Preghiera 19. La preghiera traghetta nelle tempeste della vita


Proseguendo la puntata precedente [MC, ottobre 2018], continuiamo l’immersione nella Parola di Dio, pregando con il racconto della tempesta dominata da Gesù, come la racconta Marco (cfr. Mc 4,38-41), il primo degli evangelisti scrittori, che c’impegna in questa e nella prossima puntata del mese di dicembre. Gesù ha un progetto di mondo, di vita e di relazioni che chiama «regno di Dio». Esso riguarda tutta l’umanità, non è riservato a una categoria (religiosa, sociale o etnica), ma per sua natura è universale, quasi a dire che il Dio di cui è testimone si colloca al di sopra di ogni differenza o etnia storica: «Sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te» (Os 11,9). A questo progetto universale di «ben-essere» si oppongono le malattie, il sopruso, la povertà, la morte, la paura, il dubbio dell’assenza di Dio, il senso di abbandono anche da parte di Dio. Tutto attorno crolla, tutto è liquido come il mare. Chi si sveglia nel cuore della notte per recare soccorso? Chi grida al mare di tacere?

Nei Sinottici (Mc, Mt e Lc) il racconto della tempesta sedata è seguito dal racconto dell’esorcismo dell’indemoniato di Geràsa (Mc 5,1-20). Gesù domina le forze della natura (mare e tempesta) e le potenze che sottomettono l’uomo (i demoni). C’è un motivo teologico dietro questo schema: l’uomo Gesù testimonia la potenza di Dio che è sempre in uno «stato di esodo»: libera la creazione e l’umanità dalla schiavitù del male che le imprigiona. L’evangelista attribuisce a Gesù gli stessi poteri che l’AT attribuisce a Dio, creatore dell’universo e liberatore del suo popolo Israele, perché, come lui, impone alle acque di ritirarsi e, come lui, si prende cura di tutti gli Àdam e le Eva di ogni tempo, offrendo loro un giardino di felicità (cfr. Gen 1-3) che chiama «regno di Dio».

Siamo certi che l’interpretazione sia questa perché lo stesso evangelista (cfr. Mc 1,24-27) ha già descritto un racconto di esorcismo con la stessa struttura del racconto della tempesta. Solo leggendo in parallelo i due testi, si rende evidente l’obiettivo spiccatamente teologico di Mc, interessato a presentare Gesù come il rinnovatore dell’intera storia della salvezza. Egli, infatti, con la sua presenza e la sua testimonianza riporta il creato alle condizioni originarie, al loro «principio», domina gli spiriti del male che rendono schiava l’umanità, come fece il serpente nel giardino di Èden (Gen 3). Nello stesso tempo impone la propria autorità agli elementi della natura che gli ubbidiscono come avviene nel racconto sacerdotale della creazione (Gen 1), dove si afferma che tutto esistette in forza della parola: «Dio disse… e così fu» (Gen 1,3-29). «Parola e fatto», in ebraico «Dabàr». In Dio la Parola è sempre un fatto, mai è vana. Questo dovrebbe farci riflettere sul nostro concetto di preghiera, perché spesso le nostre sono solo parole vacue, stanche se non «morte parole».

Due racconti, un insegnamento

Gli ebrei e i cristiani che conoscevano molto bene la Bibbia ebraica e quella greca della LXX, erano spinti in questo modo ad abbinare la persona di Gesù con Yhwh creatore (cosmo), liberatore (esodo) e salvatore (Sinai). Ecco i due racconti in sinossi.

Tempesta sedata (Mc 4,38-41) Schema Esorcismo indemoniato (Mc 1,24-27)
4,38 Lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?». Rimproveri

a Gesù

1,24 «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci! Io so chi tu sei: il santo di Dio!».
4,39 Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Minacce

di Gesù

1,25 E Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!».
4,39b Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Obbedienza

a Gesù

1,26 e

1,27b

E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui…
4,41 41E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare obbediscono?» Timore

e stupore

1,27a

 

1,28

Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!»

Gli stessi rimproveri di Gesù si trovano nella guarigione dell’uomo dalla mano inaridita (cfr. Mc 3,11-12). I due miracoli sono costruiti sullo stesso schema, hanno lo stesso significato e rispondono alla stessa domanda fondamentale: chi è Gesù? Con questi racconti, Mc risponde che Gesù è l’inviato di Dio, mandato a riprendere in mano l’opera creatrice iniziale compromessa da Àdam ed Eva. Questi rimasero sotto l’influsso e il dominio di Satana-serpente, ora il Figlio di Dio libera i loro figli dall’antico serpente/spirito impuro che vive nelle acque inferiori che domina la vita dell’uomo e la natura. La creazione, per responsabilità dei progenitori, fu assoggettata alla decomposizione (cfr. Rm 8,20-23) perché il peccato di Àdam ed Eva immise nel mondo la corruzione, la distruzione e la morte (v. diluvio in Gen 6,5-7,24) rimanendo sotto l’influenza delle potenze malvagie (cfr. Gb 38,1-11; Rm 8,19-23), mentre ora le potenze del male e della natura ritornano a essere sottomesse al «nuovo» creatore, venuto per introdurle in un regime di vita e di risurrezione che si chiama «regno di Dio» e che bisogna conquistare con determinazione (cfr. Lc 16,16 e Mt 11,12).

Preghiera:

Signore, se guardo la mia vita, la mia giornata, il mio lavoro, mi accorgo che, forse più spesso di quanto io stesso non creda, non «sento» la tua presenza e forse ti considero un «intruso», un ostacolo, specialmente quando sono costretto a scegliere tra i princìpi della coerenza credente e gli interessi della logica del mondo, secondo cui «così è la vita o così fan tutti». Mi accontento di una vita ordinaria, oserei dire banale. Spero anche che tu dorma, tranquillo sulla barca e io, pur rischiando, mi adagio nel mare del compromesso, del male minore, del conformismo, del silenzio complice, del «non posso farci niente». Mi è comodo pensare e credere che «il regno» tuo sia qualcosa da venire, oltre la morte, qualcosa che «tanto chi può verificarlo?». In fondo, vado a Messa, qualche volta prego, mi confesso ogni tanto. Di più non posso. Non mi accorgo che non si tratta di più o di meno, ma solo di «essere» e di apparire chi non sono.

Le quattro chiavi di Dio e di Gesù

Gli antichi nella loro concezione del mondo pensavano che il cielo fosse una calotta sferica trasparente capace di trattenere le acque superiori (pioggia), mentre, dalla parte opposta, i mari raccoglievano le acque inferiori, sede degli spiriti maligni e dimora del dragone apocalittico (cfr. Is 27,1; Ap 20,2-3). La calotta sferica celeste poggiava su colonne piantate sulla terra piatta che così formava una membrana divisoria tra «acque superiori» e «acque inferiori» (cfr. Gen 1,7). È lo schema usato da Dante per la Divina Commedia. Scende la pioggia perché Dio, che governa le acque, apre le cateratte del cielo e fa scendere la pioggia. Vi è, invece, la morte causata da carestia e siccità, quando Dio chiude le cateratte col chiavistello. Solo alla luce di questa concezione si capisce il Targum neòfiti (e anche il Targum frammentario) che commenta Gen 30,22 che dice: «Poi Dio si ricordò anche di Rachele, la esaudì e aprì il suo ventre». Così il targumista, ancora al tempo di Gesù, commentava questo versetto nella sinagoga:

Quattro chiavi sono nelle mani di Yhwh, signore dei secoli. Esse non sono affidate nemmeno a un angelo o a un serafino: la chiave della pioggia, la chiave del nutrimento, la chiave dei sepolcri e la chiave della sterilità. La chiave della pioggia perché è detto: Yhwh aprirà per voi il buon tesoro dei cieli (Dt 28,12). La chiave del nutrimento perché è detto: Tu apri la tua mano e sazi ogni vivente (Sal 145,16). La chiave dei sepolcri, perché è detto: Ecco, aprirò i vostri sepolcri e vi farò uscire. La chiave della sterilità, perché è detto: Yhwh si ricordò di Rachele nella sua misericordiosa bontà e Yhwh ascoltò la voce della preghiera di Rachele e decise per la sua parola di darle dei figli.

La tradizione delle quattro chiavi è presente in tutto il vangelo, che, pertanto, non può essere compreso se non alla luce non solo dell’AT, ma anche della tradizione giudaica:

La chiave dell’acqua:
«Disse al mare: “Taci, calmati!”» (Mc 4,39).

La chiave del nutrimento:
«Io sono il pane della vita» (Gv 6,35.48.51).

La chiave dei sepolcri:
«Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà» (Gv 11,25).

La chiave della sterilità:
«Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6); «Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, questi porta molto frutto» (Gv 15,5.2.4.8.16; cfr. Gv 12,24; Mt 13,23; Mc 4,20).

Nota esegetica:

Il termine «chiave» in ebraico si dice «maptèach» il cui acròstico (o natàricon) dà il seguente risultato:

MA       = MA?àr                      = Pioggia
P          = Parnàsa                   = Nutrimento
TEA      = Tehiàt hAmetìm     = Resurrezione dai morti
CH        = CHayyìm                 = Viventi

Le quattro chiavi che Yhwh non affida nemmeno a un angelo, sono nelle mani di Gesù che quindi è fiduciario di Yhwh che rende visibile e con la stessa potenza: in questo modo il vangelo di Marco intende affermare la sua divinità. I primi cristiani, infatti, provenivano dal giudaismo ed era facile che anche negli ambienti ebraici di lingua greca si fossero mantenute non poche tradizioni del giudaismo. Entriamo, ora, nel vivo del Vangelo (Mc 4,35-41) dando una traduzione più attenta, letterale, anche se meno estetica (cfr. Juan Mateos-Fernando Camacho, Il Vangelo di Marco. Analisi linguistica e commento esegetico, vol. 1, Cittadella Editrice, Assisi 1997, 398-515).

Mc 4,35:
«In quel giorno, venuta la sera, disse Gesù loro: “Passiamo all’altra riva”».

La giornata è finita e invece di andarsene a riposare, come sarebbe giusto, Gesù invita i suoi discepoli a passare all’altra riva. Due versetti prima era sceso il buio dell’incomprensione, tanto che ai discepoli aveva dovuto spiegare le sue parabole in privato: «Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa» (Mc 4,33-34). Ciò, forse, può voler dire che per capire bisogna sapere già prima cosa si vuole, perché non c’è sordo peggiore di chi non vuole sentire. Viene sempre la sera come simbolo della morte e impone da sé il bilancio della giornata che anticipa quello della vita. Se si resta fermi dove si è stati non solo non si va avanti, ma si resta indietro. Bisogna avere coscienza che alla fine del proprio dovere, dell’impegno della propria coscienza, dopo che si è fatto tutto quello che potevamo e dovevamo (cfr. Lc 17,10), bisogna con tranquilla pace, avere ancora lo sguardo attento a scorgere «l’altra riva», perché il mondo non è cominciato né finisce con noi; c’è un futuro che aspetta di essere generato. Se è vero come dice Dante: «Ché perder tempo a chi più sa più spiace» (Purg. III,78), è ancora più vero che per il testimone c’è sempre un’altra riva che aspetta e solo l’orante ha barca e remi pronti per partire e arrivare.

La riva è sempre dall’altra parte se siamo disposti a «passare» le acque, cioè l’instabilità, l’insicurezza, la fragilità, l’incertezza, la paura di affogare, la mancanza di forze o forse di coraggio: in una parola, superare noi stessi. «Passare all’altra riva», significa non fermarsi e non smarrirsi su ieri e sul passato su cui non abbiamo alcun potere, ma assumere la dolcezza intrigante dell’avventura del domani e cominciare a esplorare la vita che non c’è ancora, nel segno dello Spirito che guarda al Regno di Dio, non al teatro delle debolezze umane. Pregare è «passare oltre» che è il significato di «Pesàch – Pasqua». Pregare, cioè andare all’altra riva, è, dunque, un comandamento di risurrezione, un’esigenza della vita e una vocazione alla disponibilità dell’accoglienza di ciò che la Provvidenza propone. I genitori che volessero i figli uguali e identici a se stessi, si illudono di potere fermare la vita, perché i figli sono già «oltre» i loro sogni e i loro orizzonti: sono «immagine e somiglianza di Dio» che essi possono solo adorare, contemplare, amare, sostenere, guidare. Mai fermare. Se è vero che senza passato non possiamo concepire il futuro – in questo senso il futuro è dietro di noi – quando ci avventuriamo nei sentieri imprevedibili di Dio, dobbiamo lanciarci non solo verso il futuro, ma addirittura verso l’escatologia, cioè verso il compimento finale che è la pienezza del passato e del presente. Il «regno di Dio», appunto.

Mc 4,36:
«Lasciando la folla, lo portarono via così com’era, nella barca, mentre stavano altre barche con lui».

Il successo, la vanità, l’auto-celebrazione sono fuori della logica di Gesù e del missionario-testimone. Queste debolezze sono tipiche del mondo pagano e dell’ambiente clericale-curiale che confonde la «Gloria di Dio» con la propria vanagloria; anzi, fa della «Gloria di Dio» il trono della propria vanità. Gesù non ha niente da portare con sé, se non se stesso: «lo presero con sé così com’era». Egli non è appesantito da bagagli e da bisogni: il suo bisogno è «andare all’altra riva», avanti a sé, nella barca, dove può anche apparire assente, se non si sa cogliere la sua presenza e le esigenze del suo essere. Per sfuggire all’inganno dell’illusione, è necessario avere qualcuno che «ci prenda con sé e ci porti sulla barca». Da soli possiamo più facilmente sbagliare, ma se ci lasciamo accompagnare da altri, allora è facile salvarsi. Nei momenti di fallimento, bisogna anche sapersi lasciare condurre, affidandosi. Noi, ciascuno di noi, siamo i custodi dell’altro che, per natura, ma lo diventa anche per grazia, è «la parte migliore di noi». Custodendo l’altro nella barca, cioè nella Chiesa, negli affetti, nella relazione, nell’amore, nel dovere, nell’amicizia, nel servizio, custodiamo il cuore di Dio e diventiamo «padri/madri adottivi» di quanti incontriamo. Gesù è capace di separazione e di lasciarsi trasportare dai discepoli che lo allontanano dalla folla e dalle altre barche. Quando l’autorità che governa la Chiesa saprà, sull’esempio di Gesù, affidarsi e fidarsi dei propri figli e discepoli, quel giorno, cominceranno a sorgere la terra e i cieli nuovi previsti dal profeta (cfr. Is 65,17; 66,22).

Preghiera attualizzante

Anche per me scende la sera e ho davanti due possibilità: dormire o passare all’altra riva. Alla presenza dello Spirito, cerco d’individuare le volte e le ragioni in cui mi sono addormentato per essere comodo, non disturbato e in che circostanze e con quali motivazioni, invece, ho deciso di passare all’altra riva.

La folla, cioè il bisogno di conferma, di approvazione o di adulazione o di sentirsi indispensabile, quanto posto occupa nella mia vita, nell’operare il mio lavoro, il ministero? Mi lascio portare come sono dallo Spirito o devo avere tutto sotto controllo perché «senza di me nulla è possibile fare?». Il mio potere di accentramento in una scala da 1 a 10, a che misura lo colloco?

La vanità è un valore per me? È così importante da adularla anche facendo finta di essere umile? Mi sono mai servito di «Dio» per imporre il mio pensiero, una mia idea, un mio sopruso?

Signore Gesù, custode delle quattro chiavi di Dio (acqua, pane, morte e vita), tu «che scruti le reni e il cuore» (Ger 11,20) e «conosci il mio cuore e i miei pensieri» (Sal 139/138,23), fa che nulla mi distragga da te e dal mio cammino verso di te perché possa imparare a imitarti come solo lo Spirito tuo può indicarmi e non la vanità che spesso si annida nelle forme più subdole di una spiritualità accomodante.

L’Eucaristia racchiude tutte e quattro le chiavi perché spezza il pane, disseta con acqua e vino, dona la vita e sconfigge la morte. Quante volte la «uso» con leggerezza, con abitudine, con distrazione, con fretta perché «urge» altro nella mia vita? Quante volte ho fatto in fretta per «sistemare le cose con te» e poi potermi dedicare ai miei affari, alle mie capacità, cioè ai miei interessi?

Temo la solitudine perché ho paura di me e questa non può che essere terrore di te, e per tenerti buono cerco di comprarti in qualche modo con preghiere raccogliticce, con tempi-scarto, dedicandomi a te tra un affare e l’altro. Signore, è tempo di purificazione e di verità, è tempo per me che io passi all’altra riva dentro la tua barca, così come sono. Signore, per favore, prendimi per mano e precedimi perché da solo non sono in grado e io sono troppo lontano anche dagli altri, dalla mia comunità, da quella Chiesa che spesso uso come stazione ferroviaria per timbrare un biglietto per un treno che non mi porta a te, ma mi fa tornare a me stesso. Sì, andiamo all’altra riva. Andiamo insieme, Signore Gesù: «Maranàh, thà. Signore, Vieni!» (1Cor16,22).

Paolo Farinella, prete
[La Preghiera, continua-9].




Preghiera 18. Pregare: lasciarsi accostare dalla Parola e… dalla volpe


Nella 4ª puntata del maggio scorso abbiamo commentato il racconto della tempesta del mare di Mt 14,22-33 nel quale Gesù fu scambiato per un «fantasma», cioè un’inconsistenza, fonte di paura. Per restare sempre sul tema «mare», oggi proviamo ad accostarci al testo di Mc 4,35-41 (che trova i paralleli sinottici in Mt 8,18.23-27 e Lc 8,22-25). Considerata, però, la ricchezza del brano, dobbiamo dividerlo in due puntate (questa e la prossima, di novembre 2018).

Il progetto del regno di Dio e i suoi ostacoli

Purtroppo, non conoscendo la Scrittura e abituati a una lettura superficiale e letterale, siamo propensi a leggere i Vangeli come racconti storici, senza alcun «distinguo». Anche senza volerlo, in questo modo, vanifichiamo il significato che l’autore o gli autori hanno inteso dare ai loro racconti che non sono finalizzati a fare «la storia di Gesù», ma a dire chi è Gesù per loro, per chi crede in lui e per chi vorrà credere in futuro: «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!» (Gv 20,29). In parole semplici, i Vangeli hanno lo scopo di suscitare interesse per la persona di Gesù con l’obiettivo, volendogli bene, di assumere il suo messaggio come criterio di vita e progetto sociale: costruire un mondo «su misura di Dio» che significa solamente impegnarsi a fare della terra il «giardino di Èden» che Dio ha avuto in mente fin dall’eternità per tutto il genere umano di tutti i tempi.

Costruire il regno di Dio, significa appunto fondare i rapporti umani e relazionali sulla roccia della condivisione, della fraternità e della giustizia. Il mondo laico, pur con le sue contraddizioni, misfatti, genocidi e aberrazioni atroci, ci ha provato diverse volte: con la rivoluzione francese del 1789 ad esempio, e con il motto «Liberté, Égalité, Fraternité». Anche con la rivoluzione russa del 1917/18, che, col progetto del messianismo mondiale, ha cambiato il corso della storia (e sappiamo come, proprio perché nessuno seppe cogliere l’enorme massa di speranza che aveva seminato, neanche purtroppo la Chiesa). La mattanza sulla quale la rivoluzione russa si è fondata non elimina l’anelito di giustizia messianica che portava. È necessario, infatti, che la prospettiva «rivoluzionaria» superi l’orizzonte della «sostituzione»: scalzare questi per metterci quelli, escludendo il «bene comune», unica prospettiva di decenza umana. Il Vangelo non ci dice solo che Gesù ha fatto miracoli strepitosi o risuscitato morti, ma attraverso questi modi di narrare, che Pio XII chiamò per la prima volta, in maniera ufficiale, «generi letterari», ci vuole fare sperimentare che lui è la «novità», il kairòs della nuova irruzione di Dio nella storia, la sua Presenza:

«Quale sia il senso letterale di uno scritto, spesso non è così ovvio nelle parole degli antichi orientali com’è per esempio negli scrittori dei nostri tempi… l’interprete deve quasi tornare con la mente a quei remoti secoli dell’Oriente e con l’appoggio della storia, dell’archeologia, dell’etnologia e di altre scienze, nettamente discernere quali generi letterari abbiano voluto adoperare gli scrittori di quella remota età. Infatti gli antichi Orientali per esprimere i loro concetti non sempre usarono quelle forme o generi del dire, che usiamo noi oggi; ma piuttosto quelle ch’erano in uso tra le persone dei loro tempi e dei loro paesi. Quali esse siano, l’esegeta non lo può stabilire a priori, ma solo dietro un’accurata ricognizione delle antiche letterature d’Oriente» (Divino Afflante Spiritu, Enciclica, 30-09-1943, parte II, § 3).

Con questa premessa, ci accingiamo a pregare con il seguente brano:

Mc 4,35Venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: «Passiamo all’altra riva». 36E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui. 37Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. 38Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti»? 39Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. 40Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». 41E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare obbediscono?».

Passi lenti e profondi

  1° passo

Non fermarsi al solo testo indicato, ma vedere cosa precede e cosa segue per comprendere il contesto prossimo e remoto del brano. Il racconto della traversata del mare è preceduto dalle parabole del regno: il seme e le varie tipologie di terreno con relativa spiegazione ai discepoli; la lampada sotto il moggio o sopra il candelabro; di nuovo il seme che cresce, anche se il contadino dorme; il granello di senape (Mc 4,1-34). Il brano è seguito da racconti di guarigione: due indemoniati (Mc 5,1-20); l’inizio del racconto della guarigione della figlia del capo della sinagoga, Giàiro (Mc 5,21-24); un intermezzo con la guarigione della donna con perdite di sangue (Mc 5,25-37); ripresa del racconto di guarigione della figlia di Giàiro (Mc 5,38-43) e le non guarigioni per mancanza di fede a Nazareth (Mc 6,1-6). Questo è il contesto, prossimo e remoto: da una parte c’è il progetto (seme, lampada, senape), dall’altra gli ostacoli e la resistenza (malattia, schiavitù/indemoniati, morte, incredulità). Non abbiamo qui lo spazio per mettere a confronto Mc con Mt e Lc ed evidenziare la diversità di obiettivi e di lettura del materiale stesso, per cui ci limitiamo solo a Mc.

  2° passo

Individuato il contesto, leggere il brano tenendo conto dell’insieme e cercando di leggere le connessioni tra le diverse parti, in base al principio che se l’autore ha scelto «questa» composizione, aveva in mente una visione, un obiettivo, una strategia. Quale potrebbe essere, secondo me?

  3° passo

Rileggere il testo, così contestualizzato, e cercarne il senso nel contesto della mia vita e del mio tempo. La Parola di Dio, infatti, è per me «qui e adesso», una Parola rivolta alla mia intelligenza, al mio cuore, alla mia ragione per viverla oggi, nella mia vita e nel contesto della storia del mio tempo.

  • Quale tempesta rovescia oggi le barche in mezzo al mare?
  • Chi dorme sul cuscino?
  • Chi si sveglia e tiene a bada il mare, facendo cessare il pericolo?
  • Dove sto io?
  • Se Gesù non fosse stato sulla barca «così come era», cosa sarebbe successo?
  • È lecito domandarsi se questo brano, proclamato nella Liturgia nella 12a domenica del tempo ordinario dell’anno B, abbia un impatto su quello che sta avvenendo nel «Mare Mediterraneo»? Oppure questa osservazione mi dà fastidio? Perché?
  • Quasi sempre la Parola di Dio non è casuale, ma come «spada a doppio taglio» (Eb 4,12), inchioda alla domanda di fondo: «Chi sono io?». È lecito di fronte a questo testo chiedersi: se Gesù fosse su una barca in pieno Mediterraneo, cosa farebbe? Poiché credere in lui significa «imitarlo», le conseguenze pratiche non sono neutre per la fede.

  4° passo

Rileggere lentamente e individuare le parole, specialmente i verbi, ma anche le altre parti del discorso, che sembrano più attinenti alla nostra condizione. Esclusi i verbi ausiliari e servili, restano 21 verbi che esprimono altrettante azioni, cioè movimenti, emozioni, decisioni, scelte. Ci limitiamo ad essi: passare, congedare, prendere con sé, rovesciarsi, essere pieno, starsene, dormire, svegliare, importarsi, essere perduti, destarsi, minacciare, tacere, calmarsi, cessare, avere paura, non avere fede, intimorirsi, essere, obbedire. Quale emozione suscita in me, ogni singola azione, espressa dal verbo? Tra di essi ce n’è uno che mi qualifica in modo particolare? Rileggo la mia vita alla luce del verbo o dei verbi per me qualificanti, in base al passo seguente.

  5° passo

Il criterio di Ezechiele: mangiare la parola, esattamente come si mangia l’Eucaristia, che poi sono la stessa cosa, perché, come Lc 24 narra nel racconto dei discepoli di Èmmaus, udire la Parola e spezzare il pane sono modi diversi della stessa intimità. Nell’Eucaristia noi facciamo due volte la «comunione»: una volta con le orecchie, ascoltando la Parola-Lògos che è il Figlio, proclamato sul mondo e una volta con la bocca, mangiando il pane e bevendo il vino, simboli reali dell’intima unione, attraverso la Chiesa, del genere umano con Dio (Lumen Gentium, 1).

«2,1Mi disse: “Figlio dell’uomo, alzati, ti voglio parlare”. 2A queste parole, uno spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi e io ascoltai colui che mi parlava… “apri la bocca e mangia ciò che io ti do”. 9Io guardai, ed ecco, una mano tesa verso di me teneva un rotolo. 10Lo spiegò davanti a me; era scritto da una parte e dall’altra… 3,1Mi disse: “Figlio dell’uomo, mangia ciò che ti sta davanti, mangia questo rotolo, poi va’ e parla alla casa d’Israele”. 2Io aprii la bocca ed egli mi fece mangiare quel rotolo, 3dicendomi: “Figlio dell’uomo, nutri il tuo ventre e riempi le tue viscere con questo rotolo che ti porgo”. Io lo mangiai: fu per la mia bocca dolce come il miele. 4Poi egli mi disse: “Figlio dell’uomo, va’, recati alla casa d’Israele e riferisci loro le mie parole”» (Ez 1,1.9-10; 3,1-4).

Il criterio di Ezechiele

Nel criterio di Ezechiele vi è una concatenazione logica ferrea: il parlare di Dio genera l’irruzione del suo spirito nel profeta che deve alzarsi in piedi, la posizione dell’orante, pronto all’ascolto. Le azioni conseguenti sono: aprire la bocca e mangiare il rotolo, che – attenzione! – è scritto davanti e dietro, cioè è parola abbondante e completa. Dopo aver mangiato non ci si può fermare a fare la pennichella, ma bisogna andare, andare alla comunità con la quale condividere ciò che si è mangiato. Gesù ha un progetto che si chiama «regno di Dio» e riguarda tutta l’umanità. Vi si oppongono le malattie, il sopruso, la povertà, la morte, la paura, il senso di abbandono anche da parte di Dio, il dubbio stesso dell’assenza di Dio. Tutto attorno crolla, tutto è liquido come il mare. Chi si sveglia nel cuore della notte per recare soccorso? Chi grida al mare di tacere per non mettere a rischio la vita dei discepoli?

Nel progetto di Dio non si mangia per saziarsi, nessuno è chiuso in sé, si mangia per vivere, per andare, per condividere: «Prendete e mangiate; questo è il mio corpo. [Prendete e] bevetene tutti… questo è il mio sangue dell’alleanza» (Mt 26,26-28). Tutto è connesso e tutto si tiene: l’ascolto/mangiare, prendere coscienza e andare in missione nel mondo a dire con la vita che Gesù «è il Signore» (Gv 21,7). Ascoltare e mangiare, nella Bibbia, sono sinonimi perché bisogna «stare sulla Parola» (Gv 8,31), ruminarla, sminuzzarla, assaporarla lettera per lettera, iota per iota, fino a sentirne la dolcezza del miele e il sapore del fiele, il doppio taglio della Parola-spada (Eb 12,4) se vogliamo giungere al «monte di Dio» e stare alla sua presenza:

«7Tornò per la seconda volta l’angelo del Signore, toccò Elia e gli disse: “Alzati, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino”. 8Si alzò, mangiò e bevve. Con la forza di quel cibo camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb» (1Re 19,7-8).

Solo così il profeta può sperimentare la presenza di Dio in tutta la sua gloria e fare l’esperienza della «voce di silenzio sottile», dopo il vento impetuoso, il terremoto e il fuoco (cfr. 1Re 19,11-13). Se pregare è vivere l’esperienza della Shekinàh, o Dimora o Presenza, è indispensabile arrivarci, ascoltando e mangiando, in una parola interiorizzando. Ascoltare significa «portare dentro di sé la Parola» che è la Persona di Gesù e mangiare significa «portare dentro il cibo» che è la vita stessa di Dio. Chi mangia lo stesso cibo diventa la stessa realtà. Qui è il punto focale dell’intimità che può essere solo personale, vissuta «nel deserto» come spazio senza occhi indiscreti, senza curiosi, senza distrazioni di superficialità. Tutto ciò esige tempo, tempo, tempo… come insegna la volpe al Piccolo Principe, contro la logica della nostra epoca, in cui «non abbiamo mai tempo…»:

«“Addio”, disse la volpe. “Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”. “L’essenziale è invisibile agli occhi”, ripeté il piccolo principe, per ricordarselo. “È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante”. “È il tempo che ho perduto per la mia rosa…” sussurrò il piccolo principe per ricordarselo»
(v. più avanti il testo integrale).

Perdere tempo.
Perdere tempo per la persona amata

Questo è il segreto, l’unico che coglie il cuore della vita. Quando noi riserviamo a Dio gli scampoli del nostro tempo, quando controlliamo l’orologio perché «bisogna fare in fretta», quando la Liturgia delle Ore o l’Eucaristia sono contingentati perché «abbiamo tante cose da fare», allora è inevitabile rifugiarsi nelle formule, negli orari, nel rituale perché ci sentiamo protetti e scusati: fatto il nostro dovere, esattamente come qualsiasi salariato, abbiamo pagato il nostro debito. Abbiamo praticato molto, ma non abbiamo amato. Perdere tempo esige silenzio e svuotamento della polvere che ricopre le nostre morte parole (Tagore). Perdere tempo esige avere coscienza di essere l’altra metà di Dio, senza della quale la sua identità come la nostra sono vanificate, annullate.

C’è una pagina mirabile nel «Piccolo Principe», in cui si stabiliscono le regole dell’amicizia «addomesticata» fino a quando gli amici non diventino «unici» tra tutti gli esseri umani. Ho mai pensato di «addomesticare» Dio, riducendo le distanze giorno dopo giorno? Ho mai udito i suoi passi nel giardino della mia vita (Gen 3,8)? Ho mai detto a Dio espressamente: «Per favore, addomesticami!»? Oppure in quella che chiamiamo preghiera personale o corale, mi limito a leggere quanto è prescritto, come se fosse un compito di scuola? «Non si conoscono che le cose che si addomesticano… Gli uomini [e le donne] non hanno più tempo…».

Questo brano, tratto dal «Piccolo Principe», vale più di un trattato sulla preghiera, con l’augurio che ciascuno possa applicarlo al proprio modo di pregare, al proprio tempo di pregare, al proprio Dio che immagina di pregare, perché non è detto, non è scontato, che noi preghiamo il Dio, «Padre del Signore nostro Gesù Cristo» (Rm 15,6). Leggendo la catechesi della volpe al piccolo principe, proviamo a capire se non parliamo con noi stessi in una forma di narcisismo che è la negazione della natura della preghiera che è solo ed esclusivamente, perdere tempo per la persona amata, perdere vita e desiderio, e anelito e passione per chi vogliamo sia importante per noi.

Maestra volpe…

«In quel momento apparve la volpe. “Buon giorno”, disse la volpe. “Buon giorno”, rispose gentilmente il piccolo principe, voltandosi: ma non vide nessuno. “Sono qui”, disse la voce, “sotto al melo…”. “Chi sei?” domandò il piccolo principe, “sei molto carino…”. “Sono la volpe”, disse la volpe. “Vieni a giocare con me”, disse la volpe, “non sono addomesticata”. “Ah! scusa “, fece il piccolo principe. Ma dopo un momento di riflessione soggiunse: “Che cosa vuol dire addomesticare?”. “Non sei di queste parti, tu”, disse la volpe “che cosa cerchi?”. “Cerco gli uomini”, disse il piccolo principe. “Che cosa vuol dire addomesticare?…”. “Tu, fino ad ora per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo”. “Comincio a capire”, disse il piccolo principe.

“C’è un fiore…. Credo che mi abbia addomesticato…”. “È possibile”, disse la volpe, “capita di tutto sulla terra”. “Non c’è niente di perfetto”, sospirò la volpe. “La mia vita è monotona… E io mi annoio per ciò. Ma se tu mi addomestichi la mia vita, sarà come illuminata. Conoscerò il rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi faranno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica… Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano…”. La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe: “Per favore… addomesticami”, disse. “Volentieri”, rispose il piccolo principe, “ma non ho molto tempo, però. Ho da scoprire degli amici e da conoscere molte cose”.

“Non si conoscono che le cose che si addomesticano”, disse la volpe. “Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico addomesticami!”. “Che bisogna fare?” domandò il piccolo principe. “Bisogna essere molto pazienti”, rispose la volpe. “In principio tu ti siederai un po’ lontano da me, così, nell’erba. Io ti guarderò con la coda dell’occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po’ più vicino…”. Il piccolo principe ritornò l’indomani. “Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora”, disse la volpe. “Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi, alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore… Ci vogliono i riti”. “Che cos’è un rito?” disse il piccolo principe. “Anche questa è una cosa da tempo dimenticata”, disse la volpe. “È quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora dalle altre ore… Così il piccolo principe addomesticò la volpe. E quando l’ora della partenza fu vicina: “Ah!” disse la volpe, “…Piangerò”. “La colpa è tua”, disse il piccolo principe, “Io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi…”. “È vero”, disse la volpe. “Ma piangerai!” disse il piccolo principe. “È certo”, disse la volpe. “Ma allora che ci guadagni?”. “Ci guadagno”, disse la volpe, “il colore del grano”. Soggiunse: “Va’ a rivedere le rose. Capirai che la tua è unica al mondo”. “Quando ritornerai a dirmi addio ti regalerò un segreto…”. “Addio”, disse. “Addio”, disse la volpe. “Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”.

“L’essenziale è invisibile agli occhi”, ripeté il piccolo principe, per ricordarselo. “È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante”. “È il tempo che ho perduto per la mia rosa…” sussurrò il piccolo principe per ricordarselo. “Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa…”. “Io sono responsabile della mia rosa… ripeté il piccolo principe per ricordarselo» (Da Antornine Saint-Exupéry, de, Il piccolo principe, Gruppo editoriale Fabbri, Bompiani, Sozogno, Etas S.p.A., Milano 1985, 11, 91-98).

Paolo Farinella, prete
[La Preghiera, continua-18]




Preghiera 17: Pregare: una vocazione ecclesiale


La preghiera è una «vocazione», non è mai un dovere o un obbligo, perché non si può amare per obbligo: solo gli schiavi sono «obbligati» ad amare e il loro sarà comunque un atteggiamento solo esteriore, proprio perché imposto. La preghiera si colloca sul versante dell’amore e quindi deve essere libera nel dono, passionale nell’intensità, autentica nella verità, totale nell’abbandono. Essa è anche la discriminante tra «paganesimo» e «fede»: il primo, che si annida dentro ogni «religione», abbonda di formule e di «adempimenti», come eseguire perfettamente orari, regole e ritmi. Vi possono essere più miscredenti farisei nelle chiese, monasteri e conventi che tra la folla di un circo. Il fariseismo che è l’altro nome dell’irreligiosità è sempre in agguato e si veste del suo abito proprio: il formalismo, che, per sua natura, è vuoto e privo di anima.

Pregare è essere chiamati da…

Se la preghiera è una vocazione, ci deve essere uno che chiama/invita/convoca e uno che risponde/accetta o rifiuta. Questa dinamica si chiama relazione fiduciale, colloquio affettivo. Non nasce a caso, ma sgorga dal cuore stesso di Dio che così fonda la sua alleanza «nuova ed eterna» (Ger 31,31; Canone dell’Eucaristia; cfr. Lc 22,20). Sta qui la natura della Chiesa che da questo movimento nasce come desiderio di Dio.

Nota esegetica.

Nel NT vi sono due parole sulle quali spesso sorvoliamo superficialmente e che invece sono strettamente legate, a partire dal significato etimologico. A nostro avviso sono il fondamento fondativo della «preghiera». Le parole sono: «Chiesa» e «Paràclito» perché derivano dallo stesso verbo greco «kalé? – chiamo / parlo / dico», nel suo senso di base. Esaminiamole brevemente tutte e due.

Premettendo al verbo «kalé?» il prefisso «ek- da» (preposizione di origine o di moto da luogo) si ha il verbo composto «ek-kalé? – ri-chiamo/in-vito/con-voco da…/da parte di… [Dio]». Da questo verbo si forma la parola greca «ek-kl?sía», che ha il significato originario di «ri-chiamata/in-vitata/con-vocata da…». Nella tragedia «Oreste», Euripide (485-407/6 a.C.) usa l’espressione «ékkl?tos òchlos» nel senso proprio di «folla/assemblea convocata/radunata» (cfr. Lorenzo Rocci, Vocabolario Greco-Italiano, ad vocem). Dal greco si passa al latino eccl?s?a, da cui derivano le traduzioni neolatine «chiesa, eglise, iglesia, església, igreja, ecc. (non il tedesco «Kirke» che deriva da «Kýrios – Signore» o l’inglese «Church» che risale all’antico sassone «Cirice – riunione/chiesa»). La Chiesa è «la chiamata, la radunata, la convocata, la riunita dallo Spirito di Dio attorno al Lògos/Parola che è Gesù. Di tutto questo l’Assemblea eucaristica è sacramento, simbolo, presenza, esperienza e testimonianza.

Premettendo al verbo «kalé?» il prefisso «parà- in favore di…/a nome di…/accanto a…», si ha la parola: «Parà-kalè? – chiamo/parlo/invito/in favore di… o a nome di… qualcuno» che per estensione diventa «avvocato – colui che difende qualcuno perché parla in suo favore o difesa». Da esso deriva anche l’aggettivo verbale «Parà-kl?tos – paràcleto/paràclito», che, sia nella tradizione biblica sia in quella giudaica, compresi Giuseppe Flavio e Filone, ha sempre il significato di intercessore e consigliere. In tutto il NT ricorre solo cinque volte e soltanto in Gv, quattro volte nei discorsi di addio (cfr. Gv 14,16.26; 15,26; 16,7; 1Gv 2,1). San Paolo usa l’aggettivo verbale da solo, «kl?tos – chiamato» per indicare la propria vocazione di apostolo (cfr. Rm 1,1; 1Cor 1,1) e quella dei credenti in Cristo, che pone sullo stesso piano (cfr. Rm 1,2; 1Cor 1,2.24). Nella Bibbia greca della LXX si trova 2 volte (cfr. Gb 16,2; Zc 1,13). Di norma traduce l’ebraico «Qahàl-adunanza/assemblea». Il lemma è prevalente di Gv, il quale gli attribuisce un’importanza particolare che tocca a noi capire.

Nel sistema giudiziario semitico, il «consolatore» è una figura giuridica e richiama quella dell’AT del «go’el – vendicatore/riscattatore/redentore». Quando un accusato veniva deferito in giudizio davanti agli anziani radunati alla porta della città, se uno dei giudici, stimato e autorevole, si alzava e andava a collocarsi «accanto» all’imputato, senza nemmeno proferire una sola parola, quell’uomo era salvo sulla garanzia dell’onorabilità di colui che «ri-»vendicava la sua innocenza sul suo onore e la sua credibilità. La figura del «paràclito» è dunque una figura stimata per la sua dirittura e autorevolezza che tutti gli riconoscono: un uomo il cui giudizio è inappellabile e in questo senso ha una valenza giuridica particolare. In questo contesto il «consolatore/redentore» è anche «avvocato» perché prende le difese di qualcuno e testimonia in suo favore. In 1Gv 2,1 «paràclito» è un attributo di Gesù, qualificato come giusto: «Se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto». Tutte le altre quattro occorrenze sono riferite allo Spirito Santo come è detto espressamente al v. 26. Perché? Nella risposta a questa domanda risiede la comprensione della festa della Pentecoste cristiana. L’affinità semantica tra «ek-klesìa» e «parà-clito» non è solo linguistica, ma anche funzionale, indica una reciprocità che bisogna mettere in luce.

«Ek-kl?sía» e «Parà-kl?tos», dunque, hanno la stessa radice e questo dovrebbe aprirci un orizzonte nuovo non solo sulla natura della Chiesa, ma anche sulla preghiera. L’ekkl?sía, infatti, non è una struttura, ma è [l’assemblea] radunata/ convocata/riunita da Dio, il cui fondamento e origine è il Paràkl?tos, il Consolatore, il Convocatore. Se la Chiesa è per sua natura «chiamata e convocata», la preghiera è l’atto, la realizzazione di questa convocazione o chiamata, cioè la risposta alla proposta di Dio d’incontrarsi, anzi di «vedersi» per realizzare il sogno/desiderio dei Greci espresso a Filippo: «Vogliamo vedere Gesù» (Gv 12,21). Non si tratta di un desiderio per una visione estetica, come se si fosse in un museo, ma di una visione che è trasfusione di sguardi, di linfa, di confidenze, di parole, di sentimenti, di vita.

Ogni volta che ciascuno di noi «prega», risponde a un impulso, una chiamata del Paràclito che, in lui/lei, anche se da solo o sola, convoca l’Assemblea santa per dare a Dio l’opportunità di riposarsi nel «settimo giorno» (cfr. Gen 2,2-3) della preghiera, contemplando il volto e ascoltando i sentimenti dell’amore effuso sul mondo. L’orante è la sentinella sugli spalti del mondo, mentre questo è distratto e dispersivo, incurante e blasfemo, pieno di sé e attento solo a sé per vigilare, vegliare, impetrare misericordia, offrendo se stessi come «sacrificio di lode» (cfr. Sal 116/115,17; Eb 13,15). Se vedessimo la preghiera come la nostra disponibilità di «dare riposo» a Dio, ogni nostra prospettiva cambierebbe.

© Benedetto Bellesi

Essere chiamati e rispondere

Proviamo ad esercitarci a pregare con un testo classico: la stupenda pagina della vocazione di Samuele (cfr. 1Sam 3,4-11) che ha la dinamica puntuale di un percorso personale finalizzato alla comunità. Il testo ancora oggi costituisce una delle pagine più sublimi di tutta la Scrittura per descrivere che uno è chiamato non per se stesso, ma per esercitare una funzione profetica nella comunità. Nel racconto s’intrecciano diverse dinamiche che meritano di essere sottolineate.

«Il Signore chiamò: “Samuele!” ed egli rispose: “Eccomi”, 5poi corse da Eli e gli disse: “Mi hai chiamato, eccomi!”. Egli rispose: “Non ti ho chiamato, torna a dormire!”. Tornò e si mise a dormire. 6Ma il Signore chiamò di nuovo: “Samuele!”; Samuele si alzò e corse da Eli dicendo: “Mi hai chiamato, eccomi!”. Ma quello rispose di nuovo: “Non ti ho chiamato, figlio mio, torna a dormire!”. 7In realtà Samuele fino ad allora non aveva ancora conosciuto il Signore, né gli era stata ancora rivelata la parola del Signore. 8Il Signore tornò a chiamare: “Samuele!” per la terza volta; questi si alzò nuovamente e corse da Eli dicendo: “Mi hai chiamato, eccomi!”. Allora Eli comprese che il Signore chiamava il giovane. 9Eli disse a Samuele: “Vattene a dormire e, se ti chiamerà, dirai: “Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta”. Samuele andò a dormire al suo posto. 10Venne il Signore, stette accanto a lui e lo chiamò come le altre volte: “Samuele, Samuele!”. Samuele rispose subito: “Parla, perché il tuo servo ti ascolta”. 11Allora il Signore disse a Samuele: “Ecco, io sto per fare in Israele una cosa che risuonerà negli orecchi di chiunque l’udrà”» (1Sam 3,4-11).

Nota esegetica.

Il profeta Samuele opera tra il 1075 e il 1035 a.C. (qualcuno lo colloca anche un secolo dopo), fu lacerato tra la monarchia e l’anti monarchia, tra il ritorno allo stile nomade delle origini, rappresentato dal suo maestro Eli, e la vita agricola e sedentaria piena di tentazioni di sicurezza e violenza. Egli vive la sua vocazione come lacerazione, sacrificio di dover sempre scegliere tra due opposti: la politica quotidiana e la mistica. Egli, nonostante la lacerazione interiore non separò mai i due aspetti, ma ne visse la fatica quotidiana, affrontandola con lo strumento del discernimento. Questo è il compito della preghiera: illimpidire lo sguardo dell’orante perché possa vedere con verità gli eventi della storia e valutarli nella libertà della propria coscienza.

Nota metodologica.

Dopo avere letto il testo una volta, per capirne il senso, e poi riletto una seconda volta più lentamente per afferrarne l’intensità, occorre rileggere per la terza volta, molto lentamente, facendo corrispondere più che sia possibile la lettura con il respiro e nel frattempo, con la fantasia, trovare all’interno del testo il proprio «dove». Questa Parola è per me, adesso e qui.
• Dove sono io?
• Dove mi piacerebbe essere nel testo da protagonista? • Mi sento più Dio che chiama? Se sì, perché?
• Mi sento Samuele, il chiamato? Perché?
• O Eli, il maestro e testimone, presente-assente, che guida e non si sostituisce, che indica e non determina il cammino del discepolo né si fa interprete di Dio?

Dopo avere riletto per la quarta volta il testo contando solo i verbi, quale di questi è più corrispondente al mio stato attuale?

«Il Signore chiamò: “Samuele!” ed egli rispose: “Eccomi”»

La scena è discreta, non eclatante. Solo una voce che pronuncia un «nome». C’è qualcuno che chiama e, se nessuno risponde, quella chiamata è vuota. Nella Bibbia il «nome» indica sempre la natura di chi lo porta e la sua proiezione futura. Il nome di «Samuele» è da solo un programma di vita: Shemù-èl/il suo nome è Dio per questo può rispondere con prontezza: «Eccomi!» (alla lettera, sia in ebraico sia in greco: «Guarda/vedi», Eccomi qua!). Non basta che uno si senta chiamato, deve essere il Signore a chiamare e quando ciò accade occorre «già» avere un nome predisposto. Stare pronti perché il Signore può chiamare è parte integrante della vigilanza di cui è intriso l’intero vangelo e ciò può avvenire solo se ogni giorno si vive in perenne stato di «Eccomi!». Chi è chiamato non s’improvvisa, ma si prepara.

«Il Signore chiamò: “Samuele!” ed egli rispose: “Eccomi”, 5Poi corse da Eli e gli disse: “Mi hai chiamato, eccomi!”. Egli rispose: “Non ti ho chiamato, torna a dormire!”. Tornò e si mise a dormire».

La scena si ripete tre volte con lo stesso schema:

  1. Il Signore chiama:  “Samuele!”.
  2. Samuele risponde “Eccomi!”.
  3. Samuele corre da Eli

A’. Mi hai chiamato, ” “Eccomi!”.
B’. “Non ti ho chiamato, ” torna a dormire!”.
C’. Tornò e si mise a dormire.

© Benedetto Bellesi

La prima annotazione da sottolineare è che la chiamata non è chiara, ma spesso è oscura, confusa. Anzi, non è evidente, ma si può confondere Dio con Eli. Per evitare qualsiasi confusione, c’è la chiave del v.7: «In realtà Samuele fino ad allora non aveva ancora conosciuto il Signore, né gli era stata ancora rivelata la parola del Signore». Per discernere occorre, nell’ordine: conoscere il Signore ed essere stati oggetto di rivelazione della sua Parola. La conoscenza qui può essere intesa anche come frequentazione, assiduità, consuetudine. Samuele vive nel tempio del Signore, ma deve ancora avere gli strumenti della conoscenza che lentamente Eli gli procura in quanto maestro e testimone. Al risuonare del suo nome, comunque, Samuele «corre» verso chi conosce e di cui si fida. C’è sempre qualcuno o qualcuna che ci fa da specchio per capire le nostre stesse parole, i nostri sentimenti, le nostre interpretazioni. Sul piano della fede nessuno può essere autodidatta, ma tutti siamo discepoli di qualcun altro, se questo qualcuno è come Eli che si mantiene a debita distanza dall’azione di Dio e dalla risposta di Samuele. Eli non è un genitore/superiore/vescovo/insegnante/educatore sostitutivo, ma applica alla lettera quello che Giovanni il Battezzante dirà mille anni dopo: «È necessario che lui cresca e io diminuisca» (Gv 2,30).

Solo così c’è spazio e ritmo perché la Parola del Signore, in apparenza confusa, possa riposare sul terreno fruttuoso per germogliare con abbondanza, e solo così Samuele può ascoltare un’altra parola di accompagnamento: «Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta!». Perché il discepolo possa ascoltare, è indispensabile che il maestro/la guida sappia riconoscere che sia il Signore a chiamare e non sia un’illusione a ingannare.

In una vocazione, occorrono due discernimenti, una del chiamato e uno della guida: se fallisce uno dei due, si annulla tutto e si creano adepti, gregari, ma mai discepoli e «con-vocati» per la profezia. La prima comunicazione, infatti, che Samuele riceve non riguarda la sua persona, ma la comunità d’Israele. Dio gli confida quello che è in procinto di fare al suo popolo e Samuele ne sarà parte integrante perché tramite. Chiamato per… andare.

Attualizzazioni sapienziali

Ognuno di noi immagini, per un momento, di essere Samuele.

  • Posso verificare nel corso della mia vita le volte che mi sono sentito chiamare «per nome»?
  • Sono in grado di individuare «i luoghi» materiali (i posti) dove ciò è avvenuto?
  • Cosa è accaduto?
  • Quali segni ha lasciato dopo?
  • Ho verificato con qualcuno di fiducia quanto mi è successo?
  • La mia guida è stata come Eli o si è intromessa in modo indebito?
  • Al sentire il «nome», sono corso o mi sono girato dall’altra parte?

In appena 8 versetti ricorrono 48 verbi (6 per ogni versetto): una ricorrenza impressionante, tutti inerenti la comunicazione (chiamare, rispondere, dire, parlare, ascoltare, udire) e le modalità di attuazione (correre, dormire, comprendere, stare accanto).

  • Se dovessi sintetizzare la mia vita in uno di questi 48 verbi, quale scelgo come sigillo esistenziale?
  • Se dovessi sintetizzare la mia vita di relazione con il Signore, con quale verbo lo identificherei?
  • Se dovessi sintetizzare la mia vita di relazione o di servizio quale verbo sceglierei come stemma emblematico?

Ho mai pensato alla preghiera come vocazione di vita «ordinaria» e cioè strumento di trasformazione del vivere quotidiano in «sacrificium laudis» (Sal 50/49,23), nel senso di dono senza condizioni nel lavoro, in famiglia, per strada, ovunque io sia? Oppure ho relegato la preghiera a «tempi» riservati, contingentati (Ufficio, Liturgia, ecc.) e a «luoghi» speciali (monasteri, conventi, ecc.). Nel mio rapporto con Dio, offro le primizie o gli scarti?

Se dovessi fare un parallelo con Samuele, la sua esperienza e il suo comportamento, posso indicare le differenze e le somiglianze? Quali prevalgono e perché? Se dovessi fare un confronto tra il comportamento di Eli, il maestro/la guida (il padre o madre spirituale) e il mio come guida/ accompagnatore/ trice, quali differenze sottolineo? Se potessi tornare indietro, cosa cambierei nel mio modo di «guidare» le persone nel discernimento della loro vita?

Solo alla terza volta, Eli, che era uomo di Dio, capì che il Signore «chiamava» Samuele e mentre gl’indicava la via, si ritrasse in disparte per lasciare spazio a Dio e a Samuele. Posso dire, in buona coscienza, come genitore, superiore, insegnante, educatore, mediatore, catechista, prete, autorità, politico, amministratore, di non avere prevaricato sulla libertà di chi chiedeva il mio sostegno?

Oggi, alla luce del mio passato, della mia storia, delle mie esperienze, posso dire di essere sempre pronto/a a correre dietro la «voce» che chiama e di dire «Eccomi!».

Il Paràclito, sorgente della Chiesa, c’insegni a «comportarci in maniera degna della chiamata che abbiamo ricevuto» (Ef 4,1), consapevoli di essere stati «chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo progetto e la sua grazia» (2Tm 1,9). È un cambio di prospettiva, anzi un capovolgimento di mentalità: è la metànoia del Regno di Dio, quella che riguarda l’essere e la vita, non il comportamento, l’usanza o, peggio, le apparenze.

Paolo Farinella, prete
[La Preghiera, continua-17]

 




Preghiera 16. Pregare come gli uccelli del cielo e i gigli del campo


Pregare, lo abbiamo già detto, non è presentarsi davanti a Dio e nemmeno compiere uffici o proclamare lodi e, paradossalmente, neanche ringraziare Dio, perché tutto ciò è parte ancora di un rapporto esteriore: «Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate» (Mt 6,7-8).

Pregare è permettere a Dio di contemplare il nostro volto orante e di ascoltare la nostra voce: «Sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20). Si comprende bene che «essere preghiera» è difficile in modo particolare perché cozza con una mentalità e, più ancora, con un’abitudine radicata, difficile da superare. Almeno proviamoci.

Pregare è fare spazio a Dio sposo perché possa vedere, sentire, toccare e contemplare la sua sposa: «Lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni!”. E chi ascolta ripeta: “Vieni!”. Chi ha sete venga; chi vuole attinga gratuitamente l’acqua della vita» (Ap 22,17).

© Gigi Anataloni

Se Dio è un contraente oppure un innamorato

I testi mettono in rilievo l’atteggiamento di abbandono che confligge con il protagonismo dell’«io sto, io faccio, io prego, io…». Nella 1a puntata del nostro cammino sulla preghiera (MC gennaio-febbraio 2017) siamo partiti dal Catechismo Maggiore di Pio X del 1905, composto da 993 domande e risposte da «imparare a memoria», ridotto ad appena 433 sette anni dopo, con il titolo Catechismo della Dottrina cristiana. Su di esso ci siamo formati tutti fino agli anni ’70 del XX secolo. La Parte III, Sezione II, capitolo unico (numeri dal 414 al 433), tratta della «orazione o mezzo impetrativo». L’impostazione, tipica del tempo, è trattativistica: Dio appare più come un contraente da tenere buono che un Padre da amare. Le regole che il testo offre sembrano più vicine a un galateo che a un rapporto affettivo. L’impianto è ancora ancestrale, nonostante si faccia riferimento a Gesù Cristo, unico mediatore, Dio è lontano, qualcuno cui bisogna ricorrere per domandargli «quanto ci bisogna» (n. 414), supplicando «le grazie spirituali e temporali» (n. 419). Se non siamo ascoltati è colpa nostra «o perché preghiamo male, o perché domandiamo cose non utili al nostro vero bene, cioè al bene spirituale» (n. 422). In questa ultima frase non appaiono più «i bisogni temporali», ma solo quelli spirituali. Il catechismo, inoltre, parla sempre di «preghiere» al plurale, lasciando intendere che forse sia anche determinante la quantità (cfr. Mt 6,7).

Nella 13a puntata (MC aprile 2017) e in diverse altre a seguire abbiamo spesso richiamato, e non lo faremo mai abbastanza, Francesco di Assisi che, secondo San Bonaventura, non era solito pregare perché «egli stesso era [diventato] preghiera». Quello di Francesco è un «essere» molto diverso che si distanzia e forse si oppone al Catechismo di Pio X, ancora troppo intriso di atteggiamenti formali esteriori.

Anche del Targùm in uso al tempo di Gesù nella sinagoga abbiamo parlato, ma occorre insistervi perché è sconvolgente la natura della preghiera che ci propone, presentandola come risposta all’anelito di Dio che non può vivere senza di noi, essendo «pazzo d’amore», che non si dà pace finché non vede il volto e non ascolta la voce dell’orante. Dio qui è descritto come un innamorato irrequieto e impaziente. Nessuno si sarebbe mai azzardato ad affermare una cosa simile se non fosse stato ispirato dallo Spirito Santo.

Il profeta Osea descrive tutto ciò in termini unici e assoluti: Dio insegue la sposa che si è prostituita finché non l’abbia strappata ai suoi commerci e condotta amorevolmente nel deserto (= lontananza, solitudine, esclusività, protezione, intimità) per poterla contemplare: «Perciò, ecco, la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò sul suo cuore» (Os 2,16).

Pregare è lasciarsi condurre (cum-dúcere) e ascoltare col cuore Dio che parla. Dopo che abbiamo preso atto che è Dio a parlare, il vero Orante, possiamo parlare anche noi, ma forse sceglieremmo di stare in profondo silenzio perché «lui sa di cosa abbiamo bisogno», lo sa meglio e prima di noi.

© Ennio Massignan

Preghiamo con il Vangelo

«25Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? 26Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? 27E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita? 28E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. 29Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. 30Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede? 31Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? 32Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. 33Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6,25-33).

Di solito si dice che questo sia il testo evangelico fondativo del concetto di «Provvidenza». In modo particolare monaci/monache e religiosi/religiose vincolati dal «voto di povertà», attraverso cui dichiarano di volere somigliare agli uccelli del cielo e ai gigli del campo, fidandosi e affidandosi alla paternità di Dio che nutre, veste e si prende cura. Questo teoricamente: infatti, fa bella mostra negli scritti, nelle regole, nelle costituzioni, ma la realtà è molto diversa, come la storia e l’esperienza insegnano. Il «mondo religioso» attraverso il voto di povertà non corre alcun rischio perché è garantito di tutto. La Provvidenza diventa una Previdenza, mentre nel mondo reale, chi vive e mantiene una famiglia con un solo stipendio, spesso è costretto a fare sacrifici considerevoli.

Esercizio con Mt 6,25-33.

Leggiamo una volta il testo per capire il senso generale. Dopo alcuni minuti, rileggiamo di nuovo molto più len-ta-men-te. Poi cominciamo a rileggere ancora, centellinando parola per parola, lasciando a ciascuno il tempo di risuonare dentro di noi e di depositarsi nel pozzo profondo del nostro cuore.

1. Perciò vi dico.

Non si tratta di un consiglio o di un invito. È «parola» solenne, un comandamento del Signore. È lui il garante, il fondamento definitivo: «perciò».

  • Quale risonanza ha «questa Parola» nel mio cuore? Sono consapevole che il Signore sta parlando esclusivamente a me e solo a me? Sono pronto per essere arato, dissodato, seminato per accogliere quanto il Signore dirà a me e a me soltanto?
  • Tu parli, Signore, fino a farti tu stesso Parola/Lògos (cfr. Gv 1,14) per essere mangiato come il rotolo del profeta Ezechiele: «Mangia ciò che ti sta davanti, mangia questo rotolo, poi va’ e parla alla casa d’Israele… Nutri il tuo ventre e riempi le tue viscere con questo rotolo che ti porgo… fu per la mia bocca dolce come il miele» (Ez 3,1-3). La Parola si mangia per nutrirsi e prima di proclamarla. Nell’Eucaristia io mangio con le orecchie la Parola proclamata, esattamente come con la bocca mangio il Pane della vita. Lo stesso «Lògos fatto Pane/Carne» (cfr. Gv 1,14). Tu, o Padre del Lògos, non m’inviti alla mensa per i miei meriti, ma perché io vada alla casa d’Israele per «riferire» le tue parole (cfr. Ez 3,1.4) con le parole della mia vita e del mio vivere.
  • In questo modo so che tu sei legato a me e da me dipendi. Per questo desideri contemplare il mio volto quando prego e ascoltare la voce del mio cuore quando ti parlo, per essere certo che tu ti possa rispecchiare e che tu possa essere riconosciuto da chi m’incontra. Dammi la gioia di poter dire come Paolo: «Siate miei imitatori come io lo sono di Cristo» (1Cor 11,1). Questo presuppone che io sia credibile e autentico perché tu possa essere accolto, accettato e riconosciuto.

© Gigi Anataloni

2. Per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito?

  • Il verbo «non affannatevi» in greco è, alla lettera, «non abbiate ansia nell’anima vostra».
    Mangiare, bere e vestirsi sono attinenti all’anima oltre che al corpo. Qual è il rapporto tra queste «cose» e la mia anima? Ho sufficiente distacco da essere sempre libero nel cuore davanti a ogni urgenza, bisogno e necessità? Oppure vado in ansia e corro ai ripari, accumulando con bramosia per il futuro seppellendo da me stesso l’abbandono nella Paternità di Dio? Bramosia e ansia sono l’opposto della prudenza.
  • Spesso mi ritrovo a pregare col salmista: «Affida al Signore il tuo peso (= affanno/fardello) ed egli ti sosterrà, mai permetterà che il giusto vacilli» (Sal 55/54,23), ma è solo una provvisoria liberazione psicologica. Sono preoccupato per ogni cosa che porta insicurezza; vorrei la certezza non solo per oggi, ma anche per domani. Mi ritrovo a fare finta di non sapere che potrei morire da un momento all’altro, come tu stesso, o mio Signore, mi ha messo in guardia: «Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?» (Lc 12,20). Mi ritrovo a perdere tempo su un futuro che ancora non c’è, sottraendolo al presente che invece mi chiama. Così mi distraggo dal leggere i tuoi comandamenti che parlano, gridano, urlano negli avvenimenti e nelle persone che incontro sulla mia strada. Non mi accorgo che figli e figlie tuoi, miei fratelli e sorelle in «immagine e somiglianza» in te, vagano senza nemmeno presente, ma io temo che possano «portare via» qualcosa alla mia sicurezza e al mio «avere». Eppure, so bene che tu hai dato un comandamento esplicito:

«Non accumulate per voi tesori sulla terra, dove tarma e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulate invece per voi tesori in cielo, dove né tarma né ruggine consumano e dove ladri non scassinano e non rubano. Perché, dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore» (Mt 6,19-21)

  • Una questione di cuore! Dov’è il mio cuore? Ho forse bisogno di un trapianto cardiaco, come prevede il tuo profeta Ezechiele? «Toglierò dal loro petto il cuore di pietra, darò loro un cuore di carne» (Ez 11,29 e 36,26). Signore, so perché faccio resistenza nel pregare: so che la preghiera non è un dolce colloquio in cui dico le mie opinioni e tu stai muto e, se chi tace acconsente, sei sempre d’accordo con me. Ora so che è pura illusione, perché la tua Paola è «creatrice» in quanto fa quello che dice: tu vuoi il mio cuore, cioè il centro del mio essere, del mio pensiero e del mio agire. Su cosa riposa il mio cuore per essere tranquillo? Sull’accumulo di cose, beni, denaro o sull’idea di «cielo» come sinonimo della tua paternità? Ogni volta che affermo la tua divinità, mi accorgo di difendere il mio materialismo perché credo più nelle cose che ho che in te, invisibile. Oggi, stando sulla tua Parola, mi accorgo che la mia sicurezza non può essere separata dall’«agàp?»:

«Dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti? … Se toglierai di mezzo a te l’oppressione, il puntare il dito e il parlare empio, se aprirai il tuo cuore all’affamato, se sazierai l’afflitto di cuore» (Is 58,7.10).

  • Mi accorgo che solo così posso ascoltare la tua risposta e sperimentare il tuo «Eccomi!» (cf Is. 58,8-9), avendo da te la grazia di essere immerso nella luce che è sempre nemica delle tenebre (cf Is 58,8.10). Quando leggo l’esodo, sono preso da un senso di euforia per la tua irruzione nella scena della storia in difesa di un popolo oppresso: «Ho osservato… ho udito… sono sceso» (Es 3,7-8), dando per avvenuto quanto ancora deve accadere, così profonda è la tua avversione per ogni ingiustizia. Mi guardo attorno, sono circondato da ingiustizia e schiavitù, migranti che vagano per il mondo, figli e figlie, specialmente bambini e bambine senza papà e mamma, soli, preda di sciacalli che li comprano, li vendono, li uccidono per espiantare loro anche gli organi… e non faccio una piega, preoccupato come sono della mia sorte o dell’idolo della mia sicurezza, sapendo che non ho il potere di contare i capelli che ho in capo (cfr. Mt 10,30). Celebro l’Eucaristia, spezzo il Pane che appartiene a tutte le genti (Is 2,1-5), conservo anche gli avanzi per quelli che verranno dopo, ma sono abitato dall’affanno, dal peso di quello che mangerò o berrò o vestirò.

3. Uccelli del cielo e gigli del campo.

Quando mai mi sono sentito libero come un uccello che affida la propria vita al «vento» (pnèuma)? Io mi nutro dell’Eucaristia e bevo il vino della vita del Signore, come posso «preoccuparmi con affanno» del domani, accumulando e ammassando per me, dando così prova di non credere alle parole del Figlio tuo e Signore mio, Gesù?

  • È bello guardare gli uccellini nei giorni feriali, per poi, magari, cacciarli nel fine settimana; è inebriante osservare la natura e respirare all’aria aperta della campagna il profumo dei fiori, ma mi rendo conto che la mia esperienza è solamente «estetica», occasionale. Nulla m’insegnano queste creature «vive», maestri di vita e di fede: si abbandonano, si lasciano nutrire e vestire condividendo la loro bellezza con chiunque voglia. Sì, penso di valere meno di un passero perché non posseggo la sua intelligenza e il suo splendore.

© Ennio Massignan

4. Gente di poca fede.

Qui la certezza è definitiva: la preghiera è la discriminate tra «paganesimo» e «fede»: il primo abbonda di parole e di richieste perché deve convincere se stesso di essere stato un piazzista bravo a pregare; la seconda non perde tempo a cercare di cosa ha bisogno perché si abbandona tutta tra le braccia di chi la cura e la protegge di propria iniziativa, per abbondanza di amore e paternità.

  • Riesco a misurare la mia fede? In che modo? Oppure sono fermo alla religione del «dovere/obbligo», impegnandomi il minimo indispensabile? Sono tra coloro che «praticano molto, ma amano poco»? Fede ha la stessa radice di fiducia che è l’accoglienza di un altro cui si dà la chiave del cuore e della vita. Chi è costui? Posso, in coscienza dire che sia il Signore? Oppure semplicemente mi fido solo di me stesso perché non sono certo di lui? Oggi mi viene spontaneo identificarmi con Tommaso, quando tu lo redarguisci con tenerezza: «Non essere incredulo, ma credente» (Gv 20,27). «Mio Signore e mio Dio», aumenta la mia fede (Gv 20,28; Lc 17,5).

5. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia. Come immagino il «regno di Dio»?

Forse penso che sia qualcosa di là da venire oltre la morte, così da essere libero di fare ciò che voglio al di qua della soglia della morte?

  • Il regno di Dio è qui, ora e adesso (cf Mc 1,15); significa «un nuovo modo di relazionarsi con gli altri» in vista dell’incontro con Dio alla fine della Storia. Qual è il grado di «relazione» di cui sono capace? Ho coscienza che la realizzazione del regno di Dio sia una realtà che riguarda l’umanità di oggi e in parte dipende dalla mia capacità di testimoniare la gratuità di Dio e la sua benevolenza verso tutti? Ho mai pensato che il ministero profetico della mia testimonianza (etimolog. = martirio), sia il fondamento della credibilità di Dio nel nuovo modo di relazionarsi degli uomini e delle donne? Questa consapevolezza mi opprime, mi provoca ansia, o mi libera verso l’orizzonte del regno di Dio? Come edifico «qui e ora» questo regno?

Respiro del cuore

Signore, non so cosa significhi «fede» perché non mi sono mai occupato di minuzie. Ti ho incontrato in Gesù, tento di lasciarmi amare, ma spesso vivo resistenze che nemmeno immaginavo possibili. Ogni giorno devo «pensare» dove mi trovo e scegliere cosa voglio, dove andare. Mi ritrovo spesso a confidare nei «carri e nei cavalli» del faraone piuttosto che «confidare nel suo santo Nome» (Sal 33/32,21). Pur non essendo in grado di contare i capelli del mio capo (cfr. Mt 10,30), non penso mai che tu mi tieni in vita, istante dopo istante: posso morire in qualsiasi momento, ma dò tutto per scontato come se tutto dipendesse da me e dall’accumulo di cose e progetti e «granai» futuri. Il mio abbandono in te è relativo, e a volte condizionato al grado di sicurezza che mi sono garantito. «Signore Gesù, abbi pietà di me, peccatore!» (Lc 18,13.39; Mc 10,47), tu che custodisci e nutri gli uccelli del cielo e vesti i gigli del campo, splendenti più di Salomone assiso sul suo trono, accoglimi come sono e manda il tuo Spirito a rinnovare il mio volto perché tu possa in esso rispecchiarti e riposarti, contemplando la mia immagine che sempre più desidera somigliare a te che mi hai chiamato prima ancora di essere tessuto nel ventre di mia madre (cfr. Ger 1,5). Vieni, Signore e trova il tuo riposo, affinché, libero da ogni zavorra, piccola o grande, possa rallegrare il tuo cuore. Dammi la gioia di essere testimone della tua Shekinàh e chiunque veda me, possa, dopo aver lenito eventuali ferite, dire a se stesso: «Ecco come mi ama Dio».

Paolo Farinella, prete
[La Preghiera, continua-16]

© Gigi Anataloni  / Schefflera actinophylla




Preghiera 15. Pregare:

desiderio di respirare in Dio

Testo su la preghiera di Paolo Farinella, prete |


Nel numero precedente abbiamo tentato di pregare con il brano del Vangelo di Mt 14,22-33 dando alcune indicazioni versetto per versetto.

Da questo testo, che descrive il modo di pregare di Gesù, possiamo dedurre alcuni atteggiamenti o, se vogliamo, regole, per semplificazione, sapendo che la preghiera e la vita spirituale non possono essere irrigidite dentro strutture immobili. Da un lato perché «lo spirito soffia dove vuole» e, possiamo anche aggiungere, «quando vuole» (Gv 3,8); dall’altro perché la preghiera è strettamente legata alla psicologia e alle condizioni del momento: euforia, depressione, gioiosità, preoccupazione, stanchezza, entusiasmo, delusione, serenità, attivismo, tensione, solitudine, paura, voglia di sole e vita, bisogno di starsene soli e rintanati, protesi verso gli altri, chiusi in se stessi… tutto ciò che è umano ci appartiene e non possiamo dismetterlo né nella vita né nella preghiera, altrimenti trasformiamo quest’ultima in alienazione, o nel migliore – o peggiore? – dei casi in abitudine che inevitabilmente scade nell’anonimato della routine.

Osservando intimamente il modo di essere e di agire di Gesù, possiamo imparare da lui nel tentativo di imitarlo, dal momento che il vangelo è stato scritto proprio per questo: farci vedere lui per convertirci noi, in forza del principio spirituale fondamentale: «Imparate da me» (Mt 11,29). Paolo di Tarso è intriso di questo principio fino al punto da diventare, a sua volta, lui stesso modello trasparente di Cristo: se in 1Cor 1,16 («Siate miei imitatori»), osa proporsi come modello, rischiando di apparire presuntuoso, appena dieci capitoli dopo, non ha dubbi e rafforza il suo atteggiamento, fondandolo sulla sua identità con il Signore: «Siate miei imitatori, come io lo sono di Cristo» (1Cor 11,1). Tutto questo è la traduzione lineare del motivo che Dio stesso dà come fondamento dell’agire umano: «Siate santi perché Io-Sono Santo» (Lv 11,44-45; 19,2; 20,7.26; 1Pt 1,16).

Il fondamento è Dio stesso, non un premio (paradiso), non un beneficio, ma la persona stessa di Dio perché se si è immagine sua non si può non mettersi a fuoco con lui fino a diventare una cosa sola, una sola identità. Gesù lo dice nel suo discorso costituente e programmatico: quello della montagna (cfr. Mt 5-7) dove propone non come un ordine, ma con una prospettiva e un processo di crescita: «Voi sarete perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,48). In greco il verbo è al futuro «sarete» e l’aggettivo «perfetti – tèleioi» contiene il senso di maturità e di completezza nel divenire. Non «siete» che metterebbe in evidenza un impegno volontaristico di stampo morale: bisogna obbedire; ma «sarete» che si apre al divenire, all’evoluzione, alla crescita verso la maturità e la pienezza, avendo come modello il Padre, sperimentabile nella persona di Gesù (1Gv 1,1-4).

La preghiera è il processo di crescita di tutta la vita, non momenti staccati e separati, quasi occasionali. Essa non deve riempire nulla, non deve ottenere nulla, non deve nemmeno chiedere nulla, perché «il Padre vostro celeste sa» il vostro bisogno (Mt 6,32). Si prega per imparare a diventare uccelli del cielo e gigli del campo che senza affanno e preoccupazioni si lasciano nutrire e vestire da Dio con la gloria della sua bellezza (cfr. Mt 6,25-32). Pregare è desiderio di respirare in e con Dio.

Paesaggio desertico e roccioso nella penisola del sinai sulla strada verso Santa Caterina (© AfMC / Bellesi)

Di seguito presentiamo alcuni atteggiamenti o regole dedotti da Mt 14,22-22.


1ª regola della preghiera

Per pregare bisogna creare le condizioni ambientali che non si possono improvvisare «sul momento», del tipo «adesso vado in chiesa a recitare il breviario, il rosario (o quello che si vuole) così mi tolgo il pensiero». Dietro questo modo di «orazionare» c’è la paura (e solo quella) di venire meno a un obbligo; se non ci fosse l’obbligo, forse, quasi certamente, non vi sarebbe la preoccupazione di «togliersi il pensiero». Quando dobbiamo incontrare una persona importante o comunque non abituale, «ci prepariamo» e predisponiamo anche il luogo dell’incontro. Gli innamorati poi sono straordinari: prima dell’appuntamento si preparano meticolosamente: si lavano, si profumano, si vestono adeguatamente e vivono l’ansia dell’attesa che li predispone alla gioia della vista e dell’abbraccio. Tutto è proteso verso l’altro, il quale, anche da assente abita la vita di chi attende.
Nella 2ª puntata (marzo/2017), scrivemmo:

«Il Talmùd (trattato Berachòt/Benedizioni 30b) insegna che bisogna stare davanti a Dio in una condizione o stato di bellezza, cioè davanti a Dio bisogna presentarsi anche vestiti come si conviene e non a casaccio come capita. Nessuno si presenta in casa di ospiti vestito di stracci o in tuta da lavoro, ma si mette il vestito bello per rispetto. Se facciamo questo per gli appuntamenti mondani, o per un colloquio importante, o per galateo, come non vestirsi di bellezza nel presentarsi alla Maestà e alla Gloria della Shekinàh/Presenza, sapendo che è Dio stesso che vuole stare alla nostra presenza?».

Non basta essere protesi verso l’altro, è indispensabile essere disposti «a perdere tempo per Dio». Solo così la preghiera diventa un dono donato di sé senza calcoli, un abbandono senza riserve in cui trova riposo la vita vissuta prima del momento specifico della preghiera che a sua volta diventa fondamento della vita che segue. Anche se uno o una sono soli, la preghiera è sempre comunitaria perché per sua natura è ekklesiale. Pregando, infatti, si passa dallo stato di massa amorfa allo stato di persona cosciente che sa di appartenere a una comunità. Ci sembra che questo sia il senso della «costrizione» con cui Gesù obbliga i discepoli ad allontanarsi dal pericolo di essere coinvolti in una massificazione senza volto e nome. La folla è anonima, il popolo è sempre cosciente.

2ª regola della preghiera

Per pregare occorre «salire», mai scendere, perché pregare è alzarsi di tono, di stile, di vita, salire di senso. È andare in alto, non come estraniazione, ma come processo di allargamento dell’orizzonte. Essa «illimpidisce lo sguardo» e insegna a «vedere» con gli occhi di Dio, il quale, quando comunica, convoca sempre «in alto» e mai in pianura o negli anfratti nascosti. Israele è stato costituito popolo ai piedi del Sinai (Es 19,1-15) e la «Parola» scritta e orale scese dall’alto per consacrare l’alleanza (Es 32,15-16). Gesù attira tutti a sé non sdraiato per terra o dondolandosi su un’amaca prendendo il sole, ma dall’alto della croce, essendo «innalzato da terra» (Gv 12,32). I Padri della Chiesa definivano la preghiera come «elevatio mentis in Deum», dove la «mens» latina ha il senso di «energia mentale, comprensione, spirito dotato di ragione, coscienza» e quindi cuore, anima, temperamento, volontà e passione. Gli Ebrei quando pregano «si dondolano», avanti e indietro, perché nella preghiera anche il corpo deve partecipare, fondendo così un solo afflato, coscienza e corporeità. In una parola è la totalità della persona che «sale» a Dio: è la preghiera interiore, il fulcro e il punto di arrivo dello spirito e del corpo che si fondono in un’unica realtà espressa con sentimenti umani.

Nota etimologica.

«Salire» dalla radice «sal-, sar-» che si riscontra nel sànscrito, nell’antico (e moderno) francese «saillir» significa «zampillare» (dal basso in alto, quindi uscire), mentre nelle lingue slave si è sviluppato il senso derivato di «inviare/inviato/legato»: chi è inviato è letteralmente «mandato fuori» (idea di movimento finalizzato).

Applicando questi significati, per altro abbastanza uniformi, alla preghiera, possiamo dedurre che pregare voglia dire «zampillare» come una sorgente dal profondo verso l’alto, costruire, innalzare, in altre parole educarsi ad affacciarsi sulla soglia della vita di Dio e permettere a Dio di varcare la soglia della nostra vita. Paradossalmente, nella vita spirituale per salire bisogna avere coscienza del proprio «profondo», cioè della propria identità. Se si vuole, assumendo il significato che si è affermato nelle lingue slave, è anche bello immaginare che la preghiera sia un «atto diplomatico» dell’orante che porta a Dio le credenziali dell’umanità, facendosi garante con la vita e le parole di quello che porta. Qui possiamo intravedere un aspetto «mediatore» dell’orante che fa propria la vita della comunità/umanità e non si estrania, ma si confonde, diventando una cosa sola, legando il proprio destino al destino del mondo, come fa il grande profeta Mosè (Es 24,12-18; 34,2-4).

Nota patristica sull’«elevatio mentis» e bibliografia essenziale.

Scrive sant’Agostino nella Lettera a Proba: «Il pregare consiste nel bussare alla porta di Dio e invocarlo con insistente e devoto ardore del cuore. Il dovere della preghiera si adempie meglio con i gemiti che con le parole, più con le lacrime che con i discorsi. Dio infatti “pone davanti al suo cospetto le nostre lacrime” (Salmo 55, 9), e il nostro gemito non rimane nascosto (cfr. Salmo 37, 10) a lui che tutto ha creato per mezzo del suo Verbo, e non cerca le parole degli uomini» (sant’Agostino, Lettera a Proba 130, 9,18–10,20; CSEI 44, GO 63).

Per approfondire

Cfr. ad es., sant’Agostino, Sermo 9,3; Giovanni Damasceno (676-749), De fide orthodoxa 3,24; Evagrio Pontico, De oratione, 3; cfr. anche san Tommaso D’Aquino, Summa, IIa-IIae q. 83, art 1, in La Somma Teologica, edizione bilingue, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2014,788-789, dove cita e spiega Giovanni Damasceno.

Per un approccio semplice, non specialistico, e facilmente reperibile:

  • Carlo Maria Martini, Non date riposo a Dio. Il primato della Parola nella Chiesa, Edizioni Dehoniane, Bologna 2012.
  • Paolo Squizzato, Ancor meglio tacendo. La preghiera cristiana [sintesi a mo’ di slogan della tradizione], Effatà Editrice, Cantalupa (To) 2016.
  • Monica Cornali, Le mie lotte con l’angelo. Elevazioni spirituali [la vita di ogni giorno immersa in Dio], Effatà Editrice, Cantalupa (To) 2017.

Per un prontuario di preghiere del primo millennio, dalla Bibbia al sec. XI, testi greci e latini con traduzione a fronte, cfr. Salvatore Pricocco – Manlio Simonetti, La preghiera dei cristiani, Fondazione Lorenzo Valla /Arnoldo Mondadori Editore, Roma 2000.


3ª regola della preghiera

Non basta «salire», bisogna salire «sul Monte» perché Dio non sta mai in pianura, ma si manifesta sempre su un monte. Quando si prega è necessario, anzi indispensabile sapere dove si è, come si è, verso dove si va ed eventualmente anche che cosa si chiede. Sant’Ignazio di Loyola insegna che chi prega deve sapere quello che chiede. Pregare non è dire parole o sentimenti a caso, ma avere le idee chiare e cuore intenso sulla propria condizione, sulle proprie necessità, sulle proprie richieste. Dio non è una chiavetta dove ciascuno apre il file che vuole e quando vuole. Come abbiamo appena detto sopra, nella 2a regola, più alto è il monte più largo è l’orizzonte, più ampia la visione e la capacità di «vedere». Quello che a valle è striminzito, dalla cima del monte appare come è: un orizzonte mozzafiato, a perdita d’occhio che impone alla vista un contesto e un’armonia maggiori. Succede spesso che nella preghiera bisogni, necessità, progetti, prospettive, dolore, paura, sentimenti, cuore, limiti e sconfitte acquistano una nuova dimensione, cambiano perché il cuore e l’anima s’illuminano e vedono in modo nuovo, dopo avere sperimentato «collirio per ungerti gli occhi e ricuperare la vista» (Ap 13,18).


4ª regola della preghiera

Non basta salire sul monte, occorre anche «starci»; non si tratta infatti di una gita in montagna che si esaurisce con la fatica della salita e un breve spuntino in cima, godendo il panorama di straordinaria bellezza per ridiscendere anche in fretta al piano, magari per timore di piogge o valanghe. Qui si tratta di uno «stato» permanente di frequentazione. La montagna è la parabola che deve animare ogni nostro agire e progetto: tutto deve convergere verso l’alto, cioè verso la pienezza della propria realizzazione che può attuarsi solo stando con Dio e assaporandone la Shekinàh/Dimora/Presenza. Bisogna avere la coscienza di essere «sacramento» dei popoli che aspirano a salire il monte del Signore (Is 2,1-5). Nel «luogo» dove è Dio, bisogna andarci da «soli» e restarci a lungo: «Venuta la sera, egli se ne stava ancora solo lassù» (Mt 14,23b), immerso nel rapporto personale col Padre, nel silenzio dell’Assenza di Dio, nell’aridità del deserto circostante. Stare «da solo» per Gesù non significa essere isolato o peggio ancora solitario. Egli non ha abbandonato i discepoli, ma li ha messi al sicuro dalla folla improvvisata e senza identità. Sperimentato il fallimento delle folle, Gesù prende coscienza che deve lasciare una strada e intraprenderne una nuova. Davanti a un bivio sa perfettamente che i discepoli, facili all’entusiasmo del successo, possono impedirgli l’immersione nella verità di sé. A volte per realizzare la comunione, può essere necessario, distaccarsi. Egli purifica la propria coscienza e i criteri di valutazione per scoprire se stesso e capire il suo futuro.

Pregare – ormai lo ripetiamo come un ritornello responsoriale – è illimpidirsi lo sguardo per vedere dove gli altri sanno solo gettare distrattamente uno sguardo superficiale. «Starci» ha un solo significato – anche questo lo abbiamo detto e ridetto – è perdere tempo per e con la persona amata: Gesù ne perde tanto di tempo con il Padre. Non agisce per dovere o per bisogno, solo l’amore lo guida, lo nutre, lo brucia e lo consuma come una candela che si lascia ardere, come il roveto della Presenza del Sinai (Es 3,2). Se non fosse così, potrebbe forse dire «Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30)? Non potrebbe, non oserebbe. Gesù fa sua la fatica di Mosè e il suo anelito di pastore e guida e ne rivive la missione. Mosè sta sempre davanti a Dio fino a diventare così raggiante da doversi coprire il volto (cfr. Es 34,29-35). Egli, infatti, sale sempre «verso il monte del Signore» (Es 19,3; 24,18,34,4) per porsi come intermediario.

Per andare a Gerusalemme Gesù sosterà al monte della trasfigurazione, dove avrà come testimoni qualificati Mosè ed Elìa: il Lògos che è dal principio (cfr. Gv 1,1; cfr. Pr 8,22-31) è garantito da tutta la Toràh (Mosè) e da tutti i Profeti (Elia), cioè da tutta la Scrittura del popolo eletto. Pregare per Mosè e per Gesù è essere strabici: un occhio al cielo e uno alla terra. Davanti a Dio implorare il perdono per il popolo e davanti al popolo spronandolo a salire sempre più in alto. Da una parte sprona il popolo, dall’altra «costringe» Dio a essere Dio, cioè perdono (Es 32,30-31).


5ª regola della preghiera

Dopo la preghiera personale, Gesù ritorna alla vita dei discepoli che è agitata da un vento contrario (cfr. Mt 14,24) e in piena notte. La preghiera non è alienazione e astrazione dalla vita, perché sarebbe astrazione dall’umano, l’unico ambito dove possiamo incontrare Dio. La preghiera è una cattedra per imparare a trasformare la vita in dono orante, vivendola fino in fondo affrontandone anche gli aspetti negativi e pericolosi. Chi non sa pregare da solo, non sa pregare in comunità e chi non sa pregare ekklesialmente non è capace di pregare da solo, perché i due aspetti sono complementari ed essenziali.


6ª regola della preghiera

Dopo la preghiera, Gesù si manifesta ai suoi presentandosi come il Dio d’Israele che domina le acque. La preghiera ci rende partecipi della natura di Dio e ci fa assomigliare a lui anche nel compiere miracoli (cfr. At 3,2-16). Chi prega può camminare sulle acque e dominare il male che esso rappresenta perché non agisce in forza di strani poteri magici, ma in comunione con il Dio che ha creato il cielo e la terra e con il Figlio che ha redento il mondo e con lo Spirito Santo che lo santifica. Stare nel mondo assumendo la natura di Dio: è questo il compito supremo della preghiera cristiana. Non è un caso che noi iniziamo l’Eucaristia con la preghiera, databile sec. IV, che dice coralmente: «Noi ti lodiamo, ti benediciamo, ti adoriamo, ti glorifichiamo, ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa» che è il cuore dell’atteggiamento orante. Cinque azioni o identità per un solo scopo: la gloria di Dio, che non significa l’onore e il rispetto della divinità onnipotente, ma solo innestarsi nella gloria ebraica, la «Kabòd – peso» di Dio, cioè la sua natura, la sua consistenza, la sua stabilità, in una parola, la sua Persona.


Bisognerebbe aggiungere la 7ª regola della preghiera, cui altre volte abbiamo accennato e descritta molto bene dal Targùm al Cantico dei Cantici dove il giovane amante cerca di vedere il volto dell’innamorata: «Colomba mia! Nelle spaccature della roccia, nel nascondiglio del dirupo, fammi vedere il tuo volto, fammi udire la tua voce! Perché la tua voce è soave, e bello il tuo volto» (Ct 2,14). Il Targùm proclamato in sinagoga al tempo di Gesù commenta questo testo del Cantico:

«Subito, allora, essa [l’Assemblea d’Israele] aprì la sua bocca in preghiera davanti al Signore (Es 14,10); e uscì una voce dai cieli dell’alto, che disse così: Tu, Assemblea d’Israele, che sei come colomba pura, nascosta nella chiusura di una spaccatura di roccia e nei nascondigli dei dirupi, fammi udire la tua voce (cfr. Esodo Rabba XXI, 5 e Cantico Rabba II, 30). Perché la tua voce è soave quando preghi nel santuario, e bello è il tuo volto nelle opere buone» (cfr. Mekilta Es 14,13).

Al desiderio dell’innamorato di vedere il volto della sposa, il Targùm con un’arditezza straordinaria fa rispondere Dio che esprime un desiderio struggente: è lui stesso, che vuole contemplare il volto di chi prega, ribaltando i ruoli. Non è più l’orante che desidera vedere Dio, ora è Dio che vuole contemplare – ha bisogno di contemplare – il volto della sposa/assemblea d’Israele/Chiesa quando prega. Nella preghiera si consuma la sola conoscenza sperimentale possibile, pura estasi e contemplazione: l’amore, perché quando noi preghiamo è Dio che contempla noi e arde del desiderio di vedere il nostro volto. Sul contenuto di essa ci siamo soffermati ampiamente in MC giugno 2017, in cui descriviamo anche come, secondo la tradizione giudaica, Dio si presenta a Mosè sul monte Sinai, vestito con il mantello della preghiera (tallìt) per insegnare meglio a lui e agli Israeliti le regole della preghiera.

Da quanto abbiamo esposto, per quello che concerne la preghiera, dobbiamo cambiare radicalmente e capovolgere la nostra prospettiva e mentalità. Crescere vuol dire anche cambiare passo e direzione, con umiltà e desiderio di «crescere in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52). Se questa fu la regola cui si sottopose il Signore, se vogliamo imitarlo, deve essere la regola minima anche per la nostra vita. In fondo, a noi importa solo sprofondare sempre più nell’intimità con lui per la durata e la lunghezza di tutta la nostra vita e anche oltre.

Paolo Farinella, prete
[La Preghiera, continua-15]




Insegnaci a pregare 14. Pregare: convertirsi dalla divinità al Signore

Di Paolo Farinella, prete |

Nella puntata del mese scorso abbiamo cercato, con qualche difficoltà per gli spazi di una rivista a larga diffusione, di esercitarci sul capitolo 1° della Genesi, un testo considerato spesso noioso. Abbiamo scelto il testo ufficiale della Cei, edizione 2008. Prima di passare a un testo del vangelo, desideriamo riprendere i primi tre versetti di Gen 1 e tradurli dall’ebraico, applicando la morfo-sintassi ebraica, senza scendere, però, in dettagliate spiegazioni. Il testo biblico di Gen 1,1-3 non si trova solo nella Bibbia, ma appartiene alla cultura orientale comune del 2° millennio a.C. Lo leggiamo non in un contesto di studio, ma in un atteggiamento interiore orante.

Il testo nella traduzione ufficiale: «1In principio Dio creò il cielo e la terra. 2La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. 3Disse Dio: “Sia la luce!”. E la luce fu».

Applicando la sintassi dell’analisi testuale che tiene conto in modo particolare dei «verbi», ecco la traduzione:

Nel principio del «Creò Dio il cielo e la terra»
(oppure: Quando Dio creò il cielo e la terra)
2la terra era informe e deserta
le tenebre ricoprivano l’abisso
e lo spirito di Dio covava sulle acque,
3DISSE Dio: «Sia la luce!». E la luce fu.

Nota esegetica

I primi due versetti servono per ambientare (verbi all’imperfetto) l’esplosione della Parola che, al versetto 3, lacera l’abisso. Sempre al v. 2, anche l’ultima edizione della Bibbia-Cei (2008) traduce con «lo spirito aleggiava sulle acque», che a nostro parere deve essere reso così: «lo spirito di Dio covava sulle acque». In ebraico, il participio femminile «merachèfet» deriva dal verbo «rachàf» che in tutta la Bibbia ebraica ricorre solo tre volte: una nella forma verbale «qal», che esprime il senso ordinario dell’azione, e cioè «frangere/rompere/spezzare» (cfr. Ger 23,9) e due volte nella forma verbale «pièl» che esprime l’«intensità» dell’azione del verbo e quindi anche nella traduzione deve intuirsi un senso marcato, qui appunto l’atto del «covare» che ha come effetto il dischiudersi del guscio. In Dt 32,11 è l’aquila che cova la nidiata, mentre in Gen 1,2 è lo spirito di Dio che cova le acque per farle dischiudere alla vita. Lo Spirito di Dio, «principio» della vita sta sulle acque primordiali, dominandole come fa l’aquila o una chioccia sulla covata finché non scoppia la vita.

Cosa si ricava da questo testo per la preghiera? Il principio non è un inizio temporale, ma un fondamento radicale, una radice su cui poggiare: Dio che crea il cielo e la terra. In ebraico, «cielo e terra», essendo opposti (alto e basso, superiore e inferiore, entrare e uscire, sedere e alzarsi, mattina e sera, ecc.), indicano la totalità, tutto quello che sta in mezzo. Dio crea «tutto», senza essere condizionato dall’informe terra o dal deserto, cioè dalla non vita. Le tenebre, proprie dell’abisso sono spettatrici e non opposizione a Dio. Da «signore», egli «cova» come una chioccia le acque della vita. Nell’attesa, tra desolazione, morte e oscurità che nulla promettono di buono, all’improvviso, potente e risoluta, scoppia la «Parola» che in un baleno fa giustizia di abisso, tenebre e deserto: «Disse Dio». È la frase principale, da cui dipende tutto quello che precede e che dà inizio alla serie di dieci «disse» martellanti. Subito la Parola diventa Luce e la luce diventa un fatto: «La luce fu». La Parola di Dio non è mai inefficace perché realizza sempre quello che dice. All’ordine di Dio corrisponde subito l’esecuzione: Sia/Fu.

Pregare la Parola

Prima di qualsiasi cosa, azione, decisione, esecuzione, occorre vedere «il principio» che è all’inizio del versetto: su quale «principio» si fonda la vita di me credente, cittadino, padre, figlio, maestro, ministro, monaco, monaca, giovane, vecchio? Oppure navigo a vista tra abissi e tenebre e deserti senza una bussola o un progetto? Se dovessi chiamare per nome il progetto della mia vita, come lo enuncerei con una parola? In Dio la parola è fatto: c’è sempre corrispondenza tra desiderio e realtà, tra aspirazione e realizzazione e in me? Tollero forse uno spazio ambiguo e anonimo tra tenebre e luce, dove vado a rifugiarmi? Oppure ambisco la luce come esplosione del pensiero, degli affetti, delle relazioni, dell’agire? La mia parola è sempre univoca o la manipolo a seconda delle circostanze e delle convenienze. In questo contesto cosa significa per me: imitare Dio?

«Ininterrottamente»

Ci chiediamo: perché pregare? Paolo supplica i Tessalonicesi di «pregare ininterrottamente, in ogni cosa fate eucaristia (= rendete grazie): questa infatti è volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi» (1Ts 5,17-18). Comprendo che Paolo pone sullo stesso piano preghiera, eucaristia, volontà di Dio e Gesù Cristo? Da ciò si deduce che pregare vuol dire imparare a fare della vita un’eucaristia se vogliamo vivere la volontà di alleanza del Padre che ha il volto di Gesù. Ciò avviene giorno per giorno, ora dopo ora, passo dopo passo e deve durare tutta la vita. Pregare è imparare a capire la volontà di Dio che è il regno suo esteso a tutti, vivendo le relazioni con ogni essere umano sulla filigrana della vita di Gesù. Qui espressamente si descrive la preghiera come «stato permanente» e non come serie di «momenti» spezzati: la vita non è a singhiozzo, perché il respiro è costante, continuo, incessante, non a spizzichi e bocconi. Se respirassimo in maniera sincopata moriremmo. Se preghiamo ogni tanto (prego al mattino, prego alla sera), vuol dire che nel frattempo siamo fuori della volontà di salvezza del Padre.

In mare col fantasma

Occorre imparare la disponibilità orante per essere sempre in «stato di preghiera», come Gesù nel brano di Matteo che preghiamo ora. Nel prossimo numero di MC ricaveremo alcune direttive per imparare a pregare meglio.

Dal Vangelo di Matteo 14,22-33:

[Dopo che la folla ebbe mangiato], 22e subito Gesù costrinse i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva, finché non avesse congedato la folla. 23Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo. 24La barca intanto distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. 25Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare. 26Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: «È un fantasma!» e gridarono dalla paura. 27Ma subito Gesù parlò loro dicendo: «Coraggio, Io-Sono, non abbiate paura!». 28Pietro allora gli rispose: «Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque». 29Ed egli disse: «Vieni!». Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. 30Ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: «Signore, salvami!». 31E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?». 32Appena saliti sulla barca, il vento cessò. 33Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: «Davvero tu sei Figlio di Dio!».

Il brano inizia in modo inconsueto per Matteo che qui mantiene un’espressione tipica di Marco: «e subito», quasi a volere dare immediatezza a quanto sta accadendo, coinvolgendo nell’azione il lettore. L’avverbio di tempo lega il racconto precedente (Gesù sfama la folla) al seguente (Gesù allontana i discepoli e resta solo) e ci trasporta come per magia da un contesto di massa a uno di solitudine e preghiera. Solo due volte Matteo presenta Gesù in atteggiamento di preghiera: qui e nel giardino del Getsèmani (cf Mt 26,36), quasi a custodire gelosamente l’intimità col Padre che nessun occhio indiscreto dovrebbe mai violare. È, infatti, impensabile anche immaginare che Gesù non abbia bisogno di pregare perché, essendo Dio, «cresceva in sapienza… e grazia davanti a Dio» (Lc 2,52).

Per lui, uomo reale in cerca della volontà di Dio che scopre lentamente, giorno per giorno, la preghiera doveva essere abituale e consueta per verificare la profondità della sua adesione al volere del Padre. Egli pregava anche oltre i ritmi ufficiali della liturgia in sinagoga che pure frequentava (Mt 12,9; 13,54; Mc 1,21.23.29…; Lc 4,16/20.28.38.44…; Gv 18,20). Rimasto nella pienezza della sua solitudine, prima di raggiungere i discepoli, Gesù si ritira a pregare sul monte da solo per individuare il «dove» della sua esistenza e le ragioni del suo andare.

Curiosità

Secondo la tradizione il monte sul quale Gesù si ritira in preghiera sarebbe il monte delle «beatitudini» (cf Mt 5,1) da dove Gesù proclama le coordinate del regno dei cieli (cfr. Alberto Mello, Evangelo secondo Matteo, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano [BI] 1995, 271-272).

Valle Pesio, Marguareis

Il pendolo: dalla folla verso il monte

Per pregare, Gesù compie due gesti: «costringe» i discepoli a salire sulla barca, quasi fosse un ovile protettivo, che per Mt potrebbe essere «la Chiesa», di cui la barca è immagine. In secondo luogo, deve congedare la folla perché ha obiettivi solo materiali: il miracolo a buon mercato, il pane abbondante, insomma mangiare. La folla non sarà mai una comunità. Si può stare insieme nello stesso luogo, per lunghi tempi, dire e fare le stesse cose, ma non essere comunità: la folla è massa indistinta dove ognuno persegue interessi individuali e si aggrega per piegare gli altri al proprio bisogno; essa è anche capace di vendere Dio e la madre a prezzi di saldi. Monasteri e comunità, con anni e decenni di convivenza, possono essere «una folla», fatta da un «insieme di solisti». La comunità eucaristica, al contrario, è un popolo, per sua natura interdipendente, perché ciascuno è parte di un tutto, tanto che l’intera comunità/popolo è presente in ciascuno dei suoi componenti e ogni suo singolo membro è «sacramento» di comunione perché con il proprio limite ne esprime la pienezza e lo splendore. Ognuno è visto e sperimentato come la parte migliore dell’altro, sia come singole persone, sia come comunità nel suo complesso. Tutto ciò vale anche per le coppie sposate, per una famiglia che condivide il cammino di fede, per due amici, due amiche, per quanti cioè cercano il cielo e trovano la profondità dell’essere che ha il volto di Dio, presente nelle persone incontrate sul cammino. Per tutti è indispensabile la preghiera che non è un debito verso Dio, ma un progetto da realizzare, un metodo di una visione, un sogno da sperimentare, una prassi così impellente da diventare ancora di più desiderio desiderato. Per tutti è essenziale diventare, per grazia e per scelta, come Francesco di Assisi che «non era tanto uno che pregava, ma lui stesso era preghiera». Rileggiamo il testo con animo sapienziale, cioè lasciandoci visitare dalle singole parole come messaggeri di Dio che vengono a stimolarci e a consolarci.

Mt 14,22: «[Dopo che la folla ebbe mangiato],
22subito Gesù costrinse i discepoli a salire sulla barca
e a precederlo sull’altra riva, finché non avesse congedato la folla».

I verbi importanti sono: costringere, salire, precedere, congedare.

Prego in modo spontaneo e abituale, oppure mi devo costringere a salire sul monte della preghiera, perché dominato dalla noia? Cosa mi trattiene dal salire in alto? A volte è necessario precedere il Signore e quindi separarsi da lui, senza staccarsene, per aspettarlo. Sono consapevole che la separazione è parte della dinamica di relazione?

La separazione comporta anche scegliere da soli, inventare, decidere, valutare, discernere. Oppure ho sempre bisogno di qualcuno che mi dica cosa devo essere e fare? Se fosse così, non penso che lo Spirito sia superfluo? Nei monasteri come si concilia questo con l’obbedienza? Ho mai preferito essere un anonimo tra la folla del mio ambiente per non essere disturbato o costretto a fare tagli forse dolorosi?

Mt 14,23: «23Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare.
Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo».

In questo versetto restano due verbi del precedente e se ne aggiungono altri nuovi: congedare, salire + pregare, stare. Mt usa la stessa espressione che l’autore dell’Esodo usa per Mosè: «Mosè salì verso il monte di Dio, e Dio lo chiamò dal monte, dicendo: “Questo dirai…”» (Es 19,3). Mosè sale verso il monte di Dio, Gesù sale solo verso il monte. Mosè sale per ascoltare Dio, Gesù sale per pregare. Mosè riceve, Gesù vive.

Per salire sul monte, bisogna andare in alto, segno che la folla stava in basso. Qual è il mio basso, qual è il mio alto? Ho un monte come mio progetto e orizzonte? Per Gesù pregare è stare sulla Parola per imparare a essere se stesso (Gv 8,31). Ho un monte dove posso stare senza ansia e angoscia?

Mt 14,24-25: «24La barca intanto distava già molte miglia da terra
ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario.
25Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare».

La Chiesa, la comunità, la famiglia, la scuola, il lavoro… la vita non è una barca ancorata in una rada dove si possa tranquillamente prendere il sole oziando. La barca è distante dalla riva e le onde la rendono insicura, anche perché c’è la possibilità che il vento soffiando al contrario aggravi la situazione. Credere non è una garanzia dai pericoli e dai rischi della vita. Perché il Signore non mi viene in aiuto? Io prego e tutto mi va male, mentre quello là non crede, non va mai in chiesa e le cose gli vanno a gonfie vele. Cosa ho fatto di male al Signore per meritare questa ingiustizia?

Pregare è la scuola dove impariamo a purificare questo modo pagano e miscredente di concepire Dio. Chi pensa così vede Dio come una macchinetta automatica che funziona a comando con una moneta. Non abbiamo garantita la tranquillità; le onde, il vento e l’agitazione del mare restano per noi e per tutti: «Egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45), di cui il credente assume pesi e presenze: «portate i pesi» (Fil 2,1) e «Mio Signore e mio Dio» (Gv 20,28).

Mt 14, 26: «26Vedendolo camminare sul mare,
i discepoli furono sconvolti e dissero: “È un fantasma!” e gridarono dalla paura».

Egli garantisce la «presenza», anche se bisogna aspettare tutta la notte, perché giunge camminando sulle acque, correndo anche lui il rischio che noi lo scambiamo per un «fantasma», cioè una parvenza inconsistente, un nulla, un vuoto.

Pregare è imparare a riconoscere la presenza del Signore negli eventi della vita, nelle avversità, nel vento contrario, nel mare agitato, nella calma della bonaccia. Spesso Dio è un «fantasma» che agita il nostro sonno perché lo vorremmo magico, a nostra disposizione, ai nostri ordini, a «nostra immagine e somiglianza». In questo senso pregare è «illimpidirsi lo sguardo» perché essa ci insegna a purificare Dio da ogni vacuità-fantasma, da ogni segno di idolatria e ci educa a stare con lui «sull’altra riva», cioè sulla riva della consapevolezza, del discernimento e del dubbio, quello che anima la fede. Stare accovacciati sulla soglia della paternità per essere sempre pronti a coglierne le sfumature di tenerezza e di amabilità. L’Eucaristia è la scuola principe dove impariamo tutto questo, se non la trasformiamo in un fantasma di passaggio.

Mt 14,27-33: «27Ma subito Gesù parlò loro dicendo: “Coraggio, Io-Sono, non abbiate paura!”. 28Pietro allora gli rispose: “Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque”. 29Ed egli disse: “Vieni!”. Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. 30Ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: “Signore, salvami!”. 31E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?”. 32Appena saliti sulla barca, il vento cessò. 33Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: “Davvero tu sei Figlio di Dio!”».

Ancora un avverbio di tempo di immediatezza e coinvolgimento (subito) che elimina le distanze, azzera la paura: «Coraggio, Io-Sono». Il coraggio sta nell’identità. Non è esatto tradurre «Sono io» scialbo e banale. Mt usa il greco «Egô Eimì» che è il nome con cui nella Bibbia greca della LXX, traducendo il corrispettivo ebraico, «Yhwh» si presenta a Mosè sul Sinai. La preghiera non mette davanti alla «divinità», ma immerge nell’abisso dell’identità del Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, il Dio dei volti e dei nomi, il Dio dell’esodo, il Dio della storia e della liberazione, il Dio che «scende» in mezzo alle schiavitù per spezzare le catene e rendere la pienezza della libertà col codice dei comandamenti. Il Dio della mia vita.

È questa libertà che fa camminare Pietro sulle acque, anche se egli è incompleto e imperfetto, tanto da rischiare di affondare. «Signore, salvami». Non dice «Dio», ma «Signore», parola che solo dopo la risurrezione è abituale tra i discepoli e che è il fondamento della professione di fede, urlata dal pagano centurione romano che «avendolo visto spirare in quel modo, disse: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!”» (Mc 15,39).

La libertà e la morte di Dio sono il fondamento della sua alleanza e della sua volontà di salvezza. Quando preghiamo, Dio irrompe nella nostra vita e noi assumiamo la storia di Dio per farne la nostra quotidianità, mentre offriamo la nostra ordinaria esistenza per farne la salvezza di Dio che egli sparge sul mondo intero.

Nel pregare, quale atteggiamento vivo? Di sfida a Dio o di fiducia e confidenza? Quando prego, riesco a vedere la mano che il Signore mi tende? Mi lascio afferrare? O preferisco fare da me rischiando di affondare? O preferisco la palude delle grette banalità? Sono consapevole che per fare cessare il vento, è indispensabile essere «sulla barca» con lui?

Conclusione

In sintesi, per pregare bisogna passare dallo stato di «massa/folla» a quello di persona cosciente, passaggio che può avvenire anche attraverso una costrizione; è necessario salire dal basso verso l’alto; non basta salire, occorre salire sul monte, cioè al «luogo di Dio»; occorre sapere stare soli, anche a lungo, fino a sera, sapendo che la solitudine è coscienza di sé a differenza della solitarietà che è chiusura in sé; pregare è perdere tempo per e con la persona amata, qui Dio, Padre, amico compagno. Gesù perde tanto del suo tempo con il Padre suo: pregare per lui non è fuggire dalla vita, ma immergersi in essa per coglierne la trama intessuta di Dio. Gesù domina le acque e salva Pietro: nella preghiera noi impariamo a gestire la nostra vita per condividerla con la comunità, la Chiesa e il mondo per farne un dono a Dio che ce la restituisce in benedizione e santità. Insegnava un santo monaco che per entrare nello spirito della regola monastica non basta un paio d’anni di noviziato, ma occorrono cinquant’anni di vita di osservanza di essa per cominciare a respirarne lo spirito. Solo dopo può iniziare il noviziato, cioè l’ingresso nella vita monastica. Per la preghiera è lo stesso: non basta qualche preghiera, sparsa qua e là, occorre una vita di preghiera per imparare a respirare all’unisono col Padre, il Figlio e lo Spirito, affinché in punto di morte, si possa dire: Amen, oh, sì, eccomi! Ora so pregare perché sono orante.

Paolo Farinella, prete
[14, continua]




Cari missionari, lettere dai lettori

Usukhjargal

Usukhjargal è un simpatico bimbetto di 7 anni, che abita in una gher (la tradizionale tenda mongola) alla periferia di Arvaiheer, capoluogo polveroso della provincia dell’Uvurkhangai, in Mongolia, tra le montagne Khangai e la steppa che dirada verso il deserto. Ha l’occhio vispo di un bambino pieno di vita, mentre scende la collina stringendo la mano callosa di papà Jargalsaikhan che da tre anni aiuta noi missionari con i lavori manuali.

Sette anni fa i medici avevano sconsigliato alla mamma di portare a termine la gravidanza, sulla base di (presunte) mal-
formazioni, o più probabilmente perchè prevedevano un parto difficile, che avrebbe creato loro fastidi. Ed eccolo qui ora, saltando e correndo nel cortile della missione, con le immancabili gote rosse e il sorriso sulle labbra. I genitori sono stati così felici di averlo avuto che l’hanno ritenuto un dono di Dio e hanno chiesto per lui il battesimo quando aveva poco più di un anno.

È stato tra i bimbi del primo gruppo del nostro asilo informale ospitato in una gher dal 2013. L’asilo e iniziato con lui ed è un progetto che si sta rivelando molto positivo: sono molte le famiglie che per povertà ed emarginazione non riescono ad iscrivere i propri figli alle scuole materne statali. Così abbiamo pensato di crearne una con mezzi molto semplici e poco dispendiosi, valorizzando gli elementi culturali più sentiti, come appunto l’abitare nelle gher.

Usukhjargal adesso frequenta la seconda elementare, ma continua a venire tutti i giorni alla missione, dove si unisce agli altri bambini del doposcuola. In un’altra gher calda (anche quando fuori fa meno trenta) e accogliente, bambini e ragazzi delle scuole vengono a fare i compiti e a giocare, assistiti da due signore della comunità.

Il volontariato qui è ancora una novità, ma queste due mamme hanno capito che possono rendersi utili con quello che sanno fare e sono di esempio a tutti. Una di loro è Otgonbayar, la mamma di Usukhjargal. Cerchiamo così di promuovere la cultura della gratuità che fa ancora fatica ad affermarsi in un paese che sta emergendo da 70 anni di comunismo.

Due volte alla settimana Usukhjargal (insieme a tutti gli altri bambini e adulti che lo desiderino) viene a farsi la doccia alla missione, dove da otto anni è attivo un servizio di docce e bagni pubblici gratuiti. Nelle gher ovviamente non c’è acqua corrente e l’igiene personale è dunque ridotta al minimo, per non dire che è molto sacrificata.

All’asilo e al doposcuola cerchiamo di provvedere cibo buono e salutare, per supplire alle carenze vitaminiche di un’alimentazione poco variegata e talvolta insufficiente.

Un giorno, mentre Usukhjargal faceva la fila per lavarsi le mani prima di merenda, ho visto un bambino che gli bisbigliava all’orecchio. Mi sono avvicinato e ho sentito dire: «Sai che bello, mio papà adesso non beve più! Alla sera vediamo insieme la tv e non ci sono più urla e oggetti che volano dentro la  nostra gher…». È infatti un vero cammino di guarigione quello che il papà dell’amichetto di Usukhjargal ha intrapreso con un gruppo di uomini che si trovano regolarmente alla missione per cercare insieme una via che li faccia uscire dall’alcolismo, vera piaga sociale da queste parti. La missione è qui per tutti e può mettere in atto questi segni di prossimità e aiuto se è sostenuta da persone di buona volontà.

Guardando giocare Usukhjargal, non posso che ringraziare Dio per tutti coloro che in questi anni ci stanno permettendo di prenderci cura di lui e di tanti altri come lui, piccoli e grandi. È il miracolo della solidarietà che si rende concreto attraverso la Fondazione Missioni Consolata Onlus. Grazie.

Giorgio Marengo
Arvaiheer, 16/02/2018

Grazie per il dossier sui migranti

Buongiorno,
ho conosciuto la vostra bellissima rivista qualche anno fa, quando sono passato un po’ per caso alla Consolata con i miei studenti in visita di istruzione a Torino. Innamorato dei contenuti e del vostro stile, ho volentieri fatto l’abbonamento alla rivista, che ricevo e leggo sempre con attenzione.

In particolare ho trovato davvero fatto bene, sintetico ma insieme esaustivo, il dossier pubblicato nel numero di gennaio a firma di Daniele Biella, circa i migranti e il reportage dalla nave Aquarius. Poiché tratto spesso con i miei alunni temi che puntano a sensibilizzarli e a superare i molti, troppi luoghi comuni sull’argomento, vorrei poter diffondere il dossier a titolo informativo, anche in ambito comunale (sono consigliere comunale nel mio paese e accogliamo alcuni richiedenti asilo, ma con purtroppo molti pregiudizi tra i cittadini).

Dino Caliaro
27/01/2018

 

Grazie di cuore. Le ricordo che dal nostro sito è possibile scaricare il dossier come pdf e poi stamparlo.

Preghiere e novene

Gentilissimi,
seguo sempre con grande interesse la vostra rivista. Volevo dare un mio piccolo contributo inoltrandovi alcune preghiere, orazioni, novene a cui sono legate promesse molto potenti e/o grandi indulgenze. Ovviamente non è mia intenzione dirvi cosa dovete o non dovete pubblicare, solo queste preghiere mi hanno aiutato molto e credo possano aiutare anche tante altre persone. Così ho pensato di suggerirvene alcune, che magari già conoscerete o già avrete pubblicato, sperando arrivino a quante più persone possibile. Sperando di fare cosa gradita ringrazio in anticipo per l’attenzione e porgo distinti saluti

Monia
27/02/2018

Cara Monia,
le confesso che quando ho ricevuto la sua email con la lista di ben ventitré novene e preghiere (da quella – a me ignota – alla «Sacra Spalla» alla «Via Crucis» – che con le novene ha ben poco da spartire), il primo pensiero è stato «un altro spam. Cestina». Poi ci ho ripensato perché poteva diventare un’opportunità per questa pagina di dialogo con i lettori. Il tema della preghiera, sul quale ormai da oltre un anno sta scrivendo don Paolo Farinella, sta suscitando molto interesse perché tocca il cuore della vita cristiana. In questo contesto è abbastanza chiaro che stiamo cercando di proporre uno stile di preghiera biblicamente e liturgicamente fondato, provando a evitare devozionalismi e pietismi, pur rispettando la vera «pietà popolare» e le sue ricche tradizioni.

Noi che viviamo dopo il Concilio Vaticano II abbiamo ricevuto un dono grandissimo: quello dell’Eucaristia – la «messa» – che è passata da «rito e obbligo» a «celebrazione e incontro» di salvezza nello spezzare la Parola (finalmente comprensibile a tutti) e il Pane. L’Eucarestia è al cuore della nostra preghiera, tutto il resto viene da quel fare memoria viva della Pasqua e alla messa tutto ritorna per diventare offerta gradita a Dio.

Le «preghiere, orazioni, novene a cui sono legate promesse molto potenti e/o grandi indulgenze», possono anche aiutare, ma hanno il rischio di mantenere in noi una falsa concezione di Dio, un Dio che ha ripetutamente bisogno di essere supplicato e che ascolta solo se si recitano con fedeltà e insistenza certe formule.

Che contrasto tra la prolissità e ripetitività di molte novene e la sobrietà della preghiera di Gesù. Ai discepoli che gli chiedono «insegnaci a pregare» (Lc 11,1-4), lui offre solo la brevissima preghiera del «Padre», senza fare promesse, senza mettere condizioni né sul numero di volte né per quanti giorni né sulle modalità (in piedi, seduti, inginocchiati…).

Quando Gesù dorme sulla barca nella tempesta (Mc 4, 37-40 – figura della Chiesa e di noi nelle difficoltà della vita) ai discepoli spaventati non dice di pregare i salmi, di fare rituali, di recitare speciali invocazioni: chiede solo di avere fede.

E quando nella stessa barca vanno in panico perché non hanno «pane» (Mc 8,14-21) li rimprovera perché «non hanno capito» il miracolo del pane, cioè l’Eucarestia, il «Pane di vita» spezzato per noi e sempre presente in mezzo a noi. Anche per noi, nelle acque tempestose dei nostri tempi, la forza viene dalla fede che sostiene la nostra preghiera, non dal numero e tipo di preghiere che recitiamo. Gesù ci ha fatto una promessa: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Impariamo a camminare con lui, sapendo che c’è sempre, anche se a volte sembra dormire.

Galeano

Eduardo Galeano (AFP files / Pabro Porciuncola)

Solo adesso ho letto l’articolo su Galeano, contenuto nel numero di dicembre della rivista. Sono allibito nel leggere le dichiarazioni di Gianni Minà sul Venezuela, e soprattutto a leggerle su una rivista come Missioni Consolata. Quanto viene detto dai giornali occidentali, compreso il nostro Avvenire, sulla disastrosa situazione dei diritti umani dei venezuelani viene trattato con disprezzo dal giornalista. Le recenti elezioni della Costituente sono state vinte da Maduro? Ma queste elezioni sono state illegali, il presidente Maduro non aveva nessun diritto di eliminare il Parlamento, eletto comunque democraticamente, in un paese dominato prima da Chavez e adesso dall’ex camionista Maduro, e di sostituirlo con la Costituente. L’opposizione non ha potuto fare niente per fermare lo strapotere dei chavisti e decine di persone sono state uccise dalla polizia durante le manifestazioni di protesta in difesa della democrazia. I venezuelani sono alla fame, già decine di bambini sono morti di stenti e la colpa non è certo dei cosiddetti «servizi di intelligence nordamericani». La colpa è dell’arroganza del potere e dell’incapacità di far fronte ai bisogni della popolazione, ridotta a fare lunghissime code di fronte a negozi che non hanno quasi nulla da vendere. D’altronde, Gianni Minà è ben conosciuto per la sua amicizia con Fidel Castro prima e adesso con Raùl, il fratello che ha preso il potere. I cubani stanno un po’ meglio dei venezuelani, per loro fortuna, ma Gianni Minà non dovrebbe dimenticare che i Castro hanno accumulato un’immensa fortuna nel povero paese caraibico; l’attuale presidente Castro controlla direttamente tutta l’economia cubana, e ne ha approfittato largamente. Non è la prima volta che su Missioni Consolata vengono pubblicati articoli molto discutibili, già anni fa avevo letto le lodi della «presidenta» cilena Michelle Bachelet che. come tutti sanno, è una sostenitrice della «salute riproduttiva», cioè dell’aborto. Ma che linea ha scelto Missioni Consolata? Il fondatore sarebbe d’accordo se fosse ancora vivo? Perché non vi leggete gli ottimi articoli che Avvenire ha dedicato alla crisi venezuelana? E l’Avvenire non è certo al servizio delle «agenzie di informazione nordamericane». Da una rivista cattolica mi aspetto come prima cosa un’informazione corretta, non di regime. Distinti saluti.

Franco Eustorgio Malaspina
Milano, 03/02/2018

Caro Sig. Malaspina,
grazie di averci scritto. Le confesso che mi ha sorpreso che sia «allibito» di fronte a quanto ha scritto Minà sul Venezuela visto che sembra conoscere le frequentazioni dello stesso e quindi sapere bene come la pensa. Circa la «presidenta» Michelle Bachelet (di cui abbiamo scritto nel maggio e giugno 2014) è certamente discutibile nel suo appoggio alla «salute riproduttiva», ma ha pagato con la prigione e la tortura il suo impegno politico, mentre il generale Pinochet, pur devoto della Madonna, non ha esitato a imprigionare, torturare e uccidere i suoi oppositori.

Non siamo né fans di Castro né di Chávez, tantomeno di Maduro. I Castro, come dice lei, hanno pur accumulato un’immensa fortuna, ma non risultano certo nella lista dei più ricchi del mondo. Quel signore che fa spedire pacchi a mezzo mondo e vuole mettere il «braccialetto» ai suoi operai perché lavorino «meglio», è immensamente più ricco di loro e di tanti altri.

Se poi ci segue in rete, avrà visto che sulla nostra pagina Facebook abbiamo segnalato più e più volte proprio le pagine di Avvenire sia sul Venezuela che su altre gravi situazioni del mondo. Ammetto che su questa rivista non abbiamo più pubblicato articoli specifici sulla situazione di quel paese (l’ultimo è dell’agosto 2016). E questo è un errore, anche se continuiamo a seguirne la drammatica situazione grazie ai nostri missionari e agli amici che abbiamo sul posto.

Che direbbe poi il nostro Fondatore? Nel nostro piccolo, noi cerchiamo di fare un’informazione documentata e approfondita che permetta al lettore di farsi la sua opinione su situazioni, fatti e persone. Su questo l’Allamano non penso avrebbe da obiettare. Scriviamo «slow news» (facendo il verso al fast food) proprio perché non vogliamo imporre niente a nessuno, ma servire la verità con una speciale attenzione ai poveri, agli emarginati e a quelli che sono ignorati dalla grande comunicazione. Non siamo esenti da errori e possiamo sbagliare. Riportare fatti e opinioni di persone che non vivono o sono contro i principi cristiani non è sposarne le idee e rinunciare alla nostra fede e religione. Siamo pronti a essere corretti e a confrontarci su fatti e idee. Per questo la ringraziamo ancora della sua email.

Petrolio causa di tensioni nel mondo

Nell’articolo sull’Ecuador (MC 12/2017) si parla della curiosa proposta dell’ex presidente Correa di chiedere un contributo alla comunità internazionale per non estrarre petrolio da una zona ecologicamente sensibile. Non si vede bene quale comunità sarebbe interessata a dare un contributo a un presidente sudamericano, che poi potrebbe diventare un Maduro, il quale forse si fa pagare in proprio per non estrarre più il petrolio venezuelano, convenientissimo ma con aziende in preda al marasma e con attrezzature che mancano anche dell’ordinaria manutenzione.

Ma probabilmente sono interessate le banche Usa che han prestato i soldi alle società che praticano il fracking devastando l’Ovest di Usa e Canada, ma assicurando loro l’autonomia energetica. Se il petrolio scende stabilmente sotto i 50 euro falliscono sia le società che le banche, e finora l’unico costosissimo sistema di non farlo scendere è di impedire la produzione in Iraq e Siria, attizzando continue complicatissime guerre, e possibilmente d’ora in poi razionare gli acquisti dall’Iran. E mantenere uno stato di tensione che impedisca anche solo di progettare un investimento per l’estrazione sottomarina dal Mediterraneo orientale, tra Cipro e l’Egitto, l’area più incasinata del mondo, ma con petrolio e gas molto convenienti.

Claudio Bellavita
02/02/2018

Lascio la risposta a Paolo Moiola, autore dell’articolo.

La proposta dell’ex presidente Correa è stata ritirata dallo stesso (quando era ancora in carica) a causa della scarsa risposta avuta a livello internazionale. L’idea era rivoluzionaria in quanto avrebbe consentito di salvaguardare uno scrigno mondiale di biodiversità qual è quella parte di Amazzonia ecuadoriana. Senza parlare della mancata emissione di CO2 nell’atmosfera che avrebbe contribuito a mitigare le conseguenze del cambio climatico. Quanto all’eventuale trasformazione di Correa, egli non è più presidente e vive in Belgio, paese della moglie. Dunque, il rischio che diventi un altro Maduro – come paventa il lettore – non sussiste.

 




Insegnaci a pregare 13:

La preghiera crea e rinnova

Di Paolo Farinella |


Perché preghiamo? Perché Paolo supplica i Tessalonicesi di «pregare ininterrottamente» (1Ts 5,17), definendo così espressamente la preghiera come «stato permanente» e non come una serie di «momenti» collezionati uno dopo l’altro, magari separati dalla vita? Perché nei racconti della passione di Gesù, tutti e tre gli evangelisti sinottici (Marco, Matteo e Luca) riportano l’invito di Gesù a vegliare e a pregare? (Mt 26,41; Mc 14,38; Lc 21,36). La veglia esige la massima attenzione e dunque la preghiera è un atto responsabile come di chi veglia sulla sicurezza degli altri. Genitori, insegnanti, vescovi, preti, religiosi, monaci e monache hanno coscienza che per loro pregare è stare sugli spalti a garantire la sicurezza dei figli, dei discepoli, dei piccoli, del mondo?

La risposta è in Gv 8,31-32: «Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». La traduzione della Cei-2008 è più abbondante del testo greco che testualmente dice: «Se voi restate/dimorate/aspettate nella parola, quella mia, veramente discepoli miei siete». Il verbo «mèn?» indica lo stare stabilmente, cioè il dimorare che comporta e comprende anche l’attesa, cioè un sentimento di relazione tra chi è «nella dimora» e chi non c’è ancora, ma sia l’uno che l’altro, pur assenti fisicamente, sono presenti nel desiderio, nella tensione. Lo sanno gli innamorati che sperimentano l’attesa con un’intensità maggiore di quella dell’incontro stesso. Per vivere però la preghiera come stato di vita, è necessario esercitarsi, cioè fare esercizi per imparare, educarsi, verificare e sapere sempre «dove» ci si trova. Proviamo a vedere se riusciamo a impostare la preghiera non «come viene viene», ma con metodo e disciplina.

Metodo:

a. Scegliere un tempo delimitato per la preghiera (un quarto d’ora, mezz’ora, un’ora) e osservarlo scrupolosamente, orologio alla mano. Può sembrare una banalità, ma è una questione di disciplina seria.

b. Scegliere una posizione corporale adeguata, escludendo tassativamente solo il camminare, perché per sua natura è distrattivo, dispersivo. Si può stare seduti, coricati, in piedi, semi-inginocchiati, ecc.

c. Spegnere (non silenziare!) cellulare o altri aggeggi che, senza accorgercene, possono diventare i nostri «idoli».

d. Invocare lo Spirito Santo che venga in aiuto alla nostra fragilità (cf Rm 8,26). In una prima fase, propedeutica, si può utilizzare l’inno dei Primi Vespri di Pentecoste: «Veni, Creator Spiritus – Vieni Spirito Creatore».

e. Poi seguire ogni volta i seguenti passi:

  • 1° Passo: scegliere un testo biblico. Se si ha un criterio personale, si segua quello, oppure si prenda un libro dell’AT o del NT (non i Salmi).
  • 2° Passo: leggere il testo scelto di seguito fino in fondo, cercando di capirne il senso generale, l’insieme.
  • 3° Passo: rileggere il testo, più lentamente e fermarsi sulle parole che sembrano più significative.
  • 4° Passo: rileggere per la 3a volta, ma questa volta soffermarsi sulle azioni, espresse dai verbi, sottolineandoli.
  • 5° Passo: con quale persona o protagonista o azione m’identifico? Nel testo «dove» mi colloco?
  • 6° Passo: la Parola di Dio parla a me, adesso e qui: cosa dicono a me le parole? Dove sto io «nella» Parola?
  • 7° Passo: rileggo il testo in modo che le singole parole scorrano dentro il cuore come un rivo d’acqua e scruto quale senso acquistano «per me». Scegliere la parola «chiave» che rivela me a me stesso.
  • 8° Passo: ringraziamento allo Spirito Santo per aver concesso il tempo di «stare sulla Parola» (Gv 8,31-32).
  • 9° Passo: andare nella vita portando il sapore e la «parola chiave» che abbiamo pregato, ripetendola come ritornello.

Un esercizio su Genesi 1

Propongo, come esercizio il testo di Gen 1, il racconto sacerdotale (sec. VI-IV a.C.) che la liturgia propone come 1a lettura nella Veglia di Pasqua di ogni anno. Molti lo considerano arido, monotono, ripetitivo e non sanno cosa si perdono.

Leggiamo il testo una volta in modo continuo per avere un’idea del senso generale in sé. Usiamo il testo della Bibbia-Cei (2008), anche se non ci piace, perché stiamo pregando e non facendo esegesi.

Dal libro della Gènesi 1,1-2,2

1In principio Dio creò il cielo e la terra. 2La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque.
3DISSE Dio: «Sia la luce!». E la luce fu.
4Dio vide che la luce era cosa buona e Dio separò la luce dalle tenebre. 5Dio chiamò la luce giorno, mentre chiamò le tenebre notte.
E fu sera e fu mattina: giorno primo.

6DISSE Dio: «Sia un firmamento in mezzo alle acque per separare le acque dalle acque». 7Dio fece il firmamento e separò le acque che sono sotto il firmamento dalle acque che sono sopra il firmamento. E così avvenne. 8Dio chiamò il firmamento cielo.
E fu sera e fu mattina: giorno secondo.

9DISSE Dio: «Le acque che sono sotto il cielo si raccolgano in un unico luogo e appaia l’asciutto». E così avvenne. 10Dio chiamò l’asciutto terra, mentre chiamò la massa delle acque mare. Dio vide che era cosa buona. 11DISSE Dio: «La terra produca germogli, erbe che producono seme e alberi da frutto, che fanno sulla terra frutto con il seme, ciascuno secondo la propria specie». E così avvenne. 12E la terra produsse germogli, erbe che producono seme, ciascuna secondo la propria specie, e alberi che fanno ciascuno frutto con il seme, secondo la propria specie. Dio vide che era cosa buona.
13E fu sera e fu mattina: giorno terzo.

14DISSE Dio: «Ci siano fonti di luce nel firmamento del cielo, per separare il giorno dalla notte; siano segni per le feste, per i giorni e per gli anni 15e siano fonti di luci nel firmamento del cielo per illuminare la terra». E così avvenne. 16E Dio fece le due fonti di luce grandi: la fonte di luce maggiore per governare il giorno e la fonte di luce minore per governare la notte, e le stelle. 17Dio le pose nel firmamento del cielo per illuminare la terra 18e per governare il giorno e la notte e per separare la luce dalle tenebre. Dio vide che era cosa buona.
9
E fu sera e fu mattina: giorno quarto.

20DISSE Dio: «Le acque brùlichino di esseri viventi e uccelli volino sopra la terra, davanti al firmamento del cielo». 21Dio creò i grandi mostri marini e tutti gli esseri viventi che guizzano e brùlicano nelle acque, secondo la loro specie, e tutti gli uccelli alati, secondo la loro specie. Dio vide che era cosa buona. 22Dio li benedisse: «Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite le acque dei mari; gli uccelli si moltiplichino sulla terra».
23E fu sera e fu mattina: giorno quinto.

24DISSE Dio: «La terra produca esseri viventi secondo la loro specie: bestiame, rettili e animali selvatici, secondo la loro specie». E così avvenne. 25Dio fece gli animali selvatici, secondo la loro specie, il bestiame, secondo la propria specie, e tutti i rettili del suolo, secondo la loro specie. Dio vide che era cosa buona.

26DISSE Dio: «Facciamo Àdam a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: dòmini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutti gli animali selvatici e su tutti i rettili che strisciano sulla terra».

27E creò Dio Àdam a sua immagine; / a immagine di Dio lo creò: / pungente e forata li creò.

28Dio li benedisse e Dio DISSE loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra».

29DISSE Dio: «Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra, e ogni albero fruttifero che produce seme: saranno il vostro cibo. 30A tutti gli animali selvatici, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli esseri che strisciano sulla terra e nei quali è alito di vita, io do in cibo ogni erba verde». E così avvenne. 31Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona.
E fu sera e fu mattina: giorno sesto.

2,1Così furono portati a compimento il cielo e la terra e tutte le loro schiere. 2Dio, nel giorno settimo, portò a compimento il lavoro che aveva fatto e cessò nel giorno settimo da ogni suo lavoro che aveva fatto.

Entrare nel testo

Rileggiamo il testo più lentamente e sottolineiamo le parole che riteniamo importanti, specialmente verbi, comandi, protagonisti, avverbi. Gesù ha detto che «non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto» (Mt 5,18). È quanto accade adesso e qui per me che prego: si compie in me la Parola perché io diventi «Parola di Dio», Parola di carne. In questo esercizio facciamo una scelta, che è indicativa, ben sapendo che «ogni singola parola» racchiude in sé «settanta significati»: spetta a noi scoprirli e farne il contenuto della nostra vita. Nello spazio di un articolo non possiamo dilungarci troppo.

Il senso generale che emerge dal testo è un cantiere animato. Dio ordina, comanda e le cose ubbidiscono e si realizzano. In questo brano troviamo queste ricorrenze: disse (10 volte) separò (5 volte), avvenne (4 volte), benedisse-siate fecondi (2 volte), portare a compimento (2 volte), e fu sera e fu mattino (6 volte), secondo la propria specie (5 volte).

Osservazioni oranti

Notiamo l’ostinazione del verbo «disse» (10 volte) cui corrisponde il «ritmo del tempo», declamato come un ritornello responsoriale: «e fu sera e fu mattina: giorno primo, secondo, ecc.» (6 volte). Verbo e ritmo emergono da un contesto negativo che è la non-forma della terra, la quale per giunta è deserta, aggravata dall’oppressione dell’abisso. Un senso di oppressione avvolge tutto, stemperato da uno spiraglio lontano perché in questo vuoto, dominato dal buio totale, aleggia (alla lettera: cova) il «soffio-ruàch» in attesa dello scoppio del primo «Disse». È la Parola che rompe il vuoto abissale e s’impone.

Non solo, ma a ogni «disse» corrispondono un ordine e una esecuzione: Dio crea parlando e parla creando. L’azione più importante che segue è una costante opera di «separazione/distinzione»: la luce dalle tenebre, il firmamento dal mare, la terra ferma dal mare, il giorno dalla notte. Poi segue un processo di fecondità «secondo la propria specie» (per 5 volte).

Ci fermiamo qui, per motivi di spazio per riprendere nella prossima puntata lo stesso testo. Ora tiriamo qualche conclusione.

  1. Se provo un senso di vuoto o d’inutilità, penso che sono nella condizione per una «ricreazione» della mia vita? Mi rendo conto che «il soffio-ruàch di Dio» alleggia su di me, «mi sta covando»?
  2. Cosa impedisce in me l’esplosione del «Disse» di Dio?
  3. Per chiamare le cose che crea con il proprio nome, Dio prima deve fare opera di separazione. Ogni separazione comporta sempre tagli e distinzione. So che per mettere ordine nella mia vita devo «buttare tutto all’aria» e poi cominciare «con disciplina e ordine» a catalogare scelte, azioni, sentimenti, progetti, decisioni «secondo la propria specie»?
  4. La mia vita è simile a una biblioteca, dove i libri non possono stare alla rinfusa, ma secondo uno schedario ordinato e praticabile. Posso contare le volte che ho messo «ordine» nella mia vita? Con quale risultato? Coloro con i quali mi rapporto, possono trovare in me con facilità «il volume» che interessa loro o si trovano disorientati? In che modo posso essere strumento del «disse Dio» se io non ne ho coscienza?
  5. Posso vivere alla rinfusa, o devo avere un ritmo costante e rigoroso? (1° – 2° – 3°… giorno… e fu sera e fu mattino?). So distinguere la sera dal mattino? Cosa vuol dire per me: «Separare la luce dalle tenebre»?
  6. Chiamo tutto ciò che riguarda la mia vita «per nome»? Oppure vivo alla giornata per forza d’inerzia?
  7. Se vivo per forza d’inerzia o per abitudine, come posso essere fecondo/a «secondo la mia specie»? Mi sono mai chiesto quale sia «la mia specie»?
  8. Mi sperimento come «immagine» di Dio e capisco cosa significa? Se sono «immagine», penso mai che la credibilità di Chi rappresento passa attraverso la mia vita, le mie scelte, il mio comportamento?

Si può proseguire così, ritornando sul testo, rimuginandolo, ruminandolo, senza prendere alcuna decisione, ma facendo danzare nel proprio cuore i sentimenti e le intuizioni che la Parola di Dio ha suscitato. Scegliere un verbo del testo o una espressione che più si è insinuata «dentro» e ripeterla nella giornata, cercando di capire dove si colloca nel proprio intimo: è la «chiave» tra un tempo di preghiera e l’altro. Così tutta la vita si prepara a sentire risuonare la Parola in modo perenne: «Disse Dio» e ora «Dice a me», qui.

Un accorgimento: trascrivere le parole o i versetti che si sono percepiti come più importanti e portarseli dietro, leggendoli durante la giornata in modo veloce, senza ansia, come il respiro di un Amen. Ciò che importa è sorseggiare lentamente tutta la Parola di Dio, parola per parola, mangiandola fino a gustarne la dolcezza, come fece il profeta Ezechiele che mangiò il libro e sperimentò il gusto del miele (Ez 3,1-3).

Paolo Farinella, prete
 [La Preghiera, 13 – continua]




Insegnaci a pregare 12.

Pregare Dio senza dargli riposo

Di Paolo Farinella |


Dopo il successo della moltiplicazione dei pani, leggiamo nel vangelo di Matteo: «Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo» (Mt 14,23). In appena un versetto c’è tutta la vita di Gesù: la folla, il monte, la preghiera, il tempo, la sera, la solitudine. Solo «sul finire della notte, cioè all’alba, egli andò verso di loro camminando sul mare» (Mt 14,25). Per tutta la notte, Gesù ha vissuto l’esperienza del salmista: «In te si rifugia l’anima mia / all’ombra delle tue ali mi rifugio», perché all’alba possa danzare la vita nascente: «Svegliati mio cuore / svegliatevi, arpa e cetra / voglio svegliare l’aurora» (Sal 57/56,2.8-9). La preghiera di Gesù è notturna, la prospettiva è diurna; prega da solo, ma per andare «verso di loro».

Il ritmo della notte

La notte è silenzio e raccoglimento, nella notte rallentano le distrazioni, aumenta il bisogno di tenerezza da condividere, «si amoreggia» (fratel Arturo Paoli) o con il partner o con Dio. Gesù prega, «amoreggia» col Padre per prepararsi a non essere neutrale nel cuore della storia che tutti i giorni ricomincia all’alba. In lui nessuna traccia d’intimismo o di ripiegamento su se stesso, al contrario, la sua preghiera è un trampolino di lancio verso il mondo, l’umanità, verso la vita. Dopo avere cercato Dio ed essere rimasto con lui per tutta la notte, ora è pronto per annunciare la nuova umanità: «Beati i poveri»! Chi ha pane e sta con Dio, non può non spezzarlo con tutti. Si fa presto, però, a dire «cercare e trovare» Dio! Tutte le forme di spiritualità e i movimenti hanno la pretesa di insegnare a cercare Dio e garantiscono anche la via per trovarlo. In verità molti cercano proseliti, non testimoni del «Dio a perdere». Somigliano a coloro che promettono risultati mirabolanti di diete senza digiuno o sudore, o a chi garantisce l’apprendimento di una lingua in «tre settimane». Dio ridotto a un tecnicismo.

Non siamo sicuri che sia così semplice. Se per cercare e trovare Dio bastasse entrare in un movimento o scegliere una specifica spiritualità o «tre settimane», neppure residenziali, il mondo sarebbe un Eden di mistici e beati «stiliti», dritti e immobili su una colonna, glorificanti e pacificati. Nemmeno i monasteri di clausura sono «luoghi» certi della presenza di Dio; a volte possono anche essere luoghi della negazione non solo di Dio, ma anche della comunione fraterna. Stare insieme fisicamente, circoscritti in uno spazio, con i tempi contingentati, non significa di per sé «essere comunità», sacramento visibile della Gerusalemme celeste (vedi approfondimento più sotto).

Tutte le comunità corrono sempre il rischio di essere «mucca da mungere», da cui ognuno succhia il proprio latte, ma che nessuno si preoccupa di nutrire. Perché la comunità, la famiglia, il matrimonio, la coppia, il gruppo, siano segno della Gerusalemme celeste «visibile», è necessario che siano coniugati sullo stesso registro tre pilastri: l’individualità, la comunità e la Trinità come metro di misura. Altrimenti, ci troviamo dentro una qualsiasi associazione d’interesse e di sfruttamento.

Nota esegetico spirituale

Cercare Dio è un «ritorno al principio», bisogno primario della persona e biblicamente si coniuga con l’altro termine «trovare»; insieme formano un binomio essenziale: «cercare-trovare». Noi cerchiamo Dio, ma lui si fa trovare? Donna Sapienza ci assicura di lasciarsi trovare da coloro che la cercano (cfr. Pr 8,17), mentre l’amante donna del Cantico dei Cantici per ben tre volte cerca l’amato del suo cuore, ma senza riuscire a trovarlo, anzi afferma espressamente: «Non l’ho più trovato» (Ct 3,1.2;5,6). Eppure il binomio «cercare-trovare» è tipico dell’innamoramento; la stessa donna innamorata del Cantico dei Cantici non si rassegna e corre per le vie di Gerusalemme alla ricerca dell’amato: lo trova, lo smarrisce e lo ritrova. Noi credenti, se innamorati, possiamo cercare e trovare nella Parola il volto di Dio e il riflesso del nostro cuore che si rispecchia in lui per apprendere orizzonti, comportamenti e atteggiamenti.
Il salmista, dal canto suo, mette in moto il cuore per cercare il volto del Signore e ne fa un vanto di gloria (cfr. Sal 27/26,8; 105/104,3). Per Amos (sec. VIII a.C.) «cercare il Signore» è vivere e nutrirsi della sua Parola che però non è facile trovare se non si conosce già ciò che si vuole (cfr. Am 5,4.6; 8,12). Il profeta Michèa (sec. VIII a.C.) ribalta la questione: è il Signore che cerca noi e da noi vuole solo giustizia, tenerezza e comunione (cfr. Mic 6,8). A essi risponde il 1° Isaìa (sec. VIII a.C.) dicendo che cercare il Signore è sinonimo di prendere coscienza dello stato di desolazione in cui da soli ci siamo ridotti (cfr. Is 26,16). Il 2° Isaìa nel VI sec. a.C. descrive la volontà di Dio che è sempre reperibile perché non gioca a nascondino per farsi cercare nel caos/vuoto (cfr. Is 45,19), mentre il 3° Isaìa, nel sec. V-IV a.C., ha una prospettiva più universalistica e ci assicura che il Signore si fa trovare anche da coloro che non lo cercano affatto (cfr. Is 65,1).

Sant’Agostino sintetizza tutto questo percorso con le parole insuperabili delle Confessioni che rispecchiano la sua esperienza personale, ma anche l’anelito di ogni vivente: «Fecisti nos ad Te, et inquietum est cor nostrum, donec requiescat in Te – Ci hai creati per te e il nostro cuore sta inquieto finché non trova riposo in Te» (Sant’Agostino, Le Confessioni, 1, 1, 1: CCL 27, 1 [PL 32, 659-661]).

 

L’idolatria sempre in agguato

Occorre stare attenti perché Dio può anche essere un «idolo» che noi scambiamo per Dio. Spesso sono le persone religiose che trasformano Dio in un idolo, dando così il fianco a chi ritiene di avere ragioni per negare la serietà di Dio e l’inutilità dei monasteri di clausura o dei conventi o delle congregazioni religiose, visti dall’esterno come comodi rifugi per una vita senza preoccupazioni: pasto, letto, tetto, e (forse) cultura sono assicurati, che piova o faccia freddo, perché è garantita la sicurezza dell’oggi e del domani. Il «voto di povertà» può diventare la massima garanzia «previdenziale» e assicurativa della vita: «Nihil habentes et omnia possidentes» (2Cor 6,10), capovolgendo la prospettiva del Vangelo e dell’apostolo Paolo. Noi credenti dobbiamo stare attenti a non fare di Dio il nostro «idolo» perché si può essere religiosi atei, si può essere atei e laicisti devoti per interesse, si possono osservare tutte le regole della vita religiosa e vivere nella totale assenza di se stessi a Dio. Gli idoli sono necessari agli impiegati della religione per semplificare la vita, trasformando Dio in un «tappabuchi» (Bonhöffer) sostitutivo della nostra incapacità di essere veri e autentici nella trasparenza evangelica della verità di Dio.

La preghiera, lo abbiamo visto e anche ripetuto molte volte, non è macinare parole o ingurgitare sospiri, ma purificare ciò che noi pensiamo di Dio, illimpidire lo sguardo per imparare a vedere e scrutare con gli occhi di Gesù, esercitarsi a pensare come lui in ogni circostanza, non secondo questa o quella filosofia, questa o quella ascetica, questa o quella convinzione o morale. Il concilio Vaticano II ci ha messi in guardia dal rischio che il Dio in cui diciamo di credere sia veramente il Dio di Gesù Cristo (Gaudium et Spes, nn. 19-20). Il comandamento di «non nominare il nome di Dio nel vuoto» (Es 20,7) non è rivolto ai bestemmiatori, ma ai credenti che impudicamente usano Dio come una merce o peggio una clava per ammazzare, distruggere, annichilire, mettere a tacere gli altri, identificandolo come sponsor della propria ragione e del torto altrui.

Vigilare la consuetudine

Pregare è un’altalena: «Lui deve crescere e io diminuire» (Gv 3,30). Nella preghiera occorre fare spazio al Signore che non è mai invadente e proporzionalmente diminuire i preconcetti, le certezze, le sicumere, le durezze che, come spazzatura, occupano spazi che meritano migliore distribuzione. Siamo talmente abitudinari nel nostro rapporto con Dio da averne perso completamente la memoria: viviamo per forza d’inerzia, andiamo avanti per schemi, senza nemmeno pensare o capire o accorgerci che inerzia e schemi hanno preso il posto dell’incontro. Quando qualcuno dice: «Vivo un tempo di aridità spirituale», oppure «mi distraggo quando dico le preghiere», che cosa significa se non che si sono smarriti nel dedalo dell’usuale, del convenzionale e delle formule? Dire «le» preghiere, ecco il punto. L’uso del plurale è sintomatico perché esprime l’idea che si tratti di una pratica acquisita, come prendere una medicina, a orari fissi (mattina, sera) per togliersi il pensiero. Non c’è la passione della vita o dell’intreccio della relazione. Si recita. Come in un piccolo teatro personale. Pregare, invece, è lasciarsi restituire da Dio la vita insieme alla nostra responsabilità e alla nostra dignità di testimoni della sua Presenza (Shekinàh).

Gesù si ritira in preghiera perché deve riordinare le coordinate dopo essere stato con la folla che ha appena sfamato, moltiplicando il pane con l’obiettivo di invitarla a cercare il pane che non perisce (cfr. Gv 6). La folla non capisce perché «cerca» un «utile» immediato. Per capire il nesso degli eventi e la direzione della sua vita, deluso da questo atteggiamento, Gesù prende una decisione drastica: congeda la folla, se ne stacca e si libera dall’ossessione del risultato. Di fatto, è il primo fallimento di Gesù. Da questo momento, egli si dedica alla formazione dei discepoli ai quali impartisce una serie di lezioni per educarli a vedere oltre i segni, oltre le apparenze, come ha appreso lui nell’intimità orante col Padre. Non insegna loro come raggiungere un risultato, ma come devono essere loro e quale metodo devono utilizzare per essere sempre se stessi, fedeli alla loro missione che coinvolge direttamente il nome e il volto di Dio.

Gesù si preoccupa che i discepoli si stacchino dalla logica della folla, come se volesse proteggerli dal virus mortale del consenso e del successo: li manda all’altra riva, anzi li «costrinse a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva» (Mt 14,22). Come una mamma che difende i suoi piccoli, resta lui da solo a fare da scudo, preservandoli dalla folla. La folla non è mai popolo e i discepoli non possono mondanizzarsi, devono vedere le cose da un altro punto di vista, dall’alto, e per questo devono imparare a ragionare, a pensare come Dio, cioè a pregare per illimpidirsi lo sguardo del cuore per potere vedere nel profondo della realtà. Non è facile, per questo Gesù insegna loro come fare. Scrive Madeleine Delbrêl (1904-1964), una tra le più grandi mistiche di ogni tempo:

«La fede non è forse vita eterna impegnata nel temporale? Noi ci vediamo costretti a raccordare la nostra vita di cristiani con tutto ciò che per noi è attuale: accelerato, momentaneo, immediato. Non è che questo ci costringa a credere diversamente, ci costringe a vivere diversamente» (Madeleine Delbrêl, È stato il mondo a farci così timidi? Uno scritto inedito, Editrice Berti, Piacenza 1999, 16-17).

Matteo riporta in 14,22-33 il racconto di Pietro che rischia di affondare in mare. Dopo il fallimento con le folle, Gesù si prende cura dei suoi discepoli, impartendo loro la prima lezione di vita di fede. L’evangelista mette in evidenza di proposito l’attenzione particolare di Gesù verso Pietro (cfr. anche Mt 16,16-21; 17,24-27), legato ai propri schemi limitati e non ancora libero di gettarsi al collo di Dio. È vero che si lancia fuori dalla barca, ma rischia di affondare perché lo fa con riserva e non con l’abbandono che Gesù esige con il suo «Vieni!». D’altra parte come può avere paura uno che pensa di essere «afferrato» dal desiderio di raggiungere l’amore? Per non sprofondare, Pietro ha bisogno di una «mano tesa» che lo «afferri» (Mt 14,31), salvandolo dalla povertà della sua «poca fede». Gesù è già lì, pronto col braccio teso, prima ancora che Pietro possa invocare: «Salvami!».

Nota linguistica.

L’espressione: «Dopo avere steso la mano, lo afferrò», è un’espressione idiomatica semita, che dimostra come spesso gli autori del NT pensano in aramaico/ebraico e scrivono in greco. Le lingue semite sono descrittive per eccellenza: l’azione della mano, infatti, è osservata dall’inizio alla fine dell’opera di salvamento: per afferrare Pietro, occorre prima stendere la mano verso di lui (cfr. Gen 22,10), azione che denota la volontà decisa d’intervento.

 

Solo superando le ipotesi su Dio Pietro riesce a invocare Dio

© Gigi Anataloni

Nonostante il Signore si faccia riconoscere e infonda coraggio, la paura permane e genera diffidenza; Pietro, infatti, insicuro, mette alla prova il Signore: «Signore, se sei tu…» (Mt 14,28) che è la stessa richiesta del diavolo nelle tentazioni: «Se tu sei figlio di Dio…» (Mt 4,3.6). Durante la passione ritroveremo Pietro che rinnegherà tre volte l’identità di Gesù, sconfessando la sua, negando cioè di essere quello che è: suo discepolo (cfr. Mt 26,69-75; cfr. Gv 18,17.25-27). Tra tutti i discepoli, Pietro è il più fragile, il più pauroso e il più insicuro: non sempre l’autorità brilla per chiarezza, coerenza e dignità. Egli di fronte a Gesù che cammina sulle acque, ubbidisce alla parola materiale del Maestro che lo chiama a dominare le acque con lui, ma nel suo cuore vacilla, dubita e non fidandosi non si affida alla Parola che lo sostiene: egli vuole «fare come Gesù», ma basta la contrarietà del vento per dargli la sensazione del pericolo. Un discepolo non è mai la fotocopia del maestro altrimenti non somiglierebbe a colui che costruisce la casa sulla sabbia (cfr. Mt 7,26-27) e frana in mezzo all’acqua da cui viene travolto, come i carri e i cavalli del Faraone (cfr. Es 14,26).

Solo l’affidamento e la consapevolezza di essere salvati pone nella condizione esistenziale di essere veri discepoli: «Signore, salvami!» (Mt 14,30). Con questa invocazione Pietro rinasce come «l’anti Àdam» perché non usurpa l’identità di Dio, ma si lascia afferrare dalla mano forte e sicura del Signore che lo reintegra nella fede sufficiente: «Uomo di corta fede» (Mt 14,31). La nostra corta fede spesso c’impedisce di vedere la Parola e la mano che si protende a noi! All’arrivo del Signore, salito sulla barca (nei vangeli è sempre simbolo della Chiesa), il vento cessa. Gesù domina gli elementi della natura come Yhwh governa e comanda i fenomeni naturali che fanno da sfondo alle sue apparizioni teofaniche. Gesù si presenta assumendo su di sé il Nome stesso di Dio rivelato nella maestosa teofania del Sìnai a Mosè che vive l’esperienza del roveto ardente: «Io-Sono – Egô Eimì» (Es 3,14).

Nota esegetica.

Purtroppo anche la nuova traduzione della Bibbia (Cei-2008) usa l’anonimo «sono io» e non la pregnanza teologica della rivelazione di Gesù sulle acque del mare di Tiberìade che deve essere reso solo con «Io-Sono–Egô Eimì», richiamo esplicito alla rivelazione del Dio di Mosè che si mette all’opera per la liberazione attraverso le acque del Mare Rosso.

La prova di questo si ha nel vangelo di Giovanni, dove l’espressione ricorre in dieci forme diverse: «Io-Sono» (Gv 4,26; 6,20; 8,24.28.58; 9,9; 13,19; 18,5.6.8);
«Io-sono il pane» (Gv 6,35.41.48.51); «Io-sono il pane della vita» (Gv 6,35.48); «Io-Sono la luce» (Gv 8,12); «Io-Sono il testimone» (Gv 8,18); «Io-Sono la porta delle pecore» (Gv 10,7.9); «Io-Sono il pastore bello» (Gv 10,11.14); «Io-Sono la risurrezione» (Gv 11,25); «Io-Sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6); «Io-Sono la vite vera» (Gv 15,1); «Io-Sono la vite» (Gv 15,5). La somma totale di tutte queste affermazioni di identità, «Io-Sono», in Gv fa ventisei che, secondo la scienza dei numeri o ghematrìa, è la somma dei numeri corrispondenti alle lettere che compongono il nome di «Y_H_W_H» (=10+5+6+5). Per Giovanni, usando l’espressione «Io-Sono», Gesù è consapevole d’identificarsi con il Dio della rivelazione ebraica, il Dio dell’esodo e, come Yhwh dominò le acque del Mare Rosso, salvando il suo popolo, così ora Gesù domina il mare, salvando Pietro.

 

Pregare: non dare tregua a Dio

Il Terzo Isaia (sec. V-IV a.C.), degno discepolo del suo maestro, l’Isaia vissuto nel secolo VIII, deve avere una buona frequentazione con il Dio d’Israele perché non esita a invitare le sentinelle di Sion, (la città) sede della gloria di Yhwh, all’insubordinazione:

«Sulle tue mura, Gerusalemme, ho posto sentinelle; per tutto il giorno e tutta la notte non taceranno mai. Voi, che risvegliate il ricordo del Signore, non concedetevi riposo né a lui date riposo, finché non abbia ristabilito Gerusalemme e ne abbia fatto oggetto di lode sulla terra» (Is 62,6-7).

L’orante è colui che sta sulle mura della città di Dio «per tutto il giorno e tutta la notte» che è richiamo diretto alla «necessità di pregare sempre senza mai venire meno» (Lc 18,1). Compito dell’orante è risvegliare «le memorie del Signore» (l’ebraico usa il plurale di «zikkaròn-memoriale») che richiama la sua presenza viva e sperimentabile. L’idea che Dio possa dormire ci rimanda a Gesù che si addormenta simbolicamente nella barca: «Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono» (Mc 4,38). A questo punto la preghiera si fa questione di vita: «Non concedetevi riposo né a lui date riposo». Non bisogna concedere riposo a Dio e lo si può fare solo non concedendosi riposo. Un amico, plasticamente, diceva che per lui pregare era «mettere Dio con le spalle al muro», esattamente come fa Mosè, quando ricatta Dio, minacciandolo di abbandonarlo e di farsi cancellare dal libro dell’alleanza, se Dio non perdonerà il suo popolo: «Se tu perdonassi il loro peccato… Altrimenti, cancellami dal tuo libro che hai scritto!» (Es 32,32).

Per arrivare a queste vette di profondità non si può essere improvvisatori, ma bisogna avere un’esperienza lunga, assidua e ininterrotta di convivialità con Dio, di fraternità con uomini e donne, di purificazione dell’essere e liberi da ogni ritualità che, immergendoci nel ripetitivo rassicurante, ci impedisce di volare sulle ali della preghiera per essere ben piantati sulle strade della storia.

Dal prossimo numero passeremo ai testi.

Paolo Farinella, prete
(12, continua)

Nota.

Per l’approfondimento, cfr. Carlo Maria Martini, Non date riposo a Dio. Il primato della Parola nella vita della Chiesa, EDB, Bologna 2012.




Quaresima. Tornare al Signore con tutta la vita


Testo di Luca Lorusso da Amico

Contro i falsi profeti di oggi, contro il gelo dell’amore soffocato in noi, la quaresima è occasione per ritornare ad abitare nell’amore di Dio.

Offrire il senso profondo della Quaresima. Indicare la sua dimensione luminosa e gioiosa. Sottolineare il suo legame stretto con l’esperienza quotidiana di ciascuno, con il desiderio di pienezza e autenticità che abita in tutti, cristiani, non cristiani, e nel creato intero. E suggerire quali strumenti usare per riportare il cuore ad ardere.

Ecco cosa fa papa Francesco con il suo messaggio intitolato: «Per il dilagare dell’iniquità, si raffredderà l’amore di molti» (Mt 24,12). Poche righe per invitare tutti a vivere appieno il periodo quaresimale, sempre uguale di anno in anno nella sua forma, eppure sempre nuovo nella sostanza sotterranea che scorre nel cuore di ciascuno.

I falsi profeti e il cuore ghiacciato

Il titolo poco promettente (in apparenza) è tratto dal versetto 12 del brano di Matteo 24 che ha ispirato il papa nella stesura del suo messaggio di quest’anno. Un brano duro, in cui Gesù parla ai suoi discepoli dei segni che precederanno la fine dei tempi:

«Molti infatti verranno nel mio nome […] e trarranno molti in inganno. E sentirete di guerre e di rumori di guerre. […] vi saranno carestie e terremoti in vari luoghi: ma tutto questo è solo l’inizio dei dolori. Allora vi abbandoneranno alla tribolazione e vi uccideranno, e sarete odiati da tutti i popoli a causa del mio nome. Molti ne resteranno scandalizzati, e si tradiranno e odieranno a vicenda. […] per il dilagare dell’iniquità, si raffredderà l’amore di molti».

Gesù pronuncia queste parole sul monte degli ulivi, nello stesso luogo in cui inizierà la sua passione. Non lo fa per spaventare i suoi discepoli, ma per avvertirli: il cammino di gioia piena intrapreso dietro a Lui non eviterà loro di passare attraverso grandi tribolazioni. E il papa ci introduce alla Quaresima facendo una cosa simile: nomina alcune delle grandi tribolazioni del nostro tempo, non per spaventarci, ma per indicarci la possibilità della salvezza anche dentro gli eventi dolorosi, qui e ora, in questo tempo.

«Ascoltiamo questo brano e chiediamoci: quali forme assumono i falsi profeti? Essi sono come “incantatori di serpenti”, ossia approfittano delle emozioni umane per rendere schiave le persone. […] Altri […] offrono soluzioni semplici e immediate alle sofferenze […], offrono cose senza valore [e tolgono] ciò che è più prezioso come la dignità, la libertà e la capacità di amare. […] da sempre il demonio, che è “menzognero e padre della menzogna” (Gv 8,44), presenta il male come bene e il falso come vero, per confondere il cuore dell’uomo».

I falsi profeti sono anche quelli interiori: «Quanti vivono pensando di bastare a se stessi e cadono preda della solitudine!». «Ognuno di noi, perciò – scrive papa Francesco –, è chiamato a discernere nel suo cuore ed esaminare se è minacciato dalle menzogne di questi falsi profeti». La conseguenza della mancanza di discernimento è il cuore freddo, il ghiaccio di Cocito descritto nella Divina Commedia: «Dante Allighieri, nella sua descrizione dell’inferno, immagina il diavolo seduto su un trono di ghiaccio; egli abita nel gelo dell’amore soffocato», e l’amore soffocato conduce a una vita senza Dio, alla desolazione, alla violenza «contro coloro che sono ritenuti una minaccia alle nostre “certezze”», all’avvelenamento del Creato, alla disgregazione delle comunità.

Verità, preghiera, elemosina e digiuno

Cosa fare allora? Quali sono gli strumenti utili per affrontare le grandi tribolazioni della vita di ogni giorno? «Se vediamo nel nostro intimo e attorno a noi i segnali appena descritti, ecco che la Chiesa, nostra madre e maestra, assieme alla medicina, a volte amara, della verità, ci offre in questo tempo di Quaresima il dolce rimedio della preghiera, dell’elemosina e del digiuno». La verità per capire chi siamo, cosa ci circonda, da dove partiamo. La preghiera per scoprire le menzogne con le quali inganniamo noi stessi e per cercare la consolazione e la vita in Dio. L’elemosina per liberarci dall’illusione triste che ciò che ho è solo mio, per scoprire nell’altro un fratello, per «prendere parte alla Provvidenza di Dio verso i suoi figli». Il digiuno per togliere forza alla nostra violenza, per disarmarci, per sentire la fame del nostro spirito che cerca la comunione con gli altri e la vita in Dio.

Il brano di Matteo al versetto 13, dopo la descrizione delle tribolazioni, è consolante: «Ma chi avrà perseverato fino alla fine sarà salvato. Questo vangelo del Regno sarà annunciato in tutto il mondo, perché ne sia data testimonianza a tutti i popoli; e allora verrà la fine». «Se a volte la carità sembra spegnersi in tanti cuori – conclude papa Francesco –, essa non lo è nel cuore di Dio! Egli ci dona sempre nuove occasioni affinché possiamo ricominciare ad amare».

Buona Quaresima da Amico.

Luca Lorusso