Giovani, costruite il vostro destino

testo di Marco Bello |


È stato innanzitutto un amico d’infanzia di Sankara. Ci racconta il paese reale, la sfida del terrorismo e i conti ancora aperti con un passato su cui fare giustizia. E ci ricorda l’attualità e l’universalità del messaggio del presidente visionario.

Fidél Toé, classe 1949, è stato ministro del Lavoro, Sicurezza sociale e Funzione pubblica di Thomas Sankara (1983-87). Era amico d’infanzia del presidente visionario del Burkina Faso. Avevano, in fatti, frequentato insieme il liceo Ouezzin Coulibaly di Bobo Diulasso.

«Ho conosciuto Sankara nel 1962», ci racconta. «Abbiamo avuto relazioni sane, abbiamo discusso, a volte non eravamo d’accordo».

L’ex minstro è oggi in pensione, dopo una vita nella funzione pubblica, un mandato da deputato (2002-2007), e anni di impegno nella lotta all’Hiv nel suo paese, come coordinatore della Cellula ministeriale di lotta al Hiv/Aids del ministero del Lavoro e della sicurezza sociale.

Toé ha conosciuto l’esilio, dopo l’assassinio di Sankara, avvenuto il 15 ottobre 1987. Ha passato sette anni tra il Ghana e il Congo Brazzaville (1987-94).

È un signore cordiale e accogliente, e quando parla è subito chiaro che porta dentro di sé una grande fetta di storia del Burkina Faso. «Scriverò una memoria – ci confida -, ho tante cose da raccontare».

Lo abbiamo raggiunto telefonicamente, nella sua casa di Ouagadougou. Gli facciamo alcune domande sulla difficile situazione che attraversa oggi il paese saheliano.

Terrorismo islamista

Onorevole, come legge gli ultimi, sanguinosi, attacchi dei terroristi in Burkina Faso?

«Gli attacchi sono iniziati nel 2015, nel Nord del paese. Hanno sorpreso molti, mentre altri se li aspettavano. Con l’insediamento del primo governo del presidente Roch Marc Christian
Kaboré sono arrivati attacchi precisi agli hotel per stranieri, e poi allo stato maggiore dell’esercito. Il presidente ha rivelato che alcune persone sospette avevano reclamato, informalmente, al governo, alcuni veicoli promessi dal precedente presidente, Blaise Compaoré. Secondo me c’è la complicità del vecchio regime. Sono state intercettate telefonate nelle quali si diceva che occorreva destabilizzare il paese.

Oggi, pur non conoscendo la faccia di chi attacca, sappiamo che ci sono tra loro dei giovani burkinabè, reclutati dagli jihadisti. Devo ammettere che in qualche modo anche noi siamo complici, per il fatto di non denunciare i nostri figli. Se un ragazzo che non possiede nulla e non lavora, torna al villaggio pieno di soldi, certo non li ha vinti alla lotteria. Li ha ottenuti tramite le armi, la droga o la frode.

Sono questi elementi endogeni che permettono al terrorismo di attaccare, installarsi e sfruttare. Come nell’ultimo attacco a Solhan (vedi box), un villaggio nei pressi del quale si estrae oro in maniera tradizionale. Le autorità dovrebbero capire che se abbiamo l’oro non dobbiamo metterlo a disposizione di chiunque. La ricerca artigianale di questo metallo è oggi fonte di insicurezza, perché nei pressi dei siti si installano persone giunte da ogni dove, anche dall’estero, e non si ha più il controllo di chi è presente sul territorio. Inoltre, le nostre frontiere sono molto permeabili. In fondo penso ci sia una mancanza dei servizi d’informazione oltre che una debolezza organizzativa.

Durante la rivoluzione (sankarista, 1983-87, ndr), chiunque arrivasse in un villaggio doveva presentarsi alle autorità e al Cdr locale (Comitato di difesa della rivoluzione), per essere registrato. Inoltre, un altro problema è che non abbiamo insegnato alla popolazione a difendersi, così la gente scappa di fronte al nemico».

Ma non dovrebbero essere l’esercito e la polizia a garantire la sicurezza dei cittadini?

«È vero, ma in queste situazioni. quando il problema è troppo grande per l’esercito, penso che la popolazione debba sapersi difendere. Si tratta di autodifesa per supplire alle mancanze delle forze di sicurezza. In diversi casi di attacchi, l’esercito era a decine di chilometri, ed è potuto intervenire solo in un secondo tempo. Le nostre frontiere sono difficili da controllare con l’esercito che abbiamo. Ci sono pure soldati che si rifiutano di andare in zone remote. Forse c’è un problema a livello delle gerarchie militari.

Poi c’è la questione dei siti auriferi. Se c’è una popolazione che si organizza per sfruttare l’oro, deve anche essere disponibile a impiegare dei soldi per la sicurezza, per proteggere il minerale estratto. In altri paesi succede così».

Più in generale, come valuta la lotta al terrorismo da parte di questo governo?

«Devo dire che non ci sono stati risultati, quindi c’è un fallimento da questo punto di vista. I servizi non funzionano, non si sa quando arriva il nemico. Dicono che si è fatto un negoziato, ma in verità non è cambiato nulla. Non si è ancora trovata la soluzione».

Inoltre il terrorismo a livello internazionale sembra una scusa per una presenza straniera nel paese.

«Il ricorso a forze straniere dimostra l’impotenza della nostra nazione di affrontare il nemico. Penso che non si sia spiegata in modo adeguato l’importanza di questa lotta ai nostri giovani, perché vediamo dei burkinabè che criticano l’intervento straniero, ma essi stessi non fanno nulla. Non c’è in noi la coscienza che dobbiamo batterci e che, chi può, deve andare al fronte. Ci sono tanti, anche della società civile, che sono contro l’intervento militare, che trovano troppo violento, ma loro non si sporcano mai le mani. Non c’è una guerra con le mani pulite. Ci saranno altre situazioni difficili, queste persone sono molto violente. Negli eventi di Solhan si vede la barbarie. E questo ti fa diventare barbaro, e ti fa chiedere una giustizia punitiva immediata».

Notizie di attacchi jihadisti nel Nord del paese (Photo by OLYMPIA DE MAISMONT / AFP)

L’insurrezione

Parlando dell’insurrezione del 2014 e poi di quella del 2015 contro il colpo di stato, cosa è rimasto del movimento popolare?

«Nel 2014 c’è stata un’insurrezione salutare, che ha visto la fuga di un uomo che non voleva più lasciare il potere, mentre la nostra Costituzione prevede che il capo di stato può stare 5 anni, rinnovabile una volta. Ma Blaise Compaoré voleva un rinnovo perpetuo.

Le forze che hanno fatto l’insurrezione erano dei vecchi amici del partito di Compaoré che si erano dimessi (alcuni mesi prima, ndr) unendosi all’opposizione storica. Movimento che si era rafforzato con i giovani di Ouagadougou e di tutto il paese che si sono sollevati affinché ci fosse un rinnovamento.

Però, quando si fa un’insurrezione, e non c’è uno stato maggiore che dica, nel caso di successo, che cosa si farà, ecco che altri, più organizzati, possono appropriarsene. È quello che è accaduto qui con i militari, che hanno “recuperato” i risultati della rivolta. L’esercito è organizzato, ha potuto subito dire chi aveva preso il potere, mettere in piedi un sistema di sicurezza (per evitare derive, ndr). Hanno presentato un volto unico, mentre i partiti politici, che avevano mandato via Compaoré, non sono riusciti a presentare una struttura e una visione unica del dopo insurrezione. I militari stessi hanno messo in salvo il presidente deposto, facendolo fuoriuscire dal paese in segretezza.

Allo stesso tempo hanno utilizzato il linguaggio degli insorti e hanno preso le redini. Le contraddizioni sono poi venute fuori con il colpo di stato del generale Dinederé (sventato da una successiva insurrezione, ndr).

Oggi assisto a un fenomeno che mi fa sorridere, ovvero gli ex del sistema Cdp (Congresso per la democrazia e il progresso, il partito di Compaoré che ha regnato 27 anni, ndr) che minacciano di preparare un’insurrezione contro questo governo, che è stato acquisito a sua volta dopo un sollevamento popolare.

Aspettiamo di vedere cosa faranno. Dicono che il regime attuale è fallito. Il governo ha creato delle forze speciali, e loro dicono di essere contrari, che esisteva già il Rsp (Reggimento di sicurezza presidenziale, il corpo militare scelto che proteggeva il presidente ed è stato origine del colpo di stato del 2015, ndr). Ma questo proteggeva un uomo e la sua famiglia e non la popolazione. Gli ex del Cdp dicono che il governo deve dare le dimissioni, altrimenti loro lo cacceranno con la forza. Poi chiedono che per la riconciliazione nazionale si faccia tornare Blaise Compaoré, che attualmente ha cambiato nome in Kouassi Kodjo, e vive in Costa d’Avorio».

Verità e giustizia sul passato

Facendo un passo indietro, in questo periodo si parla molto del processo contro i responsabili dell’uccisione di Thomas Sankara e dei suoi dodici compagni, quel 15 ottobre 1987. Lei come è coinvolto?

«Tutti gli elementi d’indagine sono riuniti affinché il processo possa cominciare. Il giudice d’istruzione, di grande competenza, ha convocato molti testimoni. Io stesso sono stato chiamato a testimoniare e ho raccontato quello che so. Devo dire che nessuno, prima d’ora, mi aveva convocato su questo. Ci hanno accusato di tante cose, me e Sankara, ma nessuno mi aveva mai interrogato.

Inoltre, il giudice d’istruzione, ha finalmente avuto accesso ai dossier francesi sul caso, che erano secretati. Qui tutti (gli avvocati, la famiglia, io stesso) pensano che il processo avrà luogo.

Per questo chiediamo che il termine “Riconciliazione nazionale” non sia esibito per dire, dobbiamo stare zitti, ma, al contrario, occorre fare verità su quanto è successo. Un paese che non ha la verità sul suo passato, che mente a se stesso, non può andare avanti. Non potrà dire di voler giudicare i ladri, se non ha fatto luce sui suoi dirigenti.

Penso che ci sarà il processo, e che il presidente Sankara possa essere sepolto, perché i suoi resti attendono ancora un degno commiato. Spero che si faccia presto, perché da quando se ne parla alcuni testimoni sono già deceduti. Stiamo diventando vecchi».

L’attualità di Sankara

Qual è l’attualità del messaggio del presidente Thomas Sankara per i giovani del Burkina Faso?

«Un messaggio per i giovani dell’Africa e del mondo, che ha superato la dimensione geografica del Burkina Faso. I giovani si devono organizzare seriamente. Non devono aspettarsi che tutto sia facile, ma devono responsabilizzarsi per prendere in mano il proprio destino. Occorre avere uno sguardo nuovo sul modo in cui organizzarsi, in tutti i settori di attività. Sankara voleva rivoluzionare i diversi settori. È stato il primo a parlare contro la deforestazione, per la protezione della natura, per un’economia endogena. Altrimenti consumiamo prodotti provenienti dall’estero e non sviluppiamo la nostra economia. Come, ad esempio, l’allevamento di piccoli animali, nel quale siamo forti.

L’avvenire del Burkina Faso non è nelle miniere d’oro. I giacimenti si sono costituiti durante periodi molto lunghi, non si può venire e sfruttarli per dieci anni, portando via tutto, dando allo stato solo qualche inezia e dicendo che si contribuisce al paese.

Sankara ha sempre detto che anche se troviamo del petrolio in Burkina, non sarà quello che ci salverà. Basta guardare ora in che stato è l’economia di tutti quei paesi che hanno trovato il petrolio, con i loro dirigenti che rubano i soldi derivati. Per l’oro è la stessa cosa».

Provincia Loroum, Nord Burkina

L’insurrezione ha in qualche modo «sdoganato» la figura di Thomas Sankara, prima se ne parlava di nascosto, adesso sono tutti sankaristi.

«È vero, Thomas Sankara suscita molto interesse. Ci sono scritti che possono essere utili, altri lo sono di meno. Per esempio, c’è un libro scritto da un italiano che non conosco (Toé si riferisce a un romanzo pubblicato in Italia, ndr), che si sarebbe ispirato alla biografia scritta dal mio amico Bruno Jaffré (il biografo di Thomas Sankara, ndr). Mi hanno mandato qualche pagina di questo libro, nel quale l’autore parla di me in termini che ho trovato offensivi e irritanti. Prima di tutto non capisco perché in un romanzo (una fiction), anche se su Thomas Sankara, sia stato utilizzato il mio nome. Perché si sia parlato dei miei genitori, scrivendo Jérôme Toé, che non è il nome di mio padre. Se è stata fatta della fiction, bisogna farla con nomi inventati.

Il rapporto tra me è Sankara è presentato in modo falsato. Abbiamo sempre fatto dell’emulazione sana, per arrivare all’eccellenza, non ci copiavamo, ma potevamo completarci. Sankara è stato per me un amico e un compagno. E lui diceva che io ero un fratello per lui.

Quando aveva bisogno di qualcuno di fiducia, mi chiamava, e sono sempre stato al suo fianco. Prima come direttore di gabinetto della comunicazione, quando era segretario di stato, poi come ministro. Ho parlato con lui al telefono trenta minuti prima che fosse ammazzato. Scriverò un libro di memorie, con la mia verità».

Marco Bello

 Archivio MC

Per approfondire

  • �Bruno Jaffré, Burkina Faso. Les années Sankara, L’Harmattan, 1989.
  • �Lila Chouli, Sur l’insurrection populaire et ses suites au Burkina Faso, L’Harmattan-Sénégal, 2018.
  • �Marco Bello, Enrico Casale, Burkina Faso. Lotte, rivolte e resistenza del popolo degli uomini integri, Infinito edizioni, 2016.

Roch Marc Christian Kaborāˆ presidente del Burkina Faso (Photo by OLYMPIA DE MAISMONT / AFP)


Il paese combatte il terrorismo e cerca la verità sul suo passato

Massacro nel Sahel

Gli attacchi terroristici islamisti, iniziati nel 2015, continuano a insanguinare il Burkina Faso. A Solhan, nel giugno scorso, si è toccato il record di vittime. Di mezzo c’è l’oro, e il finanziamento che i gruppi jihadisti ne traggono. Intanto l’opposizione politica chiede conto al governo sulla sicurezza.

È la notte tra il 4 e il 5 giugno scorso. Verso le due del mattino una banda di giovani in motocicletta arriva al sito aurifero nei pressi del villaggio Solhan, capoluogo del comune rurale omonimo (entità amministrativa più piccola).

Gli assalitori attaccano inizialmente la postazione dei Volontari per la difesa della patria (Vpn), una sorta di milizia di autodifesa composta di persone della popolazione. In seguito, si dirigono verso le case, sfondano le porte e uccidono direttamente chi vi abita, senza chiedere nulla e senza considerare l’età. Saccheggiano il possibile, danno fuoco ad alcune case, poi ripartono. Piazzano dell’esplosivo sul ponte della strada che collega Solhan a Sebba, a una decina di chilometri. Causerà altre vittime.

Il bilancio ufficiale è di 132 morti, ma altre voci portano il numero a 150. Molti sono anche i feriti. Si tratta dell’attacco più sanguinoso che il Burkina Faso ha subito sul suo territorio, dall’inizio degli eventi di questo tipo, nel 2015.

In quell’anno il Burkina Faso stava vivendo una transizione politica, seguita da un’insurrezione popolare che aveva deposto il presidente Blaise Compaoré, in carica da 27 anni (cfr MC febbraio 2016). Un colpo di stato del Reggimento di sicurezza presidenziale guidato dal generale Gilbert Dienderé, aveva tentato di bloccare il cambiamento nel settembre 2015, ma il movimento popolare, con l’appoggio internazionale e, soprattutto, dell’esercito, era riuscito a evitare il peggio. La transizione era ripresa e un nuovo presidente, Roch Marc Christian Kaboré si era insediato il 29 novembre. Il suo governo aveva giurato il 12 gennaio 2016. Tre giorni dopo, un attacco in grande stile era stato perpetrato da jihadisti nel cuore della capitale, facendo 30 vittime di 18 nazionalità.

Da quel giorno gli attacchi si sono moltiplicati nel Nord del paese, per poi estendersi a Est e Sud Est, senza risparmiare la capitale. Si hanno evidenze di contatti diretti tra Compaoré, quando era presidente, e gruppi jihadisti, che avrebbe preservato il paese dalle incursioni.

Solhan, come detto, è un sito aurifero, ed è sfruttato da cercatori d’oro artigianali. Sono situazioni particolari, in cui il tessuto sociale è completamente stravolto. Qui sono installati, senza controllo, decine di migliaia di cercatori d’oro, molti provenienti da paesi vicini. Nell’agosto 2020, il Consiglio economico e sociale del Burkina Faso, ha pubblicato uno studio sul «lavaggio di denaro sporco e finanziamento del terrorismo», con focus sul paese.

Oltre a ricevere finanziamenti dall’estero, i gruppi jihadisti si autofinanziano sfruttando le risorse del territorio che occupano, come le miniere artigianali, o imponendo tasse e balzelli alla popolazione. Dallo studio risulta che dal 2016 al 2020 i terroristi hanno raccolto più di 140 miliardi di dollari, solo tramite gli attacchi o balzelli a siti auriferi artigianali, come quello di Solhan. Normalmente i siti nei quali i cercatori non pagano, vengono attaccati.

Il governo, il 7 giugno, ha disposto la chiusura di tutti i siti auriferi artigianali delle province di Oudalan e Yahga (qui si trova Solhan).

Nella regione sono presenti gruppi jihadisti legati alle due principali formazioni: il Gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani (Gsim), legato ad Al Qaeda, e lo Stato islamico nel grande Sahara, legato all’Isis. Si tratta di due coalizioni di una galassia di gruppi che talvolta si scontrano tra loro.

L’attacco di Solhan, che non è stato l’ultimo, secondo il governo è stato perpetrato da un gruppo burkinabè, denominato Mouhadine, che significa «Genti solidali», attivo dal 2019 in Burkina, ma anche Niger e Benin. Le forze di sicurezza avrebbero arrestato due elementi del gruppo.

Il presidente Kaboré – rieletto per un secondo mandato nel novembre 2020 – ha pure tentato di avviare una tre giorni (17-19 giugno) di «Dialogo politico», con tutti i partiti del paese. Ma alla fine l’opposizione si è sfilata, e per voce del Capofila dell’opposizione politica (è una figura istituzionale), Eddie Komboigo, ha indetto manifestazioni di protesta contro l’insicurezza e in memoria delle vittime, a inizio luglio.

Intanto, alcuni politici legati al partito di Blaise Compaoré, il Cdp (Congresso per la democrazia e il progresso), vogliono organizzarsi per il ritorno dell’ex presidente e la riconciliazione nazionale. Ma prima, occorre fare verità sul passato, a partire dall’assassinio di Thomas Sankara.

Marco Bello

Soldati francesi in Burkina (Photo by Fred Marie / Hans Lucas / Hans Lucas via AFP)




Kenya: Chiamata a ricostruire insieme la nazione


Lettera dei Vescovi del  Kenya a tutta la popolazione
12 novembre 2020

“Quanto è bello e delizioso vivere insieme come fratelli e sorelle” (Ps. 133:1)

Preambolo

Noi della Conferenza episcopale del Kenya, riuniti per l’Assemblea plenaria del novembre 2020 presso il Villaggio di Subukia del Santuario di Maria, abbiamo avuto il tempo di riflettere e discutere dello stato della nostra nazione.

In primo luogo, riconosciamo le molte grazie e la protezione che Dio ci ha dato dopo l’annuncio della mortale pandemia di Covid-19. Notiamo con grande preoccupazione l’aumento del numero di persone infettate dal coronavirus, e le molte vite che stiamo perdendo ogni giorno. Inviamo le nostre condoglianze alle famiglie che hanno perso i loro cari per questa pandemia e vi assicuriamo le nostre continue preghiere. Per coloro che sono malati, vi assicuriamo le nostre preghiere per la guarigione.

Siamo molto preoccupati per gli oneri finanziari che ci troviamo di fronte a tutti noi, specialmente per i poveri che non possono permettersi le spese mediche per i malati, e le spese funebri per coloro che sono morti. Ci appelliamo alla generosità dei nostri cari kenioti per raggiungere i bisognosi e contribuire ad alleviare il peso finanziario e psicologico che stanno portando. Dovremmo essere guidati dalla nostra grande tradizione africana di condividere ciò che abbiamo.

Ci appelliamo anche agli ospedali, in particolare a quelli privati, a non sovraccaricare coloro che vengono per cure mediche.

Incoraggiamo il governo a considerare modi più creativi per contenere la diffusione del virus oltre ai protocolli universali raccomandati, tra cui l’uso di maschere, la distanza sociale, il lavaggio delle mani e la sanificazione. Ognuno ha la responsabilità personale di garantire un ambiente sicuro per le persone con cui viviamo, lavoriamo e interagiamo nella nostra vita quotidiana.

Vogliamo ricordare ai leader religiosi e ai fedeli dei protocolli sviluppati dal Consiglio inter religioso (Interfaith Council) che dobbiamo continuare ad essere più vigili e conformi per garantire la sicurezza dei nostri fedeli.

Osservazioni sulla relazione BBI

Cari kenioti, il 26 ottobre 2020 ci è stato presentato il rapporto BBI (Buinding Bridges Initiative), che è stato il prodotto di un lungo processo di stretta di mano.

Come Conferenza episcopale del Kenya, abbiamo accolto con favore la BBI come un’opportunità per tutti i kenioti di impegnarsi in modo costruttivo nel discutere di quelle questioni che riguardano il nostro paese e hanno causato conflitti e divisioni perenni.

La nostra speranza era che la relazione BBI affrontava le quattro principali preoccupazioni che abbiamo sollevato nella plenaria del 20 novembre a Nakuru, vale a dire:

  1. Riconciliazione e guarigione nazionale;
  2. Ripristino dei valori, governance democratica e istituzioni di governo, c) Recupero e ricostruzione dell’economia e dei servizi.
  3. La mancanza di riforme strutturate e redentrici, come è stato sottolineato nei 4 punti dell’Agenda del Dialogo nazionale e processo di riconciliazione del Kenya guidato da Kofi Annan nel 2008.

Come Vescovi, abbiamo seguito con grande processo dal suo inizio fino a questo momento. Come risultato di questo processo, e leggendo la relazione che è stata lanciata al Bomas del Kenya il 26 ottobre 2020, vogliamo fare le nostre osservazioni.

l. Esecutivo ampliato

Guardando alla proposta sull’esecutivo è molto chiaro che il documento BBI dà il potere al presidente di nominare un primo ministro e due vice primo ministro. L’esecutivo ampliato avrebbe dovuto riflettere il volto del Kenya e domare la struttura “winner-takes -it -all” (il vincitore prende tutto). Ma dare al Presidente il potere di nominare il Primo Ministro e i due vice rischia di consolidare più potere intorno al presidente creando così un Presidenza imperiale. Questo emendamento potrebbe creare lo stesso problema che si è proposto di risolvere.

È molto importante attenersi al principio della separazione dei poteri, perché è la spina dorsale della democrazia.

2. Un Parlamento gonfio

L’espansione del Senato a 94 membri e dell’Assemblea nazionale a 363 sarà un enorme onere per i contribuenti di questo paese che già sono oberati da un enorme peso per pagare il salario al numero attuale di legislatori. Non vi è alcun motivo per cui dovremmo avere un numero così elevato di legislatori. Non vogliamo più governo, ma un governo migliore.

3. IEBC politicizzato

La proposta di far nominare membri di partiti politici alla IEBC (Independent Electoral and Boundaries Commission) è pericolosa, poiché politicizzerà l’IEBC compromettendo così la sua indipendenza. Questa proposta trasformerà l’IEBC in un abito politico con interessi di parte. Sorgerà il problema di quanto saranno eque le elezioni.

4. Formazione del Consiglio di Polizia del Kenya

La proposta di formazione di un Consiglio di polizia del Kenya guidato dal Segretario di Gabinetto degli Interni con altri quattro membri, per sostituire l’IPOA (Independent Policing Oversight Authority) è una mossa che probabilmente renderà il Kenya uno stato di polizia e comprometterà l’indipendenza della polizia dall’esecutivo.

Lettura e discernimento della relazione BBI

Noi, vostri Pastori, vogliamo incoraggiare la lettura e la discussione della relazione. È necessario che i keniani abbiano la possibilità di interagire con esso, discuterne in altri ambiti e dare le loro opinioni. La relazione offre ai keniani l’opportunità di riflettere su come possano costruire una solida nazione democratica, giusta, pacifica e inclusiva di tutti. Dà loro la possibilità di vedere come possono far funzionare le istituzioni ed essere al servizio di ogni cittadino, indipendentemente dalla tribù, dall’appartenenza politica o dallo status sociale. È un’occasione per riflettere apertamente e candidamente sulle misure concrete per combattere l’impunità, la corruzione e la politica dell’esclusione.

Dovremmo quindi prestare attenzione quando si discute e si sottolinea come il documento potrebbe essere migliorato,  evitando il rischio di assumere posizioni dure e fare richieste settarie, e porre ultimatum che distruggono il significato e lo spirito stesso della BBI.

Per sua stessa natura la relazione è il prodotto della stretta di mano nata dal dialogo e dalla consultazione. È quindi della massima importanza che questo processo si muova sulla strada del dialogo e della costruzione del consenso, piuttosto che su prese di posizione.

Da parte sua, il governo e tutti gli attori politici non devono dimenticare che lo scopo principale e l’intenzione del processo BBI era quello di mettere insieme tutti i keniani. Si tratta di unità (costruire ponti , buinding bridges initiative BBI, ndr). Tutti devono quindi abbracciare uno spirito di patriottismo, ascoltare le raccomandazioni formulate e adeguare la relazione affinché rifletta il consenso popolare.

Ascoltando ciò che molti cittadini del Kenya stanno dicendo in tutto il paese, è urgente dare loro l’opportunità di rivedere la relazione per quanto riguarda alcune delle questioni sollevate in tutto il paese, vale a dire, l’esecutivo ampliato, l’aumento della rappresentanza dell’assemblea nazionale, la ricostituzione di IEBC, la creazione del Consiglio di polizia del Kenya, la sostituzione dell’IPOA, la rappresentanza delle donne, l’indipendenza della magistratura, persone con disabilità, ecc.

Il nostro intento circa la relazione BBI è quello di incoraggiare tutti i kenioti a leggerla e comprenderne il contenuto in vista della costruzione del consenso. A questo punto, vogliamo ricordare con forza a tutti gli attori, compresi noi stessi come vescovi, che questo processo ha gravi implicazioni per il futuro di questo paese. Le raccomandazioni costituzionali, amministrative e politiche contenute nel documento dovrebbero essere viste alla luce del discernimento. Esortiamo tutti coloro che sono coinvolti in questo processo ad aiutare i kenioti a comprendere in modo semplice il contenuto della relazione, evidenziando chiaramente proposte specifiche e le loro implicazioni. I nostri esperti di diritto sono incoraggiati tradurre la relazione in termini semplici per permettere a tutti di capire.

Il governo dovrebbe facilitare un solido processo di educazione civica per aiutare tutti i kenioti ad apprezzare la relazione al fine di prendere decisioni informate al riguardo.

Cari kenioti, soprattutto i nostri leader politici, non si tratta di competizione politica, non si tratta di pro o contro, SI o NO, non si tratta del 2022. Dovrebbe trattarsi del KENYA, di quale strada vogliamo prendere come kenioti, non solo per noi stessi, ma per i posteri. Si tratta di consenso.

È nostra raccomandazione, in quanto Vescovi cattolici in Kenya, che qualsiasi emendamento per migliorare la relazione sia ancora ascoltato e incluso, ove necessario. Ciò significa che la relazione è ancora un progetto in corso, non ancora inciso nella pietra; e quindi, ogni voce dovrebbe essere ospitata.

Dibattito sul Referendum

Noi Vescovi cattolici, dopo aver esaminato la relazione BBI,  vediamo che affronta le questioni a tre livelli, vale a dire proposte legislative e politiche, amministrative e istituzionali, e  proposte costituzionali. Inoltre, ci sono quelle proposte costituzionali che richiedono un referendum e altre che non lo richiedono.

Mentre c’è una richiesta di referendum, che ha generato opinioni pro e contro, noi vogliamo porci le seguenti domande:

  • Sulla scia degli effetti persistenti della pandemia di Covid-19 che ha colpito le famiglie in tutto il paese, è questo il momento di sottomettere i kenioti ad un’accresciuta attività politica per intraprendere riforme costituzionali fondamentali?
  • Colpito dalla pandemia Covid-19, con l’economia colpita, il paese ha i fondi necessari per effettuare un referendum prima del 2022, 18 mesi prima delle elezioni generalli, un processo che richiede altro denaro? Può il paese permettersi di spendere le sue risorse molto limitate in un referendum quando c’è una lotta nei settori dell’istruzione e della sanità per fornire un sostegno urgentemente necessario a causa degli effetti della pandemia di Covid-19?

Di conseguenza, riteniamo che le proposte legislative o che richiedono modifiche politiche o istituzionali e amministrative debbano essere trattate attraverso gli appropriati organi e  istituzioni di governo già esistenti. Le proposte che richiedono modifiche costituzionali da approvare con un referendum dovrebbero essere separate e gestite come un unico gruppo da approvare dai kenioti con un voto. Questo per evitare il rifiuto di buone idee che sono già state generate nella relazione BBI. Questo è il motivo per cui continuiamo a sottolineare l’importanza di costruire consenso piuttosto che lo schieramento.

Ethos nazionale: formazione della Coscienza

Siamo soddisfatti dell’enfasi posta sull’etica nazionale. Due sono i principali problemi come paese che abbiamo più e più volte evidenziato, questi sono:

  • Agire senza ascoltare la nostra coscienza, e
  • La corruzione rampante che ha permeato ogni settore della società.

La relazione BBI sottolinea questioni che toccano il nostro ruolo di leader religiosi.

Siamo preoccupati che come nazione stiamo perdendo la nostra coscienza collettiva. In Kenya negli ultimi venticinque anni e soprattutto dopo la nuova Costituzione del 2010, l’enfasi è stato sui diritti del popolo. Purtroppo, questo ha talvolta oscurato la coscienza della nazione, oscurando ciò che è giusto in coscienza, a vantaggio del solo diritto di agire. Mentre questa libertà umana intrinseca deve essere difesa, deve essere compresa nel contesto di ciò che è vero e ciò che è giusto. Queste richieste di diritti hanno talvolta offuscato le corrispondenti responsabilità personali e comuni. Lo sfruttamento dei bambini, la tratta di esseri umani, la violazione delle donne e degli uomini, la soluzione delle controversie con al violenza anche tra le coppie in cui il dialogo è sempre più in diminuzione, i litigi tra i leader, dimostrano tutti che un diritto ingannevole ha rimpiazzato la responsabilità di prendere decicioni morali e spirituali, e ha messo a tacere la coscienza.

Per questo, nella nostra lettera pastorale pubblicata lo scorso anno, abbiamo sottolineato la centralità della coscienza individuale per il rinnovamento e la riconciliazione della nostra Nazione.

Tuttavia, quando la coscienza è deformata o disinformata, e quando malizia o vizi guidano la persona, si finisce per scegliere il male rispetto al bene. Quando non ascoltiamo la nostra coscienza, ci immergiamo facilmente nel peccato e nella condotta malvagia, senza preoccuparci delle conseguenze delle nostre azioni sulla nostra vita e del nostro rapporto con Dio. La coscienza può essere deformata da cattive abitudini e vizi. In particolare tutte le azioni di avidità in tutte le sue forme e in gli altri vizi  capitali, il fatalismo e le tendenze suicide indicano tutte una coscienza deformata, fuorviata o disinformata. Il conflitto, la corruzione e l’avidità che vediamo in tutto il paese, nelle famiglie, nelle scuole, nelle comunità e negli affari pubblici nascono dall’ignorare e dal rifiutare la guida della coscienza nel prendere decisioni.

La nostra cultura come africani, kenioti

La relazione BBI mette in risalto il valore della coscienza nel capitolo sull’ethos nazionale. È difficile realizzare le nostre aspirazioni nazionali se non sono ancorate a un’etica fondata. Non siamo un popolo senza cultura, una cultura che ha valori e sistemi per garantirne il successo. Siamo africani, e kenioti in particolare, che vogliono continuare a migliorare la propria vita attraverso sistemi di governo migliori. Ma, questo processo, non dovrebbe in alcun modo allontanarci dalla nostra ricca cultura dell’essere umani, di essere religiosi ed essere persone che apprezzano gli altri, compresi i rifugiati provenienti da vicino e da lontano. La nostra grande tradizione africana di condividere ciò che abbiamo non deve essere inghiottita da una cultura materialistica. L’accumulo di ricchezza deve essere all’interno della nostra cultura di possedere solo ciò per cui hai veramente lavorato. I nostri bisnonni, le bisnonne erano conosciute per la loro generosità soprattutto agli sconosciuti. Ognuno in una famiglia aveva la sua giusta parte.

Riconosciamo quindi le proposte di questa sezione secondo cui gli anziani, i leader religiosi e le istituzioni di apprendimento hanno un ruolo fondamentale nel formare la coscienza, non solo dei bambini, ma anche degli adulti. Nessuna delle proposte avanzate nella relazione o nella Costituzione sarà realizzata se continueremo ad agire in modo da ignorare la nostra coscienza individuale e collettiva. Una coscienza formata si fonda sull’ethos in modo che siamo in grado di ascoltare Dio e noi stessi in ogni momento della nostra vita, sia giovani e che vecchi. Non dobbiamo quindi ingannare noi stessi credendo che bastino i documenti legali da soli a proteggerci dalla caduta in peccato. La migliore legge e la legge di Dio sono iscritte nella nostra coscienza. Come persone che credono Dio abbiamo l’obbligo di fare ciò che è giusto in ogni momento.

Siamo determianti aa intensificare i nostri sforzi per formare una società che abbia coscienza in linea con la relazione BBI. Accogliamo con favore e incoraggiamo la promozione dell’ethos sia nelle nostre istituzioni di apprendimento di base che in quello terziario. Ci impegniamo a sostenere tutte le parti interessate nella formazione dell’ethos nazionale, per il bene di tutti i kenioti.

Conclusione

Cari kenioti, come vostri Pastori, ci appelliamo a ciascuno e a ciascuno di voi a cercare il bene più grande della nostra nazione, a cercare l’unità e a lavorare per la vera riconciliazione. Chiediamo a tutti noi leader, e in particolare ai leader politici, di vedere un quadro più ampio di una nazione unita, resiliente e riconciliata, dove tutti noi siamo custodi dei nostri fratelli e sorelle. Questo è il momento di evitare la politica divisiva, di cercare le vie del dialogo e di condividere i nostri valori.

Rivolgendoci a voi, cari kenioti e a tutte le persone di buona volontà, da questo santuario mariano dove ci riuniamo ogni anno per pregare per la nostra nazione, invocando l’intercessione materna della Madre di Dio, chiediamo unità, amore e riconciliazione e la guarigione da tutti i mali e soprattutto dalla pandemia Covid-19.

Possa la Pace di Cristo rimanere con voi tutti. Dio vi benedica tutti! Dio benedica il Kenya!

Mons Philip Anyolo
presidente della  Conferenza episcopale del Kenya
Arcivescovo Kisumu e Amministratore Apostolico di Homa Bay

Data: giovedì 12 Novembre 2020

(seguono le firme di tutti gli altri vescovi)
[nostra traduzione dall’originale inglese]




Togo. Il piccolo paese nell’era di Faure Gnassingbé

Testo e foto di Grevisse Musema |


Già super ministro di miniere e telecomunicazioni, Faure diventa presidente nel 2005, dopo 38 anni di regno indiscusso del padre, Eyadema Gnassingbé. Nonostante le difficili premesse, in Togo si apre una nuova epoca. Ma le cose da fare restano molte. A partire da una riconciliazione nazionale sognata e tuttora cercata.

A 39 anni, Faure Gnassingbé succede al padre al potere. Non è certo uno sconosciuto nel suo paese natale, il Togo: ex gran tesoriere e consigliere del presidente, salvaguardava gli interessi della famiglia in seno a diverse imprese privatizzate e installate nella zona franca di Lomé.

Nel 2005, eredita un paese nel quale tutto è paralizzato: c’è un’economia in ginocchio, indebolita da una crisi politica interminabile, la diffidenza dei partner internazionali, un tessuto sociale sfilacciato e senza speranza. Potere d’acquisto, educazione, sanità, nessun settore è risparmiato. Le sfide sono immense.

Ma Faure Gnassingbé è diverso da suo padre: il 20 agosto 2006, sigla con gli attori politici togolesi e la società civile un Accordo politico globale (Apg). La riconciliazione nazionale è il cantiere prioritario, con due obiettivi: mettere i togolesi seduti a uno stesso tavolo di dialogo e aprire spazi per l’opposizione e la società civile, affinché tutti siano coinvolti nel nuovo processo di ricostruzione del paese.

Riconciliazione nazionale e riforme di là da venire

Nel 2009, un decreto del Consiglio dei ministri crea la Commissione Verità, Giustizia e Riconciliazione (Cvjr), un organo voluto per sondare le cause profonde delle violenze politiche nella storia recente del paese, soprattutto nei periodi elettorali, fra il 1958 e il 2005. Tre anni di lavoro permettono alla Cvjr di consegnare a Faure Gnassingbé un rapporto finale nell’aprile 2012.

Dal marzo 2015, il Togo dispone anche di un Alto Commissariato alla riconciliazione e al rafforzamento dell’unità nazionale (Hcrrun), incaricato di mettere in opera le 68 raccomandazioni della Cvjr.

Nel luglio 2016 l’Hcrrun organizza un atelier nazionale le cui conclusioni, affidate a Faure Gnassingbé, devono condurre alla realizzazione di diverse riforme, le principali delle quali, però, a oggi, restano ancora da affrontare: che si tratti della limitazione di un mandato, delle modalità dello scrutinio, della questione del contenzioso attorno al codice elettorale, le formazioni politiche si rimpallano a vicenda la responsabilità dello status quo. In dieci anni, «siamo diventati una curiosità tra i paesi che ci attorniano e che, a differenza nostra, avanzano», si lamenta Dodji Apévon, presidente del Comitato d’azione per il rinnovamento (Car). «Il mio auspicio, in quanto africano, è che questo dibattito sia condotto dai nostri intellettuali, e che essi possano darci piste di riflessione», afferma invece il capo dello stato.

Le riforme che restano lettera morta inducono le opposizioni, nel settembre 2017, a invitare la popolazione a scendere in piazza. Le proteste di portata storica hanno al centro la richiesta di limitazione dei mandati presidenziali a due e la rinuncia al potere da parte di Faure Gnassingbé. Le riforme previste dal governo prevedono in effetti un massimo di due mandati, ma non prevedono la retroattività, cosa che permetterebbe la permanenza al potere del presidente in carica.

Sei mesi dopo l’inizio delle proteste, il 19 febbraio viene avviato il dialogo politico, ben presto interrotto senza esiti.

Grandi sfide: l’impunità

Il Togo ha conosciuto atti di violenza a carattere politico soprattutto in occasione del processo elettorale del 2005. Dalla firma dell’Apg nel 2006, alcune organizzazioni della società civile, in particolare quelle che si occupano di difesa dei diritti umani, fanno della questione dell’impunità un tema centrale della loro lotta. Esse offrono, ad esempio, un accompagnamento giuridico alle vittime perché possano trovare giustizia.

«Le vittime che accompagniamo hanno sporto denunce presso i tribunali e sono ancora in attesa. Purtroppo, gli autori degli atti che deploriamo se ne stanno tranquilli», confida un responsabile di un’organizzazione di difesa dei diritti umani. Le critiche restano severe verso il governo, accusato di non promuovere «l’integrità e lo spirito d’indipendenza dei tribunali, della polizia giudiziaria e delle altre istituzioni che concorrono alla lotta contro l’impunità».

La Cvjr aveva raccomandato, nelle sue conclusioni, l’assunzione da parte dello stato di misure concrete ed efficaci di lotta contro l’impunità. Anche se il governo ha avviato numerose iniziative per promuovere i diritti umani, secondo Koffi Bakpena, militante dell’opposizione, esistono ancora difficoltà per i cittadini comuni nel chiedere giustizia, specialmente per «atti commessi da persone che rivestono incarichi pubblici».

Nuovo posto per l’esercito

L’esercito è spesso intervenuto nelle questioni politiche del Togo, almeno fino al 2006. Oggi, le forze armate si consacrano alla loro vocazione di messa in sicurezza del territorio. «Paragonato agli anni precedenti, il nostro esercito oggi ha un carattere repubblicano. Come vuole la Costituzione, non si immischia più nella politica», afferma un ex membro delle Forze armate
togolesi.

Il dialogo politico?

La messa in opera di un organo permanente di dialogo era una delle condizioni dell’opposizione per la firma dell’Apg. Ma è solo nel 2009 che viene adottato un decreto per creare il Cadre permanent de dialogue et de concertation (Cpdc). Il Cpdc raggruppa partiti che siedono nel parlamento, formazioni extra parlamentari (ordinate secondo criteri precisi) e rappresentanti del governo. Esso lavora in particolare sulle questioni delle riforme, su temi di ordine sociale, si occupa delle condizioni di stabilità delle istituzioni dello stato e offre la possibilità ai partiti politici e alle persone fisiche o morali di fare segnalazioni.

Ma l’impatto reale dei lavori di quest’organo resta un tema di dibattito in seno all’opinione pubblica e anche alla classe politica. Undici anni dopo la sua firma, si può affermare che l’Apg ha contribuito a migliorare la qualità del dibattito politico in Togo. Il panorama si è evoluto: nel 2006, il partito al potere è il Rassemblement du peuple togolais (Rpt), a esso succede nel 2012 la formazione Union pour la république (Unir). L’Union des forces du changement di Gilchrist Olympio è il principale partito dell’opposizione. Oggi all’opposizione spicca l’Alliance nationale pour le changement di Jean-Pierre Fabre, creata nel 2010, che si è imposta nei ranghi degli avversari del regime. Questa formazione invita i suoi militanti a manifestare per «ricordare al potere gli impegni non mantenuti da dieci anni».

Economia in movimento

La crescita economica è stimata al 4,5% per il 2017 contro il 5% del 2016. Proiettata per il 2018, potrebbe raggiungere il 5,3% nel 2019, a condizione che le precipitazioni atmosferiche siano favorevoli. L’agricoltura resta il fondamento dell’economia togolese, con un contributo di 1,7 punti percentuali alla crescita nel 2017, secondo la Banca africana di sviluppo. Nel 2018-2019, il settore terziario dovrebbe beneficiare della capacità del porto di Lomé, esteso grazie all’istallazione di moderni macchinari di trasbordo. La recrudescenza delle proteste politiche, che rallentano l’attività economica dall’agosto 2017, potrebbe comportare una revisione al ribasso delle stime di crescita per il 2018 e 2019.

Il Togo ha fatto progressi in materia di sviluppo, ma la maggioranza della popolazione non ne ha ancora ottenuto benefici. Un togolese su due non ha accesso all’acqua potabile e all’elettricità, il 55,1% della popolazione vive in povertà e il paese non conta che un medico ogni 14.500 abitanti. La formazione offerta dall’insegnamento superiore pubblico non risponde né ai bisogni del mercato del lavoro, né ai problemi di sviluppo del paese, che si classifica 162mo nell’Indice di sviluppo umano del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, secondo il quale il 51% della popolazione vive in una povertà multidimensionale. In un contesto segnato dalla recrudescenza delle manifestazioni politiche, l’organizzazione di elezioni legislative e locali nel 2018 ed eventualmente di un referendum sulla Costituzione potrebbero rallentare l’attività economica.

Apertura al mondo

Il paese si è dotato di infrastrutture moderne. L’immagine della capitale si apre al mondo. Le riforme avviate dal nuovo regime hanno spinto il Togo alla costruzione di un terzo bacino al porto autonomo di Lomé, il solo in acque profonde del Golfo di Guinea. Questo dinamismo si è tradotto in una crescita sostenuta che si è assestata, da cinque anni, ad una media del 5,6%.

Pur continuando a privilegiare le sue materie di esportazione tradizionali (fosfati, cemento, cotone), il Togo ha nello stesso tempo sviluppato altre risorse, nei settori agricolo, minerario e marittimo.

Faure Gnassingbé guarda al partner francese, presente al porto di Lomé con il gruppo Bolloré e sempre influente. Tuttavia, a differenza di suo padre, l’attuale presidente non coltiva reti in Francia e vira in direzione del Commonwealth, aprendo largamente il mercato togolese anche alle imprese cinesi. Questo non per sfidare l’ex potenza coloniale, ma piuttosto per una volontà d’indipendenza. Faure è di una generazione che si vuole disinibita rispetto all’Europa, che conosce bene.

Una diplomazia verticale

Il Togo è un paese nel quale le relazioni storiche con la Francia restano stabili, intense e fiduciose. Oltre 12mila togolesi vivono in Francia e oltre 3.500 francesi sono residenti in Togo. La Francia, in questo paese di 7 milioni di abitanti, è uno dei principali fornitori e detentori di investimenti diretti stranieri.

Nel 2012, il Togo è stato eletto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per due anni consecutivi. Faure Gnassingbé conta su una diplomazia del profitto e questa posizione d’influenza spinge la sua agenda ad avanzare contro la criminalità transfrontaliera nel Sahel e contro la pirateria marittima. Acquisisce fiducia presso i suoi pari della Cedeao (Comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest) e dell’Unione economica e monetaria dell’Africa dell’Ovest (Uemoa). Nel 2014, è stato designato per supervisionare il coordinamento della risposta contro l’epidemia di ebola.

Disoccupazione dei giovani

Secondo l’ultimo rapporto congiunto della Banca africana di sviluppo e dell’Organizzazione di cooperazione e sviluppo economico, l’incidenza della povertà è diminuita del 5% in otto anni. Certo, la metà vuota della bottiglia è ancora ben visibile: «Tre giovani togolesi su dieci sono in situazione di disoccupazione o di sotto-impiego», la grande povertà continua nelle campagne. Malgrado la priorità accordata dal presidente Faure Gnassingbé agli strati più vulnerabili della società togolese il trittico tradizionale cotone-fosfati-porto sul quale si poggia l’economia togolese resta fragile.

D’altro canto, la crisi sociopolitica potrebbe ritardare il proseguimento della messa in opera dell’ambizioso programma di assestamento delle finanze pubbliche in Togo. Questa situazione, quindi, non fa presagire nulla di buono per l’economia togolese nei prossimi mesi.

La scuola

Nel 2008 Faure elimina le tasse scolastiche per le scuole primarie. È una decisione che favorisce l’apertura delle porte della scuola in particolare a migliaia di bambini provenienti dalle zone rurali.

Durante oltre due decenni il sistema educativo togolese ha affrontato enormi difficoltà generate dalle crisi sociopolitiche degli anni Novanta, che hanno provocato una sospensione della cooperazione internazionale. Questa sospensione dell’aiuto ha avuto come effetti quello di indebolire le capacità istituzionali dello stato, di ostacolare la fornitura di servizi di educazione e di erodere gravemente la qualità delle infrastrutture pubbliche di base. In città, se i genitori riescono bene o male a mandare i bambini a suola, la situazione è tutt’altra nelle zone rurali, dove la povertà dilaga. Malgrado la gratuità delle tasse scolastiche, altre condizioni spiegano la non scolarizzazione dei bambini. L’estrema povertà della maggior parte della popolazione, la mancanza di scuole in certi villaggi, la mancanza di personale qualificato in altre. A ciò va aggiunta la corruzione e la manipolazione delle coscienze da parte di certi insegnanti o capi d’istituto.

Alla fine dell’anno scolastico alcuni allievi passano alla classe successiva malgrado le loro insufficienze, cosa che causa preoccupazioni per i presidi e lacune perpetue per gli studenti.

Secondo un rapporto recente dell’Unicef, il Togo registra un tasso netto di scolarizzazione passato dal 75,7% al 90%, un netto miglioramento.

Un uomo poco comunicatore

Riguardo all’aspetto oscuro che il Togo offre sul piano politico in questi ultimi tempi, sull’esigenza di una alternanza politica ai vertici dello stato, Faure Gnassingbé non sviluppa la sua strategia di comunicazione. Secondo Jean-Pierre Fabre, l’oppositore radicale del regime, c’è una sola parola d’ordine: «Cinquant’anni bastano! L’alternanza, sola soluzione a tutti i mali del Togo».

Anche se messa sotto i riflettori della scena politica del suo paese, la personalità del presidente Faure Gnassingbé resta sempre difficile da comprendere.

Grevisse Musema