Montenegro. L’altopiano della discordia


Una diversità bioculturale da salvare nel cuore dei Balcani

L’altopiano di Sinjajevina ha una biodiversità unica. Si è costituita grazie a secoli di gestione come «bene comune» da parte delle comunità pastorali native. Da alcuni anni è minacciato da un centro militare installato dal governo. Ma attivisti di tutto il mondo vogliono salvarlo.

La catena montuosa Sinjajevina-Durmitor del Montenegro è il secondo alpeggio più grande d’Europa, un altopiano calcareo di quasi mille km2 tra 1.600 e 2mila metri di altitudine, con una biodiversità unica, costruita e conservata attraverso millenni di usi pastorali, e alcuni dei paesaggi alpini più straordinari del continente.

L’area è stata riconosciuta di particolare valore per la sua biodiversità. La creazione di numerose aree naturali e culturali protette ne fanno probabilmente la regione più ricca del suo genere in tutto il Montenegro (paese di 600mila abitanti su una superficie  pari al Trentino Alto Adige, ndr).

Uno stile di vita antico

La diversità bioculturale di Sinjajevina non è solo un prodotto della natura, ma l’eredità di secoli di comunità pastorali locali, una simbiosi di società e ambiente e un’eredità di storia sociale sostenibile. Questi ecosistemi autentici esistono grazie all’uso ponderato e alla gestione concertata del territorio, generazione dopo generazione.

Pertanto, l’ecosistema stesso dipende dalla presenza e dalle attività di queste comunità. Gli insediamenti pastorali dell’altopiano, detti katun, dispersi nel territorio di Sinjajevina, appartengono a otto grandi gruppi etnici, ciascuno con le proprie regole di governo dei beni comuni (o commons) riguardanti i tempi di accesso ai pascoli e le modalità di utilizzo per garantirne la rigenerazione.

Tuttavia, un progetto per costruire un poligono di addestramento militare, che occuperebbe gran parte della sua area, minaccia non solo la biodiversità ma anche le attività di pastorizia, i mezzi di sussistenza di migliaia di persone intorno a essa, e paesaggi unici che sono un patrimonio europeo comune.

Installazioni militari

In diretta contraddizione con la raccomandazione emersa da uno studio del 2018 cofinanziato dall’Unione europea che prevedeva di creare un’area protetta a Sinjajevina entro 18 mesi – e contro ogni apparente logica di sviluppo rurale, turistico, agroalimentare e ambientale -, nel settembre 2019 il governo montenegrino ha inaugurato un’area di addestramento militare e test per gli armamenti proprio nel cuore di questi pascoli abitati, all’interno della Riserva della biosfera riconosciuta dall’Unesco e a metà del processo di dichiarazione di Sinjajevina come parco naturale regionale. Questa decisione è stata presa senza alcuna valutazione di impatto ambientale, nessuna valutazione sanitaria e nessuno studio di impatto economico pubblicamente disponibile, né alcun negoziato coerente con le comunità pastorali colpite. Infatti, né i pastori, né alcuna organizzazione della società civile dei sette comuni interessati hanno tuttora una chiara idea dell’esatto perimetro del poligono militare, del suo scopo, della natura dei suoi rischi per la popolazione. Ciò che è noto pubblicamente è che è previsto un poligono di oltre 10mila ettari (100 km2, poco meno dell’intera città di Torino).

Si tratta di terre che che conservano testimonianze storiche del governo comunitario del territorio e del suo uso pastorale fino al XIX secolo, con un utilizzo dimostrabile continuo e ininterrotto per almeno gli ultimi 140 anni. Tuttavia, storici e archeologi ritengono che questa data dovrebbe essere spostata molto più indietro, probabilmente a diversi millenni. Sono necessarie ulteriori ricerche su date più esatte, ma nulla toglie al fatto che il poligono militare debba essere sottoposto a uno studio di impatto sociale e ambientale approfondito e indipendente, nonché a una revisione legale delle procedure seguite sia a livello nazionale che internazionale in quanto il Montenegro è firmatario di numerosi accordi interstatali.

I problemi legati alla costruzione e all’uso di un sito di artiglieria in questi ecosistemi non riguarda solo i diritti tradizionali delle popolazioni locali alla natura da un punto di vista giuridico. Anche da quello scientifico è comprovato che lo stesso ecosistema pastorale e i servizi ecosistemici che esso fornisce dipendono dalla presenza e dall’attività in sicurezza delle comunità pastorali minacciate dal poligono militare.

Conseguenze ambientali

Il poligono militare è stato solennemente inaugurato il 27 settembre 2019 con operazioni in collaborazione con altre forze militari della Nato (Usa, Austria, Italia, Slovenia, per ricordarne alcune). Ciò è avvenuto prima che i pastori con le loro greggi avessero iniziato la transumanza, la discesa dalle montagne ai loro masi invernali nelle valli più basse, il che ha provocato diverse perdite nel bestiame.

Dal punto di vista ambientale, risulta preoccupante il fatto che l’epicentro del poligono militare sia Savina Vode, la più importante fonte d’acqua della zona. Le attività militari rischiano di contaminare la sorgente e di danneggiare la salute degli esseri umani e degli animali che la bevono. Lo stesso varrebbe per le piante di cui gli esseri umani e gli animali si cibano, mettendo in pericolo anche il mercato della carne e dei latticini. Sinjajevina produce uno dei formaggi e prodotti lattiero caseari più pregiati del paese, come ad esempio i tradizionali formaggi skorup, venduti a 25 euro al chilo, che rappresentano un’autentica fortuna se si pensa che nel paese lo stipendio medio è di 300 euro al mese.

La contaminazione dell’acqua, poi, potrebbe estendersi ben oltre il sito stesso, ed espandersi attraverso i ruscelli sotterranei, specialmente nei villaggi intorno a Lipovo, appena sotto il lago Savina Voda. Qui è in funzione una fabbrica di imbottigliamento di acqua minerale, (finora) reputata pulita e altamente curativa.

Proprio per il suo valore strategico idrologico e pastorale, questo territorio era particolarmente protetto e conservato da importanti norme consuetudinarie. I membri delle diverse etnie di pastori da tempo hanno deciso il divieto di costruzione di infrastrutture o blocchi abitativi nel raggio di diversi chilometri e stabilito il diritto a soli 15 minuti di abbeveraggio per gregge o mandria oltre a spazi limitati molto ristretti per il pascolo di ogni gruppo. Ed è proprio la coscienza dell’unicità di questa area che è riuscita a conservare, generazione dopo generazione, un paesaggio straordinariamente produttivo e ricco dal punto di vista bioculturale e agroeconomico.

Naturalmente, un’altra grande paura tra i locali è il pericolo fisico di essere colpiti dall’artiglieria in azione o da ordigni abbandonati inesplosi.

La campagna internazionale

Di fronte all’azione del governo, che considera questa come una «terra di nessuno» aperta allo sfruttamento, le comunità locali e attivisti in tutto il Montenegro e in altri paesi europei, hanno iniziato a unirsi e pianificare azioni per denunciare il crimine del governo nei confronti del proprio popolo. Centinaia sono le pubblicazioni nella stampa, interviste televisive e radiofoniche in difesa della Sinjajevina. Molte le mobilitazioni, quasi dieci nell’ultimo anno, e alcune hanno visto la partecipazione di oltre trecento persone. Il movimento ha l’appoggio di un grande pubblico, sia a livello nazionale che internazionale.

All’inizio del 2019, questa mobilitazione ha anche portato alla creazione di un’alleanza per la salvaguardia dell’ambiente in tutto il paese. La Coalizione per lo sviluppo sostenibile (Kor, in montenegrino), è stata fondata a partire dall’unione di diverse organizzazioni locali, tra cui il Movimento ecologico Ozon, che da due decenni si battono per l’ecologia in Montenegro e sostengono le comunità locali nella loro lotta. La Coalizione per lo sviluppo sostenibile riunisce le persone che lottano per la protezione di fiumi, foreste, montagne, laghi e tutte le altre risorse naturali che sostengono la vita degli abitanti del Montenegro, oltre a Sinjajevina.

Qualche mese più tardi, l’Iniziativa civica save Sinjajevina il 6 giugno 2019 ha lanciato una petizione online per dichiarare la Sinjajevina area protetta. La firma della petizione è durata fino al 5 agosto 2019 e, durante la raccolta delle firme, ha dovuto affrontare numerose sfide. Quindici persone sono state coinvolte nella sua promozione, ma i cittadini non hanno potuto votare perché il portale pubblico dello stato si rifiutava di accettare molte firme e il sito delle petizioni era molto spesso non disponibile. I promotori però non si sono fermati e hanno iniziato a raccogliere firme, di persona, nei villaggi intorno alla Sinjajevina. Hanno anche organizzato visite nelle città raccogliendo firme per Sinjajevina fino a ottenerne più di tremila, il minimo necessario perché il parlamento montenegrino accetti di discutere la questione.

La risposta del governo

Tuttavia, il 5 settembre 2019, ignorando questa petizione e limitandosi a «prenderne atto», il governo ha deciso unilateralmente la creazione del campo di addestramento militare a Sinjajevina. A seguito delle proteste, il ministro della Difesa ha ordinato la posizione di segnali di confine sull’area e l’interruzione di alcuni percorsi e ha lanciato un’esercitazione militare sul territorio del comune di Kolašin e Sinjajevina denominata «Joint challenge 2019», che ha riunito i soldati della Nato dalla Macedonia del Nord, Austria, Italia, Slovenia, Stati Uniti e Montenegro. Gli abitanti del villaggio si sono lamentati di molestie e danni alla proprietà, ma non è stata concessa loro alcuna attenzione.

Lo stato balcanico è in trattativa di adesione con l’Ue, e il parlamento europeo ha dichiarato, lo scorso 23 giugno, il suo rammarico perché, nonostante i progressi iniziali, la questione di Sinjajevina non è ancora risolta. Dalla campagna Save Sinjajevina si chiedono: «Perché si dimenticano della Costituzione del Montenegro, delle convenzioni internazionali sulla conservazione degli habitat e sull’accesso dei cittadini delle informazioni? Dove sono i principi democratici e la partecipazione dei cittadini nelle decisioni su questioni vitali?».

In tutta risposta, il nuovo ministro della Difesa del Montenegro, dopo il vertice della Nato a Madrid, ha annunciato il 4 luglio scorso che si prepareranno per nuove esercitazioni militari a Sinjajevina. Decisione che sembra non concorde con la posizione del primo ministro Dritan Abazović che si è più volte dichiarato contrario alla militarizzazione del sito, o del ministro dell’Ecologia che apertamente sostiene l’idea che Sinjajevina venga dichiarata area protetta.

Saperi locali e saperi scientifici

Alla società civile internazionale si è unita anche la comunità scientifica, che da allora dedica il giorno 18 giugno a mobilitazioni coordinate in Montenegro e online. Nell’ambito della giornata per Sinjajevina dell’anno scorso, i beni comuni creati e mantenuti dalla pastorizia montana sono stati al centro di una mostra fotografica dal titolo: «Territories of life on the margins. Mediterranean pasture commons in the 21st century», con esperienze da Spagna, Marocco, Turchia e, appunto, Montenegro.

La mostra è stata inizialmente lanciata online nell’aprile 2021 dal museo virtuale di ecologia umana ed è coordinata da Pablo Dominguez (ecoantropologo al Centre national de la recherche scientifique, Cnrs in Francia, laboratorio Geode), con il supporto di oltre venti coautori e collaboratori. Versioni online ampliate sono state poi realizzate con la collaborazione dell’economista Bruno Romagny, e successivamente la mostra e stata presentata in formato fisico al congresso mondiale dell’Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucn) a Marsiglia, e continua a essere esposta in diversi paesi del Mediterraneo. La mostra vuole ribadire l’importanza dei beni comuni (o commons in inglese) come pratiche e congiunzione di saperi da preservare alla pari della biodiversità. Come ricordano i creatori della mostra, l’economista Gaël Giraud, gesuita autore di Transizione ecologica, ha definito i commons come «risorse, simboliche o materiali, che una comunità sceglie di amministrare fornendo regole a loro volta sottoposte a deliberazione. Ciò che definisce i commons non è quindi la natura della risorsa, ma l’azione politica collettiva che sottopone al giudizio permanente della comunità le proprie modalità di azione nella tutela e nella promozione di ciò che le sta a cuore».

Infine, ricordano come i commons pastorali montani descritti dimostrano l’importanza di tre principi fondamentali correlati tra loro, che ricordano quelli elaborati da Elinor Ostrom, prima donna a ricevere nel 2009 il Premio Nobel per le scienze economiche: una comunità locale che mantiene legami forti e profondi con un territorio; questa comunità è un attore chiave nel processo decisionale relativo alla governance territoriale delle risorse; questa governance contribuisce a una gestione responsabile e sostenibile degli ecosistemi e del patrimonio materiale e immateriale delle comunità.

Opporsi dunque al poligono militare in Sinjajevina non è solo preservare un tipo di ambiente naturale e i suoi usi tradizionali, ma implica anche un’azione di difesa di questi principi, che hanno retto per lunghissimo tempo la convivenza umana all’interno di ecosistemi che ne fornivano le basi di sostentamento. E che ci continuano a ispirare per trasformare le nostre economie ed affrontare i profondi cambiamenti che stiamo vivendo.

Daniela Del Bene


Per approfondire

• Pagina FB del movimento: www.facebook.com/sacuvajmosinjajevinu/.
• Sito della mostra fotografica: cpm.osupytheas.fr/index.php/en/montenegro/
• Sito del consorzio Territori di vita: www.iccaconsortium.org/index.php/2022/08/19/mountains-sinjajevina-face-threats-support-uk

Atlante della Giustizia Ambientale

Questo articolo fa parte di una collaborazione fra Missioni Consolata e l’Ejatlas (Environmental Justice Atlas) nell’ambito della quale portiamo a conoscenza dei nostri lettori storie e analisi riguardanti alcuni dei conflitti ambientali presenti nell’Atlante. Per tutti i casi menzionati nell’articolo sono disponibili nell’Atlas le relative schede informative.
www.ejatlas.org
www.envjustice.org
http://cdca.it (Atlante conflitti ambientali Italia).

 




Il «game» infinito dei respingimenti

testo e foto di Simona Carnino |


Perseguitati in patria, vendono tutto e partono. Obiettivo Germania. Dai Balcani alle Alpi, tenteranno di attraversare diverse frontiere, anche a piedi, nella neve. Ma sono più volte respinti. Abbiamo seguito una famiglia in fuga per la vita.

Oulx. La sera del 31 dicembre, Nadim, sua sorella Tamkin e la madre Fawzia arrivano a Oulx, in alta Valle di Susa, con uno degli ultimi treni da Torino.

Davanti alla stazione ferroviaria, è parcheggiato l’autobus di linea che li porterà a Claviere.

Fawzia ha 61 anni, è una maestra d’asilo e vedova di un dentista. Nadim ha 24 anni e Tamkin 18, ma alle spalle un’esperienza di vita di gran lunga superiore all’età anagrafica. In questa notte a cavallo tra il 2020 e il 2021, il loro obiettivo è solo uno: superare la frontiera con la Francia, attraverso i sentieri montani, e arrivare a Briançon. Se ci riusciranno, la Germania, traguardo del loro viaggio, sarà più vicina.

Nadim alza lo sguardo verso il cielo. Le nuvole basse e dense non lasciano dubbi. Nevicherà. Anche nel loro paese di origine, l’Afghanistan, le strade sono spesso ricoperte da una pesante coltre di neve durante l’inverno. Sanno bene cosa significhi addentrarsi tra i boschi, con il rischio di perdersi o di essere vittime di ipotermia.

Ma l’urgenza di arrivare dall’altra parte supera la paura, in particolare ora che non hanno più un soldo e sono riusciti a lasciarsi alle spalle la Serbia e la rotta balcanica, dove sono stati intrappolati per un anno, continuamente respinti dalla polizia croata e rumena nei loro tentativi di oltrepassare i confini dell’Europa.

La vita in Afghanistan

Nadim è un attivista per i diritti umani. «Tutto è iniziato nel 2015, quando Farkhunda Malikzada è stata lapidata da una folla imbestialita, accusata ingiustamente di aver bruciato il Corano – racconta Nadim -. Quella brutalità mi ha spinto a scendere in piazza per chiedere giustizia e da quel giorno sono diventato un attivista e membro del Civil society human rights network, un consorzio di organizzazioni per i diritti umani in Afghanistan. Partecipavo spesso a programmi radiofonici per parlare di diritti delle donne e degli sfollati».

Qualche tempo dopo, un gruppo di persone armate e a viso coperto ha fatto irruzione in casa di Fawzia, minacciando di uccidere tutta la famiglia se Nadim non avesse chiuso la bocca. «Mia madre ha smesso di lavorare e mia sorella di andare a scuola, per paura di essere uccise in strada – continua Nadim -. Abbiamo lasciato il quartiere, ma ci hanno ritrovati. La cosa che mi rattrista di più è che non ho mai capito chi fossero quelle persone, se affiliati del governo o militanti Talebani. Scappare era l’unica possibilità che vedevamo. Abbiamo barattato la casa, l’automobile e i gioielli di mia madre con un nostro cugino, in cambio dei soldi per il viaggio».

E così, una mattina di inizio dicembre 2019, Nadim, Tamkin e Fawzia si sono lasciati alle spalle Kabul. Con un biglietto aereo e il loro passaporto sono volati a Dubai, ma dagli Emirati Arabi non c’era modo di arrivare liberamente in Germania. Il passaporto afghano permette di viaggiare unicamente in 30 paesi al mondo, e nessuno di questi è uno stato europeo.

«Abbiamo speso 45mila dollari per acquistare tre passaporti di nazionalità inglese – spiega Nadim -. Quasi tutti i nostri soldi sono andati in fumo così, ma non vedevo alternativa». Il passaporto inglese permette ancora oggi di muoversi senza richiesta di visto turistico in 130 stati, nonostante le restrizioni di movimento imposte dal Covid-19.

Acquistati tre biglietti per Francoforte, durante uno scalo a Budapest, la polizia ungherese si è resa conto che i passaporti della famiglia erano falsi. Senza dar loro la possibilità di richiedere asilo politico e, contravvenendo al principio di non refoulement sancito dalla Convenzione di Ginevra, la polizia di frontiera ha trasportato Fawzia e i suoi figli di fronte alla recinzione innalzata dall’Ungheria sul confine con la Serbia. Aperto il cancello, li ha scaricati nel paese dell’ex Jugoslavia.

I Balcani

Il governo di Viktor Orbán, da anni, si distingue per una politica xenofoba e aggressiva nei confronti dei migranti. Il 17 dicembre 2020, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha condannato l’Ungheria per non aver rispettato l’obbligo di garantire l’accesso alla procedura di richiesta d’asilo in particolare alle persone in arrivo dalla frontiera serba.

Nadim, Tamkin e Fawzia sono rimasti un anno in Serbia, tra i campi per migranti di Vranje, nel Sud del paese, a Šid, a pochi chilometri dal confine croato, e a Krnjača, Belgrado.

«Niente era umano, neppure il cibo – continua Nadim -. Non potevamo lavorare, non avevamo assistenza legale, e la gente ci chiamava terroristi. Abbiamo provato a scappare dalla Serbia a piedi dieci volte, ma siamo sempre stati respinti. Le prime quattro volte abbiamo provato a entrare in Romania, ma all’ultimo tentativo la polizia di frontiera mi ha picchiato e rotto il naso. Siamo tornati in Serbia dove sono stato operato. Poi abbiamo provato a passare sei volte in Croazia, ma siamo stati respinti. All’undicesima volta abbiamo pagato uno smuggler (trafficante, ndr) per arrivare in Italia. Il viaggio è costato 15mila euro per circa 650 km».

Nessun migrante si mette in cammino con i contanti in mano. In genere, così come ha fatto il cugino di Nadim, un parente nel paese di origine paga in maniera telematica un’organizzazione criminale che si occupa di gestire il viaggio a prezzi esorbitanti, approfittando delle restrizioni imposte dall’Europa e della disperazione delle persone. Di solito il trasporto avviene in automobile e furgoncino, ma le frontiere più spesso vengono attraversate a piedi.

Proprio durante il passaggio a piedi del confine tra Croazia e Slovenia, Fawzia, stremata dal viaggio, è svenuta. Abbandonati dal trafficante, Nadim e Tamkin hanno cercato aiuto, consegnandosi alla polizia slovena intenta a intercettare i migranti nel bosco per respingerli in Croazia. Dopo il ricovero all’ospedale di Lubiana, Fawzia e i suoi figli sono stati trasferiti a un campo per migranti e registrati nel sistema Eurodac, il database europeo per l’identificazione delle impronte digitali di coloro che richiedono protezione internazionale.

Senza volerlo, Nadim, Fawzia e Tamkin hanno fatto domanda d’asilo in Slovenia, l’unico modo possibile per non essere deportati nuovamente in Croazia.

«Appena mia madre si è ripresa, abbiamo ricontattato la persona con cui eravamo arrivati in Slovenia, perché ci trasportasse fino a Udine», spiega Nadim. Infine, dalla città friulana, un treno li ha portati a Oulx, dove giungono dopo più di un anno dalla partenza da Kabul.

Alle 19.50 Fawzia e i suoi figli acquistano tre biglietti e prendono posto sull’ultimo autobus per Clavière. Dopo pochi minuti la corriera parte, lasciandosi indietro la cittadina.

I sopravvissuti alla rotta balcanica

A partire da maggio 2020, a Oulx è aumentato il numero di passaggi dei sopravvissuti alla rotta balcanica. Chi riesce a fuggire dalla Bosnia e dalla Serbia, scampando fisicamente ai respingimenti a catena attuati da Croazia, Slovenia e anche dall’Italia a Trieste e Udine, si dirige a Ventimiglia o a Oulx per superare il confine italo-francese. La frontiera tra Slovenia e Austria è quasi del tutto inaccessibile da tempo, per cui, chi vuole andare in Germania e in Nord Europa è costretto ad allungare il viaggio verso l’Italia e la Francia.

Come Fawzia, Nadim e Tamkin, molte persone che transitano per il valico transfrontaliero del Monginevro sono afghane, ma anche pachistane, iraniane e del Nord Africa. Queste ultime preferiscono evitare la Libia, provando a raggiungere l’Europa attraverso la Turchia e i paesi dell’ex Jugoslavia. Secondo i dati del Danish refugee council, l’85% sono famiglie, a volte con bambini piccoli o nati durante il viaggio.

Continuano a tentare la sorte anche persone provenienti dall’Africa subsahariana, attraverso la rotta del Mediterraneo centrale, e richiedenti asilo in Italia, ma che puntano verso la Francia.

Secondo i dati raccolti dal Refuge solidaire di Briançon, il primo ricovero per migranti in transito in territorio francese, tra luglio 2017 e dicembre 2020, sono arrivate in Francia dal Monginevro 11.632 persone. È probabile che il numero sia superiore, perché non tutti i migranti si fermano al rifugio.

La frontiera tra la neve

Alle 20.20, l’autobus su cui viaggiano Fawzia, Nadim e Tamkin si ferma sulla strada principale di Clavière. L’abitato, nota meta sciistica della Via Lattea, è immerso in un silenzio inusuale per una vigilia di Capodanno. Le restrizioni nazionali per ridurre il contagio di Covid-19 hanno imposto la chiusura degli impianti sciistici e dei ristoranti. Il termometro del centro di informazione turistica segna i sette gradi sotto zero.

Insieme a Fawzia e i suoi figli, scendono a Clavière quattro ragazzi iracheni. Davanti alla chiesa del paese, i volontari della Croce Rossa, con il progetto MigrAlp, fin dall’inverno del 2017, si occupano di informare i migranti delle difficoltà del cammino nella neve, oltre a fornire assistenza sanitaria in caso di emergenza.

«Tra gennaio e il 15 febbraio abbiamo assistito 420 persone, tra chi prova ad attraversare la frontiera e chi è stato respinto dalla polizia francese – dichiara Michele Belmondo della Croce Rossa di Susa -. Ogni sera consegniamo ai migranti un volantino con i numeri di emergenza da chiamare se si trovano in difficoltà».

Fawzia e gli altri spariscono dietro alla chiesetta di Clavière, verso le piste da sci di fondo, e iniziano a camminare in direzione Francia. Le seggiovie sopra di loro si ergono immobili contro la luna quasi piena, che appare e scompare dietro le nuvole gravide.

Come previsto, inizia a nevicare. Fawzia sente che le forze la stanno abbandonando e si appoggia a sua figlia Tamkin. La fitta nevicata non le permette di proseguire il cammino. Nadim ha già visto questa scena sulla frontiera tra Slovenia e Croazia e, per evitare che la situazione della madre si complichi, prende una decisione. La famiglia torna indietro e chiede aiuto alla Croce Rossa, che la soccorre e la trasporta al rifugio Fraternità Massi, a un centinaio di metri dalla stazione di Oulx.

«Aperto da settembre 2018, il rifugio è gestito operativamente dalla Fondazione Talità Kum negli edifici dell’ordine dei Salesiani, con il supporto della prefettura, del comune e il finanziamento della Fondazione Magnetto e della Curia – spiega don Luigi Chiampo, fondatore di Talità Kum -. Abbiamo una capienza di 30 posti letto e in quest’ultimo periodo ospitiamo circa 20-30 persone a notte. Al momento stiamo presentando un progetto con la prefettura per poter continuare a fornire assistenza».

Dalle 4 del pomeriggio alle 10 del mattino, gli operatori del rifugio forniscono un pasto caldo, abbigliamento pesante e un letto ai migranti in transito, bloccati dalle condizioni meteorologiche o respinti dalla polizia francese. Qui l’associazione Rainbow for Africa fornisce assistenza sanitaria e l’Associazione di Studi giuridici per l’immigrazione consulenze legali, così come fanno gli operatori della Diaconia Valdese in un ufficio a pochi passi dalla stazione di Oulx.

Oltre al rifugio Fraternità Massi, da dicembre 2018, a Oulx è stata occupata una casa cantoniera, attualmente a rischio di sgombero, che offre accoglienza 24 ore su 24, diventando un punto di riferimento per numerosi migranti in transito che possono sostare nelle ore diurne, prima di tentare l’attraversamento notturno. La chiusura della casa limiterebbe l’assistenza ai migranti, che non avrebbero un ricovero dove ripararsi di giorno.

Il game infinito

Alle 16.40 di alcuni giorni dopo il primo tentativo di superamento del confine nella neve, Fawzia, Nadim e Tamkin provano a lasciarsi alle spalle l’Italia in Flixbus, la compagnia internazionale di autobus low cost. Pur avendo acquistato un regolare biglietto fino a Lione, la traversata dura meno del previsto. Infatti, arrivati in prossimità del tunnel del Frejus, la polizia di frontiera francese procede al controllo dei documenti. In pochi istanti Fawzia e i suoi figli si ritrovano fuori dall’autobus. Senza fornire maggiori spiegazioni, la gendarmerie rifiuta l’ingresso alla famiglia, affidandola alla polizia italiana che la scarica a Oulx, a pochi passi dal rifugio Fraternità Massi. «Chi arriva dalla rotta balcanica sa che la logica dei respingimenti da parte della polizia si ripete sulle successive frontiere. Una sorta di “game infinito”, un gioco al massacro che, in maniera più o meno violenta, inizia da quando i cittadini extracomunitari arrivano ai confini dell’Unione europea fino al paese di destinazione – dichiara Davide Rostan, il pastore valdese di Susa -. Dopo decine e decine di tentativi di attraversamento, i migranti spesso riescono a superare le frontiere, ma il costo in termini economici, fisici e psicologici è incalcolabile».

Fawzia, Nadim e Tamkin sono stati respinti lungo tutto il viaggio, dall’Ungheria, dalla Romania, dalla Croazia e infine dalla Francia.

Da novembre 2020, in seguito all’attentato terroristico di Nizza del 29 ottobre, il governo francese ha investito nella militarizzazione del valico transalpino, stanziando 60 nuovi gendarmi sulla frontiera, per intensificare i controlli migratori. La Police aux frontières perlustra anche i sentieri montani, in cerca dei migranti che attraversano il confine camminando nella neve, spesso rincorrendoli per fermarli e respingerli al Monginevro.

«Dai dati raccolti emergono profili inquietanti sulle violazioni compiute dalla polizia francese – dichiara Giulia Spagna, responsabile dei programmi regionali per l’Europa del Danish refugee council -. I richiedenti asilo vengono respinti senza alcuna procedura ufficiale, ma in tacito accordo con la polizia italiana, con cui è in atto una collaborazione informale per aggirare le leggi internazionali sulla protezione e asilo, che prevedono invece il controllo dell’avvenuta registrazione delle impronte digitali delle persone migranti in un paese dell’Unione europea prima di attuare un respingimento. Di recente ci siamo abituati alle immagini scioccanti di persone e famiglie al freddo, derubate e picchiate lungo la rotta balcanica. Il Piemonte e la Liguria sono le tappe successive di quella rotta, e vi troviamo le stesse persone, ancora più stremate, nuovamente umiliate nei loro diritti umani».

Verso la Germania

Di fronte all’impossibilità di superare il valico transalpino, Nadim, Fawzia e Tamkin cambiano strategia e si dirigono verso la frontiera di Ventimiglia, per provare a raggiungere la Francia da quel versante.

«Dopo un controllo dei documenti, la polizia ci ha fatto scendere dal treno prima di raggiungere Nizza – racconta Nadim al telefono -. Il giorno dopo ci abbiamo riprovato e, incredibilmente, abbiamo avuto fortuna e siamo arrivati a Mentone».

A molti, invece, è andata peggio.

Finalmente in Francia, la famiglia prende l’ennesimo bus e arriva a Parigi. Da lì, pagando 1.100 euro a un ultimo passeur, il viaggio termina ad Amburgo, in Germania. È il 18 gennaio del 2021. Un anno, un mese e circa 15 giorni dalla partenza da Kabul.

«Abbiamo speso intorno ai 65mila dollari per il viaggio – racconta Nadim -. A volte mi sembra impossibile che non abbiamo più un soldo e che siamo sopravvissuti a quest’anno. Ma so anche che siamo fortunati. Ho visto persone in Serbia che viaggiavano da tre anni e non riuscivano a trovare i soldi per superare la frontiera».

Nadim, Fawzia e Tamkin richiedono asilo politico ad Amburgo, ma la registrazione delle impronte digitali in Slovenia mette la famiglia di fronte a una grande incertezza. Secondo il regolamento di Dublino, le procedure di richiesta di asilo devono essere gestite nel primo paese europeo di ingresso. L’eventuale ricollocazione in un altro stato dell’Unione europea avviene in un secondo tempo e non sempre con successo.

«Abbiamo un permesso di soggiorno di tre mesi in Germania, ma non sappiamo se la nostra pratica di asilo può essere gestita qui o se siamo obbligati a tornare in Slovenia», racconta Nadim.

A oggi, la famiglia di Fawzia si trova in un campo per migranti in attesa di capire cosa ne sarà del loro futuro.

«Le restrizioni delle frontiere arricchiscono solamente i trafficanti – spiega il pastore valdese Rostan -. Se ai migranti venisse concessa l’opportunità di ricevere un visto per raggiungere l’Europa, potrebbero investire i loro soldi per affittare una casa, acquistare un corso di lingua e avere il tempo di cercarsi un lavoro, invece di essere costretti a pagare organizzazioni criminali per raggiungere la propria meta».

L’umanità del confine

Nel libro di Marco Balzano «Le parole sono importanti», l’autore spiega che il termine «confine», dal latino cum e finis, è letteralmente il luogo dove si finisce insieme, la soglia dell’incontro, la frontiera nel suo senso etimologico, uno spazio dove si sta di fronte e si intravvede l’altro.

Il confine tra Francia e Italia è un muro difficile da valicare, ma è anche il luogo dove organizzazioni e persone italiane e francesi cooperano per assistere i migranti in transito, dando loro cibo, vestiario e cure mediche. Una sorta di gestione umana delle frontiere, che si oppone di fatto alla militarizzazione dei confini imposta dalle istituzioni europee.

Dal 2017 a oggi, quattro persone sono morte durante l’attraversamento del confine del Monginevro. Eppure le temperature rigide, i sentieri impervi, la neve, la mancanza di indumenti pesanti e l’inesperienza dei viaggiatori avrebbero potuto provocare un numero di vittime superiore. Dietro a disgrazie scampate ci sono i ragazzi della casa cantoniera, gli operatori della Fondazione Talitá Kum, la Croce Rossa, il Soccorso alpino, il personale medico di Rainbow for Africa, Medici per i diritti umani, i volontari del Refuge solidaire di Briançon, ma anche singoli cittadini.

La società civile ha saputo creare un cordone di umanità così organizzato che spesso sfugge anche alla comprensione dei migranti, ma che permette a persone come Fawzia, Tamkin e Nadim di non perdere i loro sogni e neppure la loro vita sulla sottile linea di frontiera.

Simona Carnino




La dignità sotto i piedi

testo di Daniele Biella |


In Piazza Libertà, davanti alla stazione, una coppia si prende cura dei migranti che arrivano in Italia dopo le peripezie e le violenze alle frontiere. Curare le loro ferite sotto gli occhi di tutti, è un urlo contro la normalizzazione del male.

«Avevo un ricordo bellissimo dei boschi della ex Jugoslavia, mi sembravano paesaggi usciti da film della Disney. Ora, quando li guardo, penso alla tragedia che si sta consumando in quei luoghi. Decine di persone – non sapremo mai quante – vi perdono la vita tentando di migrare verso il Nord Europa. È straziante».

Lorena Fornasir ha uno sguardo al quale non si può sfuggire: nei suoi occhi chiarissimi si specchiano le immagini create dalle parole che ci ha appena rivolto.

Non sono immagini belle, ma questa è la realtà: benvenuti in Europa, dove le frontiere uccidono chi cerca di superarle con la speranza di una vita migliore, ma senza documenti validi.

© Daniele Biella

Unico obiettivo: la cura

Incontriamo Lorena in Piazza Libertà, davanti alla stazione di Trieste, in un tardo pomeriggio di settembre, mentre la seconda ondata di Covid inizia a svegliarsi. È qui che la donna, psicologa 67enne, giudice onorario minorile con un’energia inesauribile, si fa trovare tutti i giorni assieme al marito Gian Andrea Franchi – filosofo e storico, ex professore di 84 anni – e ai volontari dell’associazione Linea d’ombra nata nel 2019. Dedicano tempo a presidiare il luogo con un unico obiettivo: la cura.

«Qui c’è un passaggio continuo di migranti che arrivano dalla “rotta balcanica”. Si fermano a Trieste giusto il tempo per riprendere le forze prima di provare ad andare a Nord», spiega Lorena. «Il problema è che molti arrivano a dir poco malridotti e bisognosi di attenzione. Noi veniamo qui proprio per questo, per curarli: medichiamo le ferite a piedi, gambe, braccia, e ascoltiamo i loro tremendi racconti».

© Daniele Biella

Respingimenti e violenze

Nessuna fake news in questa brutta storia. È tutto vero: la controprova dello scempio dei diritti umani in atto ai confini dell’Europa sono proprio loro, i sopravvissuti con i traumi che si portano addosso.

«Tentava di attraversare il confine italo sloveno insieme alla moglie e a un compagno, ma è morto cadendo in un burrone dopo un volo di venti metri, nei pressi del castello di San Servolo, in provincia di Trieste», riporta Radio Capodistria il primo gennaio 2020. È una vicenda che a Lorena Fornasir ritorna spesso in mente, perché ricorda la disperazione della moglie. Così come ricorda i tanti racconti di chi riesce ad arrivare in Piazza Libertà – ribattezzata da loro Piazza del Mondo – e narra di persone care e compagni di viaggio persi nel buio dei boschi, nelle settimane di cammino tra le frontiere balcaniche e, soprattutto, tra un respingimento e l’altro: «Le persone vengono rimandate indietro dalla polizia di confine, sia in Croazia che in Slovenia. Negli ultimi mesi anche all’arrivo in Italia», sottolinea Gian Andrea.

«Ci sarebbe il diritto del migrante a chiedere asilo politico, ma evidentemente non viene rispettato». E c’è di più: «Le persone che assistiamo in piazza arrivano spesso con evidenti segni di violenze, e denunciano pestaggi da parte delle forze di polizia una volta entrati nel confine croato».

Botte documentate da foto e video che anche gli europarlamentari di Bruxelles conoscono almeno dal 2017, grazie alle mobilitazioni di associazioni per i diritti umani di tutta Europa, compresa Linea d’ombra Odv (Organizzazione di volontariato – www.lineadombra.org), la onlus creata da Fornasir e Franchi. Violenze che nessuno pare riuscire a fermare, anche per la resistenza del governo croato ad ammettere le responsabilità delle proprie forze dell’ordine.

The game, il gioco

Gli stessi Lorena e Gian Andrea hanno visto con i loro occhi i segni di quelle percosse quasi in diretta, quando nel 2015 hanno iniziato a fare la spola con altri amici tra Italia e Balcani, portando vestiario e viveri nei campi profughi informali che si erano creati a Bihac e Velika Kladusa, al confine tra Bosnia e Croazia: «Non solo le botte. Alle persone vengono rotti i telefoni cellulari, requisiti gli zaini, e a volte addirittura tolti i vestiti che indossano», aggiunge Gian Andrea, lasciando intuire tutto il proprio sdegno.

Parecchi di quei migranti che avevano conosciuto al confine tra Bosnia e Croazia, ragazzi e giovani soli, ma anche famiglie con bambini e anziani, li hanno poi reincontrati nei pressi della stazione di Trieste: quelli fortunati che sono riusciti ad arrivare in Italia, nonostante tutto. Tra loro, alcuni hanno affrontato l’ultima parte del viaggio anche decine di volte: ogni volta venivano respinti, ma dopo avere recuperato le forze ripartivano, perché non c’era possibilità di tornare indietro nel posto da cui erano scappati. L’unica speranza era quella di andare avanti, raggiungere il Nord Europa.

Questo continuo procedere ed essere respinti, lo chiamano the game, il gioco: un nome che richiama il divertimento, usato però per qualcosa che di giocoso non ha nulla, forse per esorcizzare una realtà che fino a pochi anni fa non si sarebbe immaginata nemmeno nei peggiori incubi, se pensiamo che accade a ridosso di quell’Europa che nel 2012 ha ricevuto il premio Nobel per la Pace per il suo impegno a cancellare guerre e violenze dal proprio vocabolario.

Una straordinaria prova di quella solidarietà che abbatte i muri e crea legami di fratellanza. La comunità senegalese a Trieste si è mobilitata in sostegno di chi arriva dalla rotta balcanica, fratelli migranti che arrivano da altre terre e per altre vie. Un incontro toccante, ieri in Piazza Libertà, quasi un abbraccio. Un aiuto concreto, consegnato a Linea d’ombra, da parte di chi ha vissuto sulla propria pelle la violenza dei confini, destinato a chi ancora è in viaggio.

Davanti alla stazione

Dal 2019, con un flusso di arrivi notevole (almeno 15mila persone secondo i dati ufficiali dell’Agenzia europea Frontex), l’impegno dei volontari di Linea d’ombra in Piazza Libertà è diventato quotidiano. I viaggi solidali si sono interrotti, in particolare con l’arrivo del Coronavirus, e oggi l’attività è concentrata proprio lì.

«Abbiamo appena ricevuto notizie da una famiglia iraniana che è passata qualche settimana fa da Trieste, dopo avere superato la rotta balcanica. È riuscita ad arrivare in Francia e, da lì, ha raggiunto la casa di un parente in Germania, dove ora sta bene», ci racconta Franchi a fine novembre con sollievo. «Li ricordo bene, perché ci ha impressionato il fatto che fosse la loro figlia di 7 anni, che parlava inglese, a relazionarsi con noi per fare capire i loro bisogni».

Storie. Tante storie che i volontari di Linea d’ombra e di altre associazioni con le quali Linea d’ombra collabora, incrociano ogni giorno. Oltre all’associazione di Lorena e Gian Andrea, infatti, in Piazza Libertà sono presenti quotidianamente l’Ics, Consorzio italiano di solidarietà, che agevola le pratiche di asilo per i pochi che non vogliono continuare il viaggio verso Nord; l’associazione Strada SiCura, con dottoresse che medicano le ferite; e c’è chi si occupa di preparare un pasto caldo, di distribuire i vestiti e le scarpe donati.

Tra i migranti che arrivano a Trieste, alcuni si fermano per chiedere la protezione umanitaria: è la scelta di una giovane medico siro palestinese fuggita dalla guerra, che oggi aiuta a curare le ferite di chi arriva, così come quella emblematica e drammatica di Umar Adnan, un ragazzo pachistano oggi poco più che ventenne, partito da solo a 18 anni dal suo paese, dopo un’infanzia segnata dallo sfruttamento lavorativo, e arrivato in Italia dopo aver subito, tra le altre cose, le angherie di un gruppo di poliziotti croati al confine: «Mercoledì 25 settembre 2019 ho incrociato Adnan lungo la strada che scende dal confine di Velika Kladusa in Bosnia Erzegovina, dopo che era stato catturato, seviziato e respinto dalla polizia croata. Gli avevano tolto le scarpe e lo avevano torturato con una sbarra incandescente scorticandogli la gamba», scrive inorridita Lorena in quello che è poi diventato un appello rivolto all’Unione europea intitolato «Torture ai confini d’Europa», diffuso tramite la piattaforma change.org, dove ha raccolto quasi 70mila firme.

Incontro in piazza con gli Scouts sloveni in Italia (Slovenska Zamejska Skavtska Organizacija), venuti per conoscere la realtà di chi arriva dalla rotta balcanica e portare un aiuto concreto e prezioso

La disumanità

Fornasir ricorda nel testo del suo appello anche un’altra persona che però non ce l’ha fatta: si chiamava Alì. «Nel febbraio 2019, Alì era stato catturato e la polizia croata, dopo vari maltrattamenti, dalla Croazia lo aveva respinto in Bosnia, tra la neve e il gelo, levandogli vestiti e scarpe. Alì era ritornato a Velika Kladusa a piedi, tra la neve, vagando per ore. I suoi piedi si erano congelati ed erano andati in necrosi. Dopo mesi di sofferenze, Alì è morto sabato 21 settembre, a causa della disumanità».

Molte persone, non solo Lorena e Gian Andrea, hanno tentato di alzare la voce per Alì, ma nessuna autorità, Onu compresa, è riuscita a evitare la sua morte.

È andata meglio, nonostante tutto, a Umar Adnan che incontriamo in Piazza Libertà dove, una volta recuperato l’uso della gamba ferita, oggi offre aiuto a sua volta ai nuovi arrivati, e scatta foto molto utili a Linea d’ombra per documentare e diffondere informazioni su quello che accade. «I poliziotti croati volevano obbligarmi a dichiarare che ero un trafficante, e quando negavo arrivavano le botte», ricorda, aiutato dal mediatore volontario Raheem Ullah, suo connazionale arrivato a Trieste per il proprio lavoro di ricercatore in biologia. «È passato un anno e mezzo, qui mi trovo bene e posso dare una mano, oltre che ricominciare a vivere. Ma di certo sono ancora molto risentito. Non riesco e non voglio perdonare. Nessuno mi ha chiesto scusa», conclude mostrandoci i segni ancora ben visibili sulla gamba.

Tollerati perché utili

L’aspetto importante è che ora Umar Adnan ha ritrovato il sorriso, grazie anche a questa «normalità dell’aiutare» che, nella Piazza del Mondo, è visibile a occhio nudo. Una normalità quotidiana, anche se precaria. «Siamo tollerati dalle autorità locali perché siamo funzionali», analizza Franchi. «Medicando le persone, tamponiamo un problema, mettiamo in atto quello che dovrebbero fare loro di fronte a persone bisognose d’aiuto».

Anche durante tutto questo periodo di pandemia, infatti, a Linea d’Ombra è stato permesso di operare, ovviamente con tutti i dispositivi di protezione individuale del caso.

L’unica opposizione esplicita al loro operato, di fatto, è arrivata dalle frange di estrema destra della zona, che un giorno di fine ottobre hanno indetto un presidio nella piazza. Quel giorno, dall’altra parte, si sono fatte presenti numerose persone solidali con i migranti e con i volontari che danno loro supporto.

«Dopo quel momento, a livello cittadino è nato un gruppo di persone che ora si ritrova per coordinarsi su come agire per affrontare le problematiche di Trieste. Partendo dai migranti», aggiunge Gian Andrea, «si riflette anche su altri aspetti, politici e sociali, come le condizioni carcerarie, ad esempio».

Scarpe, giacconi, tute

«Un’altra novità degli ultimi mesi è, nonostante le difficoltà causate dal Covid-19, la creazione di una rete organica di attivisti che arriva fino al confine con la Francia, seguendo gli spostamenti dei migranti tra Trieste, Veneto, Milano, Torino, Oulx e poi Briançon, in Francia».

I migranti scelgono la via più lunga per arrivare in Germania perché la frontiera austriaca è quasi del tutto inaccessibile da tempo. Del resto, la situazione, in questi flussi migratori, è in continuo cambiamento: per la paura di essere respinti al confine italo sloveno vicino a Trieste, le persone cercano sentieri tra le montagne e si spostano anche verso la provincia di Udine senza passare dalla città, con il rischio di diventare ancora più invisibili e di rimanere quindi senza assistenza in casi di emergenza.

Il 2021 si preannuncia un anno duro per tutti a causa della pandemia ancora in corso, ma sarà ancora più arduo per chi non ha una casa e sta cercando un luogo sicuro dove arrivare.

Con una meravigliosa catena di solidarietà, Linea d’ombra continua a ricevere donazioni sia di soldi che di materiale, entrambe molto importanti perché il bisogno è sempre alto: «In questo periodo nel quale fa più freddo, a volte ci sono 30 persone al giorno, a volte meno di una decina, dobbiamo essere sempre pronti», ci dice Franchi.

«Abbiamo bisogno più di tutto di scarpe, giacconi, pantaloni, tute e zaini, mentre usiamo i fondi per comprare in particolare cibo e medicinali».

dalla descrizione della foto su FB: “#BalkanRouteEurope Trieste 10 gennaio 2021 Piazza mondo: <>
Carrettino: “sarò anche pazzo ma sono qui in nome delle madri del mondo, amiamo la vita che mettiamo al mondo, ce la consegniamo l’una con l’altra, nel dolore ci rafforziamo. Aspetto i loro figli, giorno dopo giorno, cerco il coraggio di sognare e di provare a far vivere i sogni. Ma, ti prego piazza del mondo, grida a tutti: APRITE LE FRONTIERE. Lipa è sempre, non solo ora che si è incendiato il campo”

La normalità del male

Mentre accompagniamo Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi lungo la strada che porta a casa loro, una volta lasciata la Piazza del Mondo, l’immagine che abbiamo di questa coppia è quella di un mix di umiltà e tenacia talmente forti da risultare sorprendenti, perlomeno a prima vista. Ma pensando alle storie e alle scelte di vita di tanti uomini e donne che hanno fatto la storia con la loro dedizione agli ultimi, dopotutto, capiamo che loro due fanno parte di questa categoria di persone: una coppia splendidamente normale. Due operatori di pace che hanno come orizzonte il bene dell’umanità.

«Tra di noi è un continuo scambio: io ho un approccio più politico e intellettuale, lei è più corporea e immediata», ragiona Franchi. «Ci completiamo», aggiunge la moglie prima di gettare uno sguardo all’indietro, verso Piazza Libertà e la stazione. «Il dolore che provo, a volte, quando volto le spalle alla piazza, è tremendo: so che le persone andranno a dormire in un posto di fortuna, e rimarranno lì, soli con i loro drammi personali, mentre io vado a casa al sicuro. Questo mi pesa tanto. Mi preoccupo soprattutto per i giovani soli, perché le famiglie che arrivano assieme hanno almeno il conforto di essere un gruppo, di avere dei bambini che, quando scherzano e ridono, portano gioia anche nei momenti peggiori. I ragazzi invece no, e spesso sono in giro da anni, tra Serbia e Bosnia, respinti da tutti e con danni psicologici irreversibili. Mi chiedo quale sarà il loro futuro».

Lorena ci confida poi un suo cruccio: quello di sentire dentro sé crescere l’abitudine, conseguenza dell’aver visto per troppo tempo troppe situazioni insostenibili: «Non sento più tanta rabbia come quella che provavo nel 2015, quando ho iniziato. E questo mi stupisce e mi amareggia, perché significa che ti abitui alla bruttura, alle deportazioni, alle violenze. Perdo di vista l’essere umano mentre mi sforzo di capire e poi denunciare i meccanismi con cui i governi respingono le persone alle frontiere. Ci vuole anche questo aspetto, certo, ma la rabbia, se ben canalizzata, è un collante sociale che genera la giusta reattività per chiedere conto a chi di dovere di quanto accade. Invece se il male diventa “normale”, un’abitudine, rischiamo la rassegnazione, l’assuefazione. Per questo il mio sentimento più forte oggi è resistere alla normalizzazione della barbarie in atto».

Sentendo le parole della moglie, Gian Andrea prosegue e rilancia: «La nostra resistenza è continuare a esserci, “esistere” in questa piazza, fare vedere che l’azione diretta è il modo migliore per evitare che quello che accade cada nell’oblio. Stiamo parlando di persone come noi che non chiedono altro se non di trovare un luogo dove stare che sia migliore di quello dal quale sono venute via».

Un gruppo di liceali triestini ha colto al volo il messaggio: a novembre, dopo che una loro professoressa ha invitato una volontaria di Linea d’Ombra in classe, ha raccolto decine di paia di scarpe in ottimo stato.

Quelle scarpe ora sono ai piedi di qualcuno che ne aveva un grande bisogno.

Daniele Biella

Archivio MC