Ai confini del mondo (At 27-28)

testo di Angelo Fracchia |


Siamo al termine della grande opera di Luca, quella che, partendo dalla vita di Gesù (il Vangelo), è sfociata poi nel racconto della vita iniziale della Chiesa. Dal capitolo 16 la narrazione è concentrata sulla sorte di Paolo di Tarso che, alla fine del capitolo 26, troviamo a Cesarea Marittima, prigioniero del procuratore Festo, il quale lo avrebbe già liberato come innocente, se l’incarcerato non si fosse appellato al tribunale di Cesare (26,32).

Luca ci racconterà come è andata a finire? Non ancora perché ha in serbo altre sorprese per noi.

L’ultimo viaggio (At 27)

La prima sorpresa è un avvincente ed emozionante racconto di viaggio. I «racconti di viaggi» erano un genere letterario popolare a quei tempi. Per apprezzarlo anche noi conviene però che ci facciamo qualche idea su come si viaggiava nell’antichità.

Dovunque i romani giungessero, ampliando il proprio impero, si preoccupavano tra le altre cose di garantire delle comunicazioni efficienti, sia costruendo strade lastricate, che potevano cioè essere percorse anche con il brutto tempo, sia garantendo che i mari restassero liberi e sicuri. Era infatti il mare la via di comunicazione preferita. Le strade lastricate erano ottime per lo spostamento di truppe, comunicazioni leggere e veloci a cavallo, e movimenti di persone e merci tra le varie città, anche d’inverno. Ma su quelle strade ci si spostava per lo più a piedi o su carri trainati da animali, e si poteva trasportare relativamente poco; oltre tutto, quanto più ci si allontanava da Roma, tanto meno si trovavano strade.

Per questo le vere autostrade del tempo erano i mari. Non esistendo però il sestante per orientarsi, ed essendoci nel Mediterraneo diverse zone pericolose, si preferiva navigare sotto costa. Via mare si trasportavano soprattutto le merci più pesanti o che occupavano più spazio, come ad esempio il preziosissimo grano egizio che dava da mangiare a una capitale come Roma che sfiorava già allora il milione di abitanti. Non esisteva un servizio passeggeri, ma era sempre possibile unirsi ad altri che facevano la stessa rotta (una nave merci aveva quasi sempre posto sul ponte, e a Roma andavano in molti).

Il problema era che il Mediterraneo d’inverno diventava pericoloso, poteva essere scosso da burrasche anche improvvise. Per questo d’inverno non si navigava. Ovvio che, per amore di guadagno, qualcuno provasse ad anticipare la primavera partendo un po’ prima o a ritardare l’inverno partendo a ridosso del freddo. Questo è ciò che prova a fare la nave carica di grano su cui si è imbarcato il centurione che ha in custodia Paolo e alcuni schiavi destinati al mercato della capitale.

La baia di Mistra a Malta (china di Paul Gichui)

Un viaggio avventuroso

Una volta salpati da Creta, equipaggio e viaggiatori si rendono presto conto che non si riuscirà a procedere sulla rotta stabilita. I marinai cercano allora di spostarsi verso un porto migliore, ma incappano in una burrasca che li trascina al largo per due settimane (At 27,7-15). La paura più tremenda è quella di incagliarsi nelle Sirti, grandi banchi di sabbia vicino alla costa africana tra Cartagine e la Cirenaica (negli attuali golfi di Sidra e di Labes), a giorni di navigazione dalla terra più vicina, e di rimanervi finché le onde non abbiano sfasciato la nave.

Un Paolo affidabile

Luca presenta un Paolo che, in questa situazione, si pone come punto di riferimento: prova a orientare le scelte del centurione e del capitano della nave, a tenere alto il morale dei marinai, a confortare i compagni di viaggio. Non ci sembri un ritratto inverosimile: Paolo è prigioniero, è vero, ma è un cittadino romano, e questo lo pone in una situazione di privilegio. È poi persona abituata a viaggiare. E si mostra animato da una grande fiducia in Dio che non lo abbandonerà mai, benché a noi possa sembrare quasi magico l’intervento dell’angelo che gli assicura che nessuno di quella nave morirà.

È ancora Paolo che, al quattordicesimo giorno di deriva, quando la nave si sta avvicinando a un’isola che peraltro nessuno riconosce, invita a prendere forza mangiando. Le parole utilizzate («prese un pane, rese grazie, lo spezzò» At 27,35) potrebbero quasi ricordarci l’Eucaristia. Non è detto che Paolo l’abbia in effetti celebrata, ma Luca ci strizza l’occhio: il nutrimento di Paolo, il punto di riferimento di chi cerca salvezza resta sempre Gesù. Perché non c’è contrasto tra la salvezza cercata dagli uomini e quella offerta da Dio.

A Malta (At 28,1-10)

Paolo a Malta (china di Paul Gichui)

I viaggiatori approdano a Malta, l’isola sconosciuta che nesuno di loro pare aver mai sentito nominare. L’accoglienza è splendida, salvo che, nel raccogliere legna per far fuoco, Paolo viene morso da una vipera (28,3). Interessante, anche nella sua ingenuità, la reazione degli abitanti. Dapprima, vedendo che Paolo, scampato miracolosamente a un naufragio, viene morso da un serpente velenoso, pensano che sia una prova della sua colpevolezza: gli dèi, non essendo riusciti a ucciderlo in mare, lo giustiziano a terra. Poi, notando che Paolo non risente del morso, si persuadono al contrario che sia un essere divino, a cui niente può portare danno.

Questa volta Paolo non si ribella con decisione al travisamento della sua identità, come aveva invece fatto a Listra (14,12-15). Che non si sia accorto di ciò che si diceva di lui, impegnato com’era ad aiutare gli altri? Di certo continua a spiccare come figura guida, sereno e sicuro, attento ai suoi compagni (viene morso dalla vipera mentre raccoglie legna per scaldare tutti) e agli abitanti del luogo.

Durante i tre mesi di forzata permanenza è comunque sempre teso a fare del bene, anche con la guarigione miracolosa (28,8-9) non solo del padre del governatore, ma anche degli isolani, senza perdere l’occasione di predicare il Vangelo.

In Italia (At 28,11-28)

Alla fine, il centurione trova a Malta una nave proveniente dall’Egitto, probabilmente anch’essa carica di grano: il suo capitano doveva aver provato a sua volta a raggiungere Roma prima della brutta stagione, riuscendo a portarsi solo poco più avanti ma salvando il carico.

Partono e sbarcano a Siracusa. Da lì, Luca ci racconta il viaggio a piedi verso Roma. L’autore degli Atti pare che abbia fatto il viaggio insieme a Paolo fin da Cesarea Marittima, e ci offre tutti i dettagli sulle tappe affrontate, e sulle comunità incontrate, che ovviamente gli interessano di più.

Ancora una volta, è interessante ciò che l’autore dice, ma anche ciò che tace. I cristiani non sono solo a Roma, ma già anche a Pozzuoli (28,13-14). Quelli di Roma vengono incontro a Paolo «fino al Foro di Appio e alle Tre Taverne» (28,15), il che ci permette di fare almeno due deduzioni. Intanto, Paolo è famoso, al punto che si organizza per lui un comitato d’accoglienza, anzi due. Proprio questo particolare, però, ci suggerisce che forse anche la comunità di Roma non è compatta e unita. Il Foro di Appio era il punto in cui un canale navigabile proveniente da Terracina si congiungeva con la via Appia, così da farne uno snodo importante a circa 60 chilometri da Roma (su una bella strada lastricata, ma comunque a quasi due giorni di viaggio per chi avesse a disposizione dei carri trainati da animali o fosse particolarmente forte e veloce nel camminare). Ma le Tre Taverne, anche se non siamo sicurissimi sulla loro posizione precisa, si trovavano sulla stessa via Appia a una quindicina di chilometri da Roma. Qualche ritardatario, oppure le comunità cristiane romane non erano riuscite a mettersi d’accordo?

Teoricamente queste comunità dovevano aver già ascoltato la lettera di Paolo ai Romani, ma paiono non sapere niente dell’opposizione contro di lui che si era diffusa a partire da Gerusalemme (28,21). Può stupirci, ma c’è da ammettere che le pretese del sinedrio di governare su tutto il mondo ebraico (i cristiani di origine ebraica si consideravano ancora ebrei), non sono messe facilmente in pratica. Peraltro, questi ebrei sanno che sul movimento dei cristiani c’è parecchia discussione (28,22).

Tale discussione si rinnova ancora intorno a Paolo, in grado di incontrare persone, dibattere, evangelizzare, argomentare e suscitare almeno domande e dubbi nei suoi interlocutori (28,23-24). Di nuovo, non stupiamoci per la libertà di movimento di un prigioniero indagato come Paolo: è in catene, è vero, e infatti un soldato è sempre con lui, ma è un cittadino romano, quindi trattato comunque con i guanti (anche se a Roma nella sua condizione si trovano in tanti, molti di più che in Oriente), e in ogni caso con dei capi di imputazione evidentemente alleggeriti dalle testimonianze dei procuratori.

Una conclusione aperta (At 28,30-31)

Decapitazione di Paolo (china di Paul Gichui)

Abbiamo già detto che a volte Luca sembra uno sceneggiatore per il cinema. Ma a Hollywood avrebbero di certo pensato a un lieto fine in cui Paolo venisse liberato, magari dopo aver parlato del Vangelo davanti all’imperatore. E invece gli Atti degli Apostoli qui ci offrono la seconda grande sorpresa di questi ultimi capitoli: la narrazione finisce con l’annotazione che Paolo poteva incontrare chi voleva e annunciava il regno di Dio, ma nulla si dice su come sia andato a finire il processo. Non solo manca il lieto fine, ma sembra che manchi la fine. Perché mai?

Oggi c’è chi fa notare che due anni (28,30) erano il tempo massimo di durata legale di un procedimento giudiziario. Peraltro, in tribunale si dava la precedenza ai processi più importanti, o che avevano alle spalle pressioni più potenti. Evidentemente il caso di Paolo non è stato ritenuto pericoloso per Roma, e nella capitale le pressioni del sinedrio non riescivano a farsi sentire. Può anche darsi che, finiti i due anni, Paolo sia stato semplicemente scarcerato, senza che il processo abbia avuto luogo. Che cosa abbia fatto dopo, Luca preferisce non dircelo.

C’è chi sostiene invece che proprio il silenzio di Luca suggerisca che il processo, per un motivo o per l’altro, sia andato a finire male, con la condanna a morte di Paolo. La tradizione romana vuole che l’apostolo sia in effetti morto martire alle Tre Fontane oppure lungo la via Ostiense. Già in questa occasione o più tardi? Non lo sappiamo. Ma si potrebbe ritenere che l’autore degli Atti non volesse finire la sua opera con quello che, umanamente, era un fallimento. Altri ribattono che come il martirio di Stefano non è presentato di sfuggita né tantomeno come un insuccesso, così la stessa glorificazione si sarebbe potuta narrare per Paolo.

Se ci teniamo però a quello che è scritto, dobbiamo ammettere che la conclusione ha delle somiglianze con quella del Vangelo di Marco (la conclusione originaria, in Mc 16,8), che Luca sicuramente conosceva, in quanto ne aveva usato diverse pagine per il proprio Vangelo. Quel Vangelo finisce con le donne che vanno via dalla tomba vuota senza dir niente a nessuno, perché avevano paura. Si ammette oggi che l’intenzione dell’evangelista doveva essere proprio di tenere aperta la porta ai lettori, perché si mettessero in gioco, si facessero domande e completassero l’opera delle donne.

Luca, alla fine degli Atti, ci dice solo che Paolo continuava a evangelizzare, senza ostacoli e senza paura. Sappiamo così che il Vangelo viene annunciato a Roma, centro del mondo, capitale di un impero che si poteva ritenere universale ed eterno. E allora Luca ci porta di nuovo al centro del discorso. È vero: negli ultimi quindici capitoli ha parlato quasi solo di Paolo, che per noi lettori è diventato il protagonista e il centro dell’attenzione. Ma Luca, lasciando aperto il racconto delle sue vicende, ci ricorda, quasi di colpo, che il protagonista non è l’apostolo. Il vero attore di quest’opera è lo Spirito che muove l’annuncio. Ed entrambi sono liberi di agire, persino nella capitale, in quella Roma che poteva essere considerata il centro del mondo, del potere, del male.

Paolo è in catene, ma il Vangelo è libero. E allora, ci suggerisce Luca, non c’è bisogno di aggiungere altro, perché tutto l’essenziale è stato detto. Possiamo scrivere la parola «Fine».

Angelo Fracchia
(20-fine)




Paolo il romano (At 22,22-26,32)

Testo di Angelo Fracchia |


Ogni scrittore vuole intrattenerci ma soprattutto comunicarci qualcosa. Un saggista lo farà con argomenti, un romanziere, se è bravo, lo farà con suggestioni.

Luca è un bravo scrittore. Solo che nel Vangelo e nei primi due capitoli degli Atti aveva tenuto quasi sempre un po’ imbrigliato il suo genio, rinchiudendosi in formule e in uno stile narrativo che alle orecchie dei lettori non poteva che ricordare il mondo ebraico. Aveva infatti copiato lo stile con cui era stata tradotta in greco la Bibbia. Dal terzo capitolo degli Atti in poi, però, la sua lingua ha iniziato a essere più elegante, raffinata, e il racconto a farsi più articolato, avvincente. Più greco. Poco alla volta, Gerusalemme, che era diventata centrale alla fine del Vangelo e lo era rimasta all’inizio degli Atti, è diventata sempre più marginale, è stata citata sempre meno.

Luca, infatti, voleva comunicarci soprattutto due idee, peraltro collegate tra loro: che il movimento cristiano si era aperto ai non ebrei su stimolo dello Spirito Santo (e non per invenzione di Paolo), e che, pur nascendo da un mondo biblico che non avrebbe mai rinnegato, era però slanciato per raggiungere i confini del mondo (Lc 24,47; At 7,8). La prima parte della tesi Luca l’ha chiarita nei primi 14 capitoli degli Atti. Dal capitolo 15 in poi, quello che sembrava semplicemente una conseguenza (l’annuncio di Paolo ai non ebrei), ha preso sempre più il centro della scena. E ormai, al capitolo 22, è chiaro che Paolo resterà il protagonista fino alla fine.

 

Colpo di scena (At 22,22-30)

Siccome Luca sa scrivere bene, e ha una cultura greco latina che ci assomiglia più di quanto ci assomigli quella semita, alcuni dei suoi «allestimenti scenici» non sfigurerebbero nel nostro stile narrativo cinematografico.

Avevamo lasciato Paolo nel tempio, accusato ingiustamente di blasfemia e salvato dalla guarnigione romana, il cui centurione aveva già deciso di trattarlo come un qualunque agitatore di popolo, interrogandolo sotto tortura per sapere che cosa avesse combinato (At 22,24). La flagellazione era pena pesante, ma usata normalmente negli interrogatori dei potenziali «terroristi». Paolo ha però un asso nella manica. A sorpresa, svela di essere cittadino romano.

Durante il primo secolo d.C., la cittadinanza romana era appannaggio non solo degli italici (dall’89 a.C.) ma anche degli abitanti di alcune città privilegiate, di chi aveva prestato per vent’anni il servizio militare, o aveva aiutato lo stato romano in qualche modo. La cittadinanza, ereditaria, permetteva di essere trattati molto meglio di altri. La flagellazione, ad esempio, come la crocifissione, era una punizione che non si poteva infliggere a cittadini romani. E chi avesse imposto una punizione ingiusta, avrebbe subito la medesima punizione.

Si capisce, quindi, la paura del centurione e del comandante, quando Paolo svela di essere cittadino romano, e fin dalla nascita (22,25-28).

Paolo, d’un tratto, guadagna importanza e attenzione, che spiegano i privilegi di questo prigioniero speciale.

Il colpo di scena cambia anche la nostra attenzione su Paolo. Lo avevamo conosciuto ebreo persecutore di cristiani (8,1), abbiamo assistito alla trasformazione del suo nome (13,7: «Saulo, detto anche Paolo»), ora scopriamo che quel nome latino non era un soprannome casuale. Senza accorgercene, voltiamo le spalle a Gerusalemme e guardiamo al Tevere.

Cesarea Marittima. Resti della zono commerciale e amministrativa del periodo romano e bizantino, con iscrizioni in mosaico.

Drammatica sfida giudiziaria (At 23,1-11)

Ciò che Luca racconta sulla vicenda di Paolo suona a volte imprevisto ma sempre verosimile. La prima mossa di un comandante romano di fronte a un possibile agitatore politico, in effetti, sarebbe stata di interrogarlo (con tortura, era normale). Paolo si svela cittadino romano, e questo complica il quadro, anche perché le accuse sono di tipo religioso. Tendenzialmente i romani si disinteressavano di religione, a meno che avesse ricadute politiche. Ma per capire se in questo caso ce ne sono, devono sentire i capi del tempio. Ed è ciò che il comandante fa: interroga Paolo (senza tortura, il prigioniero è speciale) davanti al sinedrio.

E qui Paolo compie un gesto di rottura che, prima di lui, con la stessa gravità, era stato osato soltanto da Stefano con il suo discorso contro il tempio (At 7). Rimprovera infatti il sommo sacerdote (23,2-3), scusandosi per il fatto di non sapere chi sia (sarcasmo aggravante). Paolo infatti ammette che secondo la legge non bisogna insultare il capo del popolo (23,5), ma è chiaro che in questo contesto a guidare il popolo è Anania, anche qualora Paolo non lo conosca (il che pare improbabile). Questa risposta che sembra di scuse, in verità, sottintende che Paolo non riconoce Anania come guida, rompendo quindi nettamente con quella tradizione giudaica con cui fino al giorno prima Paolo sembrava voler scendere a patti. Ormai l’apostolo è difeso dai soldati romani, e, dopo aver tentato per anni di accordarsi con l’autorità religiosa ebraica, se ne distacca.

Complotti e fuga (At 23,12-33)

La reazione ebraica, cioè il complotto per uccidere a tradimento Paolo, ci può sembrare eccessiva, ma probabilmente non lo è. Un uomo di grande carisma, con un’ottima preparazione teologica, ha appena contestato in modo radicale l’autorità del sinedrio. Dal punto di vista ebraico, merita la morte, ma sono i romani a detenerlo, e il sinedrio non può quindi fare niente, se non cercare di ucciderlo a tradimento durante un trasferimento. Se morissero anche dei romani, dimostrandosi tra l’altro inaffidabili, tanto meglio.

A questo punto Luca inserisce un altro colpo di scena. Scopriamo infatti che Paolo a Gerusalemme ha una sorella, il cui figlio viene a sapere della congiura. Non è raro che Luca inserisca le informazioni solo quando servono. I bravi narratori riescono a farlo senza che sembri una forzatura (i narratori meno abili ci offrono tutte le informazioni all’inizio, e quando servono non ce le ricordiamo più). È sicuramente a motivo della cittadinanza romana che Paolo può ricevere in carcere dei familiari, mandarli dal centurione ed essere immediatamente trasferito a Cesarea Marittima, insieme a metà della forza armata disponibile ai romani. Il comandante ha capito che per questo personaggio il sinedrio è disposto a rischiare, ma non ha ancora capito perché, e quindi decide di proteggerlo. Inoltre, i soldati inviati a Cesarea possono essere di ritorno in due giorni.

A margine e implicitamente, Luca può suggerirci un sorriso e una lacrima. Quaranta ebrei giurano di non mangiare né bere finché non avranno ucciso Paolo… che però a sorpresa è fornito di una scorta insuperabile: non si saranno per caso condannati a morire per non aver saputo infliggere una morte? L’altra annotazione è un silenzio abbastanza sorprendente. Paolo gode di condizioni di detenzione evidentemente morbide, eppure non si dice mai che sia visitato da qualche fratello cristiano, come invece accadrà a Roma (At 28,30-31). Luca non calca la mano sulle mancanze dei credenti, ma è pronto a lasciarle intuire. Offre il quadro ideale di una chiesa, ma sa bene che imperfezioni e difetti restano sempre presenti. Sembra quasi dire anche a noi di puntare a una chiesa perfetta, ma senza pretenderla: neppure quella degli apostoli lo era!

A corte a Cesarea (At 23,34-24,27)

Non stupisca che si parli di corte. Certo, i governatori romani non erano re, rendevano conto all’imperatore e potevano essere deposti da un momento all’altro. Ma intanto, vivevano una vita quotidiana non molto diversa da quella di un re orientale, come Luca ci fa intuire tratteggiando i vari personaggi in tinte coerenti con ciò che ne dicono gli scrittori antichi.

Si parte dal governatore Felice, che abbozza non tanto un processo, quanto un’audizione informale per capire se avviare un procedimento vero e proprio. Ad accusare Paolo arriva un tale Tertullo (il nome è latino: cosa si diceva sull’intento di far dimenticare Gerusalemme?), apparentemente avvocato di mestiere, che inizia lodando Felice, per poi tentare un’accusa abbastanza mal concepita; la replica di Paolo procede liscia finché il suo discorso, da storico e filosofico, arriva a chiedere impegno da parte di chi ascolta (24,25). A quel punto Felice lo ferma. È un governatore che anche le altre fonti antiche ritengono inaffidabile: infatti, secondo Luca, il processo a Paolo non viene avviato né l’apostolo viene liberato perché Felice spera in qualche mazzetta per lasciarlo andare (24,26). Sappiamo che al termine del suo mandato, verrà poi chiamato a Roma per spiegare diversi difetti della sua gestione, ma alcuni giudei intercederanno per lui e non verrà punito. Forse l’annotazione perfida di Luca (24,27) non è campata in aria.

Cesarea Marittima.
Promontorio con colonne del palazzo inferiore, risalente al periodo romano

L’ultimo re giudeo (25-26)

A Felice succede il nuovo governatore, Festo, il quale cerca innanzi tutto di sciogliere i casi che si sono accumulati, e per questo ascolta Paolo. Evidentemente non trova nessun fondamento per le accuse politiche (altrimenti i romani non avrebbero avuto scrupoli a punirlo) e, sentendo che le dispute sono religiose, vorrebbe rimandarlo a Gerusalemme (25,9), anche come gesto di lusinga nei confronti degli ebrei che è appena arrivato a gestire. Di fronte al pericolo del viaggio e di un nuovo processo a Gerusalemme, Paolo taglia definitivamente i ponti e si appella al tribunale di Cesare. È un privilegio degli ebrei, quello di poter essere giudicati da tribunali ebrei, ma per Paolo sarebbe un rischio; i cittadini romani, a loro volta, possono in ogni momento appellarsi a Cesare, così da essere processati a Roma, dove i giochi di potere delle province non contano nulla. Non ci si può ritirare da un appello del genere: i romani sono particolarmente severi nei confronti di chi muove accuse e poi le lascia cadere. A Roma, quindi, Paolo andrà.

Non prima, però, di incontrare Agrippa e Berenice. Erode Agrippa II è un nipote di Erode il Grande, cresciuto a Roma e tenuto dai romani in un’alta considerazione che pare si sia abbondantemente meritata. C’è chi dice che se non fosse nato troppo tardi avrebbe potuto riprendere in mano lui la provincia di Giudea, evitando la rivolta del 66. Luca ce ne offre un ritratto altrettanto lusinghiero (26,3, ad esempio). Benché anche lui abbia sposato sua sorella, dopo che lei era già stata moglie di un altro (e più tardi avrebbe avuto un terzo marito), e sebbene il loro arrivo (25,23) ricordi per sfarzo e contesto il banchetto nel quale si decise la sorte di Giovanni Battista (Mc 6,21-22), Agrippa e Berenice ascoltano con attenzione l’ultima delle grandi autodifese di Paolo. Se Festo, digiuno di cose ebraiche, alla fine del discorso esplode in un «Sei pazzo, Paolo: la troppa scienza ti ha dato al cervello!» (At 26,24), Agrippa non si espone, come si conviene a un politico, ed è molto più rispettoso. Paolo, in realtà, tenta di coinvolgerlo con una domanda volta a fargli prendere posizione, dal momento che Agrippa conosce bene i profeti e può valutare la bontà del suo discorso (26,25-27). La risposta del re è una battuta diplomatica: «Ancora un poco e mi convinci a diventare cristiano!» (anche se l’interpretazione di questa frase abbastanza difficile potrebbe essere un po’ diversa). Così dicendo però ammette implicitamente che il discorso di Paolo ha senso, coerenza e correttezza.

E l’ultima parola registrata negli Atti da parte di un governante in Palestina è chiara: «Quest’uomo poteva essere rimesso in libertà, se non si fosse appellato a Cesare» (26,32). Con una narrazione avvincente e facilmente leggibile, Luca ribadisce che Paolo non è colpevole, e chiarisce che ormai la prossima tappa sarà Roma.

Angelo Fracchia
(19-continua)




Verso la fine (At 20,1-22,21)

testo di Angelo Fracchia |


Luca, negli Atti degli Apostoli, ci ha portati a scoprire che cosa è accaduto nei primi tempi della Chiesa, ma ci ha indicato anche che cosa, dentro quel cammino, era da preferire, e soprattutto ci ha indicato che la guida di quei passi era lo Spirito Santo.

Luca ha poi progressivamente messo al centro della scena Saulo di Tarso, un fariseo che, dopo aver perseguitato i cristiani, era diventato uno di loro e, più tardi, aveva iniziato a farsi chiamare Paolo, insistendo per aprire la porta della Chiesa ai non ebrei.

Ci sono state persecuzioni e intoppi, ma dentro a un cammino globale di crescita.

Da lettori potremmo esserci anche dimenticati che il progetto di testimoniare Gesù fino ai confini della terra (At 1,8) non è ancora realizzato. Ma ci aspetteremmo di essere condotti verso un lieto fine. E invece Luca ha ancora sorprese in serbo.

Non ce lo aveva detto

Il percorso della Chiesa dei primi decenni non è stato trionfale. Certo, un lettore distratto potrebbe vedervi soltanto successi, ma Luca ha lasciato intuire che, nonostante le persecuzioni risolte con liberazioni inattese (At 5,17-40), ci sono anche state vittime (Stefano: At 7,57-60; Giacomo: At 12,2) e profughi (At 8,1). Lo stesso lettore potrebbe vantarsi della condivisione di tutti i beni (At 4,32-35), ma non tutti la rispettavano (At 5,1-10), e alcuni cristiani venivano discriminati persino da altri credenti (At 6,1). In quanto a Paolo, egli è il grande campione dell’annuncio ai non ebrei, ma oltre alle molte persecuzioni da parte di giudei, ha dovuto anche affrontare tensioni importanti all’interno della comunità (At 15,1-2). Su queste ultime, peraltro, Luca glissa.

Nel punto in cui racconta del ritorno di Paolo dal terzo viaggio, però, Luca fa intuire che sta per accadere qualcosa di pesante. Senza le lettere di Paolo, forse non capiremmo fino in fondo che cosa è davvero successo, ma grazie soprattutto alla lettera ai Galati (in particolare Gal 1,6-8; 5,1-14), riusciamo a ricostruire un quadro meno ideale di quello che Luca ci mostra.

 

La questione dei «Gentili»

In ogni grande società esistono inevitabilmente più anime, che a volte faticano a dialogare e ad andare al nucleo che le ha fondate. È capitato persino nella prima comunità cristiana. Il mondo in cui il cristianesimo è nato, separava nettamente gli ebrei dai «gentili», ossia da tutti gli altri, «le genti». Gli ebrei si distinguevano per il rispetto della legge di Mosè, sintetizzata simbolicamente nella circoncisione.

Una delle prime scelte di fondo che i cristiani si sono trovati a dover prendere, ha proprio riguardato la sorte dei non ebrei: potevano essere inseriti nella comunità cristiana? E a che condizioni? Solo dopo essersi fatti circoncidere?

È il problema affrontato da Luca in Atti 15, quando racconta la decisione presa a Gerusalemme di ammettere nella comunità anche i non circoncisi; salvo che, a quanto pare, quella soluzione non aveva accontentato tutti. E alcuni avevano iniziato a tallonare Paolo nei suoi viaggi apostolici, quasi a correggerne le scelte, spiegando che Gesù era un ebreo, e che per vivere come Gesù bisognava diventare ebrei, rispettando tutta la legge di Mosè.

Paolo aveva intuito che se la decisione divina, accolta dall’uomo, non fosse stata sufficiente in mancanza di un gesto esteriore (come la circoncisione), allora nulla sarebbe mai bastato. Per dirlo con le parole di Paolo, la circoncisione è inutile (Gal 5,2), altrimenti Cristo è morto invano e la sua esistenza è inefficace (Gal 2,21). È chiaro che non si è trattato di piccole dispute di regolamento interno.

Ma è chiaro anche che gli avversari di Paolo non hanno lasciato perdere, e hanno iniziato a denigrarlo, affermando che volesse abbattere la legge di Mosè (At 21,20).

La colletta

Forse per questo Paolo (e qui siamo al punto dove ci siamo lasciati lo scorso numero) torna a Gerusalemme portando una imponente elemosina per i poveri (cristiani) di quella città. Luca, in realtà, ci ha parlato della colletta già prima (At 11,29-30), ma sembra un modo per confonderci. Una delegazione imponente come quella che parte per Gerusalemme (At 20,4: sette persone elencate, più Paolo e probabilmente Luca, che si include nel viaggio dal versetto 5), era costosa, e aveva senso se si doveva portare qualcosa di pesante, come una grande somma di monete, dal momento che gli assegni e i bonifici bancari non esistevano. Più persone garantivano una migliore protezione della somma e solo una somma importante poteva giustificare (e mantenere) una delegazione così numerosa.

Una prova

Luca, peraltro, spiega che a Gerusalemme chiedono a Paolo di finanziare il rito di scioglimento di un voto per quattro persone (At 21,21-24), per (di)mostrarsi un buon ebreo. Perché Luca ci racconta la vicenda in questi termini?

Un buon narratore ha come obiettivo di far capire ai lettori gli avvenimenti e di muovere alle emozioni che ritiene giuste, non necessariamente di riferire solo i particolari storici precisi. Oggi ci è chiaro che non tutte le parabole riportate nei Vangeli sono state dette originariamente da Gesù: se però ci aiutano a capire meglio quello che Gesù diceva, non importa che, materialmente, siano «invenzione» degli evangelisti. Anche un romanzo storico scritto bene può non essere accurato in tutti i particolari, ma farci intuire un contesto e delle vicende storiche persino meglio di opere più precise.

Luca vuole presentarci il quadro ideale di una Chiesa senza tensioni, se non magari occasionali (perché non può certo negarle tutte). Ma se dicesse esplicitamente che Paolo aveva coordinato una colletta così grande, quindi gestita durante lunghi mesi, farebbe intuire che le tensioni andavano avanti da tanto tempo, il che è storicamente molto probabile, rischiando di spaventare o scoraggiare i credenti.

Meglio allora parlare della colletta collocandola in un altro momento della storia e poi inserire Paolo nel rito tradizionale del voto, anche se, in realtà, vi era stato coinvolto per caso solo all’ultimo momento.

Luca, però, sa bene che la situazione è pericolosa e ce lo fa capire chiaramente quando riferisce gli ammonimenti di discepoli e profeti che predicano per Paolo un tempo difficile (At 20,23; 21,4.10-13), e scrivendo uno dei brani più toccanti degli Atti degli Apostoli.

Agli anziani di Efeso (At 20,17-38)

A Efeso, Paolo aveva lavorato per almeno due anni (At 19,10), ma forse di più. Passando per Mileto, diretto a Gerusalemme, l’apostolo convoca gli «anziani» di Efeso, città distante circa 80 km. Sono due particolari curiosi, difficili da inventare. Paolo – nelle sue lettere – non chiama mai «anziani» i responsabili delle sue comunità (è un modo molto ebraico di esprimersi); viene da pensare che, in fondo, anche le sue chiese avessero un consiglio di persone più sagge ed esperte che fungeva da organo di dirigenza, come sarebbe accaduto in seguito e altrove, e come quindi poteva già essere vero anche al tempo di Paolo. Lui convoca solo costoro e li fa venire a Mileto. Evidentemente la nave di Paolo non faceva scalo a Efeso, o forse (o in più) lui temeva che fermarsi in quella città, dove aveva così tante conoscenze, lo avrebbe fatto tardare troppo. Meglio incontrarsi in un luogo neutro.

A questi anziani Paolo rivolge un vero e proprio discorso d’addio, incentrato soprattutto su tre temi.

 Intanto, rivendica di aver predicato Gesù in modo trasparente e generoso. È il punto di partenza essenziale e cruciale. Non si mette a fare l’elenco delle proprie imprese o di ciò che ha patito (come fa invece in 2 Cor 11,22-29), ma si concentra sull’essenziale.

 Poi, ribadisce di averlo fatto gratuitamente, senza farsi mantenere, senza chiedere nulla. Anche l’evangelizzazione, allora, diventa più chiaramente un dono generoso fatto ad altri, un «soccorrere i deboli» (At 20,33-35).

 In mezzo, avvisa che sarebbero arrivate persone (chiamate «lupi rapaci») che avrebbero provato a inquinare l’annuncio del vangelo. Non sarebbero stati, evidentemente, degli estranei, ma dei cristiani. Luca si mostra ancora una volta consapevole che nella chiesa non tutto è bello e buono. Ma le parole di Paolo sono edificanti: di fronte ai «lupi rapaci», c’è semplicemente da stare in guardia, continuando a vivere generosamente per gli altri, perché «si è più beati nel dare che nel ricevere» (At 20,35). Paolo, qui, non invoca maledizioni o punizioni sugli avversari (come fa invece in Gal 5,12), ma affida semplicemente i credenti allo Spirito.

Per chi vuole capire, Luca, a partire dall’esperienza di Paolo, ci ricorda che fallimenti e persecuzioni ci saranno, nell’esperienza dei cristiani, e che potrebbero partire addirittura da dentro. Ma l’unico modo cristiano di reagire è quello di Gesù, ossia confidando nell’opera di Dio e cancellando in sé qualunque desiderio di vendetta. Dio non abbandonerà i suoi, nonostante il quadro non sia senza nubi fosche.

Incompreso

Paolo, quindi, arriva a Gerusalemme. Luca non può nascondere che l’accoglienza degli altri credenti è piuttosto fredda (At 21,20-25). La comunità consiglia a Paolo di mostrarsi osservante della legge per non irritare i fratelli povenienti dal giudaismo, e lo invitano a pagare le spese per lo scioglimento del voto di nazireato di quattro uomini. Il voto consisteva nel non tagliarsi i capelli per un certo tempo per offrirli poi al tempio insieme a un sacrificio. C’erano persone di buona volontà (e portafogli) che pagavano ad altri le spese per questo rito, schierandosi in qualche modo a fianco di chi lo aveva celebrato. Si tratta di una consuetudine antica, molto «ebraica», più tipica degli ambienti tradizionalisti. Paolo si adegua. Evidentemente il suo scopo non è quello di cancellare la tradizione ebraica, ma di contestarla solo quando mettesse in questione la centralità di Gesù. Se si salva l’essenziale, che Gesù è l’unico mediatore per la nostra comunione con Dio, il resto si può accettare.

Una parola per oggi

Ancora una volta, quasi senza averne l’aria, Luca ci offre criteri per vivere la dimensione ecclesiale della fede ancora oggi. Siamo anche noi, infatti, a non sapere ancora bene dove mettere i confini di ciò che «non si può accettare», e continuiamo ad accusarci reciprocamente di essere tradizionalisti o modernisti. Negli Atti degli apostoli non troviamo un’indicazione precisa di ciò che dobbiamo fare o evitare, ma un criterio di fondo: la salvezza, ossia la comunione con Dio, passa da Gesù. Questo è indiscutibile, e siccome ci sono pratiche religiose che implicitamente lo contestano, tali pratiche sono da evitare. Ma su tutto il resto, «mi sono fatto tutto a tutti, per salvare a ogni costo qualcuno» (1 Cor 9,22).

Questa attenzione e questo sforzo, però, non sono una garanzia di successo. O meglio, non garantiscono il successo se lo misuriamo con i nostri criteri consueti, di vittorie, conquiste e numeri consolanti.

Da Gerusalemme a Roma

Di fatto Paolo, che ha accettato di scendere a patti con le frange più conservatrici della chiesa ebraico-cristiana, viene accusato ingiustamente di aver profanato il tempio. Come Gesù, anche Paolo viene incolpato di blasfemia sulla base di tradizioni secondarie e discutibili, proprio perché intende invece rendere a Dio la sua piena gloria.

Anche questa accusa e arresto diventano però l’occasione per ampliare la platea degli ascoltatori: stupendo l’uno e gli altri, Paolo parla in greco al centurione (At 21,37-39) e in «ebraico» (in realtà doveva essere aramaico, ma i greci del tempo di Luca, di solito, non coglievano la differenza tra le due lingue) al popolo radunato nel tempio (At 21,40). Di nuovo, Paolo si fa «tutto a tutti», condividendo una volta ancora la propria vicenda (At 22,3-21).

Il punto d’arrivo, su cui, come per Gesù, si invoca la sua morte (22,22) è l’annuncio alle nazioni lontane. Luca ci porterà fin là, anche lungo un percorso più accidentato, faticoso e tormentato di quanto non sia stato fino a questo momento.

Angelo Fracchia
(18 – continua)

Panorama di Gerusalemme vista dal Gallicantu, vista su mura e spianata del tempio (foto Benedetto Bellesi)




Paolo a Corinto ed Efeso (At 18-19)

testo di Angelo Fracchia |


Alla fine del capitolo 17 degli Atti degli Apostoli, Paolo si allontana deluso e schernito da Atene e si rifugia a Corinto, dove si fermerà per circa un anno e mezzo. Poco dopo si fermerà altri due anni a Efeso. Non erano città semplici.
Corinto, a cavallo tra due porti, era città di commercianti, di gente magari grezza ma astuta. La città evocava una vita dissoluta, costosa, dove gli ingenui venivano facilmente depredati. Efeso era la capitale di una delle regioni più ricche dell’impero, nessun tempio riceveva più offerte del suo, dedicato ad Artemide, considerata una divinità potentissima, affascinante e terribile.

In queste due città, Paolo predica per più tempo, perché lo Spirito gli garantisce che lì un popolo numeroso è chiamato a incontrare Gesù (At 18,10). Evidentemente il cristianesimo accetta le sfide impegnative.

Siccome Luca sceglie di raccontarci solo alcuni episodi sparsi di questi anni, anche noi non procediamo in ordine cronologico ma riprendiamo alcuni dei temi da lui sollevati.

Uno storico accurato

Partiamo da un aspetto che potrebbe sembrare marginale.

Luca definisce «proconsoli» sia Gallione per l’Acaia (18,12) che il governatore di Efeso. Proconsoli, non procuratori, come ci si poteva attendere (cfr. At 23,24; 26,30), e a Efeso cita correttamente gli «asiarchi» (19,31), pur avendo parlato di «politarchi» per Tessalonica (17,6: nella traduzione italiana sono «capi della città»). Questi usati da Luca, sono i titoli corretti, confermati da iscrizioni o testi antichi. L’evangelista è inoltre informato dell’editto di espulsione da Roma dei giudei (18,2), che, al di là dei proclami, aveva in realtà coinvolto ben poche persone.

Noi abbiamo in mente una realtà imperiale molto compatta e omogenea, sul modello degli imperi del xvii secolo. I romani però distinguevano, separavano, privilegiavano gli uni a detrimento dei vicini, utilizzando titoli diversi per rendere ancora più difficile l’omologazione. L’unico modo per utilizzare i titoli corretti era avere una grande cultura o una precisa conoscenza derivata dall’esperienza.

Certo, si potrebbero imputare a Luca alcuni silenzi: come è possibile che non parli (quasi) mai della chiesa di Alessandria, che meno di un secolo dopo sarebbe emersa come una delle più grandi, strutturate e colte? Già in At 6, sulla vicenda degli ellenisti e dei diaconi, aveva glissato su problemi che pure lascia intuire. Non è una critica: gli storici contemporanei di Luca erano enormemente più disinvolti nel manipolare la storia. Lui non lo fa, anche se, narrando solo qualcosa, ci presenta l’ideale. Pur lasciandoci intuire una realtà non così perfetta. Prestiamo quindi ancora più attenzione a ciò che ci racconta. Con un occhio a ciò che tace.

Aquila e Priscilla

I collaboratori

Gli Atti si muovono ormai intorno a Paolo, che però non viaggia da solo. Il cristianesimo non sopporta gli attori solisti, è sempre comunità. Paolo, quindi, è sempre circondato da altre persone: che siano collaboratori stretti (Gaio e Aristarco, di cui non sappiamo altro: 19,29; e i ben più noti Sila e Timoteo: 18,5) o supporti quasi casuali, come Tizio Giusto (18,7) e Tiranno (19,9) che ospitano a lungo Paolo, o Alessandro (19,33), che è un ebreo ma intende parlare a difesa anche dei cristiani. Oppure vere e proprie colonne, come Apollo e la coppia Aquila e Priscilla.

Questi ultimi sono ebrei di Roma, dai nomi latini, anche se grecizzati, e vengono sempre citati insieme. Marito e moglie, fabbricanti di tende, non si fanno deprimere dall’espulsione da Roma (probabilmente motivata già dalle discussioni su Gesù), ma ne approfittano per farsi evangelizzatori anche altrove. Priscilla (la «piccola Prisca», suo vero nome) sembra la vera guida di una coppia che si muove con coraggio («Essi per salvarmi la vita hanno rischiato la loro testa»: Rom 16,4) e acume. Infatti, quando ascoltano Apollo e colgono l’imperfezione della sua predicazione, non pensano di tarpargli le ali, ma gli spiegano meglio come stanno le cose e poi lo raccomandano, inviandolo là dove può fare bene, a Corinto. A volte tendiamo a rendere astratto l’amore cui sono chiamati i cristiani, ma ciò che questa coppia fa è esattamente amare il prossimo, fare il suo bene; e, insieme, anche quello della chiesa.

Apollo è un’altra figura estremamente affascinante. Ebreo dalla profonda cultura biblica ma dal nome greco e di lingua greca, viene da Alessandria d’Egitto e annuncia il vangelo con generosità, anche se con una preparazione imperfetta. A Corinto ci sarà chi vorrà contrapporlo a Paolo (cfr. 1 Cor 3,4-7), che però mostra di apprezzarlo.

A margine, possiamo addirittura fantasticare un poco. Nel canone del Nuovo Testamento è compreso un testo, la cosiddetta Lettera agli Ebrei, che è una specie di trattato teologico composto da qualcuno che conosce molto bene il greco e l’Antico Testamento. Ma lo stile dell’intera lettera non è paolino, anche se si chiude con una specie di firma autografa di Paolo (Eb 13,22-25), la cui posizione è però strana perché sembra più un’aggiunta che parte della lettera stessa, un biglietto d’accompagnamento scritto da Paolo e inserito alla fine. Alcuni ipotizzano che l’autore possa essere Apollo, ottimo retore e approfondito conoscitore della scrittura ebraica. Paolo, lungi dal sentirsi sfidato, potrebbe aver aiutato questo testo a girare nelle proprie chiese.

Formazioni incomplete

Proprio Apollo ci può servire per cogliere un altro aspetto di ciò che Luca, probabilmente, vuole insegnarci. Priscilla e Aquila lo sentono predicare, si accorgono delle lacune, gliele colmano, e poi lo raccomandano a Corinto (At 18,26-27). Paolo, all’inizio della sua missione a Efeso, trova altri fratelli che annunciano il Vangelo, senza neanche conoscere lo Spirito Santo (19,1-7). Anche in questo caso, la loro formazione viene completata, e Paolo vede scendere su di loro lo Spirito, e li inserisce nella chiesa.

In un caso e nell’altro abbiamo persone con una formazione incompleta, segno, evidentemente, di una chiesa vivissima, creativa, originale e non ancora imbrigliata da tradizioni intoccabili e normative codificate. Per certi aspetti, il contrario di quello che spesso è la chiesa nostra. Ma in alcune dimensioni e scelte di fondo ci ritroviamo. Luca sembra suggerire tre atteggiamenti, nel rapportarsi con le differenze dentro la chiesa.

Intanto la correzione degli errori e l’approfondimento della conoscenza. Probabilmente è l’aspetto meno importante, ma pure rimane. Non ci si limita ad apprezzare e lodare la buona volontà di Apollo o dei fratelli che non conoscono lo Spirito Santo: li si istruisce, li si corregge, li si migliora.

Poi, più importante, l’apertura di fondo alla fiducia. Abbiamo già detto che forse, nel nostro contesto ecclesiale, una coppia di commercianti/imprenditori come Aquila e Priscilla non avrebbe trovato modo di incidere così tanto nell’annuncio, perché probabilmente ritenuta poco affidabile. E sicuramente una figura come Apollo susciterebbe sospetti e invidie (pensiamo a quante cattiverie leggiamo nei nostri social, soprattutto verso chi prova a impegnarsi, sia pure senza tutte le carte in regola!). La prima chiesa cristiana, che, come abbiamo visto, non è senza difetti, su questo sa restare aperta, convinta che solo lasciando spazio all’iniziativa umana si dà spazio allo Spirito Santo.

Il terzo aspetto è il più significativo: la relazione personale con Dio. Questa è fondamentale e ineliminabile, e si ottiene (al tempo degli Atti, ma anche nel nostro xxi secolo) solo con l’apertura allo Spirito. Se con Apollo basta integrare la sua formazione, con gli altri fratelli occorre battezzarli perché conoscano e ricevano lo Spirito, perché senza quello non si è cristiani. E chiunque sia nato dallo Spirito, che non si sa da dove venga o dove vada (Gv 3,8), è una continua scoperta e sorpresa. Perché lo Spirito dà il dono della vita, la quale è arricchente e appagante se solo si accetta di non ingabbiarla.

Una forma di ingabbiamento, ad esempio, è quella di ridurre il Vangelo a formule e magia. Senza relazione con Dio, con lo Spirito, si è fuori strada. È quello che, pur con un tono un po’ favolistico, si racconta dei figli di un certo Sceva, esorcisti itineranti (At 19,13-17). Dio è per la vita, e per la vita piena, ma solo in una relazione con lui che sia autentica e sincera, personale e quindi senza usare Dio come un amuleto.

Rapporto con i poteri

L’Artemide di Efeso (© AfMC)

Il Vangelo non è astratto, atemporale. La vita della chiesa è incarnata. Paolo e la chiesa tutta devono fare i conti con i poteri che, storicamente, si trovano davanti.

In particolare, devono rapportarsi con il potere civile, che è costituito dai rappresentanti dell’Impero Romano, e con quello religioso, che ancora passa da una chiesa centrale in Gerusalemme che vorrebbe esercitare un certo dominio sulle altre chiese e che non guarda con enorme favore l’impostazione teologica di Paolo.

Probabilmente anche con la chiesa di Antiochia il rapporto non è più idilliaco come in passato. Luca, pur cercando di smussare la realtà, infatti, deve ammettere che la missione paolina verso i non ebrei, con la messa in discussione della legge mosaica, ha inquietato diversi cristiani della prima ora, che si sentono ancora innanzitutto «ebrei» (come abbiamo visto leggendo At 15).

Come dicevamo sopra, anche ciò che non si dice è significativo. Paolo, già guida di Antiochia (At 13,1) e capofila della missione ai non ebrei, torna da un viaggio che lo ha tenuto impegnato per almeno due anni, e tutto quello che Luca ha da dire è che: «Salì a Gerusalemme a salutare la Chiesa e poi scese ad Antiochia. Trascorso là un po’ di tempo, partì» (At 18,22-23). Luca dice troppo poco, e noi non possiamo fare a meno d’insospettirci. Paolo sente freddezza intorno a sé. Forse per questo motivo, prima di arrivare a Gerusalemme trova il tempo di «sciogliere un voto» (18,18), adempiendo una consuetudine ebraica che «sapeva di vecchio»: consisteva nell’astenersi dal radersi (almeno i capelli) e dal bere vino per un certo tempo, come invocazione o ringraziamento a Dio. Si direbbe quasi che Paolo si impegni in questa devozione come gesto di buona volontà verso i cristiani più conservatori. Forse inutilmente.

E intanto deve continuare ad affrontare le sfide di coloro che si sentono infastiditi dal suo modo di fare. Anche a Corinto ed Efeso, infatti, c’è chi cerca di bloccare «dall’esterno» la sua predicazione. A Corinto, come era già successo in tanti luoghi, sono gli ebrei a cercare di denunciarlo, con dei risultati tragicomici e non del tutto comprensibili (18,12-17). A Efeso è invece un orafo a sobillare la folla (19,23-40): la predicazione cristiana inizia a dare fastidio anche al paganesimo, e in uno dei suoi centri più rinomati e ricchi! In entrambi i casi non riescono a fermare l’annuncio: a Efeso è il cancelliere della città a invitare gli agitatori a calmarsi, a Corinto è lo stesso governatore a sancire che in ballo c’è solo una questione religiosa, interna agli ebrei.

Se questo da una parte dice, soprattutto a noi, che almeno per gli osservatori esterni cristianesimo ed ebraismo non erano ancora ben distinti, dall’altra indica, soprattutto ai lettori del tempo di Luca, che le autorità romane sono state più volte chiamate a prestare attenzione al nuovo movimento, e ad analizzarlo sono stati i loro rappresentanti più alti, senza che questi trovassero nulla di legalmente inquietante. Il cristianesimo disturba, agita, tocca interessi economici, ma non è contro l’ordine costituito. Per chi cresceva nell’Impero Romano, imparando ad apprezzarne l’ordine, era un particolare significativo.

Angelo Fracchia
(17-continua)




Il grande discorso di Atene (At 17,16-34)

testo di Angelo Fracchia |


Nel nostro percorso di lettura degli Atti degli Apostoli avevamo lasciato Paolo nel bel mezzo del suo secondo viaggio apostolico. Dopo aver attraversato l’odierna Turchia, era approdato in quella che anche oggi chiamiamo Grecia, dove aveva aperto strade nuove al Vangelo. Dovendo però fuggire da Filippi e da Tessalonica, era giunto, da solo, ad Atene, dove aveva atteso di essere raggiunto da Sila e Timoteo (At 17,15).

Atene era stata il grande faro della filosofia, dell’arte, dell’economia, del potere politico della Grecia nei secoli precedenti. Si trattava di una «nobile decaduta», ormai tagliata fuori dal potere politico (da due secoli passato a Roma, che l’aveva strappato non ad Atene ma ai macedoni), economico (le grandi vie commerciali passavano via terra dal Nord, ossia da Tessalonica e Filippi, oppure via mare dal Aud, da Corinto) e persino culturale. I centri di riferimento importanti erano ormai molti e, con la lingua greca diffusa in tutto il Mediterraneo orientale, il fulcro della cultura greca era ormai diventata Alessandria d’Egitto. Con tutto ciò, la fama antica continuava a illuminare la città, e l’Acropoli era sempre lì a dominarla, con la sua imponenza che colpisce ancora oggi.

È lì che Paolo tiene il suo discorso più completo ai «greci», ossia a coloro che non appartenevano all’ebraismo e che anzi si riconoscevano in un’impostazione religiosa «pagana». Non staremo a chiederci quanto davvero sia credibile che Paolo abbia tenuto quel discorso e se lo abbia fatto proprio come lo leggiamo. Per capire, lasciamoci accompagnare da Luca, da quanto dice, da ciò che tace… e, ancora una volta, anche da quanto ci dicono le lettere di Paolo.

Il contesto (At 17,16-21)

Paolo ad Atene si vede circondato da segni pagani, e questo lo irrita profondamente (At 17,16). In realtà avrebbe dovuto esserci abituato, perché il mondo in cui viveva era dominato da religioni politeiste che spesso si influenzavano a vicenda. Ma in effetti Atene esibiva una quantità eccessiva di questi segni, eredità dei secoli precedenti; una ricchezza che era espressa in un’abbondanza di edifici, statue e probabilmente dipinti e mosaici a tema religioso in ogni angolo.

Paolo sale sulla collina dell’Areopago, situata tra l’Acropoli e l’agorà della città, luogo di incontro e di liberi dibattiti, e lì parla del Vangelo, ma i passanti immaginano che intenda presentare una nuova coppia divina, «Dio e la Risurrezione», come se fossero Zeus ed Era. E gli danno anche appuntamento perché ne parli ancora con maggiori particolari.

Questo è il primo passo sbagliato. Chi si accinge ad ascoltare Paolo, infatti, non lo fa perché prova dentro di sé la sete di interpretare in modo profondo e proficuo la propria vita, di trovarvi il senso (come diremmo noi) o di essere salvati (come dicevano gli ebrei di quel tempo). «Tutti gli ateniesi, infatti, e gli stranieri là residenti non avevano passatempo più gradito che parlare o ascoltare le ultime novità» (At 17,21). La motivazione è semplicemente la curiosità, il passatempo.

Come il pane e l’acqua possono sembrare insipidi a chi non ha fame e sete, il Vangelo fatica a lasciarsi ridurre a passatempo.

Ciononostante, Paolo ritiene che valga in ogni caso la pena di provare.

Sintonizzarsi con l’ascoltatore (At 17,22-28)

Che cosa intenderà trasmetterci Luca nello scrivere il discorso di Paolo? Finora i discorsi di evangelizzazione che ci ha restituito negli Atti degli Apostoli partivano dai profeti, per mostrare la coerenza dell’azione di Dio fino a Gesù, definitiva offerta di comunione tra il divino e l’umano. Ma come avrebbe potuto partire dai profeti con persone che evidentemente non potevano conoscerli? Chissà, forse questo discorso di Paolo potrebbe costituire un modello di annuncio in contesti religiosi che non hanno nulla a che fare con la tradizione biblica. Ossia, in contesti che assomigliano di più a quello in cui viviamo spesso anche noi.

La prima cosa che si può notare è che Paolo segue le convenzioni retoriche del suo tempo. Queste prevedevano di iniziare rivolgendosi in modo piacevole e convincente all’uditorio, per guadagnarsene l’approvazione, così da giungere poi al tema centrale a piccoli passi, seguendo percorsi familiari per chi ascoltava. E Paolo si adatta a chi ha davanti: se non può partire dai profeti, prende l’avvio da quella retorica che ad Atene si insegnava.

E inizia proprio dimostrando
di apprezzare le persone che ha davanti: le definisce religiosissime, in quanto ha trovato, lungo la strada che porta all’Acropoli, anche un altare dedicato «al dio ignoto». Proprio il dio che egli intende svelare agli ateniesi. Paolo dimostra insomma di essersi guardato intorno con attenzione, di aver dominato la sua irritazione e di non voler iniziare mortificando gli ascoltatori, che anzi loda.

Se volessimo estrapolare dal discorso di Paolo delle indicazioni per il nostro annuncio di oggi, potremmo dire che occorre partire dall’analisi della realtà, valorizzandone i punti buoni.

L’apostolo passa poi a spiegare che non possiamo pensare a un dio che abbia bisogno dell’uomo per le proprie necessità. Dio ha fatto il mondo e non si aspetta certo che siamo noi a fargli una casa in cui stare. Piuttosto, il Dio che ha dato a tutti la vita, ha concesso a tutti i popoli uno spazio e un luogo affinché possano, in effetti, rintracciarlo guardando come è strutturato il mondo, anche se si tratta di una ricerca fatta a tentoni, come se ci aggirassimo al buio in una casa che non è nostra. Non impossibile, ma certo abbastanza faticoso e incerto.

In questa fase Paolo riprende in realtà la polemica ebraica contro gli idoli e allude a tanti brani dell’Antico Testamento, in un modo però da non renderli riconoscibili a chi non li conosca già, ma senza renderne necessaria la conoscenza per capire il messaggio. Il discorso scorre, ha una sua logica e, alla fine, risulterà particolarmente affascinante soprattutto per chi ammette che ciò che vediamo non è l’unica realtà autentica. Molti tra gli ascoltatori platonici o stoici probabilmente si sono trovati, per così dire, «a casa propria». Se poi qualcuno degli ascoltatori avesse conosciuto un po’ di Antico Testamento, avrebbe sorriso tra sé e sé riconoscendo le citazioni e potendo confermare che funzionavano bene.

Ciliegina sulla torta, Paolo riesce a concludere questa tappa del suo ragionamento («Non siamo noi a dare qualcosa a Dio, ma lui a farci vivere») citando un poeta greco. Questa volta può permettersi di richiamare l’attenzione sulla citazione (che in realtà è abbastanza breve e forse non così significativa) proprio per ribadire che in fondo non stava annunciando nulla di inaudito o inverosimile. Una lisciatina di pelo agli ascoltatori, con la quale Paolo dimostra di conoscere e apprezzare la letteratura che si insegnava nelle scuole di retorica.

Ciò che ha fatto Paolo fino a questo punto è stato di condurre gli ascoltatori ad ammettere che la realtà autentica di Dio è spirituale. Verità su cui molti di coloro che sono di fronte a lui probabilmente erano già d’accordo.

Lo snodo decisivo (At 17,30-32)

Non è un caso che non siamo ancora arrivati a sentire nulla di autenticamente cristiano. Paolo vuole arrivare lì. Forse però, stavolta ci arriva un po’ di corsa.

Fa notare che Dio ha deciso che non si cerchi più di incontrarlo come cercandolo al buio in una casa sconosciuta, ma si è svelato. Ha stabilito anzi un criterio tramite il quale «giudicare» il mondo. È probabile che gli ascoltatori pensino non tanto a un giudizio quanto a un vaglio (un setaccio, uno screening diremmo oggi), fatto da qualcuno che faccia comprendere che cosa nell’umanità è valido e che cosa no.

In ogni caso, Paolo deve arrivare a Gesù, peraltro non citandolo per nome. Di Gesù identifica soprattutto due cose. Quel «vaglio», quel setaccio che fa emergere quello che nella vita umana è degno di attenzione e rispetto e quello che non lo è, è un uomo. Non è per niente scontato. Si poteva pensare a una visione divina, al dono di un mistero svelato per scritto, a qualche miracolo. Invece no, è una vita umana, sicuramente particolare e straordinaria, ma pur sempre umana, soggetta a tutti i condizionamenti umani, dal nascere da una donna (Gal 4,4), al dover imparare a vivere, al sottostare a norme e convenzioni. È la sorpresa dell’incarnazione, dello scoprire che per Dio l’uomo è tanto importante che l’unico «metro» adeguato per dire quale possa essere una vita umana dignitosa è esattamente mostrarla in un uomo. Perché solo un Dio che non si vergogna dell’umanità può spiegare all’uomo come vivere bene.

Il secondo dato identificante è la risurrezione. Il che, a pensarci, è davvero coerente, perché se questa vita è il meglio che Dio possa pensare per l’uomo, non può darcela solo per pochi anni. Ma ciò andava contro i pregiudizi filosofici per cui nell’essere umano a contare è lo spirito, la mente, mentre il corpo è, nel migliore dei casi, insignificante e, nei peggiori, un ostacolo.

E quegli ascoltatori che avevano colto il messaggio di Paolo come un semplice passatempo, non sono disposti a lasciarsi mettere in discussione. Il discorso va contro i loro pregiudizi, per questo lo scherniscono e aggiornano la seduta a data da destinare. Un ascolto superficiale, disinteressato, per ammazzare il tempo, non cambierà mai la vita, e non farà mai andare in profondità. Non aiuterà certo a rendersi conto di aver perso un’occasione unica.

Esiti e bilancio (At 17,33-34)

Onestamente, non si può dire che sia andata bene. Ce lo fa capire Luca, che fa ripartire Paolo immediatamente da Atene, e stavolta senza che sia stato neppure perseguitato. Non ce n’è bisogno. Pare che questa superba sghignazzata degli ateniesi sia persino peggio dell’opposizione violenta che Paolo aveva già riscontrato tante volte.

Paolo ha dato sfoggio di un discorso sicuramente ben preparato e sapiente. Ma ha ottenuto solo una presa in giro. Da Atene se ne va a Corinto, ai cui abitanti, qualche anno dopo, scriverà che i greci cercano dei bei discorsi intelligenti, ma Gesù non si piega neppure a questi. Ecco perché nella comunità dei cristiani non ci sono tanti dotti o umanamente sapienti (1 Cor 1,20-31). «Io ritenni di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso» (1 Cor 2,2), stupido per coloro che cercano una divinità alla moda e fragile per chi cerca un Dio potente (1 Cor 1,22-23). Verrebbe da dire che Paolo ha imparato la lezione, e non ripeterà più un discorso come quello dell’Areopago.

Se vogliamo, anche questo è un frutto positivo: l’evangelizzatore ha imparato che conviene andare al cuore delle cose. Inoltre, nonostante il discutibile approccio di Paolo, le sue parole hanno fatto breccia in alcuni ascoltatori che hanno accolto il Vangelo: tra di essi una persona influente nell’Areopago, Dionigi, e una donna, Damaris (At 17,34). D’altronde, se Luca avesse pensato che questo discorso fosse stato completamente fuori luogo, non lo avrebbe riportato.

Sembra invece che l’autore degli Atti voglia suggerirci che è giusto e buono provare a sintonizzarsi con lo stile e i temi cari all’uditorio, ma senza aspettarsi troppo, cercando di non allontanarsi mai da quello che è comunque il cuore del Vangelo. E sapendo che, comunque, anche nei contesti meno adeguati ad accoglierlo, il Vangelo continua a parlare al cuore delle persone, e che alcune risponderanno.

Angelo Fracchia
(16-continua)




Il secondo viaggio di Paolo (At 16,1 – 17,15)

testo di Angelo Fracchia |


Con il capitolo 16 degli Atti degli Apostoli, Luca, che si è preparato il terreno finora con grande attenzione, sembra sentirsi più libero di narrare secondo il gusto dei suoi ascoltatori. Aumenta il respiro del racconto, solleva il tono della lingua, peraltro piena di termini tecnici e precisi, soprattutto marinari e politici. Se teniamo conto che i titoli dei governanti cambiavano di città in città e di tempo in tempo, è ammirabile la correttezza con cui Luca li utilizza. Al centro della scena c’è Paolo, attorniato da tanti comprimari umani ma soprattutto spalleggiato dal vero protagonista, lo Spirito Santo.

Dopo aver sistemato le coordinate di fondo nei capitoli precedenti, Luca ci permette di guardare come crescono le nuove comunità, con quali attenzioni, interessi e conseguenze.

Nuovi collaboratori (At 16,1-5)

A colpirci è innanzitutto il fatto che persino Paolo non si muove mai da solo. Nonostante le tensioni con Barnaba sulla composizione della squadra (At 15,38-39), Paolo non parte da solo, ma con Sila, importante membro della comunità di Antiochia (At 15,22), per informare delle decisioni prese a Gerusalemme circa la circoncisione le chiese già fondate, per vagliarne lo stato di salute, e per procedere oltre. Attraversano la Siria, la cui capitale era Antiochia, poi la Cilicia, ossia la regione di Tarso, e da lì raggiungono Derbe e Listra. Nel primo viaggio (At 14,6-20) queste città sono state evangelizzate in ordine inverso, ma stavolta si decide di affrontare il più frequentato ma impegnativo passo delle Porte di Cilicia, alle spalle di Tarso.

Sembra essere a Listra che Paolo incontra Timoteo, suo fondamentale collaboratore da adesso in poi (cfr. At 18,5; 19,22; 20,4; e, nelle lettere, Rom 16,21; 1 Cor 4,17; 2 Cor 1,19; Fil 2,19, e altri passi ancora; non è un caso che due delle tre lettere «pastorali» siano indirizzate a lui).

Il caso di Timoteo è interessante. È figlio di una ebrea e di un «greco» (ossia, non ebreo) e, secondo la legge ebraica di allora, nel caso di matrimoni misti il figlio di una madre ebrea è ebreo e deve essere circonciso all’ottavo giorno, mentre nel caso inverso, di madre «gentile», si consiglia di attendere l’età adulta del figlio, perché sia lui a scegliere. Se deciderà di essere circonciso, dovrà rispettare la legge mosaica. Per Timoteo però questa norma non era rispettata: egli infatti era un ebreo, ma non circonciso. A sorpresa, è Paolo a decidere di farlo circoncidere.

Sembrerebbe paradossale: Paolo si era scontrato con la chiesa di Gerusalemme che pretendeva che i «greci» per diventare cristiani dovessero prima diventare ebrei (At 15,2), ma, nel caso di Timoteo, sembra quasi smentire se stesso. La ragione è spiegata da Luca stesso: «A motivo dei giudei che si trovavano in quelle regioni» (At 16,2). A muovere l’agire di Paolo, evidentemente, non sono i diritti o le leggi, come dirà in modo esplicito anche ai Corinzi, anni dopo (cfr. 1 Cor 8,13). Sa bene che la circoncisione non è indispensabile, ma sa anche che sull’incirconcisione di Timoteo si potrebbe concentrare una polemica che distoglierebbe l’attenzione dal Vangelo di Gesù. «Mi sono fatto tutto a tutti, per salvare a ogni costo qualcuno» (1 Cor 9,19-22).  Al centro, per lui, ci sono comunque le persone e il Vangelo.

Un viaggio tormentato (At 16,6-10)

Dove stanno andando i quattro evangelizzatori (Paolo, Sila, Timoteo e Luca, che si è unito al gruppo, come si capisce dal fatto che nel racconto passa dal «loro» a «noi»)? L’impressione è che non lo sappiano.

Dopo aver toccato anche Iconio, ultima delle comunità fondate nel primo viaggio (At 13,51-14,6), il gruppo attraversa la Frigia e la Galazia con l’intento di scendere verso la regione dell’Asia, zona ricchissima di gente e di collegamenti, ma non ci riescono (anche più avanti Luca dirà che non riusciranno ad andare in un’altra zona dove avrebbero voluto, la Bitinia, meno popolata ma altrettanto strategica).

Perché non ci riescono ad andare nella regione dell’Asia dove c’è Efeso? Non lo sappiamo: può darsi che trovino le strade bloccate, o che si siano uniti a carovane che non sono dirette là, o che Paolo si ammali (è di questo che scrive in Gal 4,13-14? Non sappiamo), o che qualcuno abbia mosso obiezioni. Quello che Luca ci suggerisce è che il gruppo ha un progetto, e che è costretto a modificarlo. Anziché prendersela con la sorte, accolgono l’impedimento come suggerimento dello Spirito.

Il suggerimento dello Spirito a un certo punto arriva anche in una «visione», strumento che a noi non sembra affidabile o credibile, ma che per gli uomini di quel tempo evidentemente era un modo con cui Dio poteva parlare. È comunque significativo che anche questo suggerimento, che parrebbe abbastanza deciso, debba essere accolto e ragionato: «Ritenendo che Dio ci avesse chiamati…».

Non c’è mai, negli Atti, uno Spirito Santo che tratti i credenti come burattini. Impedisce e suggerisce, ma gli uomini sono collaboratori a tutti gli effetti, e devono acconsentire o muovere obiezioni. Infatti, più avanti quando verranno scacciati da Tessalonica, non proseguiranno lungo la via Egnazia, verso la Macedonia, dove parevano indirizzati (At 16,9-10), ma scenderanno a Sud.

In ogni caso, i discepoli interagiscono sempre da adulti con lo Spirito.

Filippi (At 16,12-40)

Il passaggio di Paolo e compagni a Filippi è fondamentale, per tante ragioni.

Intanto, sarà la comunità che darà a Paolo più soddisfazioni: tra le lettere paoline, l’unica scritta non per rispondere a problemi ma nel pieno del sollievo per le belle notizie che gli sono arrivate, è quella ai Filippesi (Fil 1,3-6), che tra l’altro lo avevano aiutato anche economicamente (Fil 4,15-16).

Poi, è la prima città in cui sappiamo che venga predicato il Vangelo al di fuori dell’Asia, e per di più si tratta di una colonia romana. Decisamente Cristo ha passato anche questa frontiera culturale.

Inoltre, la missione si apre sotto splendidi auspici. Al primo sabato passato in città, infatti, i quattro evangelizzatori cercano il luogo dove potrebbe essersi radunata la comunità ebraica. Come al solito, Paolo vuole annunciare innanzitutto agli Ebrei (At 13,46). A Filippi gli Ebrei però sono pochi e non hanno una sinagoga, quindi si radunano sulle rive di un fiume, per poter procedere alle abluzioni prima e dopo la preghiera. In luoghi del genere era ancora più facile che arrivassero non solo gli Ebrei veri e propri, ma anche dei simpatizzanti che potevano così sentir parlare della Bibbia.

Lidia e le altre donne

Tra questi c’è Lidia (At 16,14). Si tratta di una commerciante di prodotti di pregio, come la porpora che era un colorante preziosissimo. Anche se in realtà può darsi che non si trattasse della porpora ma di tessuti colorati con la porpora, e magari non quella più costosa della Fenicia ma il tipo più economico dell’Asia (prodotta intorno a Tiatira, di cui si dice che Lidia è originaria). Colorante o tessuti, era comunque un commercio di lusso. Lidia non solo si converte e viene battezzata seduta stante, ma «costringe» i missionari a lasciarsi ospitare in casa sua. Potrebbe stupirci tanta autonomia e libertà in una donna dell’antichità, e a ragione. Ma Lidia è una commerciante. Le figlie di commercianti di successo erano tra le poche donne che, se non avevano fratelli e magari non si sposavano (o restavano vedove presto), potevano aspirare a una certa autonomia di movimento ed economica, perché si sarebbero trovate a gestire la ditta di famiglia.

Non erano figure diffusissime, ma neppure troppo rare. Nelle prime comunità paoline troviamo diverse donne del genere, molto indipendenti: Cloe citata in 1 Cor 1,11 doveva probabilmente essere una commerciante come Lidia, e altrettanta importanza avrà Priscilla, moglie di Aquila (la conosceremo al capitolo 18 di Atti). E sarà una donna, Febe, a portare nella capitale dell’impero la delicatissima e complessa lettera di Paolo ai Romani (Rom 16,1-2: in quel tempo, chi portava delle missive doveva anche leggerle e spiegarle: evidentemente Febe non era una sprovveduta e l’autore se ne fidava). Anche se Paolo viene accusato di misoginia per un paio di passi delle sue lettere sicuramente mal riusciti, nelle sue comunità le donne godevano di importanza e rispetto. Poteva essere anche questo uno dei motivi dell’attrazione che il cristianesimo esercitava su persone che sapevano di valere molto, ma non erano valorizzate dalla società in cui vivevano.

Frustati per Cristo

A Filippi, poi, succede un episodio significativo. In tutte le città attraversate da Paolo accade qualcosa che respinge altrove gli evangelizzatori. A Filippi il problema è una serva che si riteneva fosse posseduta dallo spirito di Apollo, tanto da pronunciare oracoli che i suoi padroni vendevano. Paolo, mostrando poca pazienza (gli accadrà ancora… la Bibbia sa riconoscere i difetti dei suoi eroi), si stufa di sentirsela profetizzare dietro… e la guarisce. O meglio, per i lettori di Atti si tratta di una guarigione, ma per i padroni della donna è un disastro che pone fine a una fonte di guadagno. Ancora una volta il messaggio cristiano interviene, magari anche solo per noia, a valorizzare l’umano contro l’economico, e a essere perseguitato per questo.

I missionari vengono frustati (non flagellati, la frusta è una pena meno severa) e incarcerati. A liberarli interviene un misterioso terremoto, abbastanza forte da rompere le catene ma non da far crollare la prigione o da essere percepito dai capi della città. Il carceriere, vedendo le celle aperte, se ne dispera, ma poi si accorge che le persone a lui affidate sono ancora lì: l’esito è il battesimo tanto suo quanto della sua famiglia (ancora vita e dignità donate dal messaggio di Cristo).

Al mattino i capi della città, probabilmente convinti di aver dato una lezione sufficiente a vagabondi non pericolosi, vogliono lasciare liberi i discepoli, limitandosi a scacciarli dalla città.

Era una misura abbastanza diffusa per chi era ritenuto inoffensivo ma era stato accusato di qualche disordine ed era forestiero. Paolo ha però quello che sembra uno scatto d’orgoglio: «Sono cittadino romano, non me ne andrò senza le scuse». È la prima volta che sentiamo parlare negli Atti della sua cittadinanza, che gli concedeva molti privilegi, tra cui una protezione giuridica particolare. Coloro che lo hanno fatto frustare iniziano a sudare freddo: era lecito affibbiare una punizione senza processo, ma non a un cittadino romano. E chi avesse inflitto una pena ingiusta doveva subirla uguale. Eccoli allora arrivare al carcere a liberare personalmente, con molte scuse, i quattro discepoli. È davvero solo orgoglio, da parte di Paolo? Probabilmente no. È possibile che la sua scenata riabilitasse pubblicamente anche coloro che avevano creduto al suo annuncio, che non potranno quindi essere perseguitati alla leggera.

Altre tribolazioni

Le persecuzioni, in realtà, non finiscono. A Tessalonica sono alcuni ebrei a sobillare la città, prendendosela con colui che ospita Paolo e compagni (At 17,1-8), i quali sono costretti a ripartire, per Berea, dove fanno altri discepoli pronti anche, opportunamente, a controllare che le prove bibliche portate siano corrette (At 17,11). Quindi Paolo approda ad Atene (At 17,15), la grande capitale della cultura greca, anche se ormai decaduta.

Angelo Fracchia
(15-continua)