunque, la malaria c’è, ma oggi è affrontabile. Perlomeno alla Missione Catrimani.

«Sì, perché la Missione Catrimani è un’oasi nella foresta. Un piccolo gioiello».

Paolo Moiola

Terminologia:

  • maloca – la casa comune degli indigeni;
  • sciamano / xapiri-xapuri – intermediario con il mondo degli spiriti;
  • yakoana – sostanza allucinogena utilizzata dagli sciamani (xapiri-xapuri);
  • infanticidio – l’uccisione volontaria del neonato;
  • endo-cannibalismo / antropofagia – forma di cannibalismo rivolta alle persone del proprio gruppo;
  • poligamia – matrimonio nel quale un uomo o una donna possono avere più consorti contemporaneamente;
  • ohi / naiki – fame generica e fame di carne nella lingua yanomae;
  • manioca – arbusto tropicale che fornisce tuberi radicali ricchi di amido;
  • garimpos / garimpeiros – miniere e minatori illegali;
  • mercurio – metallo pesante usato nella purificazione dell’oro e dell’argento;
  • Funai, Sesai – organizzazioni del governo brasiliano per i diritti indigeni (Funai) e per la salute indigena (Sesai);
  • Isa – Instituto Socioambiental, organizzazione civile brasiliana a difesa dei diritti socioambientali;
  • Hutukara – la più importante tra le associazioni degli Yanomami; è guidata da Davi Kopenawa.

(pa.mo.)

 




Perú, mons. Baretto, la storia del vescovo ambientalista

Testo dell’incontro col vescovo cardinal Pedro Baretto e Mauricio López Oropeza di Paolo Moiola |


In Perú sono in corso centinaia di conflitti ambientali. Sia in Amazzonia (la selva) che nelle Ande (la sierra). La salvaguardia dell’ambiente e la salute delle persone costituiscono elemento centrale della missione pastorale di mons. Pedro Barreto?Jimeno, arcivescovo di Huancayo (Junín), vicepresidente della Conferenza episcopale peruviana e neocardinale (dal 29 giugno). Da pochi mesi, in qualità di socio fondatore della «Red Eclesial Panamazónica» (Repam), il prelato è stato anche nominato membro della commissione vaticana che sta preparando il Sinodo amazzonico del 2019. Lo abbiamo incontrato nella sua Lima poco prima della sua nomina a cardinale.

@ Paiolo Moiola

Miraflores (Lima). Nelle giornate di sole da Miraflores, noto distretto di Lima, si può ammirare un magnifico panorama sull’Oceano Pacifico. Arriviamo al centro ignaziano della locale parrocchia di Fátima per approfittare della presenza di mons. Pedro Barreto Jimeno, gesuita e arcivescovo di Huancayo, capoluogo del dipartimento di Junín, regione andina nel centro Ovest del paese. In Perú il prelato è molto conosciuto per le sue battaglie in favore dell’ambiente (el obis­po eco­ló­gi­co).

Dal 2004 presta servizio tra le Ande, ma ci confessa quasi subito che il suo cuore «è amazzonico». Un sentimento nato durante i tre anni da vicario apostolico a Jaén, capoluogo dell’omonima provincia amazzonica (selva alta) del dipartimento di Cajamarca.

In quello stesso periodo entra nel consiglio permanente della «Conferenza episcopale peruviana» e nella «Conferenza episcopale latinoamericana» (Celam).

Jaén è la porta d’ingresso dell’Amazzonia Nord orientale del Perú. «L’Amazzonia – spiega mons. Barreto – comprende quasi otto milioni di chilometri quadrati e nove paesi, con il Brasile in testa (65% della superficie totale) seguito dal Perú. Come uomini di chiesa ci rendevamo conto che il lavoro da fare era tanto e disperso su un territorio immenso. Nell’aprile del 2013, a un mese dall’elezione del papa Francesco, il Celam si riunì in Ecuador per dibattere la questione. Nel settembre 2014 ci ritrovammo – vescovi, religiosi e religiose – a Brasilia e decidemmo di creare la “Rete ecclesiale panamazzonica”, la Repam. Che non è una vera istituzione, né una struttura, ma – come dice il suo nome – una rete che cerca di unire con il dialogo e l’aiuto reciproco popoli indigeni e non indigeni che vivono in Amazzonia. Ciò che ci sorprese fu l’immediato messaggio di felicitazioni del papa. Questo ci spinse a considerarne lui il fondatore».

A partire da quel momento la crescita della Rete panamazzonica è molto rapida.

«Il papa ci chiese di presentare al mondo la Repam. Lo facemmo il 4 marzo del 2015 a Roma, nell’aula Giovanni Paolo II. Poco dopo, il 19 marzo, tenemmo un’udienza tematica sulle attività minerarie in Amazzonia davanti alla Commissione interamericana per i diritti umani (Cidh) a Washington».

Il ruolo e la visibilità della Repam prendono in seguito grande impulso da due eventi importanti: l’uscita, nel maggio 2015, dell’enciclica Laudato si’, interamente dedicata all’ambiente e, nell’ottobre 2017, l’annuncio del papa di un Sinodo panamazzonico per l’ottobre 2019.

© Malcom K.

Dall’Amazzonia alle Ande

Dopo l’esperienza a Jaén, mons. Barreto deve lasciare l’Amazzonia per le Ande: regione di Junín, nella cosiddetta sierra. «Fui nominato – racconta – arcivescovo di Huancayo, una città posta in una valle dentro alle Ande, la valle del rio Mantaro. È la valle interandina più grande del Perú: 77 chilometri di lunghezza e una media di 22 di larghezza».

Luoghi molto diversi dall’Amazzonia, ma afflitti da problematiche identiche: il difficile rapporto tra l’ambiente naturale e le attività umane e tra il diritto al lavoro e quello alla salute.

Nel dipartimento di Junín, le concessioni minerarie riguardano circa il 20% del territorio totale. Si estraggono rame, piombo, zinco, molibdeno, argento. Vi operano diverse imprese tra cui la cinese Chinalco, la canadese Pan American Silver, la peruviana Volcan, la brasiliana Milpo. La più famosa, per i disastri provocati, è la statunitense Doe Run, da anni in liquidazione. Queste attività minerarie danno un po’ di lavoro (sottopagato) alla popolazione locale, ma portano soprattutto tanti danni, all’ambiente e alla salute delle persone.

«Da secoli – racconta il vescovo (cardinale dal 29 giugno, ndr) – è una zona eminentemente mineraria. C’è una città che si chiama La Oroya, a 3.700 metri d’altezza, che è considerata una delle cinque città più inquinate al mondo. Da alcuni anni non vengono più emessi gas tossici perché il complesso metallurgico della Doe Run è fermo, ma se si vedono le foto dall’alto – su internet è possibile – si nota una massa bianca. Non è neve, sono particelle di piombo, rame, zinco, tutti metalli pesanti che in questi 90 anni di produzione (l’attività iniziò nel 1922, ndr) si sono accumulati sulle montagne». E nel sangue degli abitanti, soprattutto bambini e anziani. Acqua, aria e suolo presentano livelli di contaminazione decine di volte superiori ai limiti consentiti.

Venuto a conoscenza dei gravi problemi ambientali, mons. Barreto si dà subito da fare. Nel marzo 2005, a pochi mesi dal suo insediamento come arcivescovo, istituisce un tavolo di dialogo (Mesa de diálogo) con l’ambizioso obiettivo di trovare una «soluzione integrale e sostenibile al problema ambientale e lavorativo a La Oroya e il recupero della conca del fiume Mantaro».

Il dialogo è però lungo e complicato. In gioco ci sono gli interessi della multinazionale statunitense e il lavoro di ben 2.000 persone. A mons. Barreto arrivano minacce di morte e intimidazioni.

Il complesso metallurgico di La Oroya passa attraverso fasi di insolvenza economica (2009), contenziosi con lo stato per i mancati investimenti di adeguamento ambientale (Programa de Adecuación Medio Ambiental, Pama) e, infine, nel 2017-2018 alcuni tentativi di vendita, finora falliti.

Il Cardinal Pedro Baretto © Paolo Moiola

I cinesi di Morococha

Il problema – ancora irrisolto – di La Oroya non è il solo. A circa 40 chilometri di distanza sorge Morococha, cittadina cresciuta sopra un enorme giacimento di rame a cielo aperto. Dal 2008 il giacimento – noto come progetto Toromocho – è di proprietà della Chinalco, impresa appartenente al governo cinese. «Il primo problema da affrontare – racconta mons. Barreto – fu quello di spostare la popolazione. La Chinalco costruì una nuova città: Nueva Morococha. Il trasferimento delle 1.200 famiglie iniziò nel 2012 e ancora non si è concluso».

Nel frattempo, tra gennaio e luglio 2017, l’impresa ha estratto 106mila tonnellate di rame. «Anche nel caso di Toromocho – precisa mons. Barreto -, c’è un danno ambientale perché un’attività mineraria, per quanto si possa essere attenti, contamina sempre. Il problema è che nella regione non ci sono molte alternative lavorative. Anche se, come chiesa, abbiamo iniziato un piccolo progetto di produzione tessile che impiega soprattutto donne ma che comunque non basta».

Secondo l’Istituto peruviano di economia, l’attività mineraria genera circa l’11% del Prodotto interno lordo (Pil) del paese, la metà della valuta straniera che entra in Perú, il 20% delle entrate fiscali, oltre a migliaia di posti di lavoro diretti e indiretti.

«Il Perú – racconta mons. Barreto – è sempre stato un paese minerario. Però è anche un paese agricolo. Nella valle del Mantaro le miniere inquinano e, allo stesso tempo, in agricoltura si stanno utilizzando fertilizzanti che nel resto del mondo sono proibiti. Dovrebbe essere trovato un equilibrio tra un’attività mineraria responsabile e un’agricoltura egualmente responsabile».

Mons. Barreto, il vescovo (cardinale) ambientalista, non è a priori contro le miniere. «Io – precisa – direi che l’attività mineraria è necessaria. Non possiamo cioè dire “no” alle miniere. Quello che dobbiamo dire è: in questa riserva, in questo biotopo, in questo parco non può esserci attività mineraria. Un esempio: in questo momento un’impresa mineraria sta esplorando la laguna di Marcapomacocha. Qui occorre rispondere con un secco “no”».

Di certo, guardando al territorio peruviano, sembrerebbe che tutto il paese sia stato dato in concessione. «È vero – conferma il prelato -. Si parla della stessa piazza d’Armi di Cuzco. Un’assurdità. L’attività mineraria dovrebbe essere responsabile e con chiare restrizioni. Non possiamo opporci, ma dobbiamo dire: prima delle miniere sta la responsabilità per la vita e la salute delle persone».

Amazzonia, bioma universale

Dall’Amazzonia alle Ande l’impegno di mons. Barreto in difesa dell’ambiente non è mai cambiato. «A volte mi chiedono come mai un arcivescovo che vive in mezzo alle Ande sia entusiasta dell’Amazzonia. Il fatto è che qui si parla di un bioma che dà vita non solamente a noi ma a tutta l’umanità. Nella Laudato si’ – al numero 38 – il papa descrive l’Amazzonia come uno dei polmoni del mondo assieme alla conca fluviale del Congo».

In generale, però, la consapevolezza della sua importanza vitale è molto scarsa. Anche per questo gli attacchi alla sua integrità si fanno ogni giorno più numerosi. Come ammette anche mons. Barreto:?«Se si chiede a un peruviano della costa se il suo paese è amazzonico, questi risponderà che abbiamo la selva. In realtà, il 63 per cento del territorio peruviano è amazzonico. Abbiamo ancora zone intatte ma abbiamo anche zone infernali come a Puerto Maldonado (visitata dal papa a gennaio 2018, ndr), dove le attività minerarie illegali e informali hanno prodotto disastri. Quando si arriva in aereo si vedono nella foresta grandi fette di territorio dove ormai non cresce un solo filo di vegetazione, distrutta da mercenari che utilizzano il mercurio per cercare l’oro».

Da pochi mesi mons. Barreto, vicepresidente della Repam, è stato nominato membro della commissione (riquadro) istituita per preparare un’assemblea straordinaria sulla Panamazzonia.

«Quella di convocare un sinodo sulla regione amazzonica – chiosa il prelato – è stata una decisione sorprendente di papa Francesco. La prima volta nella storia della Chiesa. In precedenza e in più occasioni, il papa aveva detto che la Chiesa deve avere un volto amazzonico e indigeno (un rostro amazónico y indígena). Come va interpretata questa affermazione? Significa spingere per una conversione ecologica, un nuovo stile di vita, basato non su un paradigma tecnocratico ma su un nuovo paradigma che porti a soluzione il problema socioambientale e offra a tutti una vita degna e solidale».

Paolo Moiola

© Graham Styles


Il segretario esecutivo della Repam

«Vogliamo “amazzonizzare” il mondo»

In tanti parlano di Amazzonia, ma in pochi agiscono per contrastare la sua distruzione. Nata meno di quattro anni fa, la «Rete ecclesiale panamazzonica» (Repam) sta operando nei nove paesi amazzonici e tentando di coscientizzare il resto del mondo sul problema. Ne abbiamo parlato con Mauricio López Oropeza, segretario della Repam.

@ Paolo Moiola

Puerto Leguízamo (Colombia). «Da quando sono entrato in questo territorio, mi è stato rubato il cuore». Mauricio López Oropeza, 40 anni, è messicano e l’Amazzonia l’ha conosciuta in Ecuador dove arrivò dieci anni fa per completare gli studi. Oggi è sposato con Ana Lucía, cittadina ecuadoriana, lavora con la Caritas nazionale ed è segretario esecutivo della Rete ecclesiale panamazzonica (Repam) dalla sua fondazione.

Mauricio, come si può descrivere l’Amazzonia in poche parole?

«L’Amazzonia non è soltanto un territorio. È un bioma unico. Un sistema vivo in cui i fiumi rappresentano il sangue e le vene. Un sistema diverso e complesso di cui ancora oggi conosciamo pochissimo. I popoli originari che vi vivono rappresentano un modello distinto da quello occidentale».

Negli ultimi cinquant’anni è cambiato il modo di guardare all’Amazzonia.

«È vero. Prima l’Amazzonia era il patio trasero (cortile di casa) del pianeta. Era vista come una terra praticamente disabitata che occorreva dominare, controllare, colonizzare. Le sue popolazioni erano considerate composte da indios selvaggi da civilizzare. Oggi l’Amazzonia si è trasformata in plaza central (piazza centrale) su cui tutti si riversano a causa degli enormi interessi che su di essa si sono scatenati».

Quali sono le minacce principali che gravano sull’Amazzonia?

«La prima minaccia è il modello di sviluppo seguito. È un modello neoliberista che ha nell’estrattivismo la propria manifestazione più devastante. Essendo ricca di petrolio e di risorse minerarie, l’Amazzonia è colpita dalla “maledizione dell’abbondanza”. Ciò produce una pressione enorme a favore dell’estrazione. In questo modo è come bruciare un archivio naturale: non sappiamo quanta ricchezza genetica potrebbe perdersi.

La seconda minaccia è l’espansione della frontiera agricola (con la soia in prima fila) e dell’allevamento bovino in un territorio inadatto a queste attività. La capacità organica dell’Amazzonia è molto più bassa rispetto ad altri territori. Tuttavia, essendo considerata uno spazio disponibile (a dispetto di eventuali territori indigeni), il disboscamento è incessante (siamo ormai al 25% del totale) e questo sta mettendo a rischio tutto il sistema, in primis quello del ciclo dell’acqua».

Distruggere l’ambiente amazzonico significa implicitamente distruggere coloro che lo abitano.

«La terza minaccia riguarda infatti la sopravvivenza stessa dei popoli amazzonici. I più minacciati sono quelli in isolamento volontario (popoli non contattati). Sarebbero 140 nel mondo, 130 di essi nella Panamazzonia e 110-120 nella sola Amazzonia del Brasile. È una sfida enorme. Come salvare queste sorelle e fratelli che vivono in modo completamente distinto da quello occidentale? I popoli indigeni hanno tutto il diritto di entrare, qualora lo vogliano, nelle dinamiche del nostro mondo, ma debbono anche avere la possibilità di preservare il proprio territorio e la propria cultura.

In questo hanno fallito i governi – di destra e di sinistra – che sono andati contro le proprie costituzioni e accordi internazionali sottoscritti».

Qual è la situazione attuale nei paesi amazzonici?

«In tutti i nove paesi abbiamo situazioni problematiche. Il Brasile – sia con Temer che con Dilma – certamente ha fatto passi indietro rispetto al passato. Per esempio, rispetto alla demarcazione delle terre indigene. Il modello neoliberale e accaparratore sta dominando le decisioni politiche brasiliane. Anche in Bolivia, dove si parlava dei diritti della madre terra, si è fatta marcia indietro come nel caso del Tipnis. Qui si è tolta la intangibilità e una strada taglierà in due la riserva. Pare per favorire gli interessi dei produttori di coca con i quali il governo ha una relazione molto diretta. Infatti, il tracciato della strada non favorisce le comunità, ma segue proprio il percorso della coca.

Anche in Ecuador abbiamo fatto tanti bei discorsi, ma oggi – con il paese dipendente dal petrolio – si sta parlando sempre e soltanto di permettere l’esplorazione petrolifera in zone intangibili, naturali, ancestrali. Quando è uscito il primo barile di petrolio dal parco Yasuní hanno festeggiato. Dicono che ci siano standard elevatissimi per la sicurezza, ma sappiamo tutti che non esiste un impatto ambientale nullo.

Nel Perú ci sono continue perdite di petrolio nei territori delle comunità indigene. I popoli Awajún e Wampis sono stati criminalizzati per avere richiesto la consultazione preventiva, anche se essa è un diritto riconosciuto come costituzionale. E poi c’è la terribile situazione di Madre de Dios (vedere MC, giugno 2012).

In Colombia, come in Perú e in Brasile, c’è molta attività mineraria illegale che usa metalli pesanti che contaminano i fiumi. Già ci sono casi di popolazioni indigene malate a causa del pesce contaminato da mercurio. La condizione di postconflitto ha inoltre determinato dinamiche nuove e una situazione paradossale. Riserve naturali che ricadevano nei territori in mano alla guerriglia erano rimaste integre, ora sono esplorate e date in concessione anche per finanziare il processo di pace e dare alternative agli ex guerriglieri.

In Venezuela, c’è la questione legata al cosiddetto arco minero del fiume Orinoco (negli stati Bolivar, Amazonas e Delta Amacuro, ndr). Qui c’è il più grande progetto di estrazione mineraria del paese, proprio in un luogo di alta biodiversità e di presenza indigena. L’impatto sarà molto grave, come dimostrano varie ricerche. Infine, anche nei paesi amazzonici più piccoli – Guyana, Suriname e Guyana francese – ci sono gravi problemi a causa delle miniere. Insomma, il modello estrattivista si sta approfondendo praticamente ovunque».

I governi dei paesi amazzonici sostengono che non ci sia un’alternativa all’estrattivismo.

«Ma neppure si sforzano di trovare strade alternative. Questo modello ha generato un grande debito con le popolazioni originarie e soprattutto il costo della distruzione dell’Amazzonia è assai maggiore dei benefici e mette a rischio il futuro delle prossime generazioni».

Cos’è la «Red eclesial panamazónica»?

«La Repam è uno sforzo di articolazione di distinte istanze della Chiesa cattolica nel gran territorio amazzonico. Anche se è stata fondata soltanto tre anni fa, essa è il risultato di decenni, per non dire secoli, di presenza sul territorio. Una presenza che ha avuto matrici positive ma anche negative. Come dice papa Francesco, dobbiamo iniziare chiedendo perdono per gli errori storici, i peccati e i crimini commessi nel processo di colonizzazione. Oggi però esiste anche una Chiesa profetica con uomini che hanno dato la propria vita per l’Amazzonia. Approfittando della sua presenza capillare su tutto il territorio, la Repam si è posta al servizio della realtà amazzonica e dei suoi problemi».

In quanto «rete», quali modalità di comunicazione privilegiate?

«Come Repam abbiamo relazioni con varie istituzioni del territorio, tra cui anche quelle che si occupano di comunicazione. O meglio di comunicazione per la trasformazione. Come l’Asociación Latinoamericana de Educación Radiofónica (Aler) o Radialistas Apasionadas y Apasionados».

Con Radialistas (vedere MC, aprile 2016) avete collaborato per un lavoro sulla Laudato Si’.

«Vero. Con José Ignacio López Vigil e i suoi collaboratori abbiamo pensato come far arrivare la Laudato Si’, una delle encicliche più potenti in tema ambientale, al cuore della gente e delle comunità. L’enciclica è scritta in un linguaggio diverso, ma rimane anche un’impronta teologica, scientifica e politica. Il nostro obiettivo era di abbassare il tono per renderla comprensibile alle persone semplici. Per questo abbiamo creato una serie radiofonica di 20 puntate in cui San Francesco d’Assisi ritorna sulla terra e scopre i disastri prodotti dall’uomo. Sfruttando la sua abilità nel parlare con tutti, lo facciamo dialogare con il fratello petrolio, con la sorella soia transgenica, con il fratello mais e via dicendo, percorrendo tutta l’America Latina per far intendere l’impatto del cambio climatico e la gravità della situazione».

Mauricio, come avete accolto l’annuncio del Sinodo panamazzonico dell’ottobre 2019?

«Come una grande opportunità. Il nostro slogan è “amazonizar el mundo” (amazzonizzare il mondo). Che significa rendere cosciente il mondo intero dell’importanza vitale di questo territorio unico. Bellissimo, fragile e profondamente minacciato».

Paolo Moiola


Siti

• il sito della diocesi di Huancayo: www.arzobispadodehuancayo.org
• il sito dell’«Observatorio de Conflictos Mineros en el Perú»: http://conflictosmineros.org.pe/
• il sito della «Rede eclesial panamazónica» (Repam): http://redamazonica.org/