Grande, Romero, Proaño, avvocati degli oppressi


Perseguitati, incarcerati, uccisi. Rutilio Grande, Leonidas Proaño, Oscar  Romero, tre grandi esponenti della Chiesa latinoamericana. Tre uomini legati dalla fede e dalla scelta per gli ultimi. Tre uomini che hanno dato la vita per il riscatto e la nobilitazione degli oppressi.

Il primo passo della storia che vogliamo raccontare ci porta in Ecuador, alla scoperta della vita e dell’opera di un fulgido rappresentante della teologia della liberazione, il teologo e vescovo Leonidas Eduardo Proaño Villalba.

Proaño naque nel 1910 a San Antonio de Ibarra, un paese a soli sei chilometri da Ibarra, capitale della provincia di Imbabura, nel Nord dell’Ecuador. La sua infanzia trascorse in seno a una famiglia artigiana che si dedicava alla produzione di cappelli di paglia. Ebbe la possibilità di frequentare le scuole elementari e successivamente, grazie all’interessamento di un parroco amico del padre, fu inviato nel 1925 al seminario di San Diego di Ibarra. In quell’istituzione poté terminare gli studi superiori per poi proseguire l’approfondimento della filosofia e della teologia nel seminario maggiore di Quito, capitale del paese andino.

Nel 1936, esattamente il 29 di giugno, Leonidas Proaño venne ordinato sacerdote, dando inizio ufficialmente a un cammino che lascerà una testimonianza di fede e speranza per i più emarginati del paese, in particolare per le popolazioni indigene. Attivo fin dai primi anni ‘40 con opere di divulgazione e scrittura (fondò la libreria «Cardijn» nel 1941 e il giornale  «La Verdad» nel 1944), Proaño si fece strada dentro il clero ecuadoregno, prima nella sua provincia natale e poi, con la nomina a vescovo, nella capitale della provincia del Chimborazo, Riobamba (dal 1954 al 1985), situata nel cuore dell’Ecuador.

Mons. Proaño, «guerrigliero comunista»

È qui, nel centro del paese andino, che Proaño dispiegò, in modo avvolgente e innovativo, la sua opera di reinterpretazione sociale e di riscatto comunitario. Lo stesso governo dell’Ecuador, nei suoi archivi (consultabili online), racconta in modo dettagliato e coinvolgente le vicende di quegli anni, che videro come protagonista colui che passerà alla storia come il vescovo degli indigeni e dei poveri. In quegli archivi si legge che, nel 1954, monsignor Leonidas Proaño, vescovo di Riobamba, si dissociò dai modi tradizionali di esercitare il sacerdozio e, precursore del metodo «vedere-giudicare-agire», entrò nelle brughiere e nelle colline dell’ampia geografia della provincia del Chimborazo, per interiorizzare nella sua azione una visione profonda e veritiera del territorio. Nelle sue molte e lunghe visite, potè toccare con mano la dolorosa realtà degli indigeni maltrattati dai proprietari terrieri, in un sistema di oppressione ed espropriazione che continuava fin dai tempi della colonia. Proaño si schierò senza se e senza ma con gli indigeni, da lui riconosciuti come i più poveri tra i poveri, iniziando insieme a loro la più grande opera di liberazione e nobilitazione nell’Ecuador repubblicano.

Dal 1960 in poi, la sua opera di educazione e riscatto iniziò a estendersi sul territorio. Creò nel 1960 un progetto chiamato «Scuole radiofoniche popolari» e, nel 1962, fondò il «Centro di studi e azione sociale» con l’obiettivo di promuovere lo sviluppo delle comunità indigene emarginate dallo stato. Proaño partecipò ai grandi movimenti di rinnovamento della Chiesa cattolica di quegli anni, come il Concilio Vaticano II e il Consiglio episcopale latinoamericano (Celam), nel quale giocò un ruolo da protagonista.

Il vescovo di Riobamba dovette superare innumerevoli conflitti, incomprensioni, persecuzioni e accuse. Venne etichettato come il vescovo rosso, comunista, sovversivo e terrorista: il motivo di ciò risiedeva nella sua ostinata fermezza nell’esigere giustizia, terra e dignità per le popolazioni indigene. Tanti e tali attacchi lo portarono, nel 1973, a dover viaggiare a Roma per difendersi dall’accusa di essere un guerrigliero comunista: venne assolto, ma, nonostante ciò, rientrato in Ecuador, nel 1976 dovette assaggiare il carcere sotto la dittatura di Guillermo Rodríguez Lara. Leonidas Proaño lasciò all’età di 75 anni (nel 1985) la carica di vescovo, ma la sua opera non terminò quel giorno. Fu nominato presidente della Pastorale indigena e nel 1986 fu anche candidato al premio Nobel per la Pace. Il 29 maggio del 1988 inaugurò il centro di formazione delle missionarie indigene
dell’Ecuador, nella comunità di Pucahuaico, nel suo paese natale San Antonio di Ibarra. Morì a Quito il 31 agosto del 1988, ma pochi giorni prima, il 12 agosto, aveva fatto in tempo a creare la fondazione «Pueblo indio del Ecuador».

Proaño e Grande

In questa enorme e significativa vicenda umana c’è un punto di connessione con la storia di Rutilio Grande e quindi di Romero che avrà conseguenze regionali estremamente rilevanti. Proaño, dopo aver partecipato al Celam, venne eletto presidente del dipartimento della Pastorale e da quella posizione si fece promotore della creazione dell’«Istituto itinerante della pastorale dell’America Latina» (Ipla). Proprio a Quito, per frequentare i corsi dell’istituto, arrivò nel 1972 il sacerdote Rutilio Grande, avido di nuovi stimoli per rinnovarsi e distanziarsi dal conservatorismo radicale della Chiesa salvadoregna.

Dopo gli studi all’Ipla, Grande passerà alcuni mesi a Riobamba, nella diocesi di mons. Leónidas Proaño,  vivendo proprio nella casa di quel vescovo cordiale e semplice, austero e ospitale ma soprattutto vicino alla gente. Un modello di fede e di Chiesa molto diverso rispetto a quanto vissuto da Grande nel Salvador, che risvegliò in lui una nuova consapevolezza.

Un fedele mostra una foto di Rutilio Grande; il padre gesuita sarà beatificato il 22 gennaio 2022. Foto Vatican News.

Rutilio Grande, gesuita

Rutilio Grande nacque il 5 luglio 1928 a El Paisnal, un piccolo centro abitato a circa 45 km dalla capitale del Salvador, San Salvador. Membro di una famiglia numerosa e con genitori separati, dopo la morte della madre (avvenuta quando Rutilio aveva solo 4 anni) venne cresciuto dal fratello più grande e dalla nonna. La donna era una fervente cattolica e fu lei l’iniziatrice di Rutilio ai misteri della fede.

Altra figura essenziale nella vita di Rutilio fu quella dell’arcivescovo Luis Chávez y González, conosciuto quando aveva solo 12 anni. Questi gli offrì la possibilità di proseguire gli studi nel seminario della capitale, cosa che fu un punto di svolta nella vita del giovane Rutilio che successivamente, il 23 settembre del 1945, entrò nella Compagnia di Gesú facendo il noviziato a Caracas (Venezuela), dove rimase per due anni.

Dopo aver pronunciato i voti di povertà, castità e obbedienza, iniziò un percorso tortuso fatto di viaggi, crisi di salute, periodi di docenza e di studio che si alternavano a dubbi sulla sua vocazione. L’America Latina e la Spagna furono il contesto geografico e umano in cui egli visse in quegli anni, e proprio a Oña (Spagna) venne ordinato sacerdote il 30 luglio 1959: pochi mesi dopo l’annuncio di Papa Giovanni XXIII della convocazione del Concilio Vaticano II.

Un’ulteriore tappa di studi europea, questa volta alla Lumen Vitae di Bruxelles (1963-1964), gli fece scoprire quella che sarebbe poi diventata la teologia della liberazione e con essa una via nuova di interpretare la propria missione apostolica.

L’amicizia con Romero

Tornato nel Salvador, padre Rutilio svolse prima il ruolo di formatore nel seminario San José de la Montaña (nella capitale) e poi quello di rettore dell’Externado de San José. Nel 1967 iniziò la sua relazione con Oscar Romero, un’amicizia che perdurò negli anni e che vide, nel giugno del 1970, proprio Rutilio Grande servire come cerimoniere alla consacrazione di Romero come vescovo ausiliare di San Salvador. Quelli furono proprio gli anni nei quali Grande si trovava in aperta critica e grossa difficoltà con la struttura clericale salvadoregna. I suoi metodi di insegnamento, che vedevano l’opera evangelizzatrice andare di pari passo con la promozione di uno sviluppo di un’intellettualità critica e comunitaria, non trovavano il consenso dei suoi superiori. Rutilio però era stato oramai positivamente contaminato dall’esperienza belga e dalla successiva II Conferenza episcopale latinoamericana di Medellín (1968), che fu fonte d’ispirazione per il suo zelo pastorale e per la sua solidarietà e la vicinanza con i poveri.

Proprio in quel contesto, all’inizio del 1972, Grande intraprese il suo viaggio in Ecuador dove potè toccare con mano l’opera dirompente di Proaño.

Un cartello all’interno di una chiesa di Quito, capitale dell’Ecuador, ricorda a chi entra che i poveri sono tanti e che occorre aiutarli. Foto Paolo Moiola.

Inviso a latifondisti e conservatori

Dopo quell’esperienza rivelatoria, Rutilio accettò di diventare parroco di Aguilares (settembre 1972), la stessa parrocchia dove aveva trascorso l’infanzia e la giovinezza. Lì fu uno dei gesuiti incaricato di fondare le Comunità ecclesiali di base (Ceb) e di formarne i dirigenti, chiamati «Delegati della Parola».

Queste attività allarmarono i latinfondisti della zona e anche le frange più conservatrici del clero salvadoregno che temevano che la Chiesa cattolica venisse infiltrata e controllata dalle forze politiche di sinistra. Come ricorda José M. Tojeria in «Novedad y tradición: el martirio de Rutilio Grande», il Gesù del Vangelo era il centro dell’attività pastorale di Rutilio e i contadini salvadoregni delle zone di Aguilares e El Paisnal lo accolsero con entusiasmo.

Molti di loro decisero di alfabetizzarsi per poter leggere il Vangelo attraverso una modalità pedagogica ispirata a Paulo Freire. Grande ebbe la funzione di aiutare i membri delle comunità rurali ad acquisire coscienza della propria dignità, dei propri diritti, capacità e possibilità.

Questo avveniva mentre il Salvador era terreno di un confronto crescente tra i settori ricchi e la maggioranza della popolazione che versava in una situazione di estrema povertà. Rutilio Grande giocò un ruolo importante in questo scontro sociale, denunciando apertamente gli abusi e soprusi del governo, toccando il suo zenit con quello che viene ricordato come il «Sermone di Apopa» del 13 febbraio 1977 (omelia relativa al controverso caso del sacerdote colombiano Mario Bernal Londoño, espulso dal Salvador dopo essere stato sequestrato da supposti guerriglieri). Meno di un mese dopo, il 12 marzo 1977, mentre viaggiava in una jeep nella parrocchia di Aguilares, Grande cadde in un’imboscata dei gruppi paramilitari di estrema destra noti come «squadroni della morte». Con lui vennero uccisi anche Manuel Solorzano (72 anni) e Nelson Rutilio Lemus (16 anni).

È il 24 marzo del 1980, mons. Oscar Romero viene assassinato mentre celebra messa nella cappella dell’ospedale Divina Provvidenza, a El Salvador. Foto ANSA.

Un altro assassinio

La morte cruenta dell’amico Rutilio Grande provocò una grande crisi in mons. Romero. Una trasformazione che, probabilmente, egli aveva iniziato già a partire dall’ottobre del 1974, quando venne nominato vescovo della diocesi di Santiago di Maria, nel dipartimento di Usulután.

Nei due anni che trascorse in quella zona rurale del paese, potè toccare con mano la repressione governativa, i massacri e il terrore nei quali erano tenuti i contadini da parte dell’esercito che operava come braccio armato dei latifondisti. Un bagno di realtà che dovette spingere Romero a rivedere molte delle sue precedenti posizioni. Lì passò due anni e, successivamente, il 3 febbraio del 1977 venne nominato da Paolo VI arcivescovo di San Salvador, proprio per succedere al padrino spirituale di Rutilio, monsignore Luis Chávez y González. Solo 28 giorni dopo la sua nomina, Romero venne raggiunto dalla notizia dello spietato omicidio dell’amico. Oscar Arnulfo Romero avrebbe fatto la stessa fine il 24 marzo del 1980.

Diego Battistessa


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