Nicaragua. Una Chiesa in esilio


Cacciati il nunzio apostolico, alcuni vescovi, presbiteri e persino le suore di Madre Teresa. Il regime di Daniel Ortega accusa la Chiesa cattolica di sostenere gli oppositori. Ma i vescovi del Paese centroamericano replicano che loro sono solo dalla parte degli ultimi.

Era la fine di giugno del 2022 quando Daniel Ortega ha deciso l’espulsione delle Missionarie della Carità dal Paese.

Presenti a Managua dal 1986, le suore di Madre Teresa hanno dovuto lasciare il Nicaragua perché non avevano rispettato le leggi sul «finanziamento del terrorismo e sulla proliferazione delle armi di distruzione di massa». Questa almeno era l’accusa rivolta loro dalla «Direzione generale di Registro e controllo delle organizzazioni senza scopo di lucro» del ministero dell’Interno nicaraguense. La stessa motivazione con la quale sono state messe al bando, in questi ultimi anni, oltre cento organizzazioni non governative (Ong).

(Photo by Cesar PEREZ / Nicaraguan Presidency / AFP)

Fuori chi contesta il regime

Il caso dell’espulsione dal Paese delle suore di Madre Teresa che, con una mitezza divenuta addirittura proverbiale, portano la loro assistenza agli ultimi in quasi tutti gli angoli del mondo, anche in contesti di guerra come sono oggi Gaza o l’Ucraina, ha fatto il giro del mondo. Le fotografie e i video che le ritraggono mentre, con le poche cose che avevano deciso di portare con loro, attraversavano a piedi il confine con il Costa Rica, sono tra le immagini simbolo della persecuzione dei cristiani in Nicaragua.

Un’oppressione che negli ultimi anni non ha avuto riguardo per nessuno, neanche per il Papa che si è visto cacciare su due piedi il nunzio apostolico dal Paese.

Monsignor Waldemar Stanislaw Sommertag, vescovo polacco, ambasciatore vaticano a Managua da quattro anni, il 6 marzo del 2022 è stato, infatti, accompagnato all’aeroporto della capitale in tutta fretta. Gli erano state concesse poche ore per raccogliere le sue cose prima di essere espulso.

L’ambasciatore della Santa Sede era arrivato in Nicaragua nel 2018, proprio quando esplodevano le proteste contro il governo di Daniel Ortega e sua moglie, la vicepresidente Rosario Murillo.

La Chiesa già allora era nel mirino per avere sostenuto la popolazione che protestava.

Venivano assaltate le chiese dai paramilitari e minacciati i vescovi. Uno di loro, il vescovo ausiliare dell’arcidiocesi di Managua, monsignor Silvio Josè Baez, nel 2019 era stato costretto a lasciare il Paese. Una sorte che sarebbe toccata a molti, fino a monsignor Rolando Alvarez, il vescovo di Matagalpa che, dopo oltre cinquecento giorni di carcere duro, e con una condanna a 26 anni di detenzione, il 14 gennaio del 2024 è arrivato a Roma, accolto in Vaticano insieme ad altri diciotto ecclesiastici scarcerati. Liberati grazie a una delicata trattativa condotta dalla Santa Sede, ma espulsi. Tutti messi su un aereo con un biglietto di sola andata.

La cacciata del nunzio

Foto Jeorge Mejia Peralta – flickr.com

Il nunzio Sommertag i primi anni aveva cercato di tenere il dialogo aperto con il Governo consumando anche qualche frizione con la Chiesa locale.

La volontà era di utilizzare gli strumenti diplomatici per pacificare il Paese. E nel 2019 era stato anche mediatore nei colloqui tra Governo e oppositori.

Negli anni, però, la situazione si è fatta via via più difficile. Uno dei motivi è stato certamente la vicinanza espressa dal nunzio ai familiari dei tanti prigionieri, molti dei quali oppositori al regime di Ortega, che gli avevano chiesto di mediare per la loro liberazione. Una vicinanza che non è stata gradita dal Governo.

La situazione è poi precipitata quando il rappresentante della Santa Sede ha utilizzato l’espressione «prigionieri politici». A novembre 2021 è arrivato il primo segnale concreto del «non gradimento» quando è stato tolto al nunzio Sommertag il titolo di «decano» degli ambasciatori. In seguito, la situazione si è sempre più deteriorata fino all’espulsione. Oggi la Nunziatura apostolica è vuota, ed è custodita dal personale dell’ambasciata italiana a Managua.

Minacce, confische, arresti

«Le sofferenze inferte alla Chiesa in Nicaragua sono immani», commenta Alessandro Monteduro, il direttore della fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs) che sostiene i cristiani nelle terre di persecuzione. «Dall’aprile del 2018 sono stati centinaia gli attacchi nei confronti di religiosi, religiose e fedeli perpetrati dalla polizia fedele al regime di Ortega. Con la parola attacchi si indicano atti come minacce, rapine, profanazioni, arresti arbitrari, espulsioni, confische, divieti di ogni genere».

Tra le mosse per tagliare le gambe alla Chiesa, a metà del 2023, il Governo ha deciso anche il blocco dei suoi conti correnti. Questo ha portato come conseguenza la difficoltà, quando non la vera e propria impossibilità, di pagare qualsiasi cosa, persino le bollette della luce e dell’acqua. Per non parlare di tutte le opere di sostegno alla popolazione in difficoltà, dalle mense agli aiuti in denaro.

«Il Governo da anni è quotidianamente impegnato nel tentativo di mettere a tacere la Chiesa – riferisce ancora Monteduro -. Sacerdoti e vescovi sono stati arrestati, molte Ong sono state cacciate. Ma anche alcune manifestazioni di pietà popolare come la Via Crucis o le processioni sono state impedite. Succede anche che le spie del regime si presentino alle messe per registrare le omelie. I sacerdoti versano in uno stato di reale persecuzione».

Foto Jeorge Mejia Peralta – flickr.com

L’università dei Gesuiti

Fanno paura al regime di Managua anche i centri del sapere. La storica Uca, l’Università centroamericana del Nicaragua, ad agosto del 2023 è stata sottoposta a sequestro, e tutti i suoi beni, mobili e immobili, sono stati trasferiti allo Stato nicaraguense.

Sono stati gli stessi Gesuiti, che avevano fondato il prestigioso ateneo nel 1963, a rendere nota, in quei giorni, la notifica da parte del decimo Tribunale penale di Managua, con la quale si accusava l’Uca di essere «un centro di terrorismo che organizza gruppi criminali».

La Provincia centroamericana della Compagnia di Gesù ha obiettato a quelle accuse definendole «totalmente false e infondate» e affermando con coraggio, in un comunicato del 16 agosto del 2023, che il sequestro e la confisca altro non erano che il frutto «di una politica governativa che viola sistematicamente i diritti umani e che sembra essere finalizzata al consolidamento di uno Stato totalitario». Da allora l’Uca ha sospeso le sue attività accademiche.

Scout, Ong e vie crucis

La scure è caduta anche sugli Scout, la cui associazione, a metà febbraio 2024, ha perso la personalità giuridica. Questo a causa, sostiene il Governo di Managua, di irregolarità nella presentazione dei bilanci.

Con gli Scout, in quella stessa data, hanno subito la medesima sorte altri dieci organismi, tra cui la Fraternidad misioneras del fiat de María. Un mese prima, il 16 gennaio, a farne le spese erano state sedici Ong, dieci delle quali cattoliche o evangeliche.

Le organizzazioni non governative soppresse o cacciate sono ormai innumerevoli.

A tutto questo si aggiunge il fatto che anche in questo 2024, come era già accaduto negli anni scorsi, ai cristiani è stato impedito di celebrare la Via Crucis nelle strade durante la Quaresima. I divieti sarebbero stati almeno quattrocento, secondo quanto ha denunciato alla stampa indipendente l’avvocata e attivista Martha Patricia Molina, anche lei, come tanti, da anni in esilio.

Foto Jeorge Mejia Peralta – flickr.com

La delicata posizione della Santa Sede

Gli interventi pubblici del Papa e del Vaticano sulla situazione della Chiesa in Nicaragua sono stati in questi anni centellinati al contagocce. La situazione è troppo pericolosa per i cattolici che vivono nel Paese, per questo la Santa Sede è impegnata in un paziente lavoro diplomatico quanto più possibile lontano dai riflettori dei media.

Quando a gennaio di quest’anno sono arrivati a Roma due vescovi (monsignor Rolando Alvarez e monsignor Isidoro Mora Ortega), quindici sacerdoti e due seminaristi scarcerati, e sono stati presi in carico dal Vaticano, su di loro è scesa una cappa di protezione. L’unica informazione trapelata è che sono ospitati da diverse diocesi italiane, da quella di Roma a quella di Civitavecchia-Tarquinia. Ma c’è il massimo riserbo sulle località o le parrocchie nelle quali alloggiano e continuano, per quanto possibile, il loro ministero.

Il Papa in questo 2024 ha parlato del Nicaragua pochissime volte, e sempre per chiedere il rispetto dei diritti umani e lo spazio per aprire un dialogo.

All’Angelus del primo gennaio ha lanciato un vero e proprio appello: «Seguo con preoccupazione quanto sta avvenendo in Nicaragua, dove vescovi e sacerdoti sono stati privati della libertà. Esprimo ad essi, alle loro famiglie e all’intera Chiesa del Paese la mia vicinanza nella preghiera. Alla preghiera insistente invito pure tutti voi qui presenti e tutto il popolo di Dio: che si cerchi sempre il cammino del dialogo per superare le difficoltà».

In seguito, la situazione del Paese è emersa nelle parole del Pontefice nel discorso dell’8 gennaio al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, «desta ancora preoccupazione la situazione in Nicaragua: una crisi che si protrae nel tempo con dolorose conseguenze per tutta la società nicaraguense, in particolare per la Chiesa cattolica. La Santa Sede non cessa di invitare ad un dialogo diplomatico rispettoso per il bene dei cattolici e dell’intera popolazione».

Scalata la classifica dei Paesi a rischio

Foto Jeorge Mejia Peralta – flickr.com

Nella classifica dell’organizzazione Open doors, la World watch list che misura i Paesi con il più alto tasso di persecuzione dei cristiani, il Nicaragua nel 2023 si è collocato al trentesimo posto, mostrando un peggioramento della situazione rispetto all’anno precedente.

«L’obiettivo del Governo – spiega la Ong nel suo rapporto presentato lo scorso gennaio – non è semplicemente quello di mettere a tacere la voce dei cristiani, ma, data la loro influenza nel Paese, di ostacolare la loro credibilità e impedire la diffusione del loro messaggio. Va notato che mentre molti cristiani sono in prima linea, c’è una minoranza di credenti che, per paura o convinzione, sceglie di tacere. In alcune comunità ecclesiali ciò sta causando divisioni, che probabilmente stanno facendo il gioco del Governo».

Tra le tante storie colpisce quella del pastore evangelico Wilber Alberto Perez. Prima di essere espulso dal Paese, nel 2021 era stato arrestato e condannato a dodici anni di carcere. L’accusa inizialmente era di avere sollecitato una rivolta solo perché era stato trovato seduto in un luogo dove si erano assembrate molte persone. Dato che lui era riuscito a dimostrare di essersi trovato in quel luogo a riposare in compagnia di amici, è stato allora accusato di traffico di droghe illegali. Detenuto per un po’ di tempo, anche in una cella al buio, infine, gli è stato dato il foglio di via.

Un Paese cristiano

Ma che cosa è successo in questo Paese, a larghissima maggioranza cristiana?

Secondo i dati più recenti, riferiti al 2020, dell’Association of religion data archives, i cristiani in Nicaragua sono il 95% della popolazione. La maggior parte cattolici. Secondo altre stime più prudenti, i cristiani superano comunque l’80 per cento della popolazione. Perché dunque il Governo mette in atto la repressio- ne di un sentimento così diffuso? Perché la distruzione di chiese, la cacciata di religiosi e religiose?

Secondo gli osservatori è proprio la larga adesione alla Chiesa, l’unica che può dare voce a coloro che si sentono oppressi, che intimorisce il regime di Ortega.

Uno dei primi a essere stato esiliato e, dal febbraio 2023, anche privato della cittadinanza nicaraguense, è monsignor Silvio Báez, vescovo ausiliare di Managua, che vive attualmente tra Miami, negli Stati Uniti, e il Vaticano.

Il 16 novembre del 2023, nel ricevere la «Medaglia per il servizio alla democrazia» dell’istituto statunitense National endowment for democracy, ha dichiarato: «Questa onorificenza non è solo un onore personale, ma una testimonianza della resilienza collettiva del popolo nicaraguense e dell’impegno incrollabile della Chiesa cattolica del Nicaragua nel difendere la libertà, la pace e la giustizia». Parole inequivocabili sulla posizione della Chiesa nel Paese e che dunque mettono paura al regime che ha scelto la strada del non dialogo e della repressione.

Secondo mons. Báez, «nel corso della storia, il popolo del Nicaragua ha dimostrato un coraggio eccezionale di fronte a sfide immense. Abbiamo affrontato il dominio oppressivo di una dittatura brutale e abbiamo assistito alla lenta erosione dei valori democratici, fino alla loro completa scomparsa». In questo contesto, sottolinea il vescovo, la Chiesa cattolica in Nicaragua «è sempre stata un rifugio sicuro per i poveri e gli oppressi e continua a essere un faro di speranza nella società».

Foto Jeorge Mejia Peralta – flickr.com

Un futuro incerto

«La liberazione ad opera del regime Ortega-Murillo dei diciannove religiosi il 14 gennaio scorso – commenta Alessandro Monteduro, rispondendo sulle prospettive future dei cattolici in Nicaragua – ha consentito all’intera comunità cattolica mondiale di tirare un sospiro di sollievo. Tuttavia, non è ancora chiaro se sia stata il frutto di un nuovo clima o una manovra politica.

Certamente ha influito la pressione internazionale che si è intensificata sia sul fronte politico, dagli Stati Uniti all’Alto commissariato dell’Onu per i Diritti umani, sia su quello mediatico.

Tutto ciò avrebbe indotto il regime a trattare con la Santa Sede. È probabile – prosegue Monteduro – che abbia inciso anche la volontà del Governo di non alienarsi completamente la comunità cattolica. Tuttavia, è anche vero che Ortega ha espulso un gruppo di leader caratterizzati da notevole spessore pastorale e ampia visibilità pubblica. Cosa che, agli occhi del regime, rappresenta un’azione di successo nel più ampio tentativo di reprimere e depotenziare la Chiesa.

Al di là dei toni apparentemente rassicuranti del Governo, è pertanto opportuno valutare l’accaduto con molta cautela».

Manuela Tulli

Foto Jeorge Mejia Peralta – flickr.com




Senegal. La democrazia può attendere


Oppositori politici incarcerati, manifestazioni represse, arresti arbitrari, restrizioni delle libertà. Il Paese vetrina dell’Africa occidentale perde colpi sul piano di diritti e democrazia. Mentre cerca di emergere come economia. Il gruppo al potere non sembra pronto a cederlo. Anche perché la torta da dividere sta aumentando.

Juliette è una giovane donna della Casamance, regione nel sud del Senegal. È un’attiva sostenitrice dell’oppositore politico Ousmane Sonko, impegnata sui social media e non solo. A metà marzo scorso era presente a una manifestazione a Dakar, nei pressi della casa del politico. La polizia aveva circondato l’abitazione e impediva a Sonko di uscire. A un certo punto gli agenti hanno caricato l’assembramento di manifestanti e lanciato lacrimogeni. Molti partecipanti, perlopiù giovani, sono stati arrestati. Anche Juliette è finita in prigione. Non ha avuto alcun processo, ma a ottobre, il presidente Macky Sall ha graziato un migliaio di detenuti e così anche lei è potuta tornare a casa dalla sua bimba di cinque anni e al suo lavoro.

Episodi di questo tipo, iniziati nel 2021, sono sempre più frequenti in un Senegal, vetrina dell’Africa dell’Ovest, che si avvicina alle elezioni presidenziali del 24 febbraio.

L’attuale presidente, Macky Sall, al potere dal 2012 (già primo ministro e presidente dell’Assemblea nazionale), ha inizialmente tentato di candidarsi per un terzo mandato (incostituzionale) ma, in seguito alle manifestazioni e alla pressione della Francia, ha desistito, e il partito al potere presenterà come candidato l’attuale primo ministro Amadou Ba.

Il Senegal di Macky Sall

Negli ultimi dieci anni il paese è cambiato, soprattutto nella capitale Dakar.

Gli investimenti della gestione Macky Sall si sono concentrati sulle infrastrutture: sono state costruite nuove strade, asfaltate alcune di quelle vecchie, costruiti impianti sportivi e il nuovo aeroporto Blaise Diange, ultimata l’autostrada Dakar-Tuba, elettrificate zone del Paese.

«Nel suo discorso di insediamento il presidente Macky Sall disse che il suo obiettivo principale sarebbe stato soddisfare i bisogni dei senegalesi ed elevare il loro livello di vita. Inoltre, le infrastrutture non funzionavano», ci racconta il giornalista senegalese Ama Dieng, contattato telefonicamente.

E continua: «Così Sall ha lavorato molto sulle infrastrutture. È stato anche realizzato il treno espresso dalla nuova città di Diamniadio a Dakar e una rete di bus rapidi. Ha molto investito nelle vie di comunicazione e risposto alle richieste del mondo sportivo. Questo occorre riconoscerlo». Diamniadio è diventato un polo urbano ed economico, ha tutti i moderni servizi, lo stadio, il nuovo aeroporto. Vi si sono trasferiti alcuni uffici amministrativi e ministeriali. Anche a Dakar ci sono molti cantieri, ma la città è concentrata sullo spazio limitato di una penisola per cui sta esplodendo.

Nel 2013 è stato lanciato il Plan Sénégal emergent (Pse, Piano Senegal emergente), ovvero una strategia decennale (2014-2024) che ha come obiettivo di portare il paese saheliano tra i paesi cosiddetti «emergenti» entro il 2035. È un programma che prevede grossi finanziamenti, anche da parte di multinazionali straniere, che ha spinto soprattutto sull’economia e sull’impresa privata.

«L’imprenditoria è molto favorita in città, ma anche a livello rurale. È chiaro che il contesto non è ricco. Ho visto tanta attività economica. Però lavoro non ce n’è abbastanza, così come la formazione. C’è molta precarietà e lavoro informale», ci dice Federico Perotti, ingegnere esperto di cooperazione e conoscitore del Paese.

Senegal, agro-cooperative, CISV

Il sogno del benessere

Continua il giornalista: «Per quanto riguarda il livello di vita della popolazione, possiamo dire che il presidente non ha rispettato i suoi impegni. Aveva promesso di fare in modo che i senegalesi avessero il benessere. La povertà, invece, è aumentata e molte famiglie hanno difficoltà a comperare i beni di base.

Sall non è riuscito nella politica dell’impiego per la gioventù. Ha tentato di realizzare alcune strutture, ma i progetti non sono andati avanti. Così c’è stato un aumento del tasso di disoccupazione. Il che spiega la continua emigrazione dei giovani senegalesi». In Senegal circa la metà della popolazione ha meno di vent’anni.

«Le industrie senegalesi – agiunge Dieng – non hanno sentito l’appoggio dello stato, rispetto alla concorrenza del mercato mondiale. Le nostre industrie hanno una capacità di produzione debole e non c’è stata una protezione, per cui molte di loro hanno dovuto chiudere a causa della concorrenza estera». Un altro motivo per l’aumento della disoccupazione.

Parliamo di agricoltura con un esperto italiano (che ha chiesto l’anonimato) con un’esperienza ventennale nel Paese. «Dal punto di vista globale possiamo dire che il Senegal è avanzato, però non su basi solide. Infatti, tutto dipende dalla capitale, che concentra i servizi e l’economia. Il mondo rurale si spopola e la produttività agricola è sempre molto bassa. Secondo un recente studio, in un anno, quindi nel tempo di una campagna agricola, si arriva a guadagnare l’equivalente di circa 30 euro al mese. Questo nonostante ci siano progetti e miliardi di franchi cfa (milioni di euro) investiti nel settore ogni anno. Ma sono soldi mal gestiti, o usati per questioni politiche (fini elettorali, ndr)». Il Senegal è un paese prevalentemente rurale, dove coltivazione della terra e allevamento fanno parte della tradizione e dell’economia famigliare. «Ci sarebbero le potenzialità per sviluppare l’agricoltura, ma ci vorrebbe più organizzazione e infrastrutture migliori. Anche la congiuntura internazionale favorirebbe, perché il prezzo dei cereali sul mercato mondiale è aumentato». Così, ci spiega l’esperto, «i giovani rurali vanno a Dakar a fare lavori informali e guadagnano di più, mentre le campagne restano popolate da anziani. Occorrerebbe investire per rendere l’agricoltura un’attività interessante anche per i giovani. I modelli oramai sono quelli occidentali, non più i tradizionali, e i ragazzi non tornano in campagna se non vedono un interesse economico». E conclude: «Tutto questo ha portato molta frustrazione nei giovani, e ha spinto il fenomeno populista Ousmane Sonko».

Proteste del 19 agosto 2023. (Photo by Kiran RIDLEY / AFP)

L’oppositore

Ousmane Sonko, 49 anni, sindaco di Ziguinshor, capitale della Casamance, è di un’etnia della zona.

Da alcuni anni ha iniziato a presentare un discorso antifrancese (come molti nell’area dei paesi ex colonie della Francia), contro la casta al potere, «un approccio più distruttivo che propositivo», ci dicono.

Inizialmente si è opposto al terzo mandato di Macky Sall, e già nel 2021 le manifestazioni dei suoi sostenitori sono state violentemente represse. Ma da quando ha iniziato a diventare popolare, il regime ha montato una serie di accuse contro di lui, a partire da una condanna per abusi sessuali a una massaggiatrice, fino all’accusa di aver diffamato un ministro, e di aver istigato all’insurrezione. Sonko è oggi in prigione con una condanna a due anni.

«Abbiamo l’impressione che il presidente Macky Sall non sopporti l’opposizione – ci dice il giornalista – la tecnica delle incriminazioni giudiziarie era già stata usata con altri candidati, come Karim Wade, figlio dell’ex presidente Abdoulaye Wade. Con il caso Sonko, si è visto che la volontà di non farlo partecipare alle elezioni è concreta».

Ma perché? Ci chiediamo. «Perché, bisogna riconoscerlo, Sonko è l’uomo politico più popolare del Senegal in questo momento, perfino più dello stesso presidente». Alcuni sondaggi lo danno addirittura al 58%. Di fatto la sua presa sui giovani e sulla loro frustrazione è elevata, ed essi lo vedono come il loro leader.

In ballo non c’è solo il potere, che questo gruppo è abituato ad avere da oltre un decennio, ma anche i nuovi giacimenti di petrolio offshore, al confine con la Mauritania, che inizieranno a essere sfruttati proprio quest’anno.

Repressione

Le manifestazioni del marzo 2023 sono state violentemente represse. Poi, i primi giorni di giugno, ci sono state altre manifestazioni contro la condanna di Sonko per «corruzione di giovani», in diverse città (Dakar, Ziguinchor, Kaolak) con arresti ma anche con numerosi morti. Secondo Amnesty International, durante due giorni sono stati almeno 23 i morti, tra i quali tre bambini, e 390 i feriti causati dalle forze di sicurezza. L’Ong chiede inoltre di fare luce sulla presenza di «uomini armati in abiti civili in appoggio alle forze di sicurezza, ampiamente documentata dalle immagini filmate». Inoltre, «nei giorni delle proteste e in quelli successivi, le autorità hanno sospeso l’accesso a internet e alle piattaforme social. È stato interrotto il segnale dell’emittente Walf Tv e il suo canale YouTube».

A causa della condanna, Sonko è stato rimosso dalle liste elettorali, e questo lo renderebbe non candidabile alle prossime elezioni. Usiamo il condizionale, perché ci dicono che il dossier giudiziario non ha finito il suo percorso.

Nel frattempo, il 23 novembre, il suo partito, il Pastef (Patrioti africani del Senegal per il lavoro, l’etica e la fraternità) ha presentato un altro possibile candidato, il vice Bassirou Diomaye Faye. Pure lui in carcere, ma non essendo giudicato, è candidabile.

Il partito stesso è stato sciolto per decreto il 31 luglio scorso. La motivazione data dal ministro dell’Interno, Antoine Diome, è l’accusa di frequenti chiamate all’insurrezione. Comportamento non consono a un partito politico. Lo stesso giorno Sonko era stato condannato per insurrezione e complotto, e nuovamente arrestato. Il fatto è stato seguito da manifestazioni a Dakar Ziguinchor, represse violentemente, con alcuni morti.

Diritti in bilico

Un militante dei diritti umani senegalese (che chiede l’anonimato) ci dice: «Le repressioni delle manifestazioni, che hanno provocato diversi morti, sono fatti che i senegalesi deplorano. Si è assistito a una grande violenza poliziesca. Il governo dice che ci sono infiltrazioni di terroristi, ma si tratta di senegalesi che manifestano per dire che non sono contenti del presidente, e questo fa parte della democrazia. Ma le dimostrazioni dell’opposizione sono sistematicamente proibite e la repressione è forte. Oggi le prigioni sono piene di questi giovani. Mentre il ministro dell’Interno dice che non ci sono prigionieri politici.

Oggi assistiamo a una regressione della democrazia in Senegal. Quello che il presidente Abdoulaye Wade ha accettato, il presidente Macky Sall non lo accetta».

Come abbiamo visto per Juliette, anche per quanto riguarda i diritti civili in generale, gli osservatori notano un certo arretramento. A livello della libertà di stampa ci sono molte pressioni, e sovente i giornalisti sono convocati o arrestati, soprattutto se scrivono sul presidente. Pratica che prima non era comune. Si contesta loro il reato di «offesa al capo dello stato» o quello di «false notizie». Inoltre il potere è riuscito ad avere molti giornali a lui favorevoli e ne ha creati di nuovi.

Il Senegal, che punta a raggiungere il club dei paesi emergenti entro il 2035, sta rischiando di uscire da quello dei paesi democratici e rispettosi dei diritti umani. Mentre la pagina delle elezioni di febbraio è tutta da scrivere.

Marco Bello

Senegal, agro-cooperative, CISV


Il progetto

L’Ong Cisv di Torino, presente dal 1988 in Senegal, vi realizza oggi il progetto Provives, di promozione del lavoro e della piccola imprenditoria «verde». Si tratta di un’esperienza pilota di appoggio all’imprenditoria locale impegnata nella transizione ecologica e intende contribuire alla riduzione della povertà attraverso il sostegno di piccole e medie imprese sociali e ambientali nelle regioni di Dakar, Thiès, Louga e Saint-Louis. A tale scopo utilizza gli approcci della green economy, dell’innovazione digitale e dell’economia circolare (raccolta, riciclo, riutilizzo di rifiuti e scarti).

Il progetto risponde agli obiettivi 8 (lavoro dignitoso e crescita economica), 2 (fame zero) e 12 (produzione e consumo responsabile) dell’Agenda 2030. Sono partner del progetto anche le Ong Lvia e Rete, e le attività sono cofinanziate dall’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo.

Questo progetto rientra in un approccio strategico dell’Ong Cisv su accompagnamento e appoggio delle micro imprese giovanili in Africa dell’Ovest.

www.cisvto.org

 




Velo, pallone e turbante


Tutto è iniziato con la rivolta delle donne contro l’obbligo del velo. Poi, sono arrivati i mondiali di calcio con le proteste (più caute) dei calciatori. Il clero sciita al potere ha risposto con la repressione e la violenza. Basterà per fermare un popolo stanco della dittatura teocratica?

Nella prima partita dei mondiali di calcio in Qatar, quando la nazionale iraniana e la nazionale britannica sono entrate in campo, il primo pensiero è andato a come si sarebbero comportati i giocatori dell’Iran.

A cantare subito l’inno, lunedì 21 novembre, sono stati gli inglesi. Per la prima volta, hanno intonato a un mondiale «God save the king». Quando lo speaker dello stadio di Doha ha annunciato l’inno iraniano, sono partite le note. Ma, in solidarietà con le proteste, nessuno degli undici calciatori ha cantato i suoi versi:

«Verso l’alto, all’orizzonte, sorge il sole orientale / La luce negli occhi dei credenti nella giustizia / Bahman è lo zenith della nostra fede / Il tuo messaggio, oh Imam, d’indipendenza, libertà / Oh martiri, i vostri clamori risuonano nelle orecchie del tempo / Duratura, continua ed eterna / La Repubblica islamica dell’Iran!»

Di fronte alle bocche cucite dei calciatori, i tifosi iraniani hanno reagito in modo diverso tra loro. Ci sono state donne – con il velo – che non hanno trattenuto la commozione per il gesto dei giocatori, ritenuto coraggioso. Dalla tribuna c’è stato invece chi ha contestato fortemente la scelta della squadra, rivolgendo il dito medio o il pollice in direzione del campo. In realtà, le contestazioni ai calciatori non sarebbero state fatte solo perché essi si sono astenuti dal cantare l’inno, ma anche perché due giorni prima erano stati convocati dal presidente della Repubblica islamica Ebrahim Raisi (in carica dal 3 agosto 2021, ndr) e davanti a lui si erano inchinati. L’impressione è stata, quindi, che i giocatori abbiano voluto dare un colpo al cerchio e uno alla botte, compiacendo sia le autorità iraniane sia i loro connazionali che rischiano la vita protestando in strada. Per questo motivo, in quella partita, sui social, tanti iraniani e iraniane hanno fatto il tifo per la squadra avversaria. Hanno vinto loro, gli inglesi, e già questo è stato uno smacco perché, da sempre, il Regno Unito interferisce nelle questioni interne all’Iran.

Elnaz Rekabi, campionessa iraniana di arrampicata, ha gareggiato senza velo in segno di protesta contro il regime e di solidarietà con le donne. Foto dal web.

Inglesi e americani

Nel 1953, furono i servizi segreti inglesi, il cosiddetto MI6, a rovesciare il premier Mohammad Mossadeq che stava trasformando l’Iran in una monarchia costituzionale, percorrendo un cammino democratico. Due anni prima il politico iraniano, esponente del Fronte nazionale, aveva osato nazionalizzare il petrolio, fino a quel momento ampiamente sfruttato dagli inglesi, che agli iraniani lasciavano le briciole. Dopo due anni di embargo, con l’industria petrolifera allo stremo, Mossadeq fu rovesciato da un colpo di stato. La Cia si prese il merito di quella operazione, passata alla storia con il nome «Ajax». Come, però, ben racconta il documentario «Coup53» del regista Taghi Amirani, fu in realtà la spia inglese Norman Derbyshire (1924-1993) a fare in modo che lo scià Muhammad Reza Pahlavi potesse tornare sul trono del pavone.

Rimesso al potere dagli occidentali, per contenere il dissenso, lo scià creò la polizia segreta Savak che mise in atto una durissima repressione nei confronti degli oppositori. Seguirono decenni segnati da gravi violazioni dei diritti umani, tollerati dall’Occidente perché lo scià era un loro alleato.

A Doha, Al Thani (a destra), emiro del Qatar, presenta la maglia della sua nazionale di calcio a Ebrahim Raisi, presidente iraniano (21 febbraio 2022). Foto Iranian Presidency – AFP.

Il velo di Masha Amini

Oggi come allora gli iraniani reclamano diritti e libertà. Le proteste di questi mesi sono state innescate dalla morte di Mahsa Amini. Il 13 settembre 2022 la ragazza viene fermata all’uscita della metropolitana a Teheran, dove si trova in vacanza con i genitori prima dell’inizio dell’anno accademico. «Studiava microbiologia, voleva diventare dottore», racconterà il padre alla Bbc. Forse le spunta una ciocca di capelli dal velo. Forse indossa pantaloni troppo stretti, oppure si intravede un pezzo di caviglia. Fatto sta che trasgredisce il severo codice di abbigliamento della Repubblica islamica, imposto con maggiore severità – rispetto al passato – dal presidente ultraconservatore Ebrahim Raisi. Un codice di abbigliamento inclemente anche per i ragazzi, che possono essere fermati se i capelli sono troppo lunghi e le magliette troppo attillate o con maniche troppo corte.

Mahsa ha ventidue anni e vive a Saghez, un’area rurale nel Kurdistan iraniano (zona occidentale del paese), dove l’abbigliamento tradizionale non risponde a codici rigorosi. È, quindi, poco avvezza alle retate della Gasht-e Ershad, la «buoncostume» che si sposta con le camionette bianche contraddistinte da una fascia verde orizzontale. Quel 13 settembre è una giornata soleggiata. Quando Mahsa viene presa di mira dalle poliziotte, il fratello minore (di diciassette anni) cerca di proteggerla. Invano. Malmenato, si ritrova con gli abiti stracciati. Le poliziotte caricano Mahsa sulla camionetta e la portano nel centro di riabilitazione, dove le chadorì (in questo caso le filogovernative con il chador nero dalla testa ai piedi) insegnano alle bad-hejabì (le «mal velate») come vestirsi. La ragazza viene picchiata e il giorno stesso entra in coma. Dopo tre giorni, il 16 settembre, muore nell’ospedale Kasra di Teheran. Il decesso viene dapprima imputato a un «arresto cardiaco» e poi definito un «incidente», dovuto a «malattie pregresse» e in particolare alle «conseguenze di un tumore al cervello di cui aveva sofferto quand’era bambina», una patologia che i genitori negheranno. Nel frattempo, la notizia si diffonde sui social media. La televisione di stato manda in onda due brevi video per dimostrare che non ci sarebbe stato contatto fisico tra gli agenti e la ragazza. Nel primo, in quello che, verosimilmente, è un commissariato di polizia, si vedono numerose donne. Una di loro, presentata come Mahsa Amini, si alza per discutere con una poliziotta in merito al proprio abbigliamento, dopodiché sviene. In un altro video, il corpo della giovane viene trasportato verso l’ambulanza.

Intanto, visto che la morte della ragazza suscita indignazione tra gli iraniani in patria e all’estero, il presidente Ebrahim Raisi incarica il ministro dell’Interno di aprire un’inchiesta. Il capo dei medici legali di Teheran dichiara alla televisione di stato che le indagini sono in corso e che ci vorranno tre settimane. Le autorità intimano alla famiglia di seppellire Mahsa la notte, per evitare assembramenti. Ma i genitori decidono altrimenti e sabato 17 il funerale nella città natale di Saghez si trasforma in una manifestazione di protesta. I manifestanti si riuniscono davanti agli uffici governativi.

Saeed Piramoon, noto giocatore iraniano di beach soccer, fa il gesto di tagliarsi i capelli in segno di protesta e solidarietà con le donne del suo paese. Foto dal web.

Un potere repressivo e corrotto

Quelle scatenate dalla morte di Mahsa Amini sono le manifestazioni più importanti dall’istituzione della Repubblica islamica all’indomani della rivoluzione del 1979, diverse da quelle degli scorsi anni per portata, significato e istanze.

La causa del risentimento di tanti iraniani verso la Repubblica islamica non è solo l’obbligo del velo di per sé, ma anche la grave crisi economica e – soprattutto – l’approccio violento delle autorità – nelle loro diverse declinazioni – nei confronti dei cittadini che vorrebbero poter scegliere liberamente. La violenza sistematica delle forze dell’ordine è la prova della perdita di legittimità di un sistema politico corrotto, che non ha altra scelta se non la repressione che l’allontana sempre di più dai suoi giovani e dal suo popolo.

Tra gli slogan di questi mesi, i dimostranti hanno scandito Zan, zendeghì, azadì («Donna, vita, libertà») e Na be hejab-e ejbari («No al velo obbligatorio», imposto dal 1979), Na be ‘amame («No al turbante», portato dai religiosi del clero sciita).

Un gruppo di donne iraniane pro-regime protestano davanti all’ambasciata tedesca a Tehran (1 novembre 2022).
Foto Atta Kenare – AFP.

Nika e Sarina

Nonostante fin dall’inizo le forze di sicurezza disperdano i manifestanti usando i lacrimogeni, le proteste si diffondono rapidamente in tutto l’Iran. Nel giro di qualche giorno coinvolgono tantissime città e cittadine. Mahsa era una ragazza di provincia, non abitava nei quartieri chic di Teheran Nord; quindi, è facile identificarsi in lei e nel dolore della sua famiglia. A morire, e a diventare un simbolo delle proteste, sono anche le adolescenti Nika Shakarami e Sarina Esmailzadeh. Nel caso di Nika, nel certificato di morte ottenuto dai reporter di Bbc Persian si legge che il decesso sarebbe dovuto a «ferite multiple causate da percosse con un oggetto duro». La versione ufficiale della magistratura di Teheran è, invece, che sia morta «dopo essere caduta da un edificio». In un altro caso, nelle proteste a Karaj, a Est della capitale, le forze di sicurezza uccidono la sedicenne Sarina Esmailzadeh.

Per la prima volta nella storia dell’Iran, nelle manifestazioni di piazza gli uomini sono accanto alle loro donne. In ogni caso, le iraniane si stanno dimostrando decisamente più coraggiose degli uomini. Anche nello sport. Pensiamo a Elnaz Rekabi, la campionessa di arrampicata che, nei campionati di Seoul, gareggia senza velo in segno di solidarietà. A distanza di qualche settimana si viene a sapere che la casa della sua famiglia, assai benestante, è a rischio esproprio e per questo è obbligata a tacere. Inutilmente: la casa viene demolita.

Non si tratta di una novità del governo dell’ultraconservatore Raisi: le stesse misure intimidatorie erano state prese negli scorsi anni nei confronti del filosofo Ramin Jahanbegloo, rilasciato su cauzione, e di tanti altri intellettuali che avevano criticato il sistema politico iraniano e avanzato l’ipotesi di una qualche riforma. Ma intanto Elnaz Rekabi si è tolta il velo in pubblico e il suo gesto, pagato a caro prezzo, ha lasciato il segno.

A Los Angeles, uno striscione si augura che le proteste iraniane si trasformino in una rivoluzione. Foto Craig Melville – Unsplash.

Le donne del cinema si schierano

Nelle proteste del 2022 le iraniane si stanno dimostrando più coraggiose degli uomini anche nel mondo della cultura. Pensiamo alla regista Rakhshan Bani-Etemad che in un video ha dichiarato: «Se fino ad oggi sono stata zitta e non ho detto una parola, è stato solo per affetto materno e amore incondizionato. Non mi sono concessa di parlare perché non volevo che il mio sostegno alle legittime proteste dei giovani cagionasse anche solo un morto in più. Ma la vostra violenza non conosce fine e non conosce confini. In ogni angolo di questo paese, ovunque, scorre il sangue di giovani e bambini abbattuti come passerotti in volo. Quanto ancora dovremo pazientare? Fin dove potremo sopportare? Governare un popolo straziato, inconsolabile, ferito, disarmato e ignorato… Quale merito o valore può mai avere? Io mi auguro solo una cosa: se il sangue versato da tutti questi giovani nel corso di tutti questi anni ancora non vi ha fatto rinsavire, che la morte di Kian [Pirfalak], bambino innocente di appena nove anni, vi tolga il sonno per il resto della vostra vita».

A causa di questo video, a causa di queste parole, la figlia della regista è stata convocata dalla magistratura di Teheran: il regime se la prende spesso anche con i familiari di coloro che osano esprimere il dissenso. Rakhshan Bani-Etemad ha sessantotto anni e vive nella capitale iraniana. Tra i registi della sua generazione, è la donna di maggior spicco.

È andata peggio a Mitra Hajjar, una delle attrici iraniane più conosciute, arrestata lo scorso 3 dicembre. E, mentre scriviamo, pare correre rischi anche un’altra nota attrice iraniana, Shaghayegh Dehghan.

Con i pasdaran alla finestra

Le difficoltà economiche sono al centro delle proteste. In Iran un litro di latte costa l’equivalente di 90 centesimi di euro, una pagnotta 30 centesimi, un chilo di pollo tre euro. Ma un maestro porta a casa uno stipendio equivalente a soli 250 euro. Con l’inflazione al 41 per cento, tirare a campare è complicato.

È difficile prevedere quale esito possano avere le proteste in corso. La macchina repressiva funziona molto bene, purtroppo. La variabile è rappresentata dai pasdaran, ovvero dalle Guardie rivoluzionarie istituite dall’ayatollah Khomeini all’indomani della rivoluzione del 1979. Fedeli alla sua ideologia, sono loro a controllare l’economia e a reprimere il dissenso. Tenuto conto che in questi quarantatré anni il clero sciita non è stato in grado (o forse non ha voluto) di far crescere una nuova generazione di teologi a cui passare il testimone, potrebbero essere loro – i pasdaran – a prendere il potere nel caso in cui i manifestanti riuscissero a scalfire la repubblica degli ayatollah. Si passerebbe così da una repubblica islamica a una repubblica non più a carattere religioso, ma dominata dai militari. Dalla padella alla brace.

Farian Sabahi

L’autrice

  • Farian Sabahi è iranista, islamologa, professore universitario e giornalista professionista. È autrice di numerosi articoli scientifici e saggi pubblicati da editori italiani e internazionali. Questa è la sua prima collaborazione con MC. Sito: www.fariansabahi.com

La guida suprema Ali Khamenei interviene sulle proteste di piazza (12 ottobre 2022). Foto Iranian leader Press office – AFP.


Repressione, esecuzioni, resistenza

La teocrazia impicca (ma barcolla)

Mohsen Shekari è stato impiccato l’8 dicembre, accusato di moharebeh («avversione verso Dio»). Aveva attaccato un basij (miliziano volontario) in una manifestazione del 25 settembre. Il 12 dicembre è toccato a Majidreza Rahnavard, giustiziato dopo soli 23 giorni dal suo arresto. Risulta difficile scegliere gli aggettivi più adatti per definire il comportamento dei teocrati islamisti che tengono in ostaggio l’Iran e il suo popolo. Mentre scriviamo, i morti di queste proteste che vorrebbero diventare rivoluzione sono 458 (compresi 60 bambini e 29 donne, al 12 dicembre, secondo il sito di Iran human rights), con migliaia di persone arrestate in un crescendo di tensioni.

Durante i mondiali di calcio del Qatar, la protesta dei calciatori della squadra iraniana è durata lo spazio della prima partita. Nelle due successive, anch’essi si sono dovuti adeguare alle pressioni e minacce del regime, cantando (sussurrando) l’inno nazionale, anche su spinta dell’allenatore, il portoghese Carlos Queiroz, accusato di essere al servizio del regime dal sito Iran wire.

A inizio dicembre, poco dopo la demolizione della casa di Elnaz Rekabi (la climber che, in Corea del Sud, aveva osato gareggiare senza hijab), è stata fatta circolare la notizia della soppressione del corpo della «polizia morale», prima responsabile della morte di Masha Amini. Negli stessi giorni, nonostante repressione, vendette e condanne a morte per impiccagione, è stato proclamato uno sciopero generale che, nelle città, ha avuto adesioni altissime. Il governo islamista è in difficoltà internamente e isolato a livello internazionale.

Lo scorso 19 luglio, il leader supremo, l’ayatollah Ali Kamenei, aveva incontrato a Teheran Vladimir Putin per esprimere il proprio appoggio alla Russia contro «l’aggressione della Nato». Peraltro, nonostante le smentite, è assodato che l’Iran fornisca a Mosca droni da combattimento per sostenere la sua guerra contro l’Ucraina.

A dispetto di tutto questo e delle sanzioni imposte al paese, con l’Iran la diplomazia internazionale rimane cauta per due ragioni di banale real politik: le immense risorse petrolifere del paese e l’incertezza rispetto al suo arsenale nucleare. Nel frattempo, tocca soprattutto alle donne iraniane combattere a volto scoperto e mani nude contro gli uomini del regime teocratico.

Paolo Moiola

Una camionetta della famigerata polizia morale (Gasht-e Ershad), che ha arrestato anche la giovane Masha Amini. Foto dal web.




Myanmar, etnie e nazione

Sommario


Un anno di giunta militare

L’esercito e la resistenza delle etnie

Dopo il golpe del primo febbraio 2021, il Myanmar è tornato al passato. Un generale è al potere, la leader Aung San Suu Kyi è agli arresti e i numerosi conflitti interni al paese sono di nuovo esplosi.

In Myanmar, stragi, massacri e processi non si arrestano. Nel silenzio del mondo, la giunta militare al potere continua la repressione iniziata con il golpe del primo febbraio 2021. Ma la resistenza non si arrende, soprattutto quella delle milizie etniche, da sempre parte attiva contro i soprusi dei militari.

L’esercito, comandato dal generale Min Aung Hlaing, non risparmia nessuno, spara ad altezza uomo durante le manifestazioni, uccide operatori sanitari e giovanissimi. Dal colpo di stato di un anno fa è in corso una repressione che include esecuzioni e torture, caratteristiche di un ritorno del vecchio regime. L’ultimo brutale episodio è avvenuto nello Stato Kayah, al confine con la Thailandia. Nella «strage di Natale» hanno perso la vita almeno trentacinque civili nel tentativo di fuggire dagli scontri in corso nel villaggio di Mo So tra i gruppi di resistenza armata e l’esercito birmano. I corpi sono stati ritrovati nelle auto bruciate. Tra le vittime ci sono anche due membri dello staff della Ong Save the children.

Tre settimane dopo, il 10 gennaio, un tribunale di Naypyitaw (o Nay Pyi Taw) ha condannato Aung San Suu Kyi, leader della Lega nazionale per la democrazia (Nld) e dominatrice delle elezioni parlamentari del novembre 2020, ad altri quattro anni di prigione per possesso illegale e importazione di walkie talkies e per aver trasgredito alle norme anti Covid. Complessivamente, alla leader birmana sono imputati una dozzina di capi d’accusa. È opinione generale che le modalità dei processi contro di lei siano del tutto illegali, delle vere e proprie farse, come ha commentato Michelle Bachelet, alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani.

Una manifestazione in favore di Aung San Suu Kyi, deposta e arrestata dalla giunta militare nel golpe del 1 febbraio 2021. Foto Saw Wunna – Unsplash.

Proteste popolari e nuove tecnologie

La spirale di violenza in cui si ritrova il paese asiatico non pare destinata a ridursi: il dissenso arriva dalle campagne, dai piccoli villaggi di montagna fino alle proteste in città. I gruppi armati etnici formano un fronte comune col resto dell’opposizione. La prima differenza sostanziale tra le rivolte attuali e quelle avvenute nel 1988 (terminate con la vittoria dei militari) è la tecnologia, che ha aiutato la comunicazione alimentando la protesta collettiva e sviluppando, soprattutto nei giovani, una consapevolezza maggiore sulle violazioni dei diritti umani comprese quelle nei confronti della minoranza musulmana dei Rohingya. Il popolo birmano sta cercando di superare le storiche divisioni etniche per non soccombere a coloro che non hanno rispettato l’ultimo voto democratico, e spinge a continuare il decennio di libertà di cui ha goduto dalla transizione democratica iniziata nel 2011.

Le tre dita alzate in cielo (utilizzate anche per le proteste in Thailandia e Hong Kong) sono divenute il simbolo del movimento civile di disobbedienza. Subito dopo il colpo di stato, migliaia di persone si sono riversate in strada pacificamente e in prima linea si sono ritrovati anche medici e operatori sanitari che, pur consapevoli di dover dare priorità ai pazienti in ospedale, non hanno rinunciato a mobilitarsi organizzando delle cliniche mobili e dei servizi di ambulanza per i feriti nelle proteste. Il personale sanitario da subito ha deciso di boicottare gli ospedali gestiti dalla giunta dando vita al movimento dei «colletti bianchi». La Bbc ha riportato la testimonianza di un medico che riassume il sentimento collettivo della categoria: «Cinquant’anni di precedente governo militare non sono riusciti a sviluppare il nostro sistema sanitario e invece hanno inasprito povertà, disuguaglianza e cure mediche inadeguate. Non possiamo tornare a quella situazione».

Oggi, il Tatmadaw, com’è denominato l’esercito, teme di perdere autorità, non è più solido come in passato e sta subendo perdite e defezioni, oltre ad avere difficoltà a gestire i conflitti e la guerriglia etnica.

L’indipendenza dal dominio inglese e la formazione degli stati etnici

Storicamente etnicità e nazionalismo hanno una relazione molto stretta. Anthony Smith, uno dei maggiori studiosi del tema, ci ricorda che l’etnia è in costante ricerca di autonomia, unità e identità. Il conflitto con lo stato nazione può insorgere non quando le etnie richiedano statuti regionali piuttosto che autonomie locali, ma quando ritengono di possedere un’altra identità rispetto alla nazione. A livello mondiale, con il diffondersi della globalizzazione, la questione etnica non si è indebolita, ma anzi si è accentuata, favorita dalla perdita di presa da parte dello stato nazione.

Il Myanmar è un esempio di nazionalismo etnico de facto basatosi sull’idea che la nazione troverebbe la propria legittimazione nell’omogeneità etnica di coloro che la guidano (i Bamar, Burman nella narrativa inglese). L’opposizione delle altre etnie ha portato alla costituzione di un apparato nazionalista rappresentato dal Tatmadaw. La complessità del paese nasce dal numero delle minoranze etniche che popolano tutto il territorio birmano e che, dal giorno dell’indipendenza dal Regno Unito, aspirano o alla costituzione di una federazione o alla costituzione di diversi stati autonomi.

L’indipendenza è arrivata nel 1948, al termine di lunghe negoziazioni condotte dal generale Aung San (il padre di Aung San Suu Kyi, assassinato nel 1947), il quale aveva convinto i gruppi di minoranza ad aderire alla nuova Unione. Gli Accordi di Panglong (Panglong agreement) del 1947 schematizzavano i diritti delle minoranze e, in modo particolare, conferivano alle popolazioni Shan e Karenni la facoltà di staccarsi dall’Unione birmana dieci anni dopo l’indipendenza. Ma queste garanzie costituzionali non sono mai state completamente rispettate. L’indipendenza non ha portato ad avere un paese unito, al contrario ne ha esasperato la frammentazione, dando inizio a una serie di logoranti guerre etniche. Alcuni passi positivi sono avvenuti con il Nationwide ceasefire agreement (Accordo nazionale di cessate il fuoco) dell’ottobre 2015 e nell’agosto del 2020 quando l’allora leader Aung San Suu Kyi ha dato il via a incontri con le minoranze etniche – i nuovi colloqui di Panglong -, interrotti poi dal golpe militare del 2021.

Contadino birmano. Foto Richard Mcall – Pixabay.

Una storia di corsi e ricorsi

Ripercorrere la storia del paese aiuta a capire meglio gli attuali eventi che hanno reso endemica l’instabilità nel paese. Lo storico e scrittore birmano americano Thant Myint-U, ci ricorda che, per decenni, la storia dell’ex Birmania è stata descritta secondo una visione duale manichea che raccontava di una nazione divisa tra il dominio delle giunte militari e i movimenti per la democrazia e diritti umani, mentre la realtà è ben più complessa. Nel suo libro L’altra storia della Birmania, Thant Myint-U s’interroga se è possibile che il mondo abbia frainteso il Myanmar.

La tragicità dei corsi e ricorsi storici del paese ha fatto aprire tardi gli occhi al mondo, non in ultimo all’Occidente, che ha sempre avuto aspettative troppo alte e scontate: il Myanmar doveva essere il progetto democratico per eccellenza degli anni Duemila, un paese destinato ad avviarsi a una transizione democratica con un sicuro lieto fine.

I processi di transizione sono però delicati e richiedono decenni per consolidare un sistema democratico così come lo concepisce la maggior parte dei paesi occidentali, vale a dire con partiti politici in competizione, media liberi e libere elezioni. In Occidente occorre rimproverarsi di non aver avuto la visione d’insieme e di aver considerato la democrazia come un naturale decorso dopo la tirannia militare che ha sempre dominato la storia della Birmania. Questa miopia non ha permesso di interpretare i segnali di fragilità del paese: dai problemi strutturali della società birmana all’eredità scomoda del colonialismo, dalle persecuzioni dell’esercito allo scontro etnico e alla resistenza dei gruppi armati.

Timidi tentativi di cambiamento

Nel 2008, il Tatmadaw capisce la necessità di superare l’isolamento del Myanmar sulla scena internazionale e far rimuovere le sanzioni (all’epoca le più severe mai adottate contro qualsiasi paese del mondo, Corea del Nord inclusa), imposte per le violazioni dei diritti umani. In quell’anno viene concessa una nuova Costituzione (la terza nella storia birmana) che prevede elezioni multipartitiche. L’operazione per ingraziarsi l’Occidente – inclusa l’Unione europea – si conclude con la liberazione dagli arresti domiciliari, nel 2010, di Aung San Suu Kyi, The Lady, «La Signora», com’è sempre stata soprannominata. Premio Nobel per la pace, adulata in patria ma soprattutto dalla comunità internazionale (almeno fino allo scoppio della questione dei Rohingya), sulla Lady vengono riposte le speranze di un futuro democratico senza però considerare che lei non si è mai potuta liberare veramente dei suoi carnefici.

Nel 2012 Aung San Suu Kyi entra in parlamento, dopodiché nel 2015 il suo partito – la Lega nazionale per la democrazia – vince le elezioni, le prime libere e regolari per un’intera generazione di birmani.

A causa della restrizione costituzionale imposta dalla giunta militare che esclude dalla carica i candidati con coniugi o figli stranieri (il marito della Lady era un cittadino inglese), alla Lady non è possibile ricoprire la carica di presidente. Nel 2016, diventa così la leader de facto del governo, con il ruolo di «consigliere di stato». Ma, nonostante milioni di birmani abbiano votato contro l’Union solidarity and development party (Usdp), il partito dell’esercito, il vero potere rimane nelle mani di quest’ultimo: il 25% dei seggi parlamentari e il controllo dei ministeri chiave del paese, tra cui la difesa, gli affari interni e gli affari di frontiera.

Il golpe del febbraio 2021 riporta il paese nel passato e Aung San Suu Kyi è nuovamente privata della libertà. Le persecuzioni non riguardano più soltanto le minoranze, ma tutto il popolo birmano, unito nella rabbia per il ritorno alla violenza da parte del Tatmadaw.

Secondo i dati dell’Associazione per l’assistenza ai prigionieri politici (Assistance association for political prisoners, Aapp) almeno 1.503 persone sono già state uccise e più di 8.835 manifestanti e oppositori sono stati arrestati e incarcerati (dati al 31 gennaio 2022). Le inchieste della Bbc raccontano un modus operandi fatto di torture e sevizie da parte dei militari, alcuni dei quali anche minorenni. Come confermano le testimonianze raccolte, si sono verificate delle vere e proprie spedizioni punitive nei villaggi per coloro che si ribellavano al ritorno al potere dei generali. Corpi torturati e mutilati sono stati ritrovati nelle fosse comuni, tra cui il corpo di un bambino nei pressi del villaggio Zee Bin Dwin. Il colpo finale alla democrazia è stato quello di silenziare tutti i media locali e vietare l’ingresso ai giornalisti stranieri. Inoltre, lo scorso 14 dicembre, Radio free Asia ha riportato la prima morte ufficiale di un giornalista, il fotoreporter birmano Soe Naing, arrestato a Yangon, mentre documentava una protesta e morto in prigione a dicembre.

Detto questo, è evidente che la situazione del Myanmar non spiace a tutti gli attori, a cominciare dalla vicina superpotenza cinese.

Il percorso degli oleodotti sinobirmani, dallo Yunnan (Cina) al Golfo del Bengala. Da minorityvoices.org.

Le nuove vie di Pechino

Situato nel cuore del Sud Est asiatico, il Myanmar occupa una posizione geopoliticamente strategica soprattutto per le nazioni con cui confina: India e Bangladesh a Ovest, Cina a Nord Est.

Fin dall’antichità, la Cina ha giocato un ruolo dominante in molti settori dell’economia birmana. Tra le montagne a Nord del paese si estendeva la storica rotta commerciale conosciuta come via della seta, che collegava il mondo cinese a quello indiano fino al Mediterraneo. Oggi, il progetto della nuova via della seta viene portato avanti sotto il nome di One belt one road. Ufficialmente, esso riguarda una settantina di paesi, che si sono resi disponibili ad allineare i propri piani di sviluppo a quello di Pechino.

Le mire commerciali cinesi puntano al Golfo del Bengala (Oceano Indiano) e ai giacimenti di petrolio e gas del Myanmar, formando un corridoio economico che si estende da Ruili, nella provincia cinese dello Yunnan, attraversa Muse e Mandalay fino a Khyaukphyu nel Rakhine State e segue i gasdotti e gli oleodotti costruiti nel 2013 e nel 2017. All’estremità del percorso del Myanmar è previsto un porto e una zona economica speciale a Khaukphyu. Il collegamento con la città del Rakhine è importante per Pechino, in quanto consente alla Cina di trasportare rapidamente via terra petrolio e gas, oltre a beni e risorse prodotti a livello regionale e quindi meno costosi, aggirando la rotta marittima attraverso lo stretto di Malacca (tra Indonesia e Malesia). Gli oleodotti, già operativi, sono di proprietà della China national petroleum corporation (Cnpc) e della Myanmar oil and gas enterprise (Moge), entrambe grandi società statali. Inoltre, il progetto prevede la costruzione di una rete ferrovia Muse-Mandalay di 431 km, con costi stimati in nove miliardi di dollari, che collegherebbe il Myanmar alla rete ferroviaria cinese. Un’altra parte importante del corridoio commerciale sarà costituita da tre zone di confine. Le zone prevedono aree produttive e commerciali senza tassazione, hotel e servizi finanziari. Secondo un piano politico pubblicato nel 2019 dal ministero del Commercio del Myanmar (Silk road briefing), le località sarebbero Muse e Chinshewehaw nella parte settentrionale dello Stato Shan e Kan Pite Tee nello Stato Kachin.

Un mercato di Bagan. Foto Lim Ashley.

L’Onu e la strategia cinese

Oltre al principale partner commerciale, la Cina si è rivelata per il Myanmar un indispensabile alleato politico in sede Onu. Utilizzando il suo seggio nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, Pechino ha protetto il paese da alcune sanzioni internazionali difendendo così i propri interessi economici. Come confermato anche dall’analista politico U Maung Maung Soe al giornale the Irrawaddy: «L’Occidente ha spinto il Myanmar tra le braccia della Cina, che non si arrenderà facilmente per portare avanti i propri piani strategici. Di conseguenza, è meglio trovare soluzioni pratiche per collaborarci».

Riguardo all’attuale crisi politica nel paese, la Cina – strategicamente – cerca di evitare ogni forma di coinvolgimento esplicito sia nell’appoggiare la giunta militare sia nel favorire una possibile resistenza armata, in quanto il suo scopo rimane quello di tenere il più lontano possibile un ritorno nel paese delle potenze occidentali.

   Federica Mirto

Veglia di protesta a Yangon il 12 marzo 2021, a poco a un mese e mezzo dal golpe militare. Foto Zinko Hein – Unsplash.


Colonialismo e diatriba storico-lessicale

Due nomi, 135 etnie, tanti conflitti

Il termine «Myanma» appare per la prima volta in una incisione circa mille anni fa. Si attribuisce il suo significato originario alle genti che vivono nella valle dell’Irrawaddy, il principale fiume del paese. Nel corso dei secoli esse si proclamano Myama pyi (il paese Myanma) o Myanma naig-nga (Mynama, la terra conquistata). L’aggettivo «Bama» viene introdotto nel XVII secolo e deriva da Bamar (Burman) che indica il gruppo etnico maggioritario. Con l’arrivo dei primi europei il sostantivo «Birmania» si diffonde, mentre la colonizzazione inglese ufficializza il nome «Burma». In lingua birmana, il nome rimane Myama pyi1.

Da Burma a Myanmar

La denominazione del paese non causa polemiche fino al 1989, quando la giunta militare, dopo esser arrivata al potere con un colpo di stato, cambia ufficialmente il nome da Burma (Birmania) a Myanmar. La giustificazione ufficiale offerta è che il nome «Myanmar» include tutti i popoli indigeni. Altra ragione plausibile per questa scelta è la volontà di superare il passato coloniale. Ulteriori correzioni vengono fatte con i nomi delle città: per esempio, la città di Rangoon (Rangun), la più grande e nota del paese (già capitale), dopo il 1989 viene denominata Yangon. La polemica intorno all’utilizzo del termine Birmania o Myanmar assume un significato politico, sia all’interno del paese, sia nella comunità internazionale.

Come già accennato, «Burma» è stato imposto dai colonizzatori britannici e non rappresentava tutte le minoranze etniche. Tuttavia, secondo Aung San Suu Kyi e i suoi sostenitori, utilizzare «Myanmar» significherebbe approvare la scelta di una giunta militare e, di fatto, la sua legittimazione storica. A livello internazionale, il cambiamento non è stato riconosciuto all’unanimità: le Nazioni Unite e alcuni paesi, come la Francia, utilizzano il termine Myanmar; invece, Regno Unito e Stati Uniti (ma non i loro media) continuano ad usare il termine «Burma»2.

Nel corso del delicato processo di democratizzazione (oggi interrotto dal nuovo golpe militare) ci sono state, peraltro, alcune eccezioni. Per esempio, nel 2012 quando, durante una visita al paese asiatico, il presidente degli Stati Uniti in carica, Barack Obama ha usato sia «Burma» che «Myanmar». La stessa Aung San Suu Kyi ha utilizzato principalmente il termine «Myanmar» durante il suo primo discorso alle Nazioni Unite come rappresentante del paese, nel settembre 2016.

Non soltanto Bamar

Semplificando la questione, possiamo dire che Burma è termine legato alla prepotenza coloniale e Myanmar alla presenza di molte minoranze etniche stanziate lungo le regioni di confine, minoranze che da sempre lottano con i Bamar raccolti soprattutto al centro del paese e detentori del potere. È con esse che qualsiasi governo dovrà dialogare. Come, prima del golpe di febbraio 2021,
si era iniziato a fare attraverso il Nationwide ceasefire agreement (2015) e i nuovi colloqui di Panglong (2020).

Fe.M.

1 Than MyintU, The Hidden history of Burma, Atlantic Books London, 2020

2 In un articolo del 2018, l’Istituto per la pace degli Stati Uniti aveva spiegato che gli Stati Uniti non riconoscevano il cambio di nome perché era stato fatto senza il consenso dei cittadini e, pertanto, lo ritenevano illegittimo: https://www.usip.org/blog/2018/06/whatsnameburmaormyanmar

Cerimonia per la donazione della Cina allo Stato Kachin di materiale sanitario anti Covid-19, a Tengchong (Yunnan) il 27 agosto 2021. Foto cgnt.com.


Le minoranze

Il calderone etnico e l’abbraccio cinese

I Bamar hanno le redini del paese, ma le altre 135 etnie non si arrendono. Sugli uni e sulle altre pesa l’interventismo della superpotenza cinese intenzionata a rafforzare il proprio dominio neocoloniale.

In Asia, si giocheranno molti degli equilibri geopolitici mondiali. Consapevole di questo, la Cina ha tutto l’interesse a mantenere il controllo sui 2.400 chilometri di frontiera che la separano dal Myanmar, dove risiedono alcuni dei principali gruppi armati delle diverse etnie. Come accennato, il gigante asiatico non prende posizioni dirette nella politica birmana, ma diplomaticamente pone le basi per instaurare una forma di neocolonialismo.

Per esempio, l’inefficiente gestione dell’emergenza pandemica dovuta al Covid-19 da parte della giunta militare ha portato Pechino a intervenire: fino ad oggi sono state consegnate più di tredici milioni di dosi di vaccino ai generali del Tatmadaw e più di diecimila vaccinazioni sono state fatte, a luglio, all’inizio della terza ondata, presso il quartiere generale del Kachin independence army (Kia) a Laiza, come riporta il colonello kachin Naw Bu (straitstimes.com).

Il colonialismo del «dividi et impera»

L’atteggiamento da parte della Cina ricorda le tipiche dinamiche instaurate dal colonialismo inglese: dividi et impera, ovvero andare a sfruttare le debolezze interne al paese per rafforzare il potere nelle proprie mani. Le conseguenze del sistema coloniale nel tessuto sociale e culturale di un paese rimangono nel tempo anche una volta cessato il rapporto tra gli stati coinvolti.

In Myanmar, la fase coloniale inglese iniziò nel 1824 come estensione del dominio coloniale dell’India. Fino al 1937, il paese fu infatti governato come provincia indiana. Gli inglesi instaurarono un sistema basato su due amministrazioni: Ministerial Burma e il Frontier area. Questa divisione diede inizio a un susseguirsi di episodi discriminatori portati avanti dai padroni inglesi: alcuni popoli vennero scelti come referenti principali e così s’iniziò a costruire un ordine sociale basato sull’appartenenza etnica e sull’esclusione, spianando la strada alle rivalità interne tra popoli che fino a quel momento non avevano sviluppato attriti o dissapori.

I gruppi etnici dei Karen, Kachin e Chin, in maggioranza cristiani, assunsero posizioni di rilievo, «a discapito di altri gruppi, ritenuti meno adatti a comunicare con l’Inghilterra e ad agire secondo le sue volontà» (Valeria Dell’Orzo, in istitutoeuroarabo.it) portandoli persino a combattere tra le file dell’esercito inglese contro quello giapponese nella Seconda guerra mondiale.

Vita contadina in Myanmar. Foto Ilya Yakubovich.

I Chin e il cristianesimo

Con il colonialismo arrivarono anche i primi missionari battisti che introdussero il cristianesimo nei villaggi abitati dal gruppo etnico chin, nella vasta catena montuosa che risale dal Myanmar occidentale fino al Mizoram nel Nord-Est dell’India. Oggi i Chin abitano l’unico stato del Myanmar a maggioranza cristiana (86% di cristiani, secondo il censimento governativo del 2014).

Riconoscibili per i loro tradizionali tatuaggi, come quasi tutte le etnie, anche i Chin hanno un proprio esercito (Chin defence force, Cdf), ma le loro proteste sono sempre state causate soprattutto dalle condizioni di vita molto precarie: mancanza di strutture sanitarie ed educative e di lavoro. Come riportato dal report della Banca mondiale e Undp condotto nel 2017, lo Stato Chin è il più povero del paese: sei persone su dieci vivono in condizioni precarie. Tanto che molti giovani uomini chin, nel disperato tentativo di sfuggire all’estrema povertà, si sono arruolati nell’esercito birmano. Un altro fattore che determina la mancanza di opportunità economiche è la totale assenza di infrastrutture, molti villaggi nello Stato Chin sono accessibili solo a piedi, tramite una rete di piccoli sentieri.

Inoltre, come altri gruppi etnici anche i Chin sono stati vittime del processo di «birmanizzazione» che, tra le diverse forme di discriminazione, prevede il divieto d’inserire la storia della loro etnia nei libri di scuola.

Alla fine degli anni Ottanta e inizio degli anni Novanta, le tensioni con il governo militare sono esplose: torture, stupri, arresti e lavori forzati ne sono state le conseguenze.

A gennaio 2022, la Chin human rights organization (chinhumanrights.org) ha riferito che i cristiani chin continuano a subire persecuzioni da parte del governo, inclusi sgomberi forzati, incendi dolosi, divieti di raduni religiosi e aggressioni. Oltre sessantamila Chin si sono rifugiati in India, dove continuano il loro destino di povertà con la popolazione locale.

Censimenti inaffidabili

La frammentazione etnica, il multiculturalismo e la diversità di credi religiosi rendono il Myanmar antropologicamente unico: centotrentacinque sono le etnie ufficialmente riconosciute. Tuttavia, non essendoci statistiche affidabili sulla popolazione, nessuno sa esattamente quanti gruppi etnici ci siano e quale sia la loro consistenza numerica.

I censimenti di riferimento sono due, entrambi controversi. Il primo è stato effettuato dagli inglesi nel 1931, il secondo dal governo birmano nel 2014 (29 marzo-10 aprile), in collaborazione con il Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (Unfpa). I risultati di sintesi provvisori sono stati pubblicati nell’agosto 2014 dal ministero dell’Immigrazione e della popolazione. Questi risultati preliminari hanno censito 51.419.420 persone, tra cui circa 1.206.353 che non erano mai state contate, residenti in alcune parti degli stati Arakan, Kachin e Karen.

Numerose organizzazioni della società civile hanno criticato la codifica etnica nel censimento, sostenendo che fosse stata progettata senza un’adeguata consultazione, chiedendo pertanto la sospensione del censimento fino a quando non ci fosse stata la pace nel paese. Inoltre, nonostante le iniziali promesse, oltre un milione di Rohingya sono stati conteggiati come «altri» in quanto la definizione di «Rohingya» non era consentita. Infine, il censimento non ha contato i milioni di birmani che vivono fuori dal paese. Pertanto, la fiducia nelle cifre del governo rimane problematica, in particolare per quanto riguarda le dimensioni delle popolazioni etniche.

Dall’indipendenza ad oggi, i governi hanno cercato di esasperare un nazionalismo propagandistico e discriminatorio, basato sul privilegiare l’etnia dei Bamar, predominante nel paese (il 68% della popolazione, secondo il citato censimento del 2014).

I Bamar parlano il birmano (lingua ufficiale) e professano il buddhismo theravada. I vantaggi politici e sociali dei Bamar sono stati palesi anche nelle elezioni del 2015, che hanno inaugurato il breve periodo della transizione democratica con il volto di Aung San Suu Kyi, essa stessa di etnia bamar.

Contadini birmani. Foto Karl Ferdinand – Pixabay.

I Rohingya e gli errori della Lady

Negli ultimi anni, la maggior parte dei rifugiati – sia all’interno che all’estero (soprattutto in Bangladesh) – sono stati i citati Rohingya dello Stato Rakhine, minoranza etnica musulmana da sempre – ne abbiamo accennato – oggetto di repressione.

Nel 2016 e nel 2017, il Tatmadaw e le forze di sicurezza locali hanno organizzato una brutale campagna contro di essi, uccidendo migliaia di persone e radendo al suolo centinaia di villaggi. Gruppi per i diritti umani e funzionari delle Nazioni Unite sospettano che i militari abbiano commesso un genocidio.

Tanto che, a novembre 2019, il Gambia, paese africano distante 11.500 chilometri dal Myanmar ma a grande maggioranza islamica, ha intentato una causa internazionale contro il Myanmar presso la Corte internazionale di giustizia con sede a l’Aia (International court of justice, Icj), accusando il paese di aver violato la Convenzione delle Nazioni Unite sul genocidio.

Da parte sua, quando era al governo, Aung San Suu Kyi ha sempre negato che fosse in atto una pulizia etnica, pregiudicando in maniera importante la sua immagine virtuosa di premio Nobel per la pace e confermando che la giunta militare non aveva mai smesso di dirigere, da dietro le quinte, le azioni del neoeletto governo democratico. Peraltro, le prospettive di una democrazia giusta e rispettosa nei confronti delle minoranze etniche si erano esaurite anche con la Lady al potere non soltanto per la questione dei musulmani rohingya, ma anche per le altre minoranze etniche che non hanno ottenuto più vantaggi o più partecipazione politica. Nelle camere del parlamento, i Bamar detenevano il 60,2% dei seggi, i Kachin 1,2% e poco di più le altre minoranze, a eccezione dei Rohingya che, non avendo diritto al voto, non potevano avere rappresentanti all’interno delle camere. Dunque, anche con Aung San Suu Kyi al governo, il Myanmar aveva confermato di essere un’«etnocrazia».

Gli eserciti etnici

Le tensioni con i gruppi etnici hanno radici nel passato e sono state esacerbate dalla giunta militare al potere nel 1962, che ha ridotto i diritti delle minoranze alimentando interminabili conflitti armati con il Tatmadaw. Questo ha portato alla formazione di più di venti organizzazioni armate etniche e oltre a dozzine di piccoli gruppi di milizie, producendo quella che alcuni analisti hanno descritto come la guerra civile più lunga del mondo.

Le zone calde dove risiedono i movimenti indipendentisti sono principalmente quelle lungo i confini: nello Stato Rakhine, l’esercito buddhista pro-Rakhine (non Rohingya); nello Stato Kayin, i Karen; nello Stato Shan, lo Shan state army (scisso in due gruppi, Nord e Sud) e l’United wa state army (nato dal partito comunista e con base nell’etnia wa); nello Stato Kachin e parzialmente in quello Shan, l’esercito per l’indipendenza dei Kachin (Kia).

Dopo il golpe del febbraio 2021, secondo molte organizzazioni per i diritti umani, la maggiore resistenza contro la nuova giunta militare si registra negli stati birmani a forte presenza cristiana: lo Stato Chin, abitato da una maggioranza di cristiani, e lo Stato Kachin.

Soldati palaung nello Stato Shan. Foto Steve Tickner / Frontier Myanmar.

I Kachin e il Tatmadaw

Dopo i Chin, la seconda minoranza cristiana presente in Myanmar sono i Kachin. Il numero esatto di questa etnia è sconosciuto a causa dell’assenza di dati affidabili. Tuttavia, la maggior parte delle stime suggerisce che potrebbero essere circa un milione. Di essi circa il 34% è cristiana, mentre la parte restante segue il buddhismo o l’animismo.

Con i Kachin le ostilità nascono ufficialmente nel 1961 con la formazione del Kachin independence army (Kia), creato dalla diserzione di militari kachin, precedentemente arruolati dall’esercito nazionale.

I Kachin sono una delle minoranze etniche che avevano firmato l’accordo di Panglong del 1947, e come tali avevano ricevuto l’approvazione per la creazione di un proprio stato separato, che si rifletteva nella prima costituzione della Birmania di recente indipendenza. Per un po’ questo era stato sufficiente per evitare insurrezioni immediate contro il governo. La situazione cambia drasticamente nel 1961, quando il buddhismo viene dichiarato religione di stato. Percepito come un affronto dai Kachin cristiani, si arriva alla creazione della Kachin independence organisation (Kio) e la sua ala militare, il citato Kia. L’ultima provocazione è il colpo di stato militare del generale Ne Win nel 1962, poiché il presidente eletto all’epoca è un Kachin, Sama Duwa Sinwa Nawng.

Anche i Kachin subiscono il fenomeno della «birmanizzazione» dell’esercito e delle istituzioni pubbliche. Con essa cresce un forte senso di discriminazione ed esclusione che alimenta la ribellione nelle aree kachin.

Nei primi anni dell’insurrezione, il Kio è in grado di controllare gran parte dello Stato Kachin. La situazione comincia a cambiare dopo il 1988 quando il «Consiglio statale per il ripristino della legge e dell’ordine» (Slorc) inizia a concludere accordi di cessate il fuoco con altri gruppi ribelli e, quindi, a concentrare le forze militari contro i ribelli kachin. La conseguenza è che, nel 1994 (Myitkyina, 24 febbraio), il Kio decide di stipulare un cessate il fuoco con la giunta, che gli consente un certo grado di controllo amministrativo nello Stato Kachin, sebbene tutte le terre e le risorse naturali rimangano sotto l’autorità del «Consiglio per la pace e lo sviluppo» (Spdc).

Secondo Human rights watch, l’accordo di Myitkyina, però, non pone fine alle violazioni dei diritti umani da parte di nessuna delle due parti. Il Kia – secondo gruppo armato etnico non statale del Myanmar – continua a reclutare bambini-soldato, mentre l’esercito birmano continua a utilizzare il lavoro forzato e a confiscare terreni.

Nel 1999 viene fondata l’Organizzazione nazionale kachin (Kno) con l’obiettivo di ripristinare un’autentica unione federale nel paese. Negli anni, il movimento nazionalista kachin è riuscito a creare una forte identità politica tra i diversi sottogruppi di Kachin che abitano la regione. Il Kio mantiene un’amministrazione civile che governa ancora una parte del territorio, operando come uno stato parallelo con propri dipartimenti di salute, istruzione, giustizia.

Accordi fittizi e lotta per le risorse

Tra il 2009 e il 2010, il governo centrale annuncia (mmpeacemonitor.org) che tutti i gruppi armati soggetti ad accordi di cessate il fuoco avrebbero dovuto trasformarsi in una forza di guardia di frontiera (Border guard forces, Bgf) sotto il controllo diretto dell’esercito birmano e rinunciando alla propria autonomia.

I Kachin respingono la proposta, affermando che la propria milizia non si sarebbe trasformata in un Bgf senza una soluzione politica alle cause del conflitto etnico. Ogni accordo di cessate il fuoco tra il Kia e l’esercito birmano va comunque in frantumi il 9 giugno 2011, quando l’esercito birmano attaccò un posto strategico del Kia dando inizio a una grande offensiva militare nello stato dei Kachin. Nei mesi successivi, il Kio perde il controllo di una parte significativa di territorio che aveva precedentemente controllato e amministrato. La presenza di risorse naturali, in particolare di giada, ha complicato la situazione. Le lotte per mantenere il controllo delle ricchezze locali hanno portato a continui combattimenti in alcune aree: i proventi delle miniere (insieme a quelli della droga) costituiscono un finanziamento a cui nessuno dei contendenti vuole rinunciare. Nel contempo, l’estrazione di risorse, la diffusa deforestazione e le dighe idroelettriche costruite nello stato dei Kachin hanno portato anche al degrado ambientale, alla distruzione dei terreni agricoli e all’ulteriore emarginazione della popolazione locale.

Raffreddare il calderone etnico

L’unica opportunità per risanare le sorti di un calderone etnico come il Myanmar sarebbe un vero dialogo tra le varie minoranze e l’élite dei Bamar. Di sicuro, le mosse della giunta militare al potere non sembrano presagire una simile svolta. A meno che gli alleati – con la superpotenza cinese e la piccola Cambogia, in primis – non convincano i militari di Naypyidaw.

Federica Mirto

Un monaco con il «mala», conosciuto anche come il «rosario buddhista». Foto Alistair McLellan – Pixabay.


Il buddhismo birmano

I due volti dello Sangha

La religione è uno dei fattori principali per identificare l’identità etnica, in alcune culture diventa anche il fattore essenziale. I politologi ci ricordano che la religione è una delle principali cause di conflitto dalla fine della guerra fredda (Bernard Lewis) e diventa un elemento esclusivo di discriminazione, anche in modo più significativo rispetto all’identità etnica per quanto riguarda il senso di appartenenza alla nazione (S.P. Huntighton). In base a questi principi, i leader politici invocano la loro lealtà verso una determinata etnia e religione rafforzando una coscienza nazionale a discapito delle minoranze.

L’arrivo del buddhismo

Il Myanmar è entrato in contatto con il buddhismo tramite gli scambi commerciali con l’India: il sovrano indiano Ashoka (304 a.C.-232 a.C.) inviava a Thaton (città dell’odierno Stato Mon) i monaci per diffondere il buddhismo. Nei secoli successivi, il clero buddhista ha assunto un’influenza cruciale per il popolo: i monasteri erano esentati dalle tasse e i giovani ricevevano un’educazione presso le strutture gestite dai monaci. La forte spiritualità si consacrava con la costruzione degli stupa (termine sanscrito che indica edifici votivi dove si conservano reliquie buddhiste), luoghi di devozione e preghiera, simbolo di identità religiosa. Troppo spesso però questa è stata strumentalizzata dai governanti, che si sono serviti della costruzione degli stupa e delle offerte per conquistare l’appoggio dei monaci. Politica e religione si sono incontrati ufficialmente quando il buddhismo è diventato religione di stato con il regno di Pakan nel 1044 e, in seguito, nel 1961 con il primo ministro U Nu fino al colpo di stato del 1962.

Strumentalizzazione e contaminazione

La politica ha strumentalizzato sempre più l’immagine del buddhismo birmano, il quale ne ha assorbito le contraddizioni andando a contaminare la sua natura pacifica.

Spinto dal processo di «birmanizzazione», il nazionalismo ha inevitabilmente innescato una cultura dell’odio verso specifiche minoranze religiose, legittimando movimenti e azioni violente. L’ideologia nazionalista è stata un’arma importante nelle mani della dittatura che ha ispirato intolleranza e marginalizzazione, cercando il costante consenso nella maggioranza del paese (circa 87,9%) che aderisce al buddhismo theravada (una delle due principali scuole di pensiero buddhista, diffusa anche in Sri Lanka, Cambogia, Laos e Thailandia).

Con il nazionalismo strettamente affiliato all’identità birmana sono nati slogan come «Essere birmano significa essere buddhista», ignorando le altre religioni presenti sul territorio come i cristiani (6,2%) e l’islam (4,3%). Una chiara volontà di mantenere esclusa la religione musulmana è stata assunta anche nelle elezioni democratiche del 2015, con colpevole complicità del partito di Aung San Suu Kyi: nessun musulmano ha avuto la possibilità di essere rappresentato nel parlamento lasciando l’87,3% dei seggi nelle mani della maggioranza buddhista e il 10,9% ai cristiani.

Papa Francesco con Sitagu Sayadaw, la massima autorità del buddhismo del Myanmar, nel corso del viaggio pontificio del novembre 2017. Foto via AdnKronos.

L’Occidente e l’iconografia buddhista

Quando, nei primi anni Novanta, il paese ha iniziato ad aprire (pur con varie limitazioni) le frontiere al turismo, l’immagine tipica con cui si sponsorizzava il Myanmar era spesso quella dei monaci vestiti con la loro tradizionale tonaca color zafferano. Oltre a essere diventati un simbolo per il turismo occidentale e cinese, i monaci hanno contribuito nell’attivismo politico del paese. Durante il periodo coloniale erano stati testimoni del movimento per la libertà della nazione e alcuni di loro avevano perso la vita nelle prigioni per mano degli inglesi. Sono stati poi in prima linea contro i militari nel 2007: ottantamila tra monaci e monache hanno manifestato per la democrazia e la liberazione di Aung San Suu Kyi, in quella che è stata poi chiamata la «rivoluzione zafferano», riprendendo il nome dal colore delle loro vesti. Le proteste sono state represse nel sangue, ma hanno certamente attivato un processo di cambiamento attirando l’attenzione internazionale e, probabilmente, hanno contribuito a spingere i militari verso le prime riforme.

In Myanmar, il sangha (altro termine di origine sanscrita che indica la comunità dei monaci) ha però due volti: quello dei monaci martiri per la lotta dei diritti democratici rappresentati da U Gambira (ex monaco che fu guida politica e religiosa durante la «rivoluzione zafferano») e quello dei monaci islamofobi che hanno manifestato con violenza nei confronti dei Rohingya, guidati da Ashin Wirathu. Due personalità buddhiste opposte, ma entrambe con le loro esistenze legate al regime militare.

U Gambira è stato torturato, imprigionato per quattro anni e, dopo l’iniziale condanna a sessantotto anni di reclusione, è stato rilasciato durante l’amnistia di prigionieri nel gennaio 2012. L’ex monaco ha sofferto diverse malattie fisiche e disturbi di salute mentale: «Mi hanno negato ogni cura medica e lasciato senza documenti d’identità. Non c’era neanche un monastero disposto ad accogliermi e, per paura di rappresaglie del governo, sono stato costretto a spogliarmi degli abiti religiosi. Diciotto mesi dopo ho sposato mia moglie Marie e ci siamo trasferiti in Thailandia» (La Repubblica, 17 febbraio 2021). Oggi U Gambira vive con la famiglia in Australia dove gli è stato concesso l’asilo politico.

Ashin Wirathu e il movimento «969»

La copertina del luglio 2013 del settimanale Usa «Time» dedicata al monaco Ashin Wirathu. Lo scorso settembre la giunta militare lo ha rilasciato.

Gambira è convinto che il sentimento antislamico non era sostenuto dalla maggior parte del clero buddhista, ma portato avanti con fervore da Ashin Wirathu e i suoi seguaci perché sponsorizzati (anche economicamente) dai militari. Il monaco di Mandalay è diventato noto in patria e all’estero per i suoi discorsi nazionalisti e persecutori nei confronti della minoranza musulmana dei Rohingya e come leader del movimento «969». Il numero «969» rappresenta i «tre gioielli» della religione buddhista: le 9 virtù del Buddha, le 6 caratteristiche della pratica buddhista (Dharma) e le 9 caratteristiche della comunità dei monaci (Sangha). Nel 2012, il movimento si è trasformato in una vera e propria organizzazione, il Ma Ba Tha (traducibile con «Associazione per la protezione della razza e della religione»). Ashin Wirathu basava la propria campagna antislamica sostenendo che i musulmani avrebbero conquistato il Sud Est asiatico, proclamandosi protettore dell’integrità del buddhismo, dell’identità e razza birmana.

Non a caso, nel luglio 2013, Wirathu è stato soprannominato il «Bin Laden buddhista» dal settimanale Time, che gli ha dedicato una copertina intitolata «il volto del terrore buddhista».

L’esplosione dell’odio

L’istigazione all’odio da parte del monaco ha contribuito a incentivare le violenze nello Stato Rakhine (Arakan) dove risiedono i Rohingya di religione islamica. Nel 2012, la violenza tra le comunità è aumentata, uccidendo centinaia di persone e spingendo più di 140mila Rohingya nei campi per sfollati interni al paese e, nel corso degli anni a seguire, oltre 500mila nel vicino Bangladesh, che oggi ospita il campo di rifugiati più grande del mondo: Kutupalong a Cox’z Bazar. Anche il Dalai Lama, la più alta autorità del buddhismo tibetano, ha condannato il comportamento adottato nei confronti della comunità musulmana, ricordando che usare violenza in nome della religione buddhista è impensabile.

Nel 2017, la massima autorità buddhista del Myanmar ha vietato a Wirathu di predicare per un anno e nel 2018 Facebook ha cancellato la sua pagina per incitamento all’odio.

Il governo democratico dell’epoca lo ha accusato di sedizione e incarcerato nel novembre 2020. Il 6 settembre 2021, a sorpresa, Wirathu – che oggi ha 54 anni – è stato liberato dai militari tornati al potere. Nell’attuale momento storico, ci sono, pertanto, tutti i presupposti per un ritorno in auge dei gruppi nazionalisti buddhisti. Da una parte, la giunta militare cerca con ogni mezzo di costruirsi un’egemonia solida e un gruppo di sostenitori da manovrare, dall’altra molti monaci (tra quelli sopravvissuti) degli anni della «rivoluzione zafferano» non si sono mai veramente ripresi dalla repressione, o perché lasciati ad affrontare da soli i problemi psicologici causati dalla prigionia o perché costretti all’esilio.

Federica Mirto


La Chiesa cattolica

Cristiani nel mirino

Un’immagine fa il giro del mondo suscitando ammirazione e plauso, e facendo conoscere a tutti l’esistenza di una piccola ma vivace comunità cattolica in un paese a prevalenza buddhista. Una comunità che sta pagando un prezzo molto alto per il suo impegno a favore della riconciliazione e della pace.

La suora e la polizia

È un’immagine che arriva da Myitkyina, capitale del Kachin (uno dei sette stati del paese asiatico), il 28 febbraio 2021. Suor Ann Rose Nu Tawng, infermiera di 45 anni, s’inginocchia davanti a uno schieramento di polizia chiedendo di non sparare sulla popolazione e offrendosi come ostaggio al suo posto (MC 4/2021, p. 56).

Il gesto della suora della congregazione birmana di San Francesco Saverio ha un’eco mondiale. Il 17 marzo papa Francesco, alla fine dell’udienza generale, lo ricorda: «Anche io mi inginocchio sulle strade del Myanmar». A fine anno, la Bbc inserisce suor Ann Rose tra le 100 donne simbolo del 2021.

Il cardinale e il generale

Il gesto di suor Ann Rose rispecchia l’atteggiamento di tutta la piccola Chiesa cattolica del Myanmar impegnata a difendere i più deboli, identificata com’è con diverse etnie minoritarie, e a promuovere pace e riconciliazione. Gesti simili a quello della suora vengono fatti da altri religiosi nel paese e vengono in qualche modo raccolti e portati sotto gli occhi dei militari dagli interventi del cardinale Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon, la città più importante, già capitale, e vice presidente della conferenza episcopale del paese (16 diocesi in tutto).

Il cardinale Charles Maung Bo e il generale Min Aung Hlaing tagliano una torta natalizia il 23 dicembre 2021. Foto Myanmar military information team – AFP.

Dopo la profanazione di alcune chiese da parte di militari a caccia di ribelli, e gli arresti di alcuni sacerdoti, il cardinal Bo scrive un messaggio per l’Avvento 2021 nel quale denuncia la situazione di violenza nel paese e mette in guardia i fedeli dalla tentazione di cercare vendetta, ricordando che «c’è sempre una via non violenta, una soluzione pacifica».

Il 23 dicembre, com’è consuetudine, il cardinale accoglie allo scambio di auguri di Natale del personale dell’arcidiocesi di Yangon il senior general Min Aung Hlaing, che partecipa alla festa per la terza volta accompagnato da molti esponenti del Tatmadaw. Durante l’incontro, il generale e il cardinale hanno un momento di dialogo privato di cui non si conosce il contenuto. Le foto del taglio della torta di Natale vengono ampiamente diffuse dall’ufficio informazioni dei militari e raccontate da The Global New Light of Myanmar, il quotidiano ufficiale in lingua inglese dei golpisti, che vi dedica l’intera pagina 4 esaltando l’impegno dell’esercito per la pace nel paese.

Il giorno dopo, però, il 24 dicembre, i militari compiono un massacro nel villaggio di Mo So, che ha una forte presenza cristiana (vedi pag. 36). Almeno 35 persone, per lo più donne e bambini, sono uccisi, tra essi due operatori di Save the children. Il giorno di Natale vengono ritrovati i loro corpi carbonizzati all’interno di tre veicoli dati alle fiamme. Il 26, nella sua dichiarazione di condanna dell’accaduto, il cardinale Bo definisce il massacro un «indicibile e spregevole atto di barbarie disumano». Assicura la sua preghiera per le vittime e i loro cari. «L’intero nostro amato Myanmar è ora una zona di guerra», afferma facendo riferimento anche agli attacchi aerei nello stato di Kayin che hanno costretto migliaia di persone a fuggire oltre il confine con la Thailandia e ai bombardamenti a Thantlang, nello stato di Chin. «Quando finirà tutto questo? Quando cesseranno decenni di guerra civile in Myanmar? Quando potremo godere della vera pace, con giustizia e vera libertà? Quando smetteremo di ucciderci l’un l’altro? Fratelli che uccidono fratelli, sorelle che uccidono sorelle: questa non potrà mai e poi mai essere una soluzione ai nostri problemi. Pistole e armi non sono la risposta».

L’ultimo intervento significativo del cardinale risale al primo febbraio, giorno del primo anniversario del golpe militare: «Basta armi, aiutateci a ricostruire la pace». E, rivolgendosi ai cristiani: «Sentiamo il vostro dolore, la vostra sofferenza, la vostra fame. Capiamo la vostra delusione, comprendiamo la vostra resistenza. […] A quelli che credono solo nella resistenza violenta diciamo: “Ci sono altri mezzi”».

Papa Francesco e Aung San Suu Kyi nell’incontro del 28 novembre 2017 a Naypyidaw, capitale del Myanmar. Foto AFP.

Francesco e Aung San Suu Kyi

In Myanmar, il buddhismo è stato religione di stato in due occasioni (attorno all’anno mille, durante il Regno Pagan, e nel 1961-’62). La Costituzione del 2008 (sezione 361) gli ha invece attribuito una posizione speciale rispetto alle altre fedi religiose.

Con poco più del 6% dei birmani, il cristianesimo (battisti, anglicani e cattolici) è la seconda fede religiosa dopo quella buddhista. I cattolici sarebbero circa 750mila, in gran parte tra le minoranze etniche dei Karen, Kachin, Chin, Shan e Kayan.

Nel novembre del 2017, Francesco è stato il primo papa a visitare il paese, incontrando autorità civili, militari e religiose. Tra queste ultime anche il monaco Sitagu Sayadaw, leader dei buddhisti del paese asiatico, lontano dall’estremismo di Ashin Wirathu, il monaco di Mandalay, noto per le sue posizioni ultranazionaliste e antimusulmane. Durante quel viaggio, papa Francesco ha incontrato anche Aung San Suu Kyi, leader civile del governo, all’epoca molto criticata a livello internazionale per non aver difeso la minoranza dei Rohingya musulmani dello Stato Rakhine, oggetto di persecuzione (ma molti parlano di genocidio) da parte dell’esercito e dei buddhisti.

Per il Myanmar, anche il 2022 inizia sotto i peggiori auspici con pesanti attacchi dell’esercito negli stati etnici. Il 10 gennaio scorso, rivolgendosi al Corpo diplomatico in Vaticano, Francesco ha detto: «Dialogo e fraternità sono quanto mai urgenti per affrontare, con saggezza ed efficacia, la crisi che colpisce ormai da quasi un anno il Myanmar». Le sue «strade, che prima erano luogo di incontro sono ora teatro di scontri, che non risparmiano nemmeno i luoghi di preghiera».

A metà gennaio, anche mons. Marco Tin Win, arcivescovo di Mandalay, è intervenuto ricordando che il paese sta affrontando «la crisi del Covid-19, la fame, le guerre civili e la tortura».

La redazione

Ha firmato questo dossier:

Federica Mirto – È laureata in scienze politiche alla Sapienza di Roma. Ha dedicato la sua tesi magistrale (in lingua inglese) al Myanmar: «The ethnic minorities in the democratic processes: the case of Myanmar and Rohingya». Ha svolto vari periodi all’estero: studio presso l’Università di Nantes (Francia), volontariato presso il monastero tibetano Pema ts’al Sakya di Pokhara (Nepal), volontariato presso Oxfam di Manchester (Gran Bretagna), tirocinio a Bruxelles (Belgio), lavoro a Cork (Irlanda) e Edimburgo (Scozia), volontariato a Tijuana (Messico). Oltre che per MC, pubblica articoli e foto per alcune testate online.

 

Parata dell’esercito dei Palaung a Tangyan, nello Stato Shan, lo scorso 12 gennaio 2022. Foto STR / AFP.




Myanmar: Con tre dita al cielo

testo di Piergiorgio Pescali |


I militari non avevano mai abbandonato il potere.  Oggi se lo sono ripreso per intero, sotto lo sguardo accondiscendente della Cina. La leader Aung San Suu Kyi è stata posta agli arresti, ma neppure lei è esente da responsabilità.

Proteste di piazza, vittime, persone incarcerate, coprifuoco. Il colpo di stato avvenuto lo scorso primo febbraio ha fatto precipitare il Myanmar nella paura di un ritorno alla dittatura militare, già sperimentata tra il 1962 e il 2010. Allora le conseguenze furono sanguinose per il popolo e la politica: l’embargo voluto dagli Stati Uniti assieme alla Gran Bretagna, e in seguito da tutte le democrazie occidentali aveva messo in crisi non tanto un’economia già poco sviluppata e concentrata nelle mani di pochi conglomerati controllati in gran parte dai generali, quanto milioni di birmani, in particolare donne, impiegati a centinaia di migliaia nelle industrie tessili e artigianali del paese che furono costrette a chiudere. Per mantenere i loro profitti, ai generali bastò però cambiare partner commerciali, raccogliendosi attorno agli abbracci di Cina e Thailandia. Dal punto di vista politico, ogni opposizione venne cancellata, e i leader più in vista incarcerati o, come nel caso di Aung San Suu Kyi, posti agli arresti domiciliari. Gli ufficiali che oggi guidano il Tatmadaw, l’esercito birmano, non sono gli stessi che per cinque decenni tennero la nazione sottomessa ai loro assurdi voleri: questi hanno viaggiato e studiato all’estero, hanno tessuto rapporti con diplomazie e imprenditori di tutto il mondo, hanno vissuto la rivoluzione sociale che, in quest’ultimo decennio, ha trasformato il paese. Ma, pur essendo più disponibili dei predecessori ai compromessi e al dialogo, non sono immuni da rigurgiti totalitaristici. In Myanmar, così come nella vicina Thailandia, il confine tra dittatura e democrazia è alquanto labile.

Il generale Min Aung Hlaing con il presidente cinese Xi Jinping nella capitale birmana Nay Pyi Taw il 18 gennaio 2020. Foto Ju Peng / Xinhua / AFP.

Il ruolo del Tatmadaw

Per governare un paese etnicamente frammentato in miriadi di lingue, culture, fedi, economie, società, ci vuole un’istituzione forte e trasversale. Dispiace ammetterlo, ma l’unica organizzazione in grado di rappresentare tutte queste tendenze è proprio il Tatmadaw. Del resto, la stessa Aung San Suu Kyi non ha mai negato la necessità di avvalersi dei militari per governare. Sin dal suo primissimo comizio, tenuto nel 1989, la Lady ha sempre detto chiaramente che una Birmania senza il Tatmadaw (peraltro fondato da suo padre) non avrebbe potuto esistere.

Questo è il nodo più nevralgico e problematico della democrazia birmana: una nazione che, per mantenere la propria unità, deve poggiarsi sulle forze armate sarà sempre caratterizzata da estrema fragilità. Per questo ha bisogno di un leader non solo forte e autorevole, ma anche politicamente capace di gestire i delicatissimi equilibri esistenti tra il parlamento e l’esercito. Il primo più o meno rappresentativo delle forze democratiche, il secondo necessariamente forte per intervenire con determinazione ogni qual volta l’unità del paese venga messa in pericolo.

Aung San Suu Kyi, The Lady, oggi ha 75 anni. Foto Claude Truong – Ngoc – Global Media Sharing.

La signora e il generale

Nel Myanmar del 2021 si sono venuti a confrontare due leader capaci di rappresentare queste identità: Aung San Suu Kyi e Min Aung Hlaing. La prima è sostenuta dal voto popolare ed è a capo di un partito, la «Lega nazionale per la democrazia» (Lnd), che detiene la maggioranza assoluta nella camera dei rappresentanti (258 seggi su 440). Il secondo è comandante delle forze armate, un generale a cinque stelle, uomo duro che ha speso otto anni della sua carriera nello stato dello Shan entrando in conflitto con il Myanmar national democratic alliance army, la coalizione di eserciti etnici che controllavano il commercio dell’oppio e quello, ormai più redditizio e sicuro, delle metanfetamine.

Due personalità che, seppur differenti per formazione professionale, provenienza famigliare e idee politiche, sono molto simili tra loro in fatto di ambizioni e suscettibilità. Nessuno dei due sopporta l’altro, ma mentre Min Aung Hlaing non aveva bisogno di Aung San Suu Kyi, questa non poteva governare senza Min Aung Hlaing.

I due piatti della bilancia hanno mantenuto una difficile stabilità sino a quando i due leader si sono limitati a regnare entro i loro limiti. Aung San Suu Kyi ha approfittato della momentanea debolezza dei vertici del Tatmadaw monopolizzando la scena politica e accentrando su di sé tutte le cariche più importanti delle istituzioni parlamentari: consigliere di Stato (premier),
ministro degli Esteri, presidente della Lega nazionale per la democrazia, presidente del Comitato per la pace nel Rakhine e presidente del Comitato per il dialogo con le nazioni etniche. Non potendo, per Costituzione, occupare la carica di presidente ha fatto eleggere il proprio avvocato Win Myint per poi occupare il posto di ministro dell’ufficio del presidente e divenire lei stessa presidente de facto della nazione. Un raggiro costituzionale che in qualunque altro paese democratico sarebbe stato oggetto di proteste e accuse di scandalo e disonestà, ma che nel nuovo corso della politica birmana è stato addirittura portato ad esempio in una famosa intervista fatta a Tin Oo, il patron (93enne) e uno dei fondatori della Lega per la democrazia di cui la Signora è presidente. Le dichiarazioni, imprudenti ma significative, di Tin Oo dimostrano quanto misteriosa e ambigua sia la visione di democrazia posseduta dai politici locali.

Le mosse del generale

Sul lato opposto, l’ascesa di Min Aung Hlaing ha posto di fronte alla premier birmana un formidabile avversario che si è rivelato ancora più scaltro di lei nell’aprirsi nuovi spazi. A differenza della sua rivale, il generale ha iniziato a tessere un dialogo con le «nazioni etniche», in particolare con i kachin cristiani e con i rakhine buddhisti, meritandosi l’approvazione dell’inviato giapponese del programma per la riconciliazione nazionale Yohei Sasakawa. Nel maggio 2020 Min Aung Hlaing ha riorganizzato i vertici militari rafforzando la presenza di una nuova leva di giovani ufficiali a lui fedeli. Al tempo stesso, ha iniziato a preparare una poltrona di presidenza dell’Union solidarity democratic party (Usdp) per blindare la posizione della sua famiglia in campo imprenditoriale in previsione del suo imminente (a giugno 2021) ritiro in pensione. La protezione dei beni acquisiti durante la carriera è una costante sempre presente nella politica birmana, in particolare tra i militari. Questi hanno sempre approfittato del loro potere per accumulare ricchezze e piazzare nei posti chiave loro famigliari dedicando gli ultimi anni della loro vita professionale a instaurare legami con i loro potenziali successori affinché non cadessero in disgrazia.

Grazie al decennio passato nello stato Shan, Min Aung Hlaing ha potuto costruire un impero economico immenso, ma l’arrivo nel 2016 di Aung San Suu Kyi al potere ha rischiato di mettere in pericolo la sua ricchezza. Ha posposto quindi il suo pensionamento di cinque anni (dal 2016 al 2021) iniziando a muovere le sue pedine. E quando, il prossimo giugno, si ritirerà dalla carica di comandante delle forze armate, cercherà di traslare la sua influenza in campo politico candidandosi a presidente dell’Usdp.

Il putsch militare del 1° febbraio è quindi da vedersi anche in una visione personalistica della politica birmana.

Un taxi particolare a Mingun, frequentato sito storico vicino alla città di Mandalay. Foto Martine Auvray – Pixabay.

Vittorie ed errori

Aung San Suu Kyi, The Lady, è forse una delle poche personalità oneste del paese e a lei dobbiamo molto: la sua perseveranza nel continuare a denunciare le nefandezze dei militari durante gli anni della dittatura è stata d’esempio per chiunque lottasse per i diritti umani. La Lady ha dimostrato che, con la tenacia, è possibile raggiungere obiettivi che appaiono impossibili. Tuttavia, come spesso accade ai personaggi pubblici, quando Aung San Suu Kyi si è trovata a dover mettere in pratica i proclami e le promesse lanciate mentre era all’opposizione, la sua inadeguatezza e inesperienza sono uscite allo scoperto, smantellando la sua figura idealizzata.

Al netto delle interferenze e dei giochi di potere che si sono realizzati nel parlamento con i militari, Aung San Suu Kyi ha pesantissime responsabilità nella disastrosa gestione dei rapporti con le nazioni etniche e con la classe lavoratrice del paese.

Per favorire gli interessi minerari cinesi, ad esempio, ha costretto migliaia di contadini ad abbandonare i loro villaggi e le loro terre a Letpadaung affermando che il bene della nazione è superiore a quello individuale. Lo stesso è avvenuto con i Mon e i Kachin.

Sul piano dei rapporti con le varie etnie, la consigliera di stato è stata pesantemente criticata dalle stesse associazioni, organizzazioni e governi che le avevano garantito incondizionato appoggio negli anni della sua prigionia. Più volte ha glissato l’argomento Rohingya, Kachin, Mon rifiutando ostinatamente di condannare le violenze perpetrate ai loro danni. Su questo tema si è consumato l’ultimo atto dello scontro con i militari.

Già nello stato Kachin, il Tatmadaw aveva iniziato, con la mediazione giapponese, una serie di colloqui con la Chiesa battista (i Kachin hanno una forte rappresentanza di cristiani protestanti) e con il Kachin independence organisation nonostante Aung San Suu Kyi avesse cercato di ostacolare il dialogo.

Due monaci buddhisti si riposano sulla panca di una stazione birmana. Foto Aline Dassel – Pixabay.

Buddhisti e Musulmani

Nello stato Rakhine, il doppio confronto che vedeva governo e militari uniti contro i Rohingya musulmani a Sud e contro i buddhisti dell’Arakan army a Nord, si è sviluppato in modo completamente divergente. Mentre i Rohingya continuano a essere oggetto di brutalità e persecuzioni da parte della maggioranza buddhista rakhine con la complicità sia del governo che della chiesa buddhista e delle forze armate, nelle zone settentrionali, dove i musulmani sono praticamente assenti, è la guerriglia indipendentista dell’Arakan army a impegnare le forze governative.

Lo stato Rakhine (Arakan è il nome storico della regione, mentre Rakhine è il nome dato dai militari nel 1989 in conformità con l’etnia maggioritaria) è l’unico che, nelle elezioni del 2015, ha visto prevalere con una maggioranza assoluta l’Arakan national party (Anp). Secondo la Costituzione, avrebbe, quindi, dovuto essere questo partito a formare il governo regionale, ma Aung San Suu Kyi, con un colpo di mano anticostituzionale, ha imposto un gabinetto a guida Lnd. Questo ha inasprito la già delicata situazione sociale portando a una recrudescenza delle attività della guerriglia.

Il 14 ottobre 2020, tre settimane prima delle elezioni generali che hanno visto la vittoria dell’Lnd sul piano nazionale, tre membri del partito sono stati rapiti dall’Arakan army. Due giorni dopo la Commissione elettorale ha deciso di annullare le elezioni nel Rakhine. Questa mossa ha generato proteste e nuove manifestazioni che sono rientrate solo dopo che il Tatmadaw, ancora con la mediazione giapponese, ha raggiunto un accordo con l’Anp e l’Arakan army. Secondo i punti dell’accordo, non ratificato dal governo di Aung San Suu Kyi, gli elettori dello stato avrebbero potuto recarsi alle urne entro la fine di gennaio 2021.

Sr Ann Nu Thawng inginocchiata davanti alla polizia.

La protesta delle tre dita

A seguito del colpo di stato militare, manifestazioni popolari si sono susseguite in tutta la nazione. Anche suore e preti si sono mobilitati scendendo in piazza con manifesti e mostrando le tre dita, un gesto divenuto simbolo di protesta in Thailandia nel novembre 2014 sull’onda dell’emotività suscitata dalla serie cinematografica Hunger Games e adottate, come altre mode provenienti dalla vicina nazione, anche in Myanmar.

Le contestazioni si sono ripetute in tutto il paese, ma se nelle regioni che comprendono la Birmania storica, abitata dall’etnia maggioritaria bamar (la stessa di Aung San Suu Kyi), sono state partecipate e sparse su tutto il territorio, negli stati etnici i cortei sono stati sporadici e limitati nelle grosse città dove si concentrano i Bamar.

Sui media occidentali sono apparse anche foto di rifugiati rohingya con le tre dita alzate accompagnate con didascalie che pretendevano che anche questi musulmani, del cui dramma erano responsabili sia i militari che Aung San Suu Kyi, si fossero schierati accanto alla leader birmana incarcerata. Nulla di più infondato. Quasi nessuno dei siti amministrati da attivisti rohingya ha espresso solidarietà con Aung San Suu Kyi, ma tutti hanno mostrato la loro «solidarietà con il popolo del Myanmar» o con «coloro che lottano per la democrazia». «La dittatura deve finire, ma Aung San Suu Kyi non è la risposta», è il commento che si legge più frequentemente. Non sono inoltre mancate le foto in cui si vede il monaco Sitagu Sayadaw, il più rispettato monaco della sangha buddhista dello stato Rakhine e strenuo sostenitore della lotta contro i musulmani, ricevere doni dal generale Tun Tun Naung assieme ad altri due comandanti regionali dello stato Rakhine all’indomani del colpo di stato.

L’età del futuro

Quale sarà allora il futuro del Myanmar? Se si vuole riprendere la strada della democrazia, alternative ad Aung San Suu Kyi non sembra ve ne siano, con buona pace per le minoranze etniche.

La Lady è l’unica personalità in grado di convogliare le idee assai confuse e frastagliate della Lega nazionale per la democrazia. Allo stesso tempo, però, Aung San Suu Kyi non è quello che si può definire un genio politico: ha inanellato un errore dopo l’altro nella sua gestione governativa (e anche prima, tra cui rifiutare il dialogo con Khin Nyunt quando era agli arresti domiciliari dando così via libera all’ascesa del generale Than Shwe).

Del resto, un governo di soli civili sarebbe impossibile, non solo perché non sarebbe in grado di contrastare la disintegrazione del Myanmar, ma anche perché i militari sono appoggiati da tutti i governi del Sud Est asiatico. I militari birmani, infatti, reprimono quelle istanze centrifughe etniche che minano non solo l’unità del loro paese, ma anche quella della Thailandia (che non concede cittadinanza alle proprie etnie), della Cina (che già deve fronteggiare le richieste di autonomia dei tibetani e degli uiguri) e dell’India (che non ha ancora risolto il problema dell’Assam). Se il governo birmano concedesse ampia autonomia o addirittura indipendenza ad alcune delle proprie nazionalità etniche, si rischierebbe di attivare quell’«effetto domino» profetizzato da Eisenhower e sul quale si scrisse la dottrina di McNamara in Vietnam (se un paese diventa comunista, anche gli altri potrebbero seguirlo).

Quindi, se non c’è alternativa democratica ad Aung San Suu Kyi, l’unica speranza è che, dopo il colpo di stato, la Lady si trovi in condizione tale da cercare appoggio internazionale e rivedere così la sua politica nei confronti delle etnie (non solo Rohingya) e la sua politica di svendita economica del paese. Certo è che l’ex consigliera di stato ha già 75 anni e non è in ottima salute. Occorre quindi trovare quanto prima un suo successore. Al momento però all’orizzonte non si vede nessuno in grado di sostituirla.

Piergiorgio Pescali

Archivio MC:

Piergiorgio Pescali, I Rohingya, dossier Myanmar, aprile 2017.
Piergiorgio Pescali, La nuova via birmana, dossier Myanmar, aprile 2014.

Una donna vende cibo e bevande ai passeggeri di un treno birmano. Foto Richard Mcall – Pixabay.




Cina, Xinjiang. Autonomia made in Pechino

testo e foto di Piergiorgio Pescali | A cura di Paolo Moiola |


Indice


Le scelte di Pechino

Unità e armonia: lo stato viene prima

Il paese deve muoversi all’unisono e sotto la stessa direzione. Gli obiettivi da perseguire sono gli stessi ovunque. Per questo non sono ammissibili spinte separatiste come ad Hong Kong, in Tibet e nello Xinjiang.

Nell’ottobre 2012 il New York Times pubblicò un articolo che rendeva noti documenti fuoriusciti dal Partito comunista cinese in cui si denunciava che la famiglia del primo ministro Wen Jiabao e il premier stesso avevano accumulato un’immensa fortuna pari a 2,7 miliardi di dollari. Wen Jiabao avrebbe dovuto lasciare la carica di primo ministro il marzo successivo (2013), quindi la fuga di documenti sembrava poco significativa. In realtà questo scoop funzionò da volano a un emergente Xi Jinping per fare piazza pulita di una classe politica cinese che, sin dal IV Plenum del XI Congresso del Pcc del settembre 1979, stava lasciando sempre più spazio ai privati.

Un mese dopo lo scoop del New York Times, Xi Jinping venne nominato segretario del Partito comunista cinese, presidente della Commissione militare centrale e, nel marzo 2013, presidente della nazione, ruoli che occupa tuttora.

Conversazione tra uomini al mercato degli animali di Hotan, città agricola nel bacino idrografico del Tarim, in gran parte occupato dal deserto di Taklamakan. Foto Piergiorgio Pescali.

La Cina di Xi Jinping

In sette anni Xi Jinping ha stravolto la Cina riproponendo una nazione al centro dell’economia mondiale, ha lanciato Pechino verso una contrapposizione militare nel settore dell’Oceano Pacifico e ha realizzato con successo ciò che Mao Zedong aveva iniziato negli anni Sessanta: diventare, specialmente per le nazioni asiatiche, un polo d’attrazione alternativo sia agli Stati Uniti che alla Russia.

Tutto questo è stato possibile concentrando su un unico nucleo il fulcro decisionale del paese. Comunque la si voglia guardare, Xi ha mosso, almeno sino a oggi, con sapienza e cinismo i propri pezzi sulla scacchiera geopolitica mondiale. Il pensiero di Xi Jinping, ufficializzato dal 19° Congresso del partito nel settembre 2017, ha elevato il presidente cinese a nuovo timoniere. Non un nuovo Mao, come spesso lo si preferisce definire, ma una nuova guida che miscela con attenzione il totalitarismo maoista con l’iniezione di liberismo economico introdotta da Deng Xiaoping. Carburando con cura le due idee, diluendole con mirati interventi economici statali, il razzo cinese lanciato da Xi è riuscito a decollare superando anche le prove più critiche che si sono via via frapposte: il programma nucleare nordcoreano, la crisi con gli Stati Uniti e, ultima in ordine cronologico, il coronavirus.

Per permettere la gestione ottimale della spinta economica e politica cinese al di fuori dell’orbita nazionale, occorre in primo luogo che tutto il paese cooperi all’unisono per gli stessi obiettivi e sotto un’unica direzione. Ogni tentativo di deriva nazionalista, di autonomia più accentuata, di critica verso la cabina di comando, potrebbe interrompere il flusso di carburante o il giusto equilibrio dei vari elementi, e deviare il missile cinese dalla propria traiettoria rischiandone la distruzione.

In un discorso chiave tenuto all’Università di Pechino il 4 maggio 2014, il presidente cinese affermava che «i valori fondamentali che la nostra nazione e il nostro stato devono difendere sono quelli di prosperità, democrazia, civiltà e armonia; libertà, uguaglianza, giustizia e governo della legge; patriottismo, dedizione al lavoro, affidabilità e amicizia al fine di coltivare e mettere in pratica i valori fondamentali del socialismo. Prosperità, democrazia, civiltà e armonia sono i valori richiesti allo stato; libertà, uguaglianza, giustizia e governo della legge sono i valori richiesti alla società; patriottismo, dedizione al lavoro, affidabilità e amicizia sono i valori richiesti al cittadino».

La risposta alle rivolte centrifughe

Quelle parole invocavano maggiore unità dei cinesi a tutti i livelli (e, al tempo stesso, una maggiore responsabilità dello stato), ma anche la consapevolezza che, in un paese così diversificato, multiculturale e multireligioso come la Cina, occorreva sacrificare parte della propria libertà per progredire nel campo economico e sociale. Non era un concetto nuovo: la socializzazione e la cooperazione collettiva sono alla base dei valori asiatici, ma la volontà di democrazia, di benessere individuale, di edonismo portata dalle aperture politiche avvenute sin dagli anni Ottanta, avevano sfaldato parte di queste fondamenta e rischiavano di privare il gigante cinese delle solide basi su cui era stata costruita la nazione dopo l’avvento di Mao Zedong.

Da qui alle repressioni delle rivolte centrifughe nelle aree più delicate, come il Tibet, la Mongolia interna e Hong Kong, il passo è breve.

Tra tutte queste richieste di maggiore autonomia o addirittura di indipendenza, e il loro conseguente soffocamento, quella dello Xinjiang è la meno conosciuta al di fuori della Cina per i non addetti ai lavori. La storia che lega Hong Kong all’Occidente ha permesso ai media di cavalcare l’onda delle proteste, mentre la grande diffusione di pratiche legate al buddhismo e la fortuna della figura del Dalai Lama hanno permesso di mantenere vive le manifestazioni a favore del popolo tibetano. La stessa attenzione non è stata concessa agli Uiguri, la cui lotta non appassiona gli animi di chi accusa Pechino di ledere i diritti umani e di opprimere le istanze autonomiste di interi popoli.

Piergiorgio Pescali

Mappa della Cina con la suddivisione in province e regioni autonome. Immagine Pixabay.

Lo Xinjiang

  • Divisione amministrativa: regione autonoma dello Xinjiang.
  • Superficie: 1,66 milioni km2, con un’estesa parte desertica (deserto del Taklamakan).
  • Abitanti: 24,5 milioni.
  • Gruppi etnici (2018): Uiguri (46,4%), Han (39%), Kazaki (6,5%), Hui (4,5%), altri (Tagiki, Kirghizi, Russi, Mongoli; 2,67%).
  • Segretario Pcc locale: Chen Quanguo.
  • Città principali: Ürümqi (capitale), Kashgar.
  • Religione principale: islam (63%), praticata dagli Uiguri e dagli Hui.
  • Economia: agricoltura e allevamento, industria estrattiva (gas, petrolio, carbone, berillio, mica); produzione di energia solare, eolica e idroelettrica.
  • Siti web: www.globaltimes.cn;
    www.uyghurcongress.org;
    https://uhrp.org.

Yurte della popolazione di etnia kirghiza lungo la Karakorum Highway, a pochi chilometri dal confine con il Pakistan. Foto Piergiorgio Pescali.


Storia e attualità dello Xinjiang

Una frontiera tormentata

È il territorio più esteso e meno popolato della Cina, della quale fa parte dal 1884 con due (brevi) pause. Dal 1955 regione autonoma, un tempo trascurata, oggi lo Xinjiang è di fondamentale importanza.

Xinjiang – 新疆, «nuova frontiera» – è un toponimo relativamente recente, coniato tra il XVIII e il XIX secolo dalla dinastia Qing e inizialmente riferito a cinque regioni situate lungo le frontiere dell’impero. Solo nel 1884 venne a identificare quella che oggi è la regione più grande e meno popolata della nazione cinese. Nei secoli precedenti, il territorio era noto con il nome persiano di Turkestan, «luogo abitato dai turchi». Non una nazione, ma un’area occupata da un coacervo di popoli che assimilarono usanze e lingue di genti provenienti dalle steppe mongoliche di cui una parte, a partire dal I millennio a.C., si spostarono verso Ovest sino a raggiungere l’attuale Turchia

Le diverse popolazioni mantennero peculiarità che ancora oggi le differenziano tra loro: Kazaki, Kirghizi, Uiguri, Uzbeki, Kazari, Hazari. Erano per la maggioranza popolazioni nomadi, dedite alla pastorizia, eccellenti cavallerizzi che mantennero gelosamente la propria indipendenza per coalizzarsi tra loro solo in occasione di pericoli provenienti dall’esterno. In questo modo, almeno sino a pochi decenni fa, non vi fu nessun impero o stato centralizzato chiamato Turkestan. Certo, nel corso dei secoli, popoli turchi e turcofoni formarono imperi che, seppur molto fluidi nella loro amministrazione e nei loro confini, riuscirono a ritagliarsi grandi fette di territorio minacciando e sconfiggendo regni regolati secondo gestioni più ortodosse. Nessuno di questi imperi, però, si diede un’amministrazione centralizzata, se non dopo aver assorbito le caratteristiche della gerenza che avevano sconfitto. Il più delle volte, compiute le conquiste e gli obiettivi concordati tra i vari clan, ognuno di questi tornava poi a reggersi secondo regole e consuetudini proprie.

In questa situazione assai mutevole e incerta, tra l’inizio del VII e la metà del IX secolo d.C., un impero dominato dagli Uiguri, una delle tante stirpi turco-mongoliche, giunse a occupare il territorio tra i monti Altai e i monti della catena del Tien Shan includendo il bacino del Tarim. Per due secoli il khaganato (cioè il territorio governato dal khan, re, imperatore) uiguro gareggiò con la Cina dei Tang e con l’impero tibetano per il dominio dell’Asia orientale, ma l’organizzazione militare ed economica degli Han alla fine ebbero la meglio. Gli Uiguri si stanziarono nelle regioni attorno al deserto del Taklamakan sovrapponendosi alle popolazioni indoeuropee già presenti nell’area e sviluppandosi attorno a due centri culturali: Turpan a Nord e Kashgar a Sud.

Uiguri: una lingua, una religione

Proprio attorno alla città di Kashgar, tra il X e il XIII secolo, si affermarono quelli che sarebbero poi diventati due ingredienti essenziali dell’anima uigura moderna e che sono, ancora oggi, strettamente legati tra loro: la religione islamica e la lingua. Nel 934, dopo che il khan Abdulkarim Satuq Bughra si convertì all’islamismo, la nuova religione iniziò ad espandersi su tutto il territorio soppiantando il buddhismo. Al tempo stesso si venne a formare una lingua locale uigura che, pur mantenendo radici turcofone, adottò caratteri arabo persiani. Sei secoli più tardi, Afaq Khoja sviluppò il movimento sufi Naqshbandiya, fondato nel XIII secolo a Bukhara da Abd al-Khaliq Ghijduvani. Il sufismo si innestò nella religione islamica uigura sino a modellarne la dottrina e la visione del potere. Da una parte confermò e rafforzò la grande tolleranza religiosa e culturale già presente tra gli Uiguri e dall’altro invocò un regime di vita più austero per la classe nobile e amministratrice del paese. In una popolazione che faceva del nomadismo il proprio stile di vita, la frugalità espressa dal Naqshbandiya si inseriva a pennello.

In mancanza di un sentimento nazionalista, la lingua e la religione divennero gli elementi coesivi del popolo uiguro e la leva su cui i vari movimenti indipendentisti e autonomisti premettero per contrastare le interferenze esterne. Questo è uno dei motivi per cui ancora oggi il governo centrale di Pechino vede proprio in queste due espressioni culturali i due cardini contro cui focalizzare la sua repressione.

L’interno di una casa uigura nei pressi di Kashgar, la principale città nel deserto del Taklamakan. Foto Piergiorgio Pescali.

Anno 1884: l’annessione cinese

Nella storia dello Xinjiang un altro fattore determinante è la sua posizione geografica: un’immensa regione di sutura tra la Cina e l’Asia centrale, solcata dalle numerose vie commerciali che collegavano le coste orientali dell’Asia con le rive del Mediterraneo. Queste rotte, che nel 1877 il geografo tedesco Ferdinand von Richthofen chiamò «Via della seta», si incontravano a Kashgar per poi diramarsi in una miriade di direzioni. Marco Polo, uno dei tanti mercanti che l’attraversò lasciandone ampia testimonianza ne Il Milione accennò anche a una comunità di cristiani nestoriani, presenti nella regione sin dal VI secolo e che sarebbe rimasta attiva fino al XIV secolo. Gli imperi europei e del Centro Asia vedevano lo Xinjiang come regione nevralgica, se non da sottomettere, almeno da sorvegliare per tenere sotto controllo la Cina; dal canto loro gli Han guardavano all’area come a una zona cuscinetto per respingere eventuali rivalse di altri. Al centro di questa regione c’era il cuore arido e terrificante del deserto del Taklamakan, uno dei luoghi più ostili in cui l’uomo potrebbe vivere e che molti definiscono come «il luogo dove si entra, ma da cui non si esce» (in realtà, il significato etimologico è incerto e varia da «posto abbandonato» a «posto di rovine»). Il deserto, frequentemente spazzato dai violenti venti del buran, occupa un quinto dell’intera provincia attuale dello Xinjiang (337mila km2 su 1.665mila km2) e le sue temperature oscillano tra i 40 gradi estivi e i -20 in inverno. Sino all’arrivo del treno, degli aerei e delle automobili, le difficili condizioni del Taklamakan erano un valido baluardo naturale che ponevano quasi al sicuro la Cina da un’invasione proveniente da Occidente. Nel 1895 lo svedese Sven Hedin fu il primo esploratore occidentale ad attraversarlo, ma dei quattro uomini, otto cammelli, tre montoni, dieci polli, un gallo e due cani che partirono da Kashgar, solo Hedin, un altro carovaniere e un cammello riuscirono a raggiungere il fiume Khotan-Daria.

Dal 1759 i Qing iniziarono a espandersi verso occidente inglobando sempre più vaste regioni e trasferendo nelle aree da loro controllate, specialmente nel Nord della provincia, popolazioni mongole e han. Il tentativo di ribellione dell’uzbeko Yakub Beg, all’inizio appoggiato da Russia e Gran Bretagna che speravano di poter gestire il nuovo stato entrando nel subcontinente cinese, si esaurì nel 1884 con la definitiva annessione dello Xinjiang all’impero Qing.

Fu certamente un intervento militare, ma gran parte della popolazione accolse il ritorno dei cinesi con sollievo dopo che Yakub Beg aveva respinto le offerte russe e britanniche di costruire strade che collegassero l’area con l’Asia centrale e meridionale gravando i commercianti di ulteriori tasse, e aveva imposto una sharia più restrittiva.

Il dominio cinese sullo Xinjiang continuò anche dopo il crollo dei Qing e l’avvento della repubblica. L’indebolimento della Cina a causa della colonizzazione giapponese permise al nascente movimento nazionalista uiguro di creare una prima Repubblica islamica del Turkestan orientale, che ebbe vita effimera (1933-1934) e una più longeva seconda Repubblica del Turkestan orientale di ispirazione vagamente socialista e appoggiata da Stalin (1944-1949) in funzione anticinese.

La vittoria delle forze comuniste guidate da Mao Zedong su quelle nazionaliste di Chiang Kai-shek riportò le truppe cinesi nello Xinjiang ribadendo il dominio di Pechino sulla regione. Per lo Xinjiang, che dal 1955 divenne regione autonoma, si chiuse un ciclo storico e se ne aprì un altro.

La moschea Id Kah, a Kashgar. Foto Piergiorgio Pescali.

Gli Uiguri, dal 75 al 46 per cento

Il processo di trasferimento di popolazioni Han e Hui, già iniziato sotto i Qing, venne potenziato da Mao Zedong inaugurando così il primo dei tanti problemi che, sommati l’uno all’altro, avrebbero scatenato il risentimento degli Uiguri nella provincia.

Nel 1949 la popolazione totale dello Xinjiang ammontava a 4.333.000 abitanti, di cui il 75% Uiguri, 7% Kazaki, 6% Han e il restante 12% suddiviso tra Tagiki, Kirghizi, Russi, Mongoli e Hui. Questi ultimi, pur essendo musulmani, appartengono all’etnia han e rimangono fedeli al governo centrale. Sono quindi spesso considerati dagli Uiguri come una sorta di cavallo di Troia, di collaborazionisti, diffidati dai loro correligionari.

La frontiera comune con l’Unione Sovietica, amica di nome, ma ritenuta pericolosa da Pechino che non aveva dimenticato l’appoggio dato da Mosca alla Repubblica del Turkestan orientale e la necessità di controllare un territorio non ancora completamente assoggettato, indusse il timoniere ad inviare, oltre ai circa 200mila militari di stanza nella provincia, altri 175mila lavoratori appartenenti ai Bingtuan, i Corpi di produzione e costruzione dello Xinjiang a cui si aggiunsero 300mila giovani con le loro famiglie e 200-250mila lavoratori «volontari» ed un numero imprecisato fra tecnici, insegnanti e antirivoluzionari.

Il flusso migratorio continuò a ondate alterne; non fu mai costante e anzi, in alcuni periodi (dopo il fallimento del Grande balzo economico all’inizio degli anni Sessanta e poi subito dopo la morte di Mao negli anni Ottanta), il saldo fu addirittura leggermente negativo. Alla ricerca di nuove prospettive economiche e attirati dalla liberalizzazione di Deng Xiaoping, molti giovani han, ma anche uiguri, preferirono lasciare lo Xinjiang per trasferirsi nelle città orientali.

La prima grande ondata migratoria si verificò alla metà degli anni Sessanta, quando, dopo il primo test atomico, si diede impulso al programma nucleare cinese. Migliaia di persone vennero spedite nella provincia e nel poligono di Lop Nur dove, dal 1964 al 1996, gli scienziati cinesi fecero esplodere 45 bombe, di cui 23 in superficie (un recente rapporto del dipartimento di Stato Usa afferma però che test a basso livello sarebbero ancora in corso). Tra il 1964 e il 1980 la popolazione immigrata crebbe molto più di quella uigura. Nel 1964 la popolazione dello Xinjiang ammontava a 7,4 milioni di abitanti, di cui 4 milioni Uiguri (54%), 2,4 milioni Han (32,8%) e 271mila Hui (3,6%). Nel 1982 su 13 milioni di abitanti, 6 milioni erano Uiguri (45,8%), 5,3 milioni Han (40,4%) e 567mila Hui (4,3%).

Il rapporto tornò a invertirsi nel decennio seguente, quando, nel 1990 la percentuale di popolazione di etnia han era scesa al 37,6% (5,7 milioni Han su 15,2 milioni di abitanti) e, viceversa, quella uigura era salita al 47,5% (7,2 milioni Uiguri). Con l’inizio della nuova industrializzazione dello Xinjiang che coincise con il passaggio dal XX al XXI secolo, la politica di reinsediamento voluta da Pechino riportò il rapporto Han e Uiguri ai livelli degli anni Ottanta rimanendo così stabile sino ad oggi.

Nel 2018 su 24,9 milioni di abitanti, il 46,4% erano Uiguri, il 39% Han e il 4,54% Hui, e il tasso di crescita demografica dovuta alla natalità era calato dal 10,71‰ del 2010 al 6,13‰ (contro un tasso nazionale del 3,81‰). In particolare, la natalità degli Uiguri nel 2018 era pari al 10,69‰ contro il 9,42‰ degli Han.

I soli numeri però non bastano per descrivere l’enorme differenziazione territoriale rappresentata nello Xinjiang. La regione è etnicamente spaccata in aree nelle quali vivono precisi gruppi di popolazioni. Se gli Han sono concentrati principalmente nelle zone che fanno capo a Urumqi, la città più grande e capoluogo della regione dello Xinjiang, gli Uiguri si disperdono attorno alla città meridionale di Kashgar, loro capitale storica e culturale, e a Hotan e Aksu. Più a Nord, al confine con il Kazakhstan nei distretti di Altay e Tacheng troviamo i Kazaki, mentre gli Hui vivono nel distretto di Ili e mischiati agli Han.

Sono divisioni che rispecchiano gli stanziamenti ancestrali, fissati ancora prima dell’arrivo dei Qing, e che generalmente non seguono un disegno geopolitico storicamente determinato o una precisa volontà di segregazione economica. Anzi, è esattamente l’opposto: è lo sviluppo economico dello Xinjiang che si è modellato sulla base della dispersione etnica.

La costosa strada del nucleare

Lo Xinjiang è la provincia più povera della Repubblica popolare e, fino alla fine degli anni Ottanta, anche tra quelle che ricevevano meno sovvenzionamenti statali. Pechino la considerava solo un ottimo cuscinetto per ammorbidire le tensioni con gli stati limitrofi, in particolare l’Unione Sovietica. Inoltre, l’esiguità della popolazione, in contrasto con l’ampiezza del suo territorio e la grande quantità di superfici disabitate, rendevano lo Xinjiang la base ideale per la ricerca e lo sviluppo nucleare. Il già citato poligono di Lop Nur fu il primo grande nucleo industriale che attirò investimenti economici da Pechino verso la periferia del paese e anche il primo argomento di scontro con gli Uiguri. Oggi i disastri ambientali e umani causati da questa corsa al nucleare cinese sono evidenti: una ricerca effettuata da Jun Takada della Sapporo Medical University ripresa anche dall’Iaea e dal Ctbto (Comprehensive Nuclear-Test-Ban Treaty Organization – Organizzazione per l’applicazione del Trattato per il bando completo della sperimentazione nucleare) e pubblicata da Scientific American, stima che circa 194mila persone sarebbero morte nello Xinjiang a causa dell’esposizione a radiazioni dovute ai fallout nucleari e che altre 1,2 milioni avrebbero assorbito radiazioni tali da poter provocare danni genetici, leucemie e cancri. Inoltre il poligono di Lop Nur ospita ancora oggi parte delle scorie nucleari non solo degli esperimenti militari, ma anche dei quarantasei reattori in funzione nel paese (nel 2041 è previsto lo stoccaggio di tutti i rifiuti nucleari cinesi in un impianto in corso di costruzione nel deserto del Gobi).

Fedeli islamici nella moschea Altyn, a Yarkand, città-oasi che prende il nome dall’omonimo fiume, affluente del Tarim. Foto Piergiorgio Pescali.

Pechino e il pericolo islamico

 

Solo dopo gli anni Novanta il «caso Xinjiang» scoppiò in tutta la sua dirompenza: mentre in Occidente si festeggiava la caduta del Muro di Berlino e il dissolvimento dell’Urss, Pechino si preparava a fronteggiare la minaccia terroristica causata dai buchi neri lasciati dalle amministrazioni delle nuove entità nazionali con le quali lo Xinjiang si trovò a condividere i propri confini. I nuovi paesi, infatti, non avevano nessun controllo del proprio territorio, e cellule armate organizzate vi avevano stabilito i loro rifugi sicuri.

La Cina dovette fronteggiare una minaccia che considerava ancora più grave di quella tibetana perché minava l’impianto unitario dello stato, e lo faceva trovando linfa in quel crogiolo di ideologie e di melting pot religioso che andava sotto il nome di jihad islamica. I gangli della rivolta uigura si ramificavano all’esterno dei confini nazionali insinuandosi tra le pieghe di una rivendicazione di autonomia nazionale che fino ad allora era stata solo un accenno. Il nascente movimento autonomista tradusse le richieste sociali del popolo uiguro in una letteratura separatista puntellando le sue rivendicazioni sulle uniche due caratteristiche che identificavano una improbabile nazione uigura: l’islam e la lingua.

Pechino reagì nel modo più sbagliato: sperando di tranciare il cordone ombelicale con il nazionalismo e il movimento armato, chiuse gran parte delle moschee e vietò l’insegnamento della lingua uigura nelle scuole. Il risultato fu, come era da aspettarsi, una controreazione ben più violenta anche da parte di quella fetta di popolazione che guardava con diffidenza l’estremismo e il fanatismo.

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Le (troppe) organizzazioni uigure

Nel tentativo di catalizzare l’interesse internazionale sulla questione uigura nacquero diverse organizzazioni, alcune delle quali appoggiate – per motivi politici o strategici – da altre nazioni, in particolare Stati Uniti e Turchia. Quest’ultima si inserì nelle pieghe della dissoluzione sovietica riproponendosi come guida culturale e politica dei popoli panturchi dell’Asia centrale. L’idea di Ankara di espandere la propria influenza su una regione di cui ritenne avere dei diritti di discendenza genetica e linguistica trovò sfogo nella protesta uigura. Circa 40mila Uiguri ancora oggi vivono in Turchia, paese che ha sempre storicamente appoggiato i movimenti nazionalisti ospitando leader leggendari some Yusup Alptekin ed Emint Bugra. Seguendo l’emigrazione turca in Germania, anche la diaspora uigura ha spostato il proprio centro dirigente nel paese europeo esprimendosi in una miriade di movimenti che fanno capo al World Uyghur Congress e all’East Turkestan Information Center (Etic). Le forti divisioni in seno alla comunità uigura facilitano però il compito cinese di deplorare le organizzazioni nazionaliste e denunciare attività illegali.

Gli Stati Uniti, invece, conobbero un’immigrazione uigura solo a partire dagli anni Novanta del XX secolo. A differenza della Turchia, l’ospitalità di Washington si esprime maggiormente in termini politici e di diritti umani esponendo come figura di punta Rebiya Kadeer, appoggiando e finanziando movimenti estremamente politicizzati e anticinesi come la Uyghur American Association e la Uyghur Human Rights Project.

Pechino, dal canto suo, ha sempre cercato di contrastare queste attività extraterritoriali associandole al pericolo, più o meno reale, di un terrorismo di matrice islamica.

Sin dal 1990 le autorità cinesi denunciano numerosi incidenti collegandoli al separatismo uiguro. Tra questi diverse bombe esplose su autobus di linea, assalti a stazioni di polizia, a stazioni ferroviarie, a centri commerciali, scontri organizzati tra manifestanti e forze dell’ordine. La maggior parte di questi atti violenti sono attribuiti all’East Turkestan Islamic Movement (Etim), un gruppo separatista di ispirazione jihadista formatosi nel 1988, ma di cui non è mai stata chiarita la genesi e la storia e che nel 2004 fu iscritto nella lista delle organizzazioni terroristiche dalle Nazioni unite. Il 6 novembre 2020, quando ormai era chiara la vittoria presidenziale di Biden, l’amministrazione Trump, in un ultimo rigurgito anticinese, ha deciso di depennare l’Etim dalla lista nazionale di movimenti del terrore con la motivazione che l’organizzazione non dava più segni di attività da almeno dieci anni. La mossa è stata naturalmente deplorata dalla Cina la quale meno di ventiquattr’ore dopo, attraverso il Quotidiano del Popolo, organo del Pcc, ha salutato la dichiarazione di Trump «Ho vinto io queste elezioni e anche di molto» con l’emoticon ridens accompagnata da un esplicito «HaHa!».

Pochi giorni dopo, al meeting dello Shanghai Cooperation Organization (Sco), ha chiesto agli stati membri (Kazakhstan, Kyrgyzstan, Tajikistan, Uzbekistan, India, Pakistan e Russia) un livello di cooperazione e solidarietà più forte per opporsi alle interferenze provenienti dall’esterno.

Mercato degli animali a Hotan, centro agricolo nel bacino del Tarim. Foto Piergiorgio Pescali.

Case uigure contro case han

Nell’ottica di Pechino, il modo migliore per indurre gli Uiguri ad accettare la presenza del governo centrale e abbandonare le richieste di maggiore autonomia (o indipendenza) era quella dello sviluppo economico. Nel 1999 venne così inaugurato il Great Western Development, un programma di iniziative sociali, culturali ed economiche che avrebbe dovuto dare un forte impulso di modernizzazione all’intera provincia dello Xinjiang. Iniziarono ad essere costruite nuove infrastrutture, venne potenziata la linea ferroviaria, furono realizzate autostrade e nuovi aeroporti internazionali mentre attorno alle città sorsero fabbriche e industrie. Il governo investì in Xinjiang, nei primi dieci anni del XXI secolo, più che in qualunque altra provincia cinese. Inutilmente. Gli Uiguri, così come avevano fatto i Tibetani, accolsero il Great Western Development come un progetto per accelerare la distruzione della loro cultura.

Le vie di comunicazione? Un modo per spostare più velocemente i reparti dell’esercito per soffocare ogni tentativo di protesta secondo gli Uiguri. E in parte era vero.

Le fabbriche? Un modo per arricchire gli Han e gli Hui, visto che la gestione era affidata a loro e si preferiva assoldare manodopera che non fosse uigura. E in gran parte era vero.

Il potenziamento dell’istruzione scolastica? Un modo per costringere gli Uiguri a imparare il mandarino per svilire e dimenticare la propria lingua e le proprie radici. Parzialmente vero.

A Kashgar sorse un movimento che ebbe risonanza anche all’estero per arrestare la demolizione di edifici tradizionali abitati dagli Uiguri. Erano case singole in legno per lo più fatiscenti, fredde d’inverno e torride d’estate, senza rete idrica e fognaria. In cambio l’amministrazione cittadina concedeva a ogni famiglia uigura un appartamento nuovo dotato di tutti i confort moderni: corrente elettrica, bagno in casa, riscaldamento, ampie finestre, ascensori. Dal punto di vista cinese era un’offerta vantaggiosa che non si poteva rifiutare. Ma le case che venivano distrutte erano le case in cui gli Uiguri amavano abitare perché consentivano loro di instaurare un rapporto sociale porta a porta; in quelle case, vecchie, a volte pericolanti, con spifferi da tutte le parti si erano succedute generazioni di famiglie. In questa lotta, in questo modo di vedere il futuro e la socializzazione c’era tutto il divario e l’incomprensione tra le due culture: gli Han modellavano il futuro dello Xinjiang (e, quindi, anche degli Uiguri) secondo il loro modo di vedere, sulla base delle loro esigenze e di quelle nazionali. Logico, allora, che non ci fosse alcun incontro tra le diverse comunità.

Cammelli nella città vecchia di Kashgar. Foto Piergiorgio Pescali.

Chen Quanguo, dal Tibet allo Xinjiang

Un ulteriore drastico cambio della politica cinese nello Xinjiang avvenne tra il 2013 e il 2016. La prima data corrisponde all’ascesa di Xi Jinping alla presidenza della Repubblica popolare. Egli da allora avocò a sé sempre più poteri. La seconda data vide la nomina di Chen Quanguo a segretario del Partito comunista locale. Chen Quanguo si era fatto le ossa nel Tibet dove aveva rafforzato il sistema di sicurezza e di sorveglianza aumentando la presenza della polizia e dell’esercito, ma introducendo anche il sistema della sorveglianza di quartiere: semplici cittadini, possibilmente dello stesso gruppo etnico che doveva essere controllato, erano investiti del ruolo di vigilante riferendo tutto quanto accadeva attorno a loro. Il cambio al vertice del potere nello Xinjiang era assolutamente funzionale agli ambiziosi programmi lanciati a partire dal 2013 da Xi Jinping: la Belt and Road Initiative (Bri, nota come «nuova Via della seta») e il rilancio economico della Cina guardando con maggiore attenzione al rispetto ambientale.

La proposta della Bri era stata avanzata dal presidente cinese in due importanti conferenze: prima quella tenuta nell’Università Nazarbayev, in Kazakhstan (non a caso paese confinante con lo Xinjiang) nel settembre 2013, e poi al parlamento di Giacarta nell’ottobre dello stesso anno. Nella prima si prospettava una serie di collegamenti via terra con l’Europa e il Medio Oriente; nella seconda si lanciava l’idea di nuove rotte marittime verso l’Africa e l’Europa. Nel 2015 le due iniziative vennero accorpate nella Belt and Road Initiative e accolte nello statuto del Partito comunista cinese durante il 19° Congresso del partito nell’ottobre 2017.

Lo Xinjiang diventava, dunque, il baricentro necessario al programma di sviluppo e di espansione dell’economia cinese nel Medio Oriente e in Europa voluto da Xi Jinping per trasformare la Cina in una nazione forte dal punto di vista economico, militare, culturale, sociale, politico e diplomatico.

Per sostenere la propria espansione, il sistema produttivo cinese aveva disperata necessità di trovare fonti energetiche. Dall’inizio degli anni Novanta, lo Xinjiang si era rivelato una delle principali sorgenti da cui ricavare energia senza rivolgersi fuori dai confini nazionali. In pochi anni, la «Nuova frontiera» si trasformò, da arida terra e utile baluardo contro eventuali invasioni provenienti da Occidente, a uno dei cofani più preziosi a cui attingere per far funzionare la macchina economica.

Oggi la regione autonoma è il primo produttore nazionale di petrolio (22% dell’intera produzione cinese), di gas naturale (23%), di carbone (38%), di berillio (usato nell’industria nucleare e aerospaziale), di mica (usata nel settore edilizio e in agricoltura). È il secondo produttore in Cina di energia eolica (20%) ed energia solare e il quarto produttore di energia idroelettrica (5%).

Secondo la road map di Xi, le infrastrutture già esistenti dovrebbero fare da supporto per un ampliamento delle iniziative economiche e commerciali inserite nella Bri. Una ragnatela di oleodotti, gasdotti e reti ferroviarie attraverseranno lo Xinjiang per diramarsi a Nord verso la Russia e a Ovest verso il Mar Caspio, il Medio Oriente, l’Iran e l’Europa. Pur essendo lontano da ogni sbocco marino, dallo Xinjiang parte il corridoio economico Cina-Pakistan, un progetto da 57 miliardi di dollari che collegherà la Cina con il porto di Gwadar e con l’Iran per permettere alla provincia di aprire una via verso l’Oceano Indiano e attingere direttamente al petrolio iraniano.

È quindi iniziata un’intensa campagna di investimenti statali e di propaganda per favorire l’arrivo di industrie straniere e private, con il risultato che, dal 2012 al 2018, il Pil dello Xinjiang è aumentato del 38% (da 750 a 1.220 miliardi di yuan). Oggi una dozzina di industrie europee – tedesche, spagnole, ceche, slovacche, ungheresi e bulgare – hanno uffici, rapporti commerciali o stabilimenti nello Xinjiang.

Piergiorgio Pescali

Ronda di militari per le strade di Kashgar. Foto Piergiorgio Pescali.


La deriva tecnologica

Quando sorvegliare diventa oppressione

Forze di polizia, ma anche controlli biometrici e intelligenza artificiale. Nello Xinjiang si stanno sperimentando tecniche di tracciamento e identificazione molto invasive.

Affinché i progetti di sviluppo vadano a buon fine, occorre che lo Xinjang sia stabile e sicuro. E in questo campo l’esperienza di Chen Quanguo, segretario del Partito nella regione autonoma, è esattamente quel che Xi Jinping cerca. Alla fine del 2016, gli uffici della Pubblica sicurezza dello Xinjiang hanno iniziato a reclutare Uiguri come assistenti di polizia. I candidati venivano allettati dagli alti stipendi (sino a tre volte quello che guadagnava mensilmente un uiguro). Inoltre, l’altissima disoccupazione giovanile, in particolare tra neolaureati nelle università provinciali garantiva un ampio e costante bacino di manodopera da cui attingere tra gli strati medio alti della popolazione.

Molti di coloro che sono stati scelti per il nuovo lavoro si sono ritrovati a controllare direttamente i loro stessi conterranei scendendo nelle strade, frequentando i mercati, sorvegliando i vicini di casa o di quartiere. Si sono spesso dovuti spendere a convincere i loro conoscenti, amici, parenti ad accettare la campagna «Diventare una famiglia», lanciata da Pechino, e ospitare nelle loro stesse case quadri di partito per almeno cinque giorni ogni due mesi. Questi quadri hanno il compito di verificare l’affidabilità delle famiglie e di identificare eventuali elementi sospetti.

Altri Uiguri, invece, sono stati assoldati per una nuova mansione: esaminare e ispezionare filmati, fotografie, intercettazioni audio e video dei loro conterranei.

Chen Quanguo ha inaugurato un nuovo modo di controllo della popolazione utilizzando le più sofisticate tecnologie, compresi i controlli biometrici, e l’intelligenza artificiale (Ai). Lo Xinjiang sembra sia il test preliminare prima di allargare questo sistema di controllo sulle zone più calde della Cina, come Hong Kong.

Parte integrante del processo è un’infrastruttura di aziende hi tech di cui fanno parte, seppur indirettamente, anche aziende europee. La Hikvision, l’azienda specializzata in video sorveglianza e che ha installato telecamere usate dalla polizia nello Xinjiang, ha collaborazioni con la Sony, la Intel, la Texas Instruments. La China Electronic Technology Group, l’azienda che detiene la Hikivision, ha stretto legami commerciali con la Siemens nello sviluppo di tecnologie avanzate nella digitalizzazione, nel networking e nell’automazione. La Xiamen Meiya Pico Information Co, una compagnia del Fujian, ha ideato la «MFsocket», l’app che rileva immagini, audio, geolocalizza, individua contatti telefonici e registra numeri in entrata e in uscita. Dal 2019 si è specializzata anche in Ai e big data e, dal 2004 a oggi, ha addestrato cinquantamila ufficiali del ministero della Pubblica sicurezza nel programma National Cyber Police Training Center oltre che in Indonesia, Malesia, Myanmar, Thailandia, Sri Lanka, Russia, Hong Kong, Singapore, Brasile.

Un venditore di «naan» (pane uiguro) nel quartiere uiguro di Kashgar, in via di demolizione per lasciare posto a nuovi complessi residenziali di stampo cinese. Foto Piergiorgio Pescali.

Terrorismo e campi di rieducazione

Accanto al controllo, al tracciamento e all’identificazione tecnologica dei cittadini, Chen Quanguo ha perfezionato e potenziato ciò che già da tempo esisteva: i campi di rieducazione, di cui Chen non è né l’ideatore e neppure l’iniziatore. Gli ormai celebri Xinjiang papers, pubblicati dal New York Times e che avrebbero svelato l’esistenza di campi di detenzione per i cittadini riottosi alle leggi emanate dal governo, hanno solo rivelato ciò che da tempo si sapeva. Già alla fine degli anni Novanta, si parlava diffusamente di zone, campi, villaggi dedicati alla rieducazione e dove confluivano quelli che il governo chiamava «terroristi» o banditi che erano stati «deviati» dai «tre demoni»: terrorismo, separatismo ed estremismo religioso. All’inizio del XXI secolo era stata ufficializzata la politica del «Colpisci duro, massima pressione» ipotizzata nel 1999 da Qiao Liang e Wang Xiangsui nel loro saggio Guerra senza limiti.

Nel 2006, la Laogai Research Foundation affermava che nello Xinjiang esistevano 69 istituti penali in cui gli internati erano obbligati a lavorare per conto di fabbriche, fattorie sia private che statali, tre campi di internamento riservati ai giovani e dieci campi di rieducazione tramite il lavoro. Gli Xinjiang papers, oltre a confermare questo arcipelago Laogai, hanno fatto scalpore perché erano carteggi fuoriusciti direttamente dal Partito comunista. Secondo i documenti, dal 2017 più di un milione di persone sarebbero state trasferite in un migliaio di campi all’interno dello Xinjiang. Questi erano suddivisi in quattro categorie: campi di rieducazione a bassa sicurezza, campi di rieducazione, centri di detenzione e campi di detenzione di massima sicurezza. Negli anni precedenti, gli attentati terroristici attribuiti agli Uiguri non solo erano aumentati, ma avevano valicato anche i confini dello Xinjiang. Nel 2013 un’auto con tre Uiguri a bordo si era scagliata contro gruppi di turisti in piazza Tienanmen uccidendo due persone e ferendone una quarantina; nel 2014 otto attentatori dello Xinjiang, muniti di coltello, erano entrati nella stazione ferroviaria di Kunming causando la morte di 33 persone e ferendone 140. Nel frattempo, all’interno della provincia si susseguivano altri atti terroristici: nel solo 2014 in totale ci furono una quarantina di morti e più di 100 feriti in diverse azioni compiute da Uiguri.

È in quell’anno che il governo ha deciso di intensificare quello che esso stesso definisce «programma di rieducazione». Pechino, dopo un primo blando tentativo di negare la realtà dei campi, ha ammesso la loro esistenza trovandone la giustificazione nella sicurezza nazionale: è innegabile, infatti, che dal 2017, anno in cui è stata rafforzata la politica di Xi Jinping e di Chen Quanguo, le violenze nello Xinjiang sono pressoché scomparse. Secondo le ormai numerose testimonianze raccolte da autori e ricercatori (molti dei quali con trascorsi decisamente ostili alla politica cinese), i cittadini sospettati di essere «infettati» da uno o più dei «tre demoni» hanno le seguenti caratteristiche: sono di etnia uigura, un’età tra i 15 e i 55 anni, disoccupati, credenti praticanti, hanno almeno un parente in uno stato straniero e hanno visitato o tentato di visitare uno dei 26 paesi considerati politicamente delicati. Particolarmente sotto osservazione sono i villaggi più poveri e isolati. La vita nei campi varia a seconda della persona che la racconta. Per alcuni, i campi sono caratterizzati dalle condizioni più misere e derelitte, una vita fatta di ingiustizie, violenze gratuite, torture, esecuzioni sommarie. Secondo altri, nei campi si vivono invece giornate abbastanza serene, passate effettivamente a studiare e lavorare nelle quali non manca anche il tempo libero.

Dopo essere stata per lungo tempo, terra ignorata e isolata, oggi lo Xinjiang da nuova frontiera si è trasformata in una nuova porta attraverso cui dovrebbe passare il futuro sviluppo economico non solo cinese, ma di tutta l’Asia.

Tuttavia, affinché questo progetto possa essere accolto positivamente, ci sarebbe bisogno che venga costruito coinvolgendo in modo attivo e propositivo tutti gli attori a cui Pechino afferma di rivolgersi.

Piergiorgio Pescali

Volti di etnia kirghiza. Foto Piergiorgio Pescali.


Archivio MC

Hanno firmato questo dossier:

  • PIERGIORGIO PESCALI – Ricercatore scientifico, il suo lavoro lo porta a viaggiare per il mondo collaborando come giornalista con radio, riviste, quotidiani in Europa e in Asia. Sudest asiatico, penisola coreana e Giappone sono le zone che segue con più interesse. È uno dei maggiori conoscitori della Corea del Nord che frequenta con regolarità dal 1996. Sul paese ha recentemente pubblicato La nuova Corea del Nord, come Kim Jong Un sta cambiando il paese (Castelvecchi, 2019). Ha inoltre scritto: Indocina (Emil, 2010), Il custode di Terrasanta. A colloquio con Pierbattista Pizzaballa (Add, 2014), S-21, nella prigione di Pol Pot (La Ponga, 2015). Da anni è fedele collaboratore di MC.
  • A cura di Paolo Moiola – Giornalista, redazione MC.

Una statua di Mao Zedong, il «grande timoniere», a Kashgar. Foto Piergiorgio Pescali.