Ricchi e buoni? Le trame oscure del filantrocapitalismo


Un documentatissimo libro-inchiesta sul perché Bill Gates, Warren Buffett, Bill Clinton e Mark Zuckerberg sono i protagonisti della nuova mega filantropia. Il ruolo ambiguo di Bill Gates sul vaccino anti-Covid19

Perché l’élite dell’1% del pianeta, la classe più predatoria della storia umana, è anche la più socialmente impegnata a sostenere cause nobili come salute, educazione, lotta alla fame, con la scusa di cambiare il mondo? Che cosa si nasconde dietro la rinascita della filantropia a vocazione globale? L’impegno sempre più pervasivo dei filantropi è davvero la soluzione alle sfide della contemporaneità o non è piuttosto un ambiguo e problematico effetto delle disuguaglianze strutturali che rendono la nostra epoca la più ingiusta di tutti i tempi? E che cosa è il «filantrocapitalismo», la versione più sofisticata della filantropia che da due decenni domina la scena internazionale e che si consolida oggi nel tempo di Covid19?

Sono queste, e molte altre, le domande che la giornalista Nicoletta Dentico, esperta di salute globale e cooperazione internazionale, affronta nel suo formidabile saggio-inchiesta Ricchi e buoni? Le trame oscure del filantrocapitalismo (Editrice missionaria italiana, pp. 288, euro 20, già in libreria). Si tratta del primo libro in Italia dedicato al tema del filantrocapitalismo, un’abile strategia inaugurata all’inizio del nuovo millennio da una ristretta classe di vincitori sulla scena della globalizzazione economica e finanziaria. Grazie alle donazioni erogate tramite le loro fondazioni in nome della lotta alla povertà questi imprenditori, nuovi salvatori bianchi, hanno cominciato a esercitare un’influenza sempre più incontrollata sui meccanismi di governo del mondo e sulle loro istituzioni, modificandole profondamente. Il tutto, in un intreccio di soldi, potere e alleanze con il settore del business che i governi non sanno più arginare né possono più controllare. Anzi, sono i leader del mondo politico ad accogliere i ricchi filantropi a braccia aperte, ormai, senza più fare domande.

Come è avvenuto in passato con John Rockefeller e Andrew Carnegie, la generosità di chi ha accumulato mastodontiche ricchezze rischia di non essere del tutto disinteressata. «Il Wealth-X and Arton Capital Philantrophy Report 2016 evidenzia come le donazioni dei super-ricchi siano incrementate del 3% nel 2015», scrive Dentico. «Numeri alla mano, il rapporto racconta gli effetti benefici di questa arte della generosità: gli imprenditori che hanno versato almeno un milione di dollari hanno finito per ammassare più profitti dei loro pari di classe».

Di questa realtà di costante accumulazione si nutre l’ottimismo win-win che alimenta il fenomeno filantropico, i cui valori, strumenti e metodi sono inequivocabilmente quelli della cultura di impresa, applicata al mondo dei bisogni umani disattesi. I filantropi, per loro stessa ammissione, puntano a creare nuovi mercati per i poveri. «Funziona così: se i poveri diventano consumatori non saranno più emarginati. E da clienti possono riguadagnarsi la loro dignità». Rispetto alla filantropia classica, il filantrocapitalismo ha assunto dimensioni così pervasive e sistemiche da condizionare la stessa azione degli stati: «Libere da ogni costrizione territoriale, le fondazioni filantrocapitaliste sono riuscite a occupare un campo d’azione sconfinato» si legge nel libro. «Esercitano un ruolo ingombrante nella produzione di conoscenza, nell’affermazione di modelli, nella definizione di nuove strutture della governance globale».

«Il liquido amniotico della filantropia è la disuguaglianza» sostiene Nicoletta Dentico, che nella sua poderosa inchiesta motiva accuratamente le ragioni per cui questa élite si è messa alla testa della battaglia per cambiare il mondo. Invece, «se nel mondo vigesse un’equa distribuzione delle risorse non ci sarebbe tanto spazio per la filantropia», perché non ci sarebbero più i pochi plutocrati che detengono più della metà delle risorse del pianeta. Dentico mette in luce uno degli aspetti più controversi e paradossali del fenomeno: le enormi agevolazioni fiscali di cui godono nel mondo filantropi e fondazioni, anche le più opulente: «Che cosa legittima politicamente l’idea di un incentivo sulle tasse a questi miliardari e alle loro fondazioni? Quali vantaggi ne avrebbe una società, se si utilizzasse invece la tesoreria pubblica, perduta a causa degli incentivi, per produrre il bene comune?».

Il filantrocapitalismo diventa così una strana forma di legittimazione morale, «una valvola di sfogo» tramite cui investire, detassati, i profitti spesso accumulati con flagranti operazioni di elusione o evasione fiscale. Un esempio per tutti: «Nel 2012, un rapporto del Senato americano calcolava in quasi 21 miliardi di dollari la quantità di denaro che Microsoft era riuscita a trafugare nei paradisi fiscali in un periodo di tre anni, grosso modo l’equivalente della metà dell’incasso netto delle vendite al dettaglio negli Stati Uniti, con un guadagno fiscale di 4,5 miliardi dollari annui». Oggi il fondatore di Microsoft, Bill Gates, è la figura preminente e più iconica del filantrocapitalismo, con una fondazione intitolata a lui e alla moglie Melinda che al momento della nascita (2000) disponeva di 15,5 miliardi di dollari per esercitare la propria azione, focalizzata su salute e vaccinazioni, biotecnologie, incremento della produttività agricoltura in Africa (ciò che significa far largo agli Ogm), educazione, finanza. La Fondazione Gates mantiene un forte legame finanziario con aziende assai poco virtuose sul piano dei consumi e della salute, che però garantiscono sicure remunerazioni sull’investimento: ad esempio, investe 466 milioni di dollari negli stabilimenti della Coca-Cola e 837 milioni di dollari in Walmart, la più grande catena di cibo, farmaceutici e alcolici degli Usa.

La Fondazione Gates spicca oggi per l’incontenibile attivismo con cui dirige le attività internazionali nella ricerca di un vaccino anti-coronavirus, con implicazioni non banali data la rilevanza pubblica di un’emergenza mondiale come quella di Covid-19: «Nel 2015, Gates aveva capito che un virus molto contagioso sarebbe arrivato a sconquassare il mondo iperglobalizzato. Sars-CoV-2 è arrivato, alla fine, e il mondo si è fatto trovare del tutto impreparato. L’unico pronto a un simile scenario è stato il monopolista filantropo di Seattle», spiega Dentico: 300 milioni di dollari subito sul piatto da parte della Fondazione Gates (poi saliti addirittura a 530 milioni di dollari), ormai accreditatasi sulla scena della lotta alla pandemia alla pari di istituzioni internazionali come Oms, Banca Mondiale e Commissione europea, un pericoloso precedente nella governance di fenomeni globali – come in questo caso la lotta a una pandemia. Tanto più che «in tutti questi anni, Bill Gates ha molto contribuito al rafforzamento geopolitico di Big Pharma [il cartello composto dalle principali case farmaceutiche mondiali, ndr], erodendo e sottraendo terreno alla società civile in questo duro conflitto politico».

L’implacabile inchiesta di Nicoletta Dentico scruta anche l’azione filantropica di altre figure di imprenditori plutocrati o politici potentissimi diventati improvvisamente «benefattori» globali: Ted Turner, Bill e Hillary Clinton, e i nuovi arrivati sulla scena della filantropia come Mark Zuckerberg. Unico nella sua genesi è il caso della famiglia Clinton, che ha fatto della filantropia globale – tramite la Fondazione Clinton – la via maestra per continuare a esercitare il potere dopo due mandati presidenziali, anche a costo di contraddire l’agenda diplomatica statunitense, nel momento in cui Hillary Clinton è segretaria di stato dell’amministrazione Obama. Molto eloquente a questo riguardo il caso del potentissimo uomo d’affari Frank Giustra che entra nel giro delle estrazioni minerarie in Kazakhstan grazie ai buoni uffici della Fondazione Clinton nel paese centro-asiatico, che gli Stati Uniti hanno stigmatizzato per le sistematiche violazioni dei diritti umani e delle libertà fondamentali della persona.

Come scrive Bandana Shiva nella prefazione, «il libro di Nicoletta Dentico arriva al momento giusto, ed è necessario. Sarà una bussola importante per difendere le nostre esistenze e libertà dalle forme della ricolonizzazione variamente avallate dal filantrocapitalismo».

 


I NUMERI E LE CIFRE DA RICCHI E BUONI?

Lotta alla povertà? Basta l’1% del Pil (e meno armi)

«Ho imparato a diffidare dalla narrazione legnosa sulla “lotta alla povertà”. Basterebbe una frazione di quanto si spende in armi, poco più dell’1% del prodotto interno lordo mondiale, per invertire la rotta. (p. 21)

 L’età dell’oro delle Fondazioni filantropiche: una rinascita sospetta nei tempi della disuguaglianza

«Si contano oltre 200.000 fondazioni nel mondo. Sono 87.142 le entità registrate negli Usa. Circa 85.000 in Europa occidentale, e circa 35.000 nell’Europa dell’Est. Si contano circa 10.000 fondazioni in Messico, almeno 1000 in Brasile e 2000 in Cina». (p. 57)

 Bill Gates conta più dell’Onu (in fatto di quattrini)

«Dall’inizio delle attività la Fondazione Bill & Melinda Gates ha mobilitato una massa totale di finanziamenti di 50,1 miliardi di dollari e una capacità di erogazione nel 2018 di 5 miliardi di dollari. Tra il 2013 e il 2015, la Fondazione Gates ha potuto destinare 11,6 miliardi di dollari allo sviluppo globale, più di quanto non riescano a fare le agenzie delle Nazioni Unite». (p. 59)

Gates finanzia l’Oms 24 volte quel che danno i Brics!

«Nel biennio 2010-11 la Fondazione Gates ha versato oltre 446 milioni di dollari all’Oms, più di ogni altro contribuente statale dopo gli Stati Uniti: una cifra 24 volte superiore ai contributo erogati da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica messi insieme». (p. 156)

Se i ricchi pagano meno tasse delle fasce sociali più emarginate

«La ricerca degli economisti Emmanuel Saez e Gabriel Zucman evidenzia che le 400 famiglie più ricche d’America hanno pagato nel 2018 un’aliquota effettiva del 23%, cioè un punto percentuale in meno di quello versato dalle famiglie delle fasce sociali meno abbienti (24,2%)». (p. 98)

Pagare le tasse? Anche no (per i super-ricchi)

«In un anno è semplicemente raddoppiato il numero delle mega-imprese che non hanno pagato tasse grazie alle radicali politiche fiscali dell’amministrazione Trump a beneficio dei ricchi e delle aziende private. Sono 60, alla fine del 2019. Tra i titani esentasse si contano Amazon, Netflix, Ibm, Chevron, Ely Lilly, Delta Airlines, General Motors e Goodyear». (p. 99)

La «podium economy» di Bill Clinton

«La professione di conferenziere segna la fortuna dell’abilissimo oratore che, liberatosi dalla Casa Bianca, cominciò a battere il circuito dei più prestigiosi eventi internazionali con esiti finanziari sbalorditivi: 105,5 milioni di dollari raccolti per sé in dieci anni, dal 2002 al 2012». (p. 230)

Zuckerberg, il generosissimo che non paga le tasse

«Ispirata dalla nascita della prima figlia, la coppia Mark e Priscilla Zuckeberg ebbe a comunicare la costituzione della Chan Zuckerberg Initiative, una fondazione nuova di zecca con cui s’impegnavano a destinare nientemeno che il 99% della ricchezza accumulata nel corso della vita a finalità benefiche – circa 45 miliardi di dollari, al valore corrente di Facebook. […] Il gruppo di Zuckerberg ha avuto un’aliquota fiscale media dell’1% nei paesi extra Ue in cui ha operato». (p. 265)


L’AUTRICE

 Nicoletta Dentico, giornalista, è esperta di cooperazione internazionale e salute globale. Dopo una lunga esperienza con Mani Tese, ha coordinato in Italia la Campagna per la messa al bando delle mine vincitrice del Premio Nobel per la Pace nel 1997, e diretto in Italia Medici Senza Frontiere (MSF) – premio Nobel per la Pace nel 1999 – con un ruolo di primo piano nel lancio e promozione della Campagna internazionale per l’Accesso ai Farmaci Essenziali. Co-fondatrice dell’Osservatorio Italiano sulla Salute Globale (Oisg), ha lavorato a Ginevra per Drugs for Neglected Diseases Initiative (DNDi) e poi per l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms). Più di recente è stata per alcuni anni responsabile della sezione internazionale della Fondazione Lelio Basso. Dal 2013 al 2019 è stata consigliera di amministrazione di Banca Popolare Etica e vicepresidente della Fondazione Finanza Etica. Dalla fine del 2019 dirige il programma di salute globale di Society for International Development (SID).

Lorenzo Fazzini – Ufficio stampa EMI
Verona, 16 ottobre 2020




Diseguaglianza, la sfida che decide il nostro futuro

Il 18 giugno 2018, a tre anni di distanza dalla pubblicazione della Laudato
Si’, circa venti partner, fra cui Caritas Italiana e Focsiv, hanno lanciato la
campagna triennale «Chiudiamo la forbice: dalle diseguaglianze al bene comune,
una sola famiglia umana». Vediamo i numeri delle disparità nel mondo e alcune
iniziative che la campagna ha messo in campo su uno dei tre ambiti: il cibo.

Immaginiamo per un attimo che sul pianeta vivano cento persone e che il presidente della Banca Planetaria chieda loro di portare in banca tutti i soldi che possiedono perché viene emessa una moneta nuova e quelle vecchie non valgono più. In cambio verrà distribuita la nuova moneta che si chiama globone.

La Banca Planetaria convoca i cento abitanti del
pianeta e, cominciando da chi possiede di più, restituisce a ciascuno il suo
con le dovute rivalutazioni.

Per facilità supponiamo che tutti i soldi
raccolti equivalgano a cento globoni.

Arriva il primo signore, solo. Gli danno i suoi
soldi: 33 monete. È molto soddisfatto. Proprio un bell’affare. Nel 1980, quando
era stata fatta un’operazione simile, aveva avuto «solo» 28 monete.

Arrivano poi altre 9 persone. Ricevono 37 monete,
più o meno quattro a testa. Per loro è un colpo, perché nel 1980 ne avevano
ricevute 40, ma visti i tempi che corrono, meglio non lamentarsi, le perdite
sono contenute.

Dei 100 globoni iniziali, ne rimangono 30, ma le
persone da rimborsare sono ancora 90. Quanto riceverà ciascuno? Tutti lo
stesso?

Sono chiamate altre 15 persone: ricevono 20
globoni da dividere fra loro. Mugugnano un po’ perché rispetto al 1980 hanno
perso almeno un globone, o forse due, in favore del primo uomo.

Rimangono ancora 10 monete in tutto per 75
persone. A 25 sono distribuiti equamente 8 globoni, 32 centesimi a testa.
Speravano di prendere un po’ di più, ma possono andarsene contenti perché
almeno non hanno perso molto nel cambio. Metà dei «clienti» è sistemata.

A questo punto, le 50 persone rimanenti devono
spartirsi quel che rimane: due monete. Non due a testa: due in tutto, 4
centesimi ciascuno.

Una storia per capire

Questa storiella è una semplificazione dei dati riguardanti la distribuzione della ricchezza nel mondo pubblicati nel World Inequality Report (Wir) del 2018. Va detto che queste percentuali devono essere prese cum grano salis, come gli autori stessi tengono a chiarire, perché i dati affidabili sulla ricchezza nel mondo sono meno disponibili di quelli sul reddito, altra misura su cui si basa il rapporto. Inoltre, lo scenario è costruito sui dati dei soli Stati Uniti, Unione europea e Cina.@

Tuttavia, con le dovute cautele, è possibile
sostenere che di questo passo – cioè ai tassi di crescita della diseguaglianza
attuali – nel 2050 l’1% più ricco della popolazione mondiale arriverà a
possedere di più di tutta la classe media mondiale.

Per capire meglio riprendiamo la nostra storiella
e immaginiamo di moltiplicare tutto per dieci: gli abitanti del pianeta sono
mille, non cento, l’uomo con 33 monete diventa 10 uomini con 330 monete, e i 40
(15 + 25) della fascia intermedia con 28 globoni diventano 400 con 280 globoni.
Oggi, per eguagliare la ricchezza dei 400 uomini della fascia intermedia serve
la ricchezza di otto uomini e mezzo dei dieci più ricchi.

Le proiezioni nel rapporto dicono che nel 2050
basterà la ricchezza di uno solo dei dieci super ricchi per eguagliare la
ricchezza dei 400 della classe media mondiale.

Ma di quante persone reali stiamo parlando? I
dieci ricchi con 330 monete (l’1% della popolazione) corrisponono a circa 70
milioni di persone, spiega Lucas Cancel, uno degli autori del Wir 2018, alla
rivista francese Alternatives Economiques, o 40 milioni considerando la
sola popolazione adulta. Il livello di reddito di queste persone è di 330mila
euro all’anno.

La metà più povera della popolazione mondiale, invece (i cinquanta uomini che si dividono due monete nella storiella iniziale) corrispondono a tre miliardi e mezzo di persone e hanno un reddito sotto i 3.200 euro l’anno per ogni adulto@.

Diseguaglianza in crescita

© Gigi Anataloni /AfIMC

Nel 2016 la quota di reddito nazionale detenuta
dal 10% più ricco della popolazione variava dal 37%  in Europa al 61% nel Medio Oriente. Dal 1980
al 2016 – il periodo considerato dal Wir – la diseguaglianza è aumentata un po’
ovunque, ma con tassi molto differenti: mentre in Europa la variazione è stata
di pochi punti percentuali, in Russia è passata da poco più del 20% nel 1980 a
oltre il 40% nel 2016.

Del complessivo aumento del reddito globale nei
36 anni considerati, l’1% più ricco della popolazione mondiale ha «catturato»
circa il 27%. Il 50% più povero ha certamente beneficiato di tassi di crescita
degni di nota, ma la quota  di aumento
del reddito «catturato» dalla fascia più povera è stata del 12%, pari cioè a
meno della metà rispetto alla quota dei super ricchi. Chi ha visto la propria
parte restare invariata, se non addirittura erodersi, è ancora una volta la
classe media.

Da qui al 2050, gli scenari riguardanti le
diseguaglianze sono molti. Il migliore è quello che le vede crescere in tutti
paesi ai tassi «contenuti» dell’Europa. Questo porterebbe la quota dei più
ricchi dal 27% al 19% e aumenterebbe dal 12% al 13% la quota goduta dai più
poveri. Viceversa, se il mondo seguisse il trend degli Stati Uniti, la «fetta»
di crescita a beneficio dei 3 miliardi e mezzo di poveri crollerebbe al 6%,
mentre i 70 milioni di persone più ricche otterrebbero un ulteriore aumento di un
punto percentuale.

Chiudiamo la forbice, ora

Chiudiamo la forbice@ è la campagna lanciata il 18 giugno dell’anno scorso da Caritas Italiana, Focsiv e una ventina di altri soggetti, prevalentemente di ambito ecclesiale. L’attenzione per il tema delle diseguaglianze è sintetizzata in una frase chiave contenuta nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium: «L’iniquità è la radice dei mali sociali».

La data del lancio di Chiudiamo la forbice, precisa il comunicato stampa che apre la campagna, corrisponde al terzo anniversario della pubblicazione dell’enciclica Laudato Sì’@.

«Non ci sono due crisi separate, una ambientale e
un’altra sociale», sostiene Francesco nell’enciclica, «bensì una sola e
complessa crisi socioambientale» che richiede un «approccio integrale per
combattere la povertà, per restituire la dignità agli esclusi e nello stesso
tempo per prendersi cura della natura».

Di questo approccio integrale vuole farsi
portatrice la campagna, che concentra il proprio lavoro principalmente su tre
ambiti: il cibo, i conflitti e la mobilità umana, da leggere nell’insieme
attraverso due elementi trasversali del contesto: la dimensione ambientale, cioè
la cura della casa comune, e la dimensione finanziaria, in particolare «la
relazione tra debito, crisi finanziarie, diseguaglianze e resilienza rispetto
all’instabilità sociopolitica e allo svilupparsi di conflitti violenti».

A Chiudiamo la forbice sono legati tre concorsi
per la produzione di un video, una foto e un disegno che esprimano il titolo e
il tema della campagna. La scadenza per la presentazione dei lavori è il 30
giugno 2019, mentre la premiazione avverrà il 30 dicembre.

Il cibo, diritto basilare negato

© AfMC / Cogliati Matteo

Quello del cibo, dalla produzione al consumo, è un ambito nel quale le diseguaglianze sono di un’evidenza schiacciante. Del cibo sprecato annualmente sul pianeta, pari a 1,3 miliardi di tonnellate, gli abitanti di Europa e Nord America ne buttano fra i 95 e i 115 chili a persona contro i 6-11 chili a testa del resto del mondo. Nel primo caso, le perdite avvengono principalmente al livello del consumo e della vendita al dettaglio. In quest’ultimo ambito, buona parte dello spreco è l’effetto dell’applicazione di norme che danno eccessiva importanza all’aspetto dei prodotti. Nei paesi in via di sviluppo, invece, gli sprechi avvengono soprattutto nella fase successiva al raccolto e in quella di lavorazione, spesso a causa di limiti e inefficienze nelle tecniche di raccolta e nella catena del freddo. Nei paesi a medio reddito, infine, a causare le perdite di cibo sono principalmente la mancanza di coordinamento fra produttori e venditori e la scarsa consapevolezza da parte di produttori, venditori e consumatori sul problema dello spreco e su eventuali modi per riutilizzare il cibo che viene attualmente buttato@.

La campagna cerca di far emergere gli aspetti
disfunzionali in questo settore: «Se il 2017 è l’anno in cui la Fao ha rilevato
per la prima volta da tempo un nuovo aumento delle persone che soffrono la fame
sul pianeta, non cessano di aggravarsi le varie malattie dell’opulenza, come
l’obesità, lo spreco di cibo, la sovra alimentazione, ecc. Sullo sfondo vi sono
fenomeni complessi come la concentrazione del potere economico nelle filiere
della produzione del cibo, o i fenomeni dell’accaparramento della terra».

Fra le iniziative promosse in questo ambito vi è la spesa sospesa, che a Roma ha preso forma il primo fine settimana di ottobre al Villaggio Coldiretti. «Per tutto il weekend della manifestazione i visitatori dei banchi del maximercato degli agricoltori promosso da Coldiretti e Campagna Amica al Circo Massimo hanno avuto la possibilità di fare una donazione libera grazie alla quale acquistare prodotti a favore dei più bisognosi, sul modello dell’usanza campana del “caffè sospeso”, quando al bar si lascia pagato un caffè per il cliente che verrà dopo». Frutta, verdura, formaggi, salumi e altri generi alimentari così raccolti, per un totale di una tonnellata e mezzo, sono stati poi consegnati alla Caritas e alla Comunità di Sant’Egidio, che li hanno utilizzati per rifornire i quattro Empori della Solidarietà promossi dalla Caritas di Roma, che sono «supermercati di medie dimensioni a cui possono accedere gratuitamente persone che si trovano in temporanea difficoltà e che non riescono a sopperire a tutte le loro necessità»@.

Anche a Torino si è svolto a giugno un evento simile ai Giardini Reali superiori. Il bilancio è stato di una tonnellata di cibo raccolta e distribuita alle famiglie bisognose@.

Chiara Giovetti

© AfMC



In un mondo di debiti, tra crescita e austerità


Non è soltanto l’Italia a essere indebitata. Lo è tutto il mondo. Si stima un debito di 30mila dollari a testa, neonati inclusi. Le ricette proposte sono sempre le stesse: per ripagare il debito occorre tagliare sanità, scuola, pensioni. E poi bisogna crescere. Quanto? In che modo? E a che prezzo?

Il debito è motivo di preoccupazione per tutti, ma ciascuno per ragioni diverse: l’Unione europea (Ue) è preoccupata per le ricadute sull’euro, le imprese per le ripercussioni sull’andamento economico, le famiglie per i contraccolpi sociali. E, a seconda del tipo di preoccupazione, cambiano ricette e rimedi.

Il debito secondo l’Ue

L’obiettivo principale dell’Unione europea è rassicurare i mercati, dimostrare agli investitori internazionali che non hanno niente da temere perché i governi europei sono debitori affidabili. Perciò i suoi occhi sono puntati solo sui conti per mantenerli entro parametri rassicuranti per gli investitori: debito complessivo non oltre il 60% del Pil e deficit annuale al di sotto del 3%, meglio se uguale a zero. È il famoso «pareggio di bilancio» in base al quale tutte le spese, compresa quella per interessi, devono essere coperte dalle entrate ordinarie.

L’Europa si è autornimposta un giro di vite a partire dal 2011, quando la situazione debitoria di tutti i paesi europei peggiorò a causa dei salvataggi bancari. E l’Italia, pur non avendo una situazione bancaria così disastrosa, divenne subito un vigilato più sorvegliato degli altri perché aveva un debito pubblico cronicamente elevato. Del resto in quel periodo i titoli di stato italiano continuavano a perdere valore, un chiaro messaggio che, se l’Italia non si fosse attrezzata per dimostrare di essere un debitore fedele, sarebbe stata messa sotto attacco da parte dei mercati. La politica non tardò a battere un colpo: nel novembre 2011 destituì Berlusconi, considerato troppo debole, e lo sostituì con Monti che adottò subito politiche di austerità particolarmente pesanti. L’allora primo ministro aumentò le tasse, fino a portare la pressione fiscale al 44,1% del Pil nel 2013, mentre tagliò pensioni, istruzione, sanità, trasferimenti ai comuni. L’inevitabile conseguenza furono povertà, disuguaglianze e disoccupazione, una decadenza mal sopportata dal popolo italiano che non ha tardato a punire le forze politiche che l’avevano sostenuta.

Il debito secondo le imprese

Se veniamo alle imprese, la loro posizione sul debito non è omogenea, come del resto non lo è su molte altre questioni. Di solito su principi e obiettivi le imprese convergono, ma sulle strategie possono esprimere posizioni diverse a seconda dell’attività svolta, delle dimensioni raggiunte, dei mercati occupati. In tema di debito, le imprese sono tutte concordi nell’affermare che gli impegni vanno onorati, ma sono divise sul tipo di logica da far prevalere. Grosso modo si fronteggiano due schieramenti: il partito dell’estrazione e il partito della produzione. Partigiani del partito dell’estrazione sono le imprese della finanza (banche, assicurazioni, fondi pensione, fondi di investimento) che, vivendo di parassitismo, sognano un sistema economico altamente indebitato totalmente asservito alle esigenze di guadagno dei creditori. Partigiani del partito della produzione sono le imprese dell’economia reale che, vivendo di produzione e commercio, sentono il bisogno di operatori economici sani ad alta capacità di acquisto. Dunque, non troppo dilapidati dai loro creditori. La storia del capitalismo è piena di crisi provocate da un eccesso di debito: l’inceppamento dell’intero sistema dovuto ai fallimenti di imprese, famiglie e governi, sopraffatti da un eccesso di risorse da trasferire ai creditori. Che è esattamente il rischio che corriamo oggi, considerato che il mondo galleggia su 237mila miliardi di dollari di debiti, circa tre volte il prodotto lordo mondiale (Iif, maggio 2018).

Una buona dose di regole, per tenere contemporaneamente a bada gli appetiti degli avvoltorni finanziari e la propensione all’azzardo da parte degli operatori economici, sarebbe il modo migliore per prevenire l’eccesso di debito. Ma poiché le imprese vivono le regole come dita negli occhi, si ostinano a rifiutarle, sostenendo che esiste una ricetta capace di salvare capra e cavoli: l’interesse di chi è parassita a garantirsi alti incassi e l’interesse di chi è parassitato a garantirsi un’alta solidità finanziaria. La ricetta si chiama crescita e si basa sul principio che, se la ricchezza si fa più grande, diventa più facile pagare i debiti con ampia soddisfazione per tutti, sia dei creditori che dei debitori. Applicata ai debiti sovrani, la tesi è che, se cresce la ricchezza prodotta nella nazione, cresce anche il gettito fiscale e quindi la capacità di spesa dei governi che, al tempo stesso, avranno abbastanza risorse per garantire servizi ai cittadini e onorare i propri debiti. In effetti, questa è la sola ricetta che in Europa si va facendo strada in alternativa all’austerità: la propugnava il governo Pd di Renzi e la propugna il governo giallo verde di Di Maio e Salvini. Potrà funzionare?

La favola della crescita

In teoria sì, in pratica presenta molte perplessità. Per cominciare c’è un problema di misura: quanta crescita servirebbe per tirarci fuori dal pantano senza sacrifici? Proviamo a fare due conti. Solo di interessi ci servono una settantina di miliardi l’anno; ma se ci aggiungiamo anche il traguardo di sbarazzarci in venti anni di metà del debito accumulato, che ormai ha oltrepassato i 2.300 miliardi, dovremmo mettere in conto altri 57 miliardi l’anno. Ad oggi farebbero 125 miliardi. Se è vero che andrebbero a scalare via via che passano gli anni, non sbaglieremmo di molto se dicessimo che per i prossimi 10 anni lo stato dovrebbe avere un aumento di gettito di un centinaio di miliardi all’anno. Considerato che oggi la pressione fiscale è al 40%, per ottenere un simile risultato, il primo anno dovremmo avere un aumento di Pil di 250 miliardi. Tradotto in termini percentuali farebbe una crescita del 15%, che è il doppio della crescita media ottenuta dalla Cina nell’ultimo quinquennio. Quella italiana è un’economia matura e, per bene che vada, non può attendersi una crescita del Pil oltre il 2%, 34 miliardi l’anno, un ammontare che – secondo la pressione odierna – potrebbe produrre un gettito aggiuntivo di 13 miliardi: appena l’11% di ciò che servirebbe. Insomma, i numeri ci dicono che quella della crescita è una bella favola che serve a poco per tirarci fuori dai problemi. Ciò nonostante è usata come pretesto per imporci una serie di altre riforme che peggiorano le nostre condizioni di lavoro e attentano al bene comune. Il punto è che la crescita a cui tutti pensano è quella trainata dalle imprese private, che oggi però sono libere di andare a produrre dove vogliono. Il che ha messo tutte le nazioni del mondo in gara fra loro percreare le condizioni più allettanti per gli investimenti. E poiché le imprese prestano attenzione prioritaria al costo del lavoro e alle tasse, tutti i governi si stanno organizzando per ridurle. Tant’è che anche in Italia le parole d’ordine sono flessibilità, libertà di licenziamento e riduzione delle tasse come mostrano il Job’s Act e il fatto che l’imposta sui redditi d’impresa è passata dal 37% nel 1994, al 24% di oggi. E, detto per inciso, a che serve impegnarsi per fare aumentare il Pil, se poi si abbassano le tasse su chi potrebbe pagarle? Ma la fede nella crescita è così radicata che c’è chi chiede di poter fare altro debito per permettere allo stato di investire in opere pubbliche, nella convinzione che la costruzione di strade, ponti e ferrovie stimolerà l’avvio di molte altre attività economiche. In questa direzione sembra voler andare anche l’attuale governo giallo verde che, pur di riuscirci, si dice pronto a superare i paletti fissati in sede europea. È cronaca di questi mesi.

Altri parametri, altre strade da percorrere

È fuor di dubbio che in Italia ci sono molti bisogni insoddisfatti che necessitano di interventi pubblici, ma l’obiettivo non può essere la crescita tout court, bensì il miglioramento della qualità della vita dei cittadini, tenendo ben presente che c’è anche un’altra condizione fondamentale da rispettare: la salvaguardia ambientale. In questa ottica non sono le grandi opere a dover prevalere, ma il recupero del patrimonio edilizio esistente e la valorizzazione delle tratte stradali e ferroviarie locali. Una scelta che (forse) non farebbe crescere il Pil come auspicato, ma che migliorerebbe la vita dei cittadini senza consumare altro suolo e limita al minimo il consumo di nuove risorse. Dobbiamo avere il coraggio di dire che il tempo della crescita è finito, mentre deve iniziare quello della riconversione economica: una totale rivisitazione del «cosa, come e per chi» produrre con l’obiettivo di espandere le attività ad alto impatto qualitativo sul piano dei diritti, della serenità personale, dell’inclusione occupazionale, della difesa ambientale, mentre vanno chiuse le attività energivore, insalubri, dissipative, utili solo a creare bisogni artificiali che ci ingolfano di rifiuti e ci condannano a una vita in corsa perenne per guadagnare sempre di più.

Gestire il debito attraverso la crescita è come volersi ingraziare la dea Khali con sacrifici umani: il rimedio peggiore del male.

Progressività, patrimoniale, prestito forzoso

Vanno cercate altre strade. Una soluzione è quella della redistribuzione, che vuol dire fare pagare i più forti. Fino ad ora si sono cercate le risorse a favore del debito tagliando sanità, scuola, assegni sociali, che è come se una famiglia decidesse di pagare le banche riducendo la razione di latte del neonato invece che togliere la bistecca agli adulti. In Italia la ricchezza c’è, ma – per un tacito accordo fra tutte le forze politiche – i potenti nessuno li tocca. Questa ingiustizia deve finire: se il paese è in difficoltà lo sforzo del risanamento va richiesto prima di tutto a chi sguazza nell’opulenza. Un obiettivo che si raggiunge non solo riformando il sistema fiscale in senso fortemente progressivo (come avevamo nel 1974), ma anche imponendo una seria imposta patrimoniale e magari un prestito forzoso sugli alti redditi e patrimoni, ad esempio oltre i 500mila euro. In contemporanea andrebbe attuata una seria lotta all’evasione e all’elusione fiscale, che ogni anno procurano allo stato una perdita di oltre 100 miliardi. E poiché questi provvedimenti hanno bisogno di tempi lunghi, come misura d’urgenza si dovrebbe pensare di chiedere anche ai creditori di fare la propria parte. I creditori chiedono un tasso di interesse perché corrono un rischio, ma se sono sempre protetti, il rischio dov’è? Una strategia di uscita dal debito potrebbe cominciare proprio dalla decisione di raggiungere il pareggio di bilancio tagliando la spesa per interessi, invece che le spese a vantaggio della collettività. Nel 2017 la quota di interessi che le imposte non sono riuscite a coprire è stata pari a 40 miliardi, lo stato avrebbe potuto congelarli raggiungendo di fatto il pareggio di bilancio. Ma chi sarebbe stato penalizzato da una simile decisione? Non certo le famiglie che detengono appena il 5% dei titoli del debito pubblico italiano. In ordine decrescente ci avrebbero rimesso le banche italiane che ne detengono il 27%, la Banca centrale europea (Bce) che ne possiede il 20%, altre istituzioni finanziarie italiane anch’esse al 20%, la Banca d’Italia al 15%, altri investitori stranieri al 13%. In altre parole, a subire i contraccolpi non sarebbero solo istituzioni private, da cui potremmo aspettarci un atteggiamento ostile, ma anche la Banca centrale europea e la Banca d’Italia dalle quali ci potremmo attendere quanto meno un atteggiamento di non belligeranza dal momento che sono istituzioni private con funzioni pubbliche. Ed è proprio la Banca centrale europea, la grande struttura che, alla fine, dobbiamo riformare perché, se avesse un’altra impostazione, potrebbe liberare tutti i governi dell’eurozona dal fardello dei loro debiti senza troppi scossoni.

Chi ragiona diversamente c’è

Charles Wyplosz, uno dei più noti economisti europei, ha avanzato una proposta in tal senso con un progetto denominato Padre (Politically Acceptable Debt Restructuring in the Eurozone). In pratica l’istituto di Francoforte diventerebbe il nuovo titolare dell’intera massa debitoria degli stati dell’Eurozona e, mentre potrebbe dotarsi di un piano pluriennale per estinguere gradatamente il capitale con denaro di nuova emissione, potrebbe pagare gli interessi in scadenza con i proventi del «signoraggio», ossia con i guadagni ottenuti dal servizio di emissione monetaria. Tutto questo per dire che, da un punto di vista tecnico, le soluzioni ci sarebbero. L’ostacolo è tutto politico ed è rappresentato dal predominio dell’ideologia liberista che vuole gli stati succubi dei mercati. Solo una nuova volontà popolare può aprire la strada a un’altra visione,  ma un nuovo popolo si affermerà solo se capirà che i responsabili dei suoi mali non si annidano fra gli ultimi bensì fra i primi.

Francesco Gesualdi