Diseguaglianza, la sfida che decide il nostro futuro

Il 18 giugno 2018, a tre anni di distanza dalla pubblicazione della Laudato
Si’, circa venti partner, fra cui Caritas Italiana e Focsiv, hanno lanciato la
campagna triennale «Chiudiamo la forbice: dalle diseguaglianze al bene comune,
una sola famiglia umana». Vediamo i numeri delle disparità nel mondo e alcune
iniziative che la campagna ha messo in campo su uno dei tre ambiti: il cibo.

Immaginiamo per un attimo che sul pianeta vivano cento persone e che il presidente della Banca Planetaria chieda loro di portare in banca tutti i soldi che possiedono perché viene emessa una moneta nuova e quelle vecchie non valgono più. In cambio verrà distribuita la nuova moneta che si chiama globone.

La Banca Planetaria convoca i cento abitanti del
pianeta e, cominciando da chi possiede di più, restituisce a ciascuno il suo
con le dovute rivalutazioni.

Per facilità supponiamo che tutti i soldi
raccolti equivalgano a cento globoni.

Arriva il primo signore, solo. Gli danno i suoi
soldi: 33 monete. È molto soddisfatto. Proprio un bell’affare. Nel 1980, quando
era stata fatta un’operazione simile, aveva avuto «solo» 28 monete.

Arrivano poi altre 9 persone. Ricevono 37 monete,
più o meno quattro a testa. Per loro è un colpo, perché nel 1980 ne avevano
ricevute 40, ma visti i tempi che corrono, meglio non lamentarsi, le perdite
sono contenute.

Dei 100 globoni iniziali, ne rimangono 30, ma le
persone da rimborsare sono ancora 90. Quanto riceverà ciascuno? Tutti lo
stesso?

Sono chiamate altre 15 persone: ricevono 20
globoni da dividere fra loro. Mugugnano un po’ perché rispetto al 1980 hanno
perso almeno un globone, o forse due, in favore del primo uomo.

Rimangono ancora 10 monete in tutto per 75
persone. A 25 sono distribuiti equamente 8 globoni, 32 centesimi a testa.
Speravano di prendere un po’ di più, ma possono andarsene contenti perché
almeno non hanno perso molto nel cambio. Metà dei «clienti» è sistemata.

A questo punto, le 50 persone rimanenti devono
spartirsi quel che rimane: due monete. Non due a testa: due in tutto, 4
centesimi ciascuno.

Una storia per capire

Questa storiella è una semplificazione dei dati riguardanti la distribuzione della ricchezza nel mondo pubblicati nel World Inequality Report (Wir) del 2018. Va detto che queste percentuali devono essere prese cum grano salis, come gli autori stessi tengono a chiarire, perché i dati affidabili sulla ricchezza nel mondo sono meno disponibili di quelli sul reddito, altra misura su cui si basa il rapporto. Inoltre, lo scenario è costruito sui dati dei soli Stati Uniti, Unione europea e Cina.@

Tuttavia, con le dovute cautele, è possibile
sostenere che di questo passo – cioè ai tassi di crescita della diseguaglianza
attuali – nel 2050 l’1% più ricco della popolazione mondiale arriverà a
possedere di più di tutta la classe media mondiale.

Per capire meglio riprendiamo la nostra storiella
e immaginiamo di moltiplicare tutto per dieci: gli abitanti del pianeta sono
mille, non cento, l’uomo con 33 monete diventa 10 uomini con 330 monete, e i 40
(15 + 25) della fascia intermedia con 28 globoni diventano 400 con 280 globoni.
Oggi, per eguagliare la ricchezza dei 400 uomini della fascia intermedia serve
la ricchezza di otto uomini e mezzo dei dieci più ricchi.

Le proiezioni nel rapporto dicono che nel 2050
basterà la ricchezza di uno solo dei dieci super ricchi per eguagliare la
ricchezza dei 400 della classe media mondiale.

Ma di quante persone reali stiamo parlando? I
dieci ricchi con 330 monete (l’1% della popolazione) corrisponono a circa 70
milioni di persone, spiega Lucas Cancel, uno degli autori del Wir 2018, alla
rivista francese Alternatives Economiques, o 40 milioni considerando la
sola popolazione adulta. Il livello di reddito di queste persone è di 330mila
euro all’anno.

La metà più povera della popolazione mondiale, invece (i cinquanta uomini che si dividono due monete nella storiella iniziale) corrispondono a tre miliardi e mezzo di persone e hanno un reddito sotto i 3.200 euro l’anno per ogni adulto@.

Diseguaglianza in crescita

© Gigi Anataloni /AfIMC

Nel 2016 la quota di reddito nazionale detenuta
dal 10% più ricco della popolazione variava dal 37%  in Europa al 61% nel Medio Oriente. Dal 1980
al 2016 – il periodo considerato dal Wir – la diseguaglianza è aumentata un po’
ovunque, ma con tassi molto differenti: mentre in Europa la variazione è stata
di pochi punti percentuali, in Russia è passata da poco più del 20% nel 1980 a
oltre il 40% nel 2016.

Del complessivo aumento del reddito globale nei
36 anni considerati, l’1% più ricco della popolazione mondiale ha «catturato»
circa il 27%. Il 50% più povero ha certamente beneficiato di tassi di crescita
degni di nota, ma la quota  di aumento
del reddito «catturato» dalla fascia più povera è stata del 12%, pari cioè a
meno della metà rispetto alla quota dei super ricchi. Chi ha visto la propria
parte restare invariata, se non addirittura erodersi, è ancora una volta la
classe media.

Da qui al 2050, gli scenari riguardanti le
diseguaglianze sono molti. Il migliore è quello che le vede crescere in tutti
paesi ai tassi «contenuti» dell’Europa. Questo porterebbe la quota dei più
ricchi dal 27% al 19% e aumenterebbe dal 12% al 13% la quota goduta dai più
poveri. Viceversa, se il mondo seguisse il trend degli Stati Uniti, la «fetta»
di crescita a beneficio dei 3 miliardi e mezzo di poveri crollerebbe al 6%,
mentre i 70 milioni di persone più ricche otterrebbero un ulteriore aumento di un
punto percentuale.

Chiudiamo la forbice, ora

Chiudiamo la forbice@ è la campagna lanciata il 18 giugno dell’anno scorso da Caritas Italiana, Focsiv e una ventina di altri soggetti, prevalentemente di ambito ecclesiale. L’attenzione per il tema delle diseguaglianze è sintetizzata in una frase chiave contenuta nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium: «L’iniquità è la radice dei mali sociali».

La data del lancio di Chiudiamo la forbice, precisa il comunicato stampa che apre la campagna, corrisponde al terzo anniversario della pubblicazione dell’enciclica Laudato Sì’@.

«Non ci sono due crisi separate, una ambientale e
un’altra sociale», sostiene Francesco nell’enciclica, «bensì una sola e
complessa crisi socioambientale» che richiede un «approccio integrale per
combattere la povertà, per restituire la dignità agli esclusi e nello stesso
tempo per prendersi cura della natura».

Di questo approccio integrale vuole farsi
portatrice la campagna, che concentra il proprio lavoro principalmente su tre
ambiti: il cibo, i conflitti e la mobilità umana, da leggere nell’insieme
attraverso due elementi trasversali del contesto: la dimensione ambientale, cioè
la cura della casa comune, e la dimensione finanziaria, in particolare «la
relazione tra debito, crisi finanziarie, diseguaglianze e resilienza rispetto
all’instabilità sociopolitica e allo svilupparsi di conflitti violenti».

A Chiudiamo la forbice sono legati tre concorsi
per la produzione di un video, una foto e un disegno che esprimano il titolo e
il tema della campagna. La scadenza per la presentazione dei lavori è il 30
giugno 2019, mentre la premiazione avverrà il 30 dicembre.

Il cibo, diritto basilare negato

© AfMC / Cogliati Matteo

Quello del cibo, dalla produzione al consumo, è un ambito nel quale le diseguaglianze sono di un’evidenza schiacciante. Del cibo sprecato annualmente sul pianeta, pari a 1,3 miliardi di tonnellate, gli abitanti di Europa e Nord America ne buttano fra i 95 e i 115 chili a persona contro i 6-11 chili a testa del resto del mondo. Nel primo caso, le perdite avvengono principalmente al livello del consumo e della vendita al dettaglio. In quest’ultimo ambito, buona parte dello spreco è l’effetto dell’applicazione di norme che danno eccessiva importanza all’aspetto dei prodotti. Nei paesi in via di sviluppo, invece, gli sprechi avvengono soprattutto nella fase successiva al raccolto e in quella di lavorazione, spesso a causa di limiti e inefficienze nelle tecniche di raccolta e nella catena del freddo. Nei paesi a medio reddito, infine, a causare le perdite di cibo sono principalmente la mancanza di coordinamento fra produttori e venditori e la scarsa consapevolezza da parte di produttori, venditori e consumatori sul problema dello spreco e su eventuali modi per riutilizzare il cibo che viene attualmente buttato@.

La campagna cerca di far emergere gli aspetti
disfunzionali in questo settore: «Se il 2017 è l’anno in cui la Fao ha rilevato
per la prima volta da tempo un nuovo aumento delle persone che soffrono la fame
sul pianeta, non cessano di aggravarsi le varie malattie dell’opulenza, come
l’obesità, lo spreco di cibo, la sovra alimentazione, ecc. Sullo sfondo vi sono
fenomeni complessi come la concentrazione del potere economico nelle filiere
della produzione del cibo, o i fenomeni dell’accaparramento della terra».

Fra le iniziative promosse in questo ambito vi è la spesa sospesa, che a Roma ha preso forma il primo fine settimana di ottobre al Villaggio Coldiretti. «Per tutto il weekend della manifestazione i visitatori dei banchi del maximercato degli agricoltori promosso da Coldiretti e Campagna Amica al Circo Massimo hanno avuto la possibilità di fare una donazione libera grazie alla quale acquistare prodotti a favore dei più bisognosi, sul modello dell’usanza campana del “caffè sospeso”, quando al bar si lascia pagato un caffè per il cliente che verrà dopo». Frutta, verdura, formaggi, salumi e altri generi alimentari così raccolti, per un totale di una tonnellata e mezzo, sono stati poi consegnati alla Caritas e alla Comunità di Sant’Egidio, che li hanno utilizzati per rifornire i quattro Empori della Solidarietà promossi dalla Caritas di Roma, che sono «supermercati di medie dimensioni a cui possono accedere gratuitamente persone che si trovano in temporanea difficoltà e che non riescono a sopperire a tutte le loro necessità»@.

Anche a Torino si è svolto a giugno un evento simile ai Giardini Reali superiori. Il bilancio è stato di una tonnellata di cibo raccolta e distribuita alle famiglie bisognose@.

Chiara Giovetti

© AfMC



Messico: E giunse il tempo di Amlo


Dal prossimo 1 dicembre, per la prima volta nella storia del paese, al governo ci sarà un uomo di sinistra: Andrés Manuel López Obrador. Conosciuto con l’acronimo di Amlo, 64 anni, il nuovo presidente è stato votato dal 53,19 per cento dei messicani, stanchi di corruzione, ingiustizie e di una violenza che pare inarrestabile. Lo attende un compito molto difficile.
Un’analisi di padre Jorge García Castillo che, a Città del Messico, dirige le riviste «Esquila Misional» e «Aguiluchos».

Andrés Manuel López Obrador (Amlo) durante l’ultimo comizio prima delle elezioni del 1° luglio. Foto: Francisco Estrada, Notimex / AFP.

Per molte ragioni, in buona parte negative, le elezioni generali messicane che si sono svolte lo scorso 1° luglio, sono state speciali: il Movimiento de Regeneración Nacional (Movimento di rigenerazione nazionale, Morena), fondato e guidato da Andrés Manuel López Obrador (detto Amlo), in coalizione con il Partido del Trabajo e il Partido Encuentro Social (Pes), ha vinto con percentuali mai viste prima.

Dall’altra parte, i grandi perdenti sono stati i due partiti con le maggiori radici politiche in Messico: il Partido Revolucionario Institucional (Partito rivoluzionario istituzionale, Pri) e il Partido Acción Nacional (Partito di azione nazionale, Pan). La parte peggiore è toccata al Pri, che per decenni aveva vinto in quasi tutte le contese elettorali fino a diventare ciò che il peruviano Mario Vargas Llosa, premio Nobel per la letteratura, ha definito (già nel 1990) «una dittatura perfetta». I motivi della sua sconfitta? Lotte interne a vari livelli, l’elezione di José Antonio Meade (una persona grigia e discutibile) come candidato per la presidenza della Repubblica, la corruzione, il clientelismo, il coinvolgimento dell’ex presidente Carlos Salinas de Gortari [nella guerra sporca contro Amlo, ndr], il discredito derivante dal comportamento criminale di diversi governatori, membri di rilievo del partito, ecc.

Al momento delle elezioni, il presidente Peña Nieto aveva appena il 20% di approvazione del suo operato. La peggiore situazione nella storia del Pri, motivata da molte ragioni alle quali va aggiunto un caso estremo: la scomparsa dei 43 studenti di Ayotzinapa (rapiti il 26-27 settembre 2014 e mai ritrovati ndr); una questione che rimane irrisolta fino ad oggi e che, di per sé, sarebbe sufficiente per far cadere molte personalità del mondo della politica e delle forze dell’ordine, incluso il presidente.

La campagna pre elettorale (in senso lato) è stata lunga, costosa, combattuta e logorante. Durante la stessa sono stati usati tutti i mezzi: denaro in quantità industriale, dibattiti, insulti, minacce e violenza. Non possiamo dimenticare, ad esempio, che più di 130 candidati a diverse cariche pubbliche sono stati uccisi nel tentativo di scoraggiare elettori e chi osava presentarsi. C’è stato persino un «processo per frode» nello stato del Messico e in Coahuila da parte del partito al potere.

Il presidente messicano uscente, Enrique Peña Nieto, a una parata militare. Foto: Daniel Aguilar – Presidencia de la Repu?blica Mexicana.

Amlo e una campagna lunga dodici anni

Prima di andare avanti, dobbiamo ricordare che il processo elettorale del 1° luglio ha avuto due livelli: uno federale che includeva la presidenza della Repubblica e il Congresso (128 senatori e 500 deputati della camera bassa) e uno locale per eleggere i governatori degli stati di Chiapas, Guanajuato, Jalisco, Morelos, Puebla, Tabasco, Veracruz e Yucatan, il capo del governo di Città del Messico, congressi locali, municipi e sindaci per un totale di 3.326 posizioni.

Niente e nessuno è riuscito a fermare un processo in cui i cittadini hanno deciso di andare a votare il 1° luglio. Nella gara hanno trionfato in modo schiacciante Andrés Manuel López Obrador e il movimento da lui guidato che ha vinto la maggioranza dei seggi nel Congresso, cinque governatori, i sindaci delle cinque maggiori città del paese e molti altri eletti in posti di minore rilevanza.

Hanno contribuito a questo successo travolgente la tenacia del politico nativo di Tabasco, che ha perseverato in una campagna elettorale durata 12 anni (Amlo si era già presentato nel 2006 e nel 2012, ndr) e le tante situazioni di corruzione, impunità, indegnità morale dei partiti di governo, suoi avversari, che hanno portato alla disintegrazione dello stato, di varie istituzioni e della stessa società civile.

Che paese troverà

A questo punto, è conveniente chiedersi e fare un’analisi del paese che Andrés Manuel López Obrador si troverà a governare. La risposta non è semplice perché c’è un «eccesso di diagnosi» e l’informazione che abbiamo è abbondante e, a volte, contraddittoria. Per evitare di perdersi in un mare di dati, ho scelto di dare un’occhiata a un libro intitolato ¿Y ahora qué? México ante el 2018 («Cosa succede ora? Il Messico prima del 2018»)1. Nel libro, 34 accademici e intellettuali fanno un’analisi sistematica dei fallimenti e delle carenze di questo paese; allo stesso tempo, propongono una serie di iniziative in vista di una radicale trasformazione della realtà.

Tra le questioni affrontate dal libro vi sono la corruzione, l’impunità, l’incompetenza dello stato, le elezioni truccate, il traffico di droga e gli errori compiuti nel combatterlo, l’abbandono della gioventù, la polizia traballante, le carceri come luoghi del crimine, la disuguaglianza, la disconnessione tra il mondo educativo e quello produttivo, le falle del sistema sanitario, il disordine federativo, la debolezza della politica estera, l’inefficienza amministrativa e molte altre piaghe. Tutte situazioni che mantengono il paese in un’arretratezza sistemica. Vediamo di analizzarne alcune.

La violenza

Nel dicembre 2006, Felipe Calderón del Pan, allora neoeletto presidente del Messico, prima delle accuse di brogli elettorali, dichiarò guerra al traffico di droga e lanciò un’offensiva militare e di polizia che non fece altro che peggiorare la situazione. Il presidente sbagliava nelle strategie e non teneva conto che il narcoterrorismo e le organizzazioni criminali a poco a poco erano diventati uno stato all’interno dello stato. In molte occasioni questi gruppi avevano armi più potenti di quelle delle forze dell’ordine ed erano meglio organizzati. A ciò si aggiungeva la complicità dei membri dell’esercito, della marina e della polizia e dei settori della società civile. Le incalcolabili ricchezze delle imprese criminali avevano permesso loro di acquistare il silenzio e la complicità di coloro che avrebbero dovuto proteggere la legalità e la giustizia.

Per quanto riguarda le cifre, in 12 anni di combattimenti contro la criminalità sono state giustiziate, secondo le stime più prudenti, più di 200mila persone senza contare le 35.000 scomparse. Questa situazione supera per la sua portata, la sua modalità e l’estrema crudeltà, quella di alcuni paesi che vivono una guerra dichiarata.

La questione più seria è che il problema è peggiorato invece di migliorare. Per alcune agenzie di stampa, tra cui Animal Político, durante i primi cinque mesi del 2018, ci sono stati più di 13mila omicidi; 2.890 dei quali si sono verificati a maggio, poche settimane prima delle elezioni. Inoltre, in diverse località e stati la percentuale di omicidi è aumentata senza poter fare nulla per evitarlo.

Questo è senza dubbio uno dei problemi più seri che il nuovo governo guidato da Amlo dovrà affrontare.

La corruzione e l’impunità

Su questo argomento, Maria Amparo Casar, nel libro citato, afferma che la corruzione è sistemica e l’impunità una regola che ammette poche eccezioni. I loro costi sono molto pesanti per il paese (p. 24).

Per l’analista, la situazione è aggravata dal fatto che «la lotta alla corruzione è nei programmi di governi e partiti, ma le promesse non sono state seguite da fatti concreti. In altri termini, riguardo alla corruzione, quasi tutto è stato detto e quasi nulla è stato fatto» (p. 33).

La scritta sul cartello ricorda la tragedia dei 43 studenti di Ayotzinapa: «Vivi se li sono portati via, vivi li rivogliamo». Foto di: Daniel Cima / CIDH.

L’illegalità

Collegato al problema precedente è la questione dell’illegalità. Secondo Héctor Raúl Solís, coautore del lavoro sopra citato, c’è una convinzione generale – per lui falsa – che i messicani siano corrotti per natura. «Allo stesso modo tutti – dal taquero dell’angolo che ruba l’elettricità al funzionario che devia milioni di pesos – soffriamo di un’innata tendenza a infrangere la legge» (p. 47). Per Solís questa convinzione è falsa perché «non tiene conto dei moltissimi messicani che ogni giorno si conformano alla legge» e, in ogni caso, la repubblica può essere rinnovata, non attraverso atti spettacolari ma piccole azioni che costruiscano l’istituzionalità necessaria (p.52).

Da parte sua, il famoso intellettuale e diplomatico José Ramón Cossio Díaz, scrivendo delle fratture legali che si verificano nel paese, dice che il Messico non ha uno stato di diritto o almeno esso è seriamente manomesso. In questo caso, ci sono due opzioni (p. 63): «Cercare un nuovo modello o persistere nell’attuale», consapevoli che «l’istituzione di uno stato di diritto in una società anonima, diseguale e ferita come quella messicana non è né semplice né veloce» (p. 65). Senza che tutto questo ci debba far cadere nella disperazione o nel cinismo, la lotta deve continuare. Questo è ciò che il popolo messicano si aspetta dalle persone e dalle istituzioni che governeranno il paese nei prossimi anni.

La povertà

Un altro dei grandi problemi che affliggono il Messico è quello della povertà, in particolare la povertà estrema, perché colpisce, secondo le parole del ricercatore John Scott, coautore del lavoro, «il diritto a risorse minime per la sopravvivenza», che «è il diritto umano più basilare» (p. 309). In effetti, in un paese come il Messico a reddito medio-alto, «la persistenza della povertà estrema è moralmente intollerabile» e rappresenta «un doppio fallimento in due aree: l’inclusione produttiva e la protezione sociale» (p. 310).

Lo sconforto di questo male endemico è stato il vessillo degli ultimi governi, anche se poco o nulla è stato fatto per sanarlo. In effetti, il divario tra ricchi e poveri continua a crescere e finora il capitale dei supermilionari aumenta esponenzialmente a scapito dei milioni di messicani che non hanno il minimo necessario. Il salario minimo è da considerarsi un attentato contro la vita e il benessere della maggioranza. Non è sufficiente (si tratta di circa 123 euro mensili, ndr) nemmeno per il paniere di base, tanto meno per coprire i bisogni di salute, educazione, abitazione e spazi di gioco.

Questo problema è una bomba a tempo che può esplodere in qualsiasi momento. Le persone sono stufe di soluzioni palliative e assistenziali che non fanno altro che perpetuare la povertà. Le risorse, in una nazione con un territorio prodigo e generoso, esistono. Solo che sono mal distribuite e, mentre alcuni nuotano nell’abbondanza, altri non hanno l’indispensabile.

L’offerta di Amlo

Alle 23:00 del 1° luglio, prima che vengano diffusi i risultati degli exit poll del suo trionfo, López Obrador convoca un meeting all’Hilton Hotel della Alameda Central (noto parco pubblico, ndr) a Città del Messico. Da lì tiene un discorso che riassume quello che sarà il suo modus operandi come presidente. Una folla osannante lo ascolta nel quartiere dell’hotel e applaude infervorata dal suo messaggio. Soprattutto quando tocca temi come la lotta alla corruzione e all’impunità, il protagonismo dei poveri e il rispetto delle differenze sessuali.

Il tono di questo primo discorso è cambiato radicalmente rispetto a quello portato avanti negli ultimi anni, specialmente durante la pre-campagna e la campagna elettorale. Il politico litigioso, ironico, creativo nell’arte dell’insulto e della minaccia, lascia il posto alla realpolitik e tende la mano a tutti con uno spirito conciliatorio e umanistico. Non parla più di mafie del potere né attacca il mondo degli affari. Al contrario, chiama tutti al dialogo e alla collaborazione.

Lo stesso tono viene usato nel discorso che rivolge pochi istanti dopo ai suoi seguaci concentrati nello Zócalo (piazza della Costituzione, cuore della capitale, ndr), a pochi metri dal Palazzo nazionale, dalla Cattedrale metropolitana e dal quartier generale del governo di Città del Messico.

La strada sarà lunga

Nelle settimane successive all’elezione, López Obrador ha iniziato una frenetica attività chiamando persone, aziende, istituzioni, media, a dialogare e far conoscere quale sarà la sua metodologia di lavoro, a presentare coloro che formeranno il suo gabinetto, a riferire su questioni fondamentali come gli stipendi dei dipendenti pubblici, la sua politica di austerità e decentramento, il trattamento degli ex presidenti e le proposte per combattere la violenza e la corruzione, tra le altre cose.

Niente ha potuto fermare questo processo verso la democrazia: le campagne di discredito, gli attacchi velati ed espliciti al politico del Tabasco, in particolare sui social network, l’avvertimento che la sua elezione avrebbe portato il Messico a una situazione simile a quella del Venezuela di Chávez e la Bolivia di Evo Morales, hanno prodotto l’effetto opposto.

Nella lunga e difficile strada verso la democrazia, la sconfitta del partito di governo e l’indiscutibile trionfo di Amlo segnano un nuovo modo di fare politica in Messico. Più che per il disgusto, la disillusione e il disprezzo verso la classe dei politici e un sistema marcio dalle radici, la gente ha votato per un uomo e un movimento che ispirano fiducia e speranza che le cose cambino.

Questo è ciò che noi messicani speriamo e desideriamo per il bene di tutti, specialmente per le maggioranze impoverite.

Jorge García Castillo

(fine prima puntata – continua)
Traduzione e adattamento del testo a cura di Paolo Moiola.

Note

(1) Aguilar Camín, Héctor et al., ¿Y ahora qué? México ante el 2018, Debate, segunda edición, Ciudad de México, febrero 2018.

La protesta di una donna che ha perso un proprio caro nella tragedia dei 43 studenti di Ayotzinapa. Foto: Leonardo Gonzalez / Fotografias emergentes


Politica e religione

Voto laico, ma non troppo

Il Messico è un paese a maggioranza cattolica, ma con una crescita esponenziale degli evangelici. Come sono state affrontate dalle Chiese le elezioni dello scorso luglio?

In Messico, come in molti altri paesi dell’America, non si può parlare più della «Chiesa», ma delle «Chiese» perché queste e il numero dei loro seguaci aumentano di giorno in giorno.

Su questo argomento, Leonardo Alvarez, l’11 maggio scorso, ha scritto sul quotidiano El Pais (nella sua versione internazionale): «Il Messico non sfugge al contesto latinoamericano che ha trasformato il culto evangelico in una forza elettorale importante e diffusa».

Cita anche l’esempio del Costa Rica, dove, ai primi di aprile, Fabricio Alvarado era sul punto di ottenere la vittoria elettorale con un programma marcatamente evangelico e, nel 2016, in Colombia, il voto maturato nei templi è stato decisivo per la vittoria del «No» nel plebiscito per la pace con le Farc. Ma, se prendiamo in considerazione la sua dimensione, non possiamo non citare il Brasile dove il gruppo parlamentare evangelico ha provocato la caduta e l’allontanamento della presidente Dilma Rousseff.

Per quanto riguarda il Messico, anche se l’articolo 40 della Costituzione lo definisce come un paese laico e la legge elettorale vieta partiti religiosi, il Partito incontro sociale (Pes) nelle elezioni del 1° luglio si è presentato in coalizione con il Movimento di rigenerazione nazionale (Morena) di Amlo.

Il Pes è stato fondato da Éric Flores, appartenente ad una chiesa evangelica, ed ha tra i suoi obiettivi la difesa dei valori tradizionali e della famiglia tradizionale. Situazione questa che contrasta con l’ideologia di Morena su questioni come il matrimonio di coppie omosessuali, l’aborto e la legalizzazione delle droghe. Per Roberto Blancarte, uno studioso di questo tema, l’unione tra Obrador e il Pes è «più spirituale che strategica», perché le chiese evangeliche, sorte soprattutto tra i settori emarginati, riproducono gli schemi dei cacicchi (cacicchismo, inteso come l’esercizio personalistico del potere, ndr), legati a una cultura autoritaria che trova analogie in López Obrador.

Venditore di lumini votivi per la Vergine di Guadalupe, molto venerata in Messico. Foto: Geraint Rowland.

Per quanto riguarda la Chiesa cattolica messicana, la sua gerarchia non ha mai nascosto le sue preferenze per i candidati di destra e giudica la sinistra partendo da pregiudizi e paure, soprattutto su temi morali considerati non negoziabili. Mi riferisco a questioni quali il matrimonio omosessuale, l’aborto, l’eutanasia. Fino a un recente passato molti hanno collocato la Chiesa cattolica nel campo del conservatore Partito d’azione nazionale, in cui hanno militato cattolici e anche movimenti di estrema destra come Muro e Yunque (gruppi nati negli anni Sessanta, ndr).

Durante l’ultimo processo elettorale, in particolare nelle fasi della campagna, la gerarchia cattolica ha invece evitato di sbilanciarsi.

Più chiare e profetiche si sono dimostrate molte parrocchie, comunità di base, collettivi cattolici, comunità religiose e gruppi di vescovi, in particolare l’arcivescovo di Guadalajara, cardinale José Francisco Robles Ortega, e i vescovi di Veracruz. Tutti questi soggetti hanno accompagnato e guidato il popolo a votare in coscienza.

Jorge García Castillo

 

 




Venezuela: Un paese sotto anestesia


La situazione sociale, economica e politica è precaria, e peggiora rapidamente. Molti fuggono dal paese. I missionari della Consolata, presenti dalla capitale Caracas alle foci del rio Orinoco, hanno scelto di restare accanto alla gente alimentando la speranza e condividendo la vita con i più poveri.

«Volevo offrirvi un caffè, ma oggi non ho niente». Lo sfogo viene da una madre che riceve una visita a casa sua nella regione di Barlovento, stato di Miranda, in Venezuela. La situazione economica, politica e sociale del paese è così complicata che diventa difficile da capire. Con ampi poteri, il governo di Nicolás Maduro, seguendo il suo ispiratore, Hugo Chávez, controlla tutte le istituzioni e impone la sua ideologia. Forse è per questo che ci sono ancora persone che difendono la «Rivoluzione Bolivariana». Tuttavia, crescono le critiche non solo dell’opposizione, ma anche di alcuni settori della sinistra e della popolazione in generale che soffre le dure conseguenze di una disastrosa gestione economica.

Coda per comperare del cibo a Caracas

«Non c’è prospettiva per il futuro e la cosa più triste è che le persone si abituano a vivere male. Il Venezuela è un paese anestetizzato da una diffusa rassegnazione», dice padre Adan Ramirez, cancelliere della curia a Caracas, analizzando lo stato generale e lo spirito della popolazione.

Ci sono persone che credono nella possibilità concreta di un cambiamento, ma manca un leader per transformare questo desiderio in un progetto politico alternativo.

«Tra aprile e luglio (2017) in particolare, in varie parti del paese si sono svolte proteste di massa a favore e contro il governo. Il diritto di riunione pacifica non è stato garantito. Secondo i dati forniti dalle autorità, nel contesto di queste proteste di massa sono rimaste uccise almeno 120 persone e più di 1.777 sono state ferite, tra manifestanti, membri delle forze di sicurezza e passanti» (dal Rapporto annuale 2017-2018 di Amnesty International). Centinaia le persone arrestate.

La situazione già precaria sta peggiorando rapidamente. Sebbene il paese abbia grandi riserve di petrolio, l’iperinflazione ha spinto l’economia nel caos.

È un Venezuela in fiamme quello di oggi, di contrapposizioni forti e sanguinarie. Per questo si scorge quella rassegnazione che nasce quando, alzando gli occhi al cielo, non si vedono più le stelle.

La corruzione e la mancanza di beni di prima necessità colpiscono la popolazione che già soffre a causa della carenza di energia elettrica, acqua, gas, trasporti, farmaci e servizi pubblici.

Distribuzione di cibo a Carapita

Senza nessuna prospettiva di lavoro, milioni di venezuelani emigrano, soprattutto giovani e professionisti. Quasi tutte le famiglie hanno qualcuno all’estero. Molti genitori affidano i bambini ai nonni e se ne vanno fuori dal paese alla ricerca di fortuna.

Secondo il cardinale Baltazar Porras Cardozo, arcivescovo di Mérida e amministratore apostolico di Caracas, il paese non ha la forza di reagire. «I partiti di opposizione sono disabilitati, i loro leader sono incarcerati o costretti a fuggire all’estero. Le istituzioni sono controllate dal governo che domina anche l’economia. La paura è grande, soprattutto tra i giovani che sono disillusi», dice il cardinale, che sottolinea anche le sfide di questa crisi per la Chiesa: «Rilanciare la speranza e la fede del popolo, oltre che curare l’odio, frutto della polarizzazione».

Il Venezuela è il paese con le maggiori riserve di petrolio del mondo, e questo fa dell’oro nero l’unico motore dell’economia, rappresentando oltre il 95% dei proventi delle esportazioni. Nel 2014, un barile di petrolio era scambiato a 115 dollari americani. Oggi è valutato a 70 dollari, dopo essere sceso a 26 nel 2016.

Il governo di Maduro accusa «la borghesia» di creare una struttura economica che non favorisce lo sviluppo. Un altro nemico sempre citato nelle spiegazioni del presidente sono gli Stati Uniti che, secondo lui, interferiscono per destabilizzare il paese.

Missionaria della Consolata riuniti a Barquisimeto

La Consolata in Venezuela

In Venezuela lavorano 13 missionari della Consolata:

  • a Barlovento nelle parrocchie di Panaquire, El Clavo e Tapipa;
  • nell’archidiocesi e nella città di Barquisimeto, con un Centro di animazione missionaria (Cam);
  • nel vicariato di Tucupita tra gli indigeni Warao a Tucupita e
    Nabasanuka;
  • a Caracas nella la sede della delegazione, nel seminario propedeutico e di filosofia, e nella parrocchia di Carapita in periferia.

Oltre a soddisfare i bisogni materiali, i missionari si preoccupano di mantenere viva la speranza della gente con una presenza di consolazione spirituale.

I padri keniani, Charles Gachara Munyu e Silvano Ngugi Omuono, lavorano in tre parrocchie di Barlovento, nella diocesi di Guarenas, regione a 100 chilometri da Caracas, controllata da gruppi armati che operano impunemente. Per visitare le 36 piccole comunità del territorio, i missionari hanno bisogno di avvisare i capi di questi gruppi per non correre rischi. Anche la strada nazionale che dà accesso a Tapipa, Panaquire e El Clavo è controllata. «Spesso siamo fermati dai “malandros”, (come vengono chiamati i ragazzi) che minacciano e rubano gli oggetti di valore», afferma padre Silvano. Il missionario ha già avuto la pistola puntata alla testa quattro volte. In una di queste era acompagnato dal vescovo. «Ho pensato qualche volta di lasciare il paese, ma non sono venuto qui per la mia sicurezza. Credo che sia stato Dio a mandarmi, e così Egli mi proteggerà. Vedendo la situazione della gente e come apprezzano la nostra presenza, riprendo coraggio per continuare la mia missione».

Padre Charles Gachara Munyu

«Una volta assunta la missione dobbiamo lasciarci guidare dallo Spirito, con un cuore aperto alla gente, imparare dalla realtà per aiutare con quello che abbiamo. La nostra cultura è diversa, ma il contributo che diamo è quello di creare e formare le comunità di base che in Kenya sono forti».

Questa è la richiesta principale degli animatori, come fa notare il catechista di Panaquire, Frank Rondón: «Abbiamo bisogno di formare ministri della Parola e dell’Eucaristia, catechisti e altri leader che possano assumere il lavoro di animazione delle comunità e non dipendere, così, sempre dai padri».

Nella diocesi di Guarenas ci sono cinque parrocchie senza parroco, e i missionari della Consolata che già lavorano in tre parrocchie, stanno studiando la possibilità di assumerne una quarta a Caucagua, a 15 km da Tapipa.

Zone «calde e pericolose» attorno a Barlovento

La pastorale afro

A Barlovento la popolazione è afro americana. «Dopo oltre 30 anni di presenza, adesso possiamo concentrarci in modo più mirato sulla pastorale afro. È necessario creare consapevolezza che essere afrodiscendenti ha il suo valore che può essere integrato nell’esperienza della fede cristiana, con un impatto sulla società, la politica, l’educazione e la salute», afferma padre Charles, missionario con un master in Teologia Biblica. «Questo è un processo lento, ma dobbiamo stabilire alleanze con altre organizzazioni per ottenere i diritti. Per molti anni, la Chiesa non ha riconosciuto l’identità afro del popolo sostenendo che erano tutti venezuelani. La nostra presenza è un segno di speranza, ma dobbiamo ancora lavorare sulla resistenza», dice il padre, presente nel paese dal 2002.

I missionari non pensano solo ai sacramenti. «Non importa se celebriamo le messe o semplicemente facciamo una visita. Il fatto di andare a vedere la gente è sufficiente per dire che non sono soli. Le persone apprezzano molto l’amicizia», aggiunge padre Charles. Eduin Ruiz, uno dei coordinatori della pastorale afro, spiega che «l’obiettivo è riscattare l’identità e i valori della cultura negata nel corso della storia. Ciò richiede un lavoro di inculturazione del Vangelo». Padre Silvanus offre un piccolo esempio di forte potere simbolico: «La stessa campana suonata nel passato per avvertire della fuga di uno schiavo, oggi serve per invitare gli afro americani a partecipare alle celebrazioni».

La terra è ricca per coltivare il cacao, che sarebbe un potenziale economico per le famiglie, ma, purtroppo, il governo impone dei prezzi molto bassi rendendone impossibile il commercio. «La qualità dell’istruzione si sta deteriorando, molte scuole sono state chiuse e i giovani non ricevono una formazione professionale adeguata», lamenta Eduin Ruiz, che aggiunge: «In molte famiglie i bambini non possono contare sulla presenza del padre e finiscono per strada dove sono vittime di violenza, povertà e delinquenza. La nostra lotta è per la vita, contro la droga, l’alcolismo e l’insicurezza».

Periferia di Caracas dove c’è la parrocchia di Carapita.

Essere segni di Consolazione

In visita al Venezuela, padre Stefano Camerlengo, superiore generale, ha lasciato tre parole di incoraggiamento. «La Consolazione: che non è un’idea, una politica, ma Gesù Cristo il Salvatore; la Comunione: la comunità non è costituita solo dal padre, ma da tutti coloro che vivono e lavorano per i valori comuni; la Liberazione: come insiste il papa Francesco, essere Chiesa in uscita significa che non dobbiamo solo pregare tra noi, ma dobbiamo andare a cercare e includere gli altri nella proclamazione del Vangelo che è gioia e salvezza per tutti».

La gente ricorda con affetto tutti i missionari della Consolata che negli ultimi 30 anni hanno lavorato nella regione. La catechista Alejandrina Pimentel rammenta che «ognuno contribuisce con il suo carisma. Cerchiamo di capire tutti. Vado in chiesa per la mia fede e non per il prete», osserva. Pedro Vamonde vede l’importanza di continuare il lavoro: «La vicinanza ai missionari ci ha aiutato a cambiare. La Chiesa siamo noi e dobbiamo contribuire di più per sostenerla». I missionari della Consolata si sono stabiliti in Venezuela nel 1971 con il padre Giovanni Vespertini, nella diocesi di Trujillo. Con l’arrivo nel 1974 di padre Francesco Babbini e di altri, i missionari hanno esteso la loro presenza nell’arcidiocesi di Caracas. Anche le missionarie della Consolata hanno tre comunità nel paese, a Caracas, a Puerto Ayacucho e Tencua.

Jaime C. Patias, IMC,
 Consigliere Generale per l’America

assemblea parrocchiale a Carapita


Qualche cifra

Il 20 agosto 2018 è stato introdotto il nuovo «bolivar soberano» (BsS) dal valore di 100mila bolivares (Bs) vecchi.

1 $ = 61 BsS (mercato nero: 90)

Il 1 ottobre è stata lanciata la cryptovaluta «Petro» dal valore di 60 $, ufficialmente acquistabile dal 5 novembre 2018.

Prezzi di alcuni prodotti essenziali

prezzo ufficiale in BsS       in  nero

1 kg di carne              90           250
12 uova                     120           360
1 l di latte 49            120
1 kg pollo 78            180
1 kg di formaggio      80           300
1 l olio da cucina       36             80
1 kg di riso                 42             70
1 kg zucchero            32           120
1 kg farina polenta    20             30
1 kg farina bianca      54           150

1 l benzina regolare  0,70 (= 70mila Bs, prima costava 1 Bs)
1 l benzina premium                 0,90          (da 6 Bs)
1 l Diesel  0,50
Questi prezzi della benzina sono validi solo per chi ha il «carnet de la patria».

Salario minimo: da settembre 2018: 1.800 BsS (30 $ ca.)

Confronta con i prezzi pubblicati su MC giugno 2018, pag. 27

(Dati al 1/10/2018 da nostra fonte in loco)

Mariakoto, casa lungo uno dei rami del delta dell’Orinoco nel vicariato di Tucupita


Sostieneni il progetto degli Amici Missioni Consolata in favore degli indigeni Warao nel delta dell’Orinoco.

P. Juan Carlos Greco con parte della comunità di Janabasaida.




Diario dal V Congresso missionario americano (Cam)


Lo scorso luglio, a Santa Cruz de la Sierra, in Bolivia, si è tenuto il quinto «Congresso missionario americano» (Cam V) con migliaia di partecipanti provenienti da 24 paesi. Si è parlato delle sfide della Chiesa cattolica nel continente in un ambito sempre più secolarizzato e pluriculturale. Il diario di quelle giornate e qualche riflessione.

Il congresso precedente si era tenuto a Maracaibo, in Venezuela, dal 26 novembre al 1° dicembre 2013. In esso, i missionari che operano nel continente americano erano stati invitati a condividere la loro fede e a riflettere sulla missione dal punto di vista del discepolato in un mondo secolarizzato e pluriculturale. Alla sua conclusione venne annunciato che l’edizione successiva si sarebbe svolta in Bolivia. E così è stato.

Dal 10 al 14 luglio scorso, nella città di Santa Cruz de la Sierra, si è tenuto il quinto Congresso missionario americano (Cam V) sotto il titolo di «America in missione, il Vangelo è gioia».

Ha coinvolto circa 3.150 partecipanti provenienti da 24 paesi tra cui circa 90 vescovi, 2 cardinali, 450 sacerdoti e 2.600 delegati oltre a 1.500 famiglie boliviane offertesi per ricevere i pellegrini.

Come si ricorderà, i Cam nacquero grazie all’ispirazione e alla promozione delle Pontificie opere missionarie in collaborazione con le Conferenze episcopali americane e rappresentano un’evoluzione dei Comla (Congressi missionari latinoamericani), il primo dei quali si tenne in Messico nel 1977.

CAM 5, Santa Cruz de la Sierra, Bolivia, luglio 2018: davanti alla cattedrale di San Lorenzo. Foto: Jaime Patias.

La cattedrale di San Lorenzo

Lo scenario per la messa inaugurale del Congresso non avrebbe potuto essere più suggestivo: il sagrato della cattedrale di San Lorenzo. Dalla sua facciata pendeva un manifesto con l’immagine della Beata Nazaria Ignacia (1889-1943), fondatrice delle missionarie Crociate della Chiesa che sarà canonizzata il 14 ottobre a Roma (insieme a Paolo VI e Oscar Romero, ndr).

Per la celebrazione eucaristica si sono riuniti vescovi, preti e due cardinali: il rappresentante pontificio Fernando Filoni, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, e il boliviano Toribio Ticona, indigeno quechua, recentemente nominato da Papa Francesco.

Dopo la lettura della lettera inviata dal pontefice e il protocollo di saluto, tipico di queste occasioni, è iniziata la messa, presieduta dal cardinale Filoni.

Durante la sua omelia, l’inviato del papa ha invitato il Congresso a «non perdere di vista il vero scopo della missione della Chiesa, che è quello di mettere Gesù al centro, con il nome e il cuore, altrimenti si corre il rischio di fare qualcosa di diverso, una semplice filantropia, che alla fine si rivelerà vuota e priva di credibilità».

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Testimoni e profeti

Il convegno ha il suo inizio vero e proprio l’11 luglio. Ogni mattina verso le 8 le diverse delegazioni si riunivano nell’auditorium del collegio Don Bosco dei salesiani. Bandiere, mantelli, canzoni e slogan riempivano gli spazi fino al momento della preghiera. Poi l’atmosfera cambiava di tono per lasciare posto alla preghiera del mattino incentrata su alcuni temi: «Il Vangelo è gioia» (mercoledì), «Per la riconciliazione e la comunione tra i popoli» (giovedì) e «Essere missionari testimoni ci rende profeti» (venerdì).

Piatto forte dei tre giorni sono state cinque lezioni magistrali. La prima è stata pronunciata da mons. Guido Charbonnea, vescovo della diocesi di Choluteca, Honduras, sul tema: «La gioia appassionante del Vangelo». L’arcivescovo Charbonnea ha esortato i membri del Congresso a «scoprire le chiavi che il messaggio cristiano ci mostra per arrivare alla felicità».

La seconda, intitolata «Annuncia il Vangelo al mondo di oggi», è stata proposta da mons. Santiago Silva, vescovo castrense e presidente della Conferenza episcopale del Cile. Con uno stile molto particolare e diretto, in piedi sotto il tavolo d’onore, il vescovo ha invitato a imitare Gesù ed evangelizzare attraverso la nuova identità cristiana perché «nel mondo di oggi è essenziale assumere un ruolo di testimonianza che richiede di dare segnali come il perdono, la solidarietà e la misericordia».

Il direttore dell’agenzia giornalistica Fides – Bolivia, padre Sergio Montes, ha sviluppato il tema «Testimoni discepoli di comunione e di riconciliazione». In questa terza conferenza il sacerdote ha detto che un mondo lacerato, frammentato e diviso reclama riconciliazione e una comunione che «esige l’esodo da sé per vivere l’incontro con l’“altro”, o l’“altra”, per riconoscerlo come fratello e sorella con un destino comune».

Con il suo stile personale, da queste parti conosciuto e apprezzato, mons. Luis Augusto Castro, arcivescovo di Tunja, in Colombia, ha presentato la quarta conferenza dal tema: «Profeta e missione». In essa l’arcivescovo di Tunja, ha spiegato cos’è un profeta, ha fatto un viaggio attraverso la vita e il ministero di alcuni dei profeti biblici, la loro sensibilità per le esigenze della giustizia e della misericordia, la loro opposizione all’idolatria e ai rivali di Dio concludendo che «il profeta interpreta i segni dei tempi dal punto di vista di Dio e della sua alleanza. La sua vita e la sua esperienza incarnano un nuovo modo di vedere gli altri, il potere e il sacrificio. Egli disegna un sistema di valori basato sulla consegna e sulla solidarietà. Vede con occhi nuovi».

L’oratore, inoltre, ha offerto ai partecipanti degli spunti che un missionario può seguire per diventare profeta. In questo senso ha sottolineato che il profeta non rimane in silenzio, anticipa, parla chiaramente, è un discepolo ed è giusto.

La quinta conferenza è stata tenuta da Vittorino Girardi, vescovo emerito di Tilarán – Liberia, Costa Rica, sul tema: «La missione ad gentes in e dall’America». Il vescovo ha detto che i missionari non possono separare i contenuti della missione e l’essere di Dio: «Gesù è una sola cosa e tutto vive in funzione di ciò che Egli è. E Gesù si autopercepisce come l’inviato e il missionario».

Nel pomeriggio, il Congresso si divideva in sottogruppi per confrontarsi sugli argomenti delle conferenze. Si sono poi realizzati quattro incontri su tematiche molto interessanti: «Comunicazione e Missione», «Missione e pastorale universitaria», «Nuove prospettive della missiologia» e «L’infanzia e l’adolescenza missionaria». Per continuare con questa dinamica, si sono tenuti 12 laboratori in cui si sono condivise esperienze di vita con giovani, bambini, famiglie, sulla cura per il Creato, sulle migrazioni, sugli altri. Un momento molto importante ha avuto luogo la mattina di sabato 14. La maggior parte dei partecipanti sono stati convocati presso le rispettive parrocchie ospitanti e da lì sono usciti a due a due per visitare le famiglie e annunciare loro la Parola di Dio.

Molti di loro ci hanno poi raccontato, un po’ divertiti, che alcune famiglie avevano esitato ad aprire la porta di casa perché non potevano credere che c’erano cattolici che predicavano nelle strade.

Gli obiettivi per il futuro

La messa conclusiva del Congresso si è svolta nel pomeriggio di sabato 14 luglio, presso l’altare di Cristo Redentore, preparato in occasione della visita del Papa (del luglio 2015, ndr). È stata presieduta da mons. Sergio Gualberti, arcivescovo di Santa Cruz.

Prima dell’inizio della messa, le conclusioni proposte sono state lette come obiettivi su cui lavorare in futuro. Li presentiamo qui di seguito in punti riassuntivi:

  1. educare alla gioia del Risorto e delle Beatitudini;
  2. andare nelle periferie del mondo per incontrare gli «altri»;
  3. incoraggiare la conoscenza della Bibbia e dei Vangeli;
  4. promuovere le comunità di vita missionaria;
  5. promuovere la comunione dei beni nella Chiesa e con i poveri;
  6. promuovere la riconciliazione in tutti gli ambiti della vita;
  7. promuovere la consapevolezza della missione profetica e liberatrice in tutte le sfere sociali;
  8. l’evangelizzazione della famiglia come chiave cristiana della trasformazione sociale e culturale;
  9. promuovere una Chiesa missionaria più ministeriale e laicale;
  10. promuovere e prendersi cura delle vocazioni alla vita sacerdotale e religiosa e, infine,
  11. celebrare la fede e la religiosità popolare in chiave missionaria.

A chiusura, l’arcivescovo Gualberti ha pronunciato un’omelia in cui ha ringraziato tutti coloro che hanno reso possibile l’incontro. Successivamente ha sviluppato il tema «Scalare la montagna del Signore». Il monsignore ha parlato chiaramente e ad alta voce dei problemi che affliggono il nostro mondo (riquadro a pagina 27).

Alla fine dell’Eucaristia, mons. Gualberti ha imposto la croce missionaria a quattro persone, tra cui una coppia che lavorerà a Cuba. È stato anche annunciato che Puerto Rico ospiterà, nel 2023, il prossimo Congresso missionario americano.

Lavori di gruppo al Cam V

Gli aspetti negativi e quelli positivi del Cam V

Fin qui la cronaca. Anche questa volta – però – a parere dello scrivente si è ripetuto il copione dei congressi precedenti: slogan assordanti, simboli logori per la loro ripetitività, celebrazioni eucaristiche da una parte rigide e «romane» e dall’altra cariche di simboli più folkloristici che liturgici, processioni di doni che dovrebbero essere spiegati stante l’impossibilità di parlare da sé, i tentativi (per lo più infruttuosi) di sottolineare il tema della «missio ad gentes» per molti – tra cui molti pastori – passata di moda. E la lista potrebbe continuare.

Inoltre, anche se in questa occasione si è cercato d’introdurre in maniera più consistente il tema del ruolo delle donne nella Chiesa, a nessuna è stata affidata una lezione magistrale. E sì che ci sono donne preparate a livello teologico e pastorale.

Evidenziati questi punti negativi, va però detto che, fortunatamente, sono state di più le cose positive. La scelta della Bolivia come paese ospitante, nonostante tutte le sue difficoltà; la lunga preparazione; l’impegno delle Chiese locali nello scegliere e mandare persone che garantissero la continuità del cammino aperto dal Cam V; l’accoglienza di parrocchie, cappellanie, rettorie e comunità religiose, tutti soggetti che si sono anche incaricati di trovare le famiglie ospitanti.

Proprio queste si sono trasformate in un’estensione dell’abitazione di ogni partecipante dove tutti si sentivano come a casa: tutti benvenuti, anche oltre le possibilità. A causa della ristrettezza degli spazi disponibili molte famiglie hanno ceduto la migliore camera, il letto migliore e anche il migliore cibo. In molti hanno fatto in modo di essere (a volte a tarda notte) in aeroporto in attesa dei propri missionari.

Bello, caldo ed efficiente è stato il servizio fornito da centinaia di volontari (medici, paramedici, infermieri, polizia stradale, funzionari di migrazione…), per lo più giovani.

Contagiosa la testimonianza dei missionari e missionarie laici, tra cui alcune intere famiglie con esperienze di missione fino a 30 anni in situazioni difficili e di povertà.

Sono stati molti i partecipanti che, per raggiungere la destinazione, hanno dovuto fare giorni e giorni di strada e voli estenuanti a causa di itinerari con soste infinite. Per alcuni un volo che, in condizioni normali, poteva durare un massimo di 8 ore è durato fino a 24.

Abbondano dunque le ragioni per affermare che valeva la pena di essere a Santa Cruz, in Bolivia, al Congresso missionario americano dove abbiamo trovato una buona parte di quella chiesa pasquale e missionaria che sta prendendo sul serio l’invito di Papa Francesco a uscire e andare nelle periferie esistenziali per comunicare la gioia del Vangelo.

Jorge García Castillo
(traduzione e adattamento di Paolo Moiola)


L’intervento finale

Scalare la montagna

La sintesi del discorso di chiusura di mons. Sergio Gualberti, arcivescovo di Santa Cruz de la Sierra e presidente del Cam V.

Mons. Sergio Gualberti, CAM 5, Santa Cruz de la Sierra, Bolivia, luglio 2018. Foto: Jaime Patias.

Come cattolici siamo chiamati a scalare la montagna della solidarietà, della giustizia e della vita, una vita degna per tutti i figli di Dio per superare la povertà, che ancora mantiene in condizioni disumane troppi fratelli e sorelle nel nostro continente. La povertà è il risultato di un sistema ingiusto e mercantilista in cui l’economia è al di sopra dell’uomo e arricchisce i ricchi a spese dei poveri, una moltitudine di poveri sempre più poveri. Un sistema che scarta gli anziani, i bambini, gli orfani e gli abbandonati come tanti fratelli indifesi; un sistema che discrimina le donne, in particolare le madri single e sole.

Scalare la montagna della fraternità e dell’uguaglianza camminando insieme a tante e grandi persone che lasciano i nostri paesi e cercano una patria che garantisca condizioni di vita dignitose per loro e le loro famiglie e che invece si scontrano contro i muri della xenofobia e della vergogna. Muri che separano i bambini dai loro genitori e che discriminano a causa delle loro origini e condizioni personali e sociali. Muri da demolire per costruire ponti di umanità, fraternità e solidarietà.

Scalare la montagna della pace per contrastare nei nostri paesi la corsa alle spese militari e coloro che credono nella logica del più forte, che promuovono l’odio e la paura e la diffidenza tra i nostri popoli, tagliando le risorse che servirebbero per creare posti di lavoro, per superare la povertà e attuare politiche sociali al servizio di tutti, specialmente degli ultimi e degli emarginati. «Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra» (Isaia 2,4).

Scalare la montagna dell’amore e del matrimonio accompagnando le famiglie a stabilirsi nella casa del Signore, in cui esse si ritrovano come chiese domestiche, come luoghi fondati sulla fede, l’amore, la comunione, la riconciliazione e il perdono, e come sacrari di vita e scuole di umanizzazione. Le nostre famiglie che spesso camminano senza meta, colpite nella loro integrità a causa della povertà, delle migrazioni, delle separazioni e dei divorzi e costantemente molestate da correnti ideologiche colonizzatrici che mettono in discussione l’identità stessa della famiglia basata sull’amore esclusivo e fedele fino alla morte tra un uomo e una donna aperti alla vita e all’educazione dei bambini secondo i valori del Vangelo e delle nostre culture indigene.

Scalare la montagna della luce e della verità come cristiani consacrati alla verità del Signore smascherando le menzogne e gli errori della cultura individualista e relativista che è alla base della società dei consumi. Società in cui il consumo di beni superflui e lo sfruttamento irrazionale e indiscriminato delle risorse naturali hanno causato ferite mortali alla nostra sorella la madre terra, e le cui prime vittime sono i nostri fratelli indigeni privati del loro habitat vitale.

Scalare la montagna della comunione della nostra Chiesa dove tutti mettiamo i nostri carismi al servizio della comunità e del Regno di Dio. Dove i ministeri laici, in particolare delle donne, siano riconosciuti e trovino lo spazio che compete loro dal battesimo.

Scalare la montagna della riconciliazione e del perdono per percorrere i sentieri della conversione sincera della nostra Chiesa davanti alle infedeltà, le divisioni, le gelosie e contro testimonianze di tanti dei suoi figli che scandalizzano il mondo.

Uniti e riconciliati, dobbiamo camminare insieme come un unico popolo di Dio, testimoniando una comunione sincera e profonda che è il primo servizio alla missione in modo che il mondo sappia chi ci ha mandato.

[…] «Come mi hai mandato nel mondo, anch’io ti mando nel mondo in modo che la tua voce e le tue parole si diffondano in tutta la terra fino ai confini del mondo». Accogliamo con entusiasmo e gioia la sfida che il Signore lancia a tutti e a ognuno di essere profeti della Sua Parola, il Verbo della vita, della giustizia e dell’amore senza essere intimiditi dalle nostre debolezze, difficoltà e incomprensioni, e così sperimentare quanto belli sono i piedi di coloro che annunciano il Vangelo nella nostra America e oltre il nostro continente. […]

mons. Sergio Gualberti
(trascrizione di Lourdes González,
(traduzione e adattamento di Paolo Moiola)

CAM 5, Santa Cruz de la Sierra, Bolivia, luglio 2018. Foto: Jaime Patias.


La testimonianza

È finito il tempo dei navigatori solitari

Le riflessioni del superiore generale dei missionari della Consolata, al suo primo Cam.

Prima di tutto mi piace sottolineare che il quinto Congresso missionario americano (Cam V) – il primo a cui io ho partecipato – è stato un’esperienza ricchissima di Chiesa. Al Congresso hanno partecipato giovani e meno giovani, sacerdoti, vescovi, religiosi, religiose, seminaristi e laici di tutto il Continente e anche da altri paesi. Qui ho sentito davvero che la Chiesa è universale ed è madre perché raccoglie tutti i suoi figli e figlie provenienti da ogni parte e dà ad ognuno la possibilità di sentirsi famiglia e poter sviluppare tutti i propri doni e qualità. In quelle giornate abbiamo respirato la missione e capito – sia dalle parole che dai segni – che senza missione non c’è Chiesa, non c’è Vangelo.

In secondo luogo, mi piace sottolineare la dimensione della gioia, della festa. Lo slogan del Congresso era: «Annuncia la gioia del Vangelo». L’America è viva, piena di giovani e di voglia di ballare, di vivere di stare assieme. La gioia è una caratteristica di questi popoli e culture e al Congresso essa si è manifestata in tutte le sue forme. Davvero la Chiesa deve recuperare questa dimensione gioiosa della fede. Credo che per troppo tempo abbiamo predicato una fede di rinuncia e sacrificio: è giunta l’ora di predicare la gioia di essere cristiani e di annunciarla con tutta la nostra forza cantando e celebrando la vita.

Il nostro Fondatore, il Beato Guseppe Allamano, diceva che un missionario deve essere gioioso e che questa gioia nasce dalla fede, dal sentirsi vicini al Signore. È questo che a Santa Cruz de la Sierra è stato ripetuto affinché ognuno di noi lo custodisse nel proprio cuore come tesoro prezioso per portarlo nel proprio ambiente dove annunciare la gioia del Vangelo. Infine, mi piace condividere alcuni punti che possono essere importanti anche per il nostro percorso di missionari della Consolata.

Al Congresso, in diverse forme, è stato ripetuto che oggi la missione non si può più fare da soli, che dobbiamo aprirci e collaborare con tutte le forze che vogliono viverla, primi fra tutti i laici. Come ci ha insegnato la Redemptoris Missio, la missione non è opera di navigatori solitari, ma di discepoli missionari aperti, sensibili e solidali.

In secondo luogo, in diverse maniere è stato ripetuto che la missione è il paradigma della Chiesa, ma che essa è anche più grande della Chiesa perché va oltre, grazie a tutte le sue persone che cercano e lavorano per il bene dell’umanità. Siamo umili servitori, insieme a tanti altri conosciuti e sconosciuti, della presenza del Regno e questa è la nostra gioia e la nostra forza.

Per ultimo, credo che il Congresso missionario di Santa Cruz de la Sierra ci abbia ricordato che il cammino di rivitalizzazione e ristrutturazione in una visione di missione continentale, che come Istituto abbiamo iniziato, sia in sintonia con quanto sta vivendo la Chiesa: che se, da una parte, essa deve lanciarci in una missione contestualizzata, dall’altra non deve farci dimenticare la sua dimensione universale. Perché siamo persone appartenenti a tutta l’umanità, nonché fratelli di tutti i popoli e di tutte le culture.

Stefano Camerlengo

Padre Camerlengo tra i concelebranti


Missionarie, missionari e laici della Consolata presenti al Cam V:

  • Sr. Maria Conceição Nascimento da Silva
  • Sr. Emma Eganda
  • Sr. Hannah Wambui Ndung’u
  • Sr. Marisa Soy
  • P. Stefano Camerlengo
  • P. Jaime C. Patias
  • P. Micarnel Mutinda Munywoki
  • P. Robério Crisóstomo da Silva
  • P. Stephen Gichohi Ngari
  • P. Stanslaus Joseph Mnyawami
  • Mons. Luis Augusto Castro
  • Mons. Francisco Munera
  • Ugo Gomes
  • Mariana Gomes
  • Jose Luis Andrade
  • Danmary Mujica

CAM 5, Santa Cruz de la Sierra, Bolivia, luglio 2018. Foto: Jaime Patias.




Quando si sgomberano i poveri invece della povertà


Capita spesso di sentire parlare di Rom, quasi sempre con toni violenti e, non a caso, in modo più marcato durante le campagne elettorali. Capita raramente, invece, di imbattersi in informazioni ragionate sui Rom, ancora più raramente di sentire parlare i Rom stessi.

Se ne parla, ma non se ne sa quasi nulla. Si spendono milioni di euro ogni anno (almeno 15 nel 2017) per risolvere l’emergenza abitativa in cui molti di loro vivono, ma il problema rimane. Si firmano strategie nazionali (quella del 2012 stabiliva l’obiettivo di «superare – non abbattere senza altro criterio se non quello punitivo e propagandistico – i campi Rom» entro il 2020 avviando processi d’inclusione sociale) e si prosegue con pratiche sbrigative e irrispettose della dignità delle persone.

In Italia si stima ci siano tra i 120mila e i 180mila rom, sinti e camminanti: la maggior parte di loro sono bambini, quasi la metà hanno cittadinanza italiana. Sul numero complessivo di rom presenti nel paese, quelli che vivono nei cosiddetti «campi» sono 26mila, e di questi, quelli effettivamente «nomadi» sono solo il 3%. È da sottolineare che i campi sono stati creati dalle stesse istituzioni che oggi effettuano gli sgomberi, non dai rom i quali si trovano spesso a vivere in essi in condizioni degradanti, di segregazione e senza alternative.

Secondo Carlo Stasolla, presidente dell’Associazione 21 luglio, inoltre, si deve tenere conto che i rom non sono costretti a vivere solo nelle baraccopoli formali, ma anche in quelle informali, ancora più insicure: «Le prime, abitate da circa 16.400 individui, sono 148, disseminate in 87 Comuni. Il 55% dei rom in emergenza abitativa ha meno di 18 anni e la loro aspettativa di vita è di dieci anni inferiore a quella della popolazione italiana. Centinaia sono invece i micro insediamenti (300 nella sola Capitale) abitati da meno di diecimila persone residenti principalmente nelle periferie delle grandi città». I micro insediamenti, come sottolinea la Caritas Ambrosiana riferendosi alla realtà lombarda, nascono spesso per evitare il trauma periodico dello sgombero: «Per evitare gli sgomberi, i rom hanno imparato a nascondersi. Abbandonati i grandi campi, si sono distribuiti sul territorio, occupando le aree marginali. Li si trova sotto i ponti, lungo le autostrade, sulle alzaie dei navigli, accanto ai binari della ferrovia, ai bordi di un campo agricolo, accanto a una discarica. Si riuniscono in piccoli gruppi di 15 massimo 30 persone, appartenenti alla stessa famiglia o a famiglie imparentate tra loro».

L’8 aprile si celebra la «giornata internazionale dei rom, sinti e camminanti». Come ogni anno, l’auspicio è quello che il nostro paese trovi finalmente il coraggio di sgomberare la povertà piuttosto che i poveri.

Luca Lorusso




Cooperazione e investimenti,

tout se tient?

Testo di Chiara Giovetti | Foto di Chiara Giovetti e Gigi Anataloni |


Il 2018 è iniziato con due appuntamenti importanti per la cooperazione, entrambi a Roma: il convegno «Il nuovo piano europeo per gli investimenti esteri. L’iniziativa imprenditoriale in Africa e nel Mediterraneo», il 16 gennaio, e la «Conferenza nazionale della cooperazione allo sviluppo», il 24 e 25 gennaio. Vediamo come ciò che è emerso traccia un ritratto della cooperazione nei cui lineamenti il settore privato e gli investimenti hanno un ruolo sempre più ampio.

La cooperazione ha smesso di essere «qualcosa di gente dal cuore buono» che va «in ordine sparso nel mondo». Non è più un «lusso che l’Italia non può permettersi». Andrea Riccardi, fondatore della comunità di Sant’Egidio, ha sottolineato con decisione questi passaggi alla Conferenza nazionale della cooperazione allo sviluppo del 24 e 25 gennaio scorsi a Roma. Sono passaggi che riflettono un cambiamento di percorso che non è certo iniziato ieri. Tanto Riccardi, che da ministro della Cooperazione internazionale e dell’integrazione del governo Monti nel 2012 era stato fra i promotori del Forum di Milano, che Elisabetta Belloni, segretaria generale del ministero Affari esteri e della Cooperazione internazionale, non si sono fatti sfuggire l’opportunità di ribadirlo alla platea dell’auditorium Parco della musica a Roma.

La prima Conferenza nazionale della cooperazione allo sviluppo, però non è la prima: pochi giorni prima della conferenza, sul blog info-cooperazione, Nino Sergi della rete di ong Link2007 aveva scritto: «Ritengo che sia un errore chiamarla “la prima conferenza”, come se la storia della cooperazione italiana iniziasse ogni volta da capo». Ed elencava cinque conferenze fra il 1981 e il 1991 che hanno fatto da antecedente sia a quella milanese del 2012 che a quella romana di quest’anno.

Perché insistere su questa continuità? Per dare valore e peso a un bagaglio di esperienze e conoscenze che è andato componendosi, con tutti i suoi successi ed errori, nel corso di almeno quarant’anni. Il passaggio evocato da Riccardi ovviamente non è solo negazione – ciò che la cooperazione ha smesso di essere – ma anche affermazione. E ciò che la cooperazione oggi è, o sta diventando, è il prodotto di fenomeni storici senza precedenti, come la globalizzazione e le sue derive di insostenibilità ed esclusione, e di dinamiche, come le migrazioni, che accompagnano l’umanità da sempre, ma che oggi hanno carattere e dimensioni inedite.

L’eradicazione della povertà, la sostenibilità economica e ambientale, l’eliminazione delle diseguaglianze – dicono con sempre maggior convinzione esponenti di governo e comparti economici – non sono solo imperativi morali bensì impegni non più rimandabili perché, nelle parole del ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda, «ne va della sicurezza e della tenuta in primo luogo dello stesso continente europeo e dell’Unione europea». Verissimo, rispondono gli operatori della cooperazione nella società civile o nelle istituzioni, noi lo sosteniamo da decenni, ora rispondiamo a queste sfide con strumenti nuovi. Forgiati, però, in quello definito da Riccardi il «grande laboratorio della cooperazione», che «permette di mettere insieme qualcosa che è stato troppo separato: l’interesse a far crescere il paese e la solidarietà».

2012 e 2018: da Milano a Roma

Se è vero che la genesi e il programma di un evento dicono molto dell’evento stesso, si può partire da questi per misurare la distanza fra il 2012 e il 2018.

Il Forum di Milano@ fu fortemente voluto da Riccardi stesso e accolto con un misto di speranza e incertezza dalla società civile – Ong in testa – impegnata da anni nel richiedere con insistenza la finalmente avviata riforma della legge 49/1987 che disciplinava la cooperazione, ma anche non completamente soddisfatta del processo di riforma in corso e contrariata dal taglio dei fondi gestiti dal ministero degli Esteri, taglio che fra il 2008 e il 2012 era stato dell’88%@.

Il Forum fu preceduto da un lavoro preparatorio di riflessione su dieci temi e da diverse polemiche sulla presenza dell’allora presidente del Burkina Faso, Blaise Compaoré, e dell’amministratore delegato dell’Eni, Paolo Scaroni. La riforma della 49/1987 ipotizzava per la prima volta di riconoscere gli enti profit come attori della cooperazione, e le perplessità su quanto fosse opportuno farlo, e in che termini, erano uno dei principali nodi del dibattito. I partecipanti al Forum, inizialmente stimati fra cinquecento e mille, furono alla fine intorno ai duemila. Fra i temi affrontati i giovani e la migrazione erano trasversali ai diversi tavoli, mentre il rapporto cooperazione – settore privato aveva un suo tavolo di lavoro dedicato.

La Conferenza di Roma, invece, è avvenuta dopo l’approvazione della nuova legge sulla cooperazione, la 125/2014, in applicazione dell’articolo 16 comma 3 della legge stessa, che prevede appunto la convocazione ogni tre anni da parte del ministro degli Esteri di una «Conferenza pubblica nazionale per favorire la partecipazione dei cittadini nella definizione delle politiche di cooperazione allo sviluppo». I partecipanti sono stati circa tremila.

Un’attenzione e uno spazio maggiori rispetto a Milano hanno avuto i giovani e, in particolare, i numerosi studenti delle scuole superiori o delle università che hanno partecipato alla Conferenza, i giovani della diaspora, le seconde e terze generazioni. Coinvolgere questi ragazzi nella cooperazione, si legge nel manifesto conclusivo della Conferenza, «farà nascere nella società un ritrovato consenso attorno ai valori della solidarietà, della reciprocità, dei principi umanitari e un nuovo modo di appartenere ad un mondo globale».

Quanto al dibattito sul settore privato, è stato certamente uno dei punti nodali della due giorni romana come lo era stato a Milano, ma con modalità completamente differenti.

Per il cane a sei zampe, a Roma non c’era più l’amministratore delegato dell’azienda a fare da rappresentanza istituzionale, ma Alberto Piatti, vice presidente esecutivo del settore aziendale che si occupa di Impresa responsabile e sostenibile (ed ex presidente della Ong Fondazione Avsi – Associazione Volontari Servizio Internazionale), a raccontare l’impegno già in corso dell’Eni nello sviluppo.

Piatti ha animato la tavola rotonda sul settore privato assieme a Maria Cristina Papetti di Enel, Letizia Moratti di Fondazione E4Impact, Licia Mattioli di Confindustria e Caterina Bortolussi di Kinabuti, una casa di moda basata su principi etici, con sede in Nigeria. E la tavola rotonda sul settore privato è stata la prima a calcare il palco dell’Auditorium.

Se nel 2012 il riconoscimento del settore privato come attore della cooperazione era uno dei punti di una legge che sarebbe stata approvata solo due anni dopo, oggi è un dato assodato.

A confermarlo, oltre allo spazio che la Conferenza gli ha dedicato, è stato anche e soprattutto il bando@  dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics) del luglio 2017, il primo rivolto agli enti profit, che ha messo a disposizione 4 milioni e ottocentomila euro suddivisi in tre lotti, per un contributo massimo a progetto fra i 50 mila e i 200 mila euro.

Gli investimenti esteri dell’Ue

Il viceministro degli esteri Mario Giro al convegno Il nuovo piano europeo per gli investimenti esteri svoltosi presso la Farnesina poco prima della Conferenza, ha  riportatocche al bando Aics hanno partecipato venticinque aziende fra start-up e imprese di prima internazionalizzazione intenzionate a investire in Africa.

«L’Africa deve poter produrre», ha affermato Giro, e si è detto convinto che, come l’Asia è entrata nella globalizzazione attraverso la manifattura industriale, l’Africa potrebbe entrarci a pieno titolo con l’agribusiness. Ciò che si sta facendo, ha sintetizzato il viceministro, è provare a indurre lo sviluppo a partire dalla sua unità fondamentale: l’impresa. Per far questo, l’Italia chiede alle proprie aziende di lavorare con le Ong e con le diaspore per usare gli strumenti che la Commissione europea e la cooperazione italiana mettono a disposizione. Tout se tient, tutto si lega, conclude il viceministro citando De Saussure (Ferdinand 1857-1913).

Lo strumento che la Commissione mette a disposizione è appunto il Piano europeo per gli investimenti esteri (Pie). A spiegarne la logica è stato Stefano Manservisi, direttore generale della Cooperazione e sviluppo della Commissione Europea. Il punto di partenza è «l’analisi di una globalizzazione che non è inclusiva e non è sostenibile» e che toglie efficacia ai trasferimenti di risorse, che erano lo strumento principale della cooperazione allo sviluppo. La Commissione, dunque, intende coinvolgere il settore privato in un piano di investimenti che metta insieme il profitto con la necessità di affrontare ed eliminare l’insostenibilità e l’esclusione. In questo modo, sottolinea Manservisi, si fa anche «più Europa nel mondo», perché si estende ai paesi dell’Africa e del Mediterraneo quell’insieme di principi di solidarietà su cui si è costruita l’Europa nel secondo dopoguerra.

Piantagione di tè nel Meru. Il tè è uno dei prodotti pregiati di esportazione dall’Africa e fa gola alle multinazionali. (foto Gigi Anataloni)

I tre pilastri del Pie e gli aspetti da chiarire

Il Pie ha tre pilastri, ha spiegato Roberto Ridolfi, direttore generale nella Commissione europea per la Crescita sostenibile e lo sviluppo ora distaccato alla Fao proprio per fare da raccordo fra le politiche europee e il settore che, a detta di Ridolfi, ha il maggior potenziale di creare posti di lavoro in Africa, cioè l’agribusiness.

Il primo dei tre pilastri del Pie è lo strumento finanziario, cioè 4,1 miliardi di euro messi a disposizione dalla Commissione per le imprese – attraverso le banche di sviluppo dei paesi membri e, in Italia, attraverso la Cassa depositi e prestiti – come garanzia per la riduzione del rischio negli investimenti. Il fatto che la Commissione si accolli una parte del rischio, in sostanza, dovrebbe incoraggiare le imprese europee a investire dove da sole non andrebbero proprio a causa del rischio troppo elevato. Il secondo pilastro è l’assistenza tecnica messa a disposizione di enti, piccole e medie imprese e cooperative locali per formulare progetti sostenibili; il terzo pilastro, infine, è il dialogo con i paesi partner destinatari degli interventi per rimuovere gli impedimenti – di tipo burocratico legislativo, le regole d’origine, eccetera – che ostacolano gli investimenti nel paese.

Sulla base di precedenti esperienze di blending – cioè di interventi che combinano sovvenzioni e prestiti – la Commissione ha quantificato in 44 miliardi entro il 2020 l’ammontare degli investimenti che potrebbero generarsi grazie al Pie, decuplicando così l’investimento iniziale. Se, poi, i paesi membri «rilanciassero», raddoppiando con fondi propri i 4,1 miliardi della Commissione, l’effetto di leva finanziaria raddoppierebbe a sua volta, generando investimenti per un valore di 88 miliardi.

Accanto a speranze e aspettative, il Pie sta suscitando anche alcune perplessità. Una l’ha manifestata il ministro Calenda dal palco dell’Auditorium, sottolineando che per l’accordo sui migranti con la Turchia l’Ue ha speso quasi la stessa cifra che ora si destina a un continente intero.

Inoltre, non è chiaro a quali imprese in Europa, e quindi in Italia, è rivolto il Piano e quanto spazio questo garantisca per promuovere gli investimenti delle piccole e medie imprese (Pmi). Il responsabile di Assoafrica e Mediterraneo di Confindustria, Pier Luigi d’Agata, ha affermato che se il Piano vuole rappresentare un’occasione di investimento per le Pmi italiane sarebbe opportuno che si orientasse a sostenere anche investimenti nell’ordine dei centomila euro, importo più vicino alle possibilità di questo tipo di imprese, e non soltanto interventi da milioni di euro. Il coinvolgimento delle Pmi, ha continuato d’Agata, permetterebbe di valorizzare quello che anche Calenda aveva identificato alla Conferenza come uno dei principali punti di forza del modello imprenditoriale italiano, cioè il settore manifatturiero. Rispetto a questo punto Manservisi ha risposto che non crede che il Pie sarà in grado di garantire progetti da centomila euro, mentre sarà possibile creare un sistema di fondi di garanzia che permetta l’accesso a prestiti anche inferiori a quella cifra «per avviare attività economiche e produttive legate a un sistema disegnato dalle nostre imprese».

Infine, a dimostrazione che le vecchie barriere ideologiche fra Ong e imprese sono state abbattute e che le regole da applicare nel nuovo campo da gioco comune sono in fase di definizione, Giampaolo Silvestri della Fondazione Avsi ha sottolineato che le Ong e la società civile non possono essere relegati al semplice ruolo di cani da guardia, ma devono essere coinvolte in ogni fase del processo anche nel caso della messa in opera del Pie.

Il valore aggiunto che una Ong può dare, ha detto Silvestri, deriva dal suo essere radicata in un contesto, dove ha una trama di relazioni con il territorio e con le autorità locali e conosce i beneficiari. Un «patrimonio di fiducia fondamentale» per una piccola o media impresa che vuole investire in Africa, perché permette di accelerare processi che altrimenti sarebbero molto più lunghi.

Chiara Giovetti


Diretta video

Vedi la diretta della Conferenza Nazionale della Cooperazione allo Sviluppo

Vedi la diretta del Convegno Il nuovo piano europeo per gli investimenti esteri. L’iniziativa imprenditoriale in Africa e nel Mediterraneo

Zucche e viti in un campo sperimentale a Liliaba nel Meru, Kenya. (foto Gigi Anataloni)




Carbone vegetale,

risorsa o piaga?

Testo di Chiara Giovetti |


Un terzo della popolazione mondiale usa legna e carbone per cucinare e a volte anche per fornire energia alle proprie piccole e medie imprese. In Africa si tratta di un settore in forte espansione e i potenziali danni per ambiente, finanze pubbliche e lotta al terrorismo non sono da sottovalutare.

Una donna seduta su uno sgabello a bordo strada e, accanto, qualche sacco chiaro alto più di un metro, con le scritte sbiadite di questa o quella industria locale, di questa o quella agenzia umanitaria. Dentro, tanti cubi neri trattenuti da una rete di cordicelle o di foglie di palma annodate ai bordi del sacco. Oppure un uomo che spinge una bicicletta con almeno un paio di questi sacchi posati uno sopra l’altro e assicurati al portapacchi con un legaccio di camere d’aria annodate fra loro. Succede spesso di imbattersi in scene come queste lungo le strade africane, in città come nelle zone rurali. I cubi neri sono pezzi di carbone vegetale e il loro impiego più frequente è quello di fare fuoco per cucinare.

A vederli così, questi venditori improvvisati, si direbbe che quello del carbone è uno dei tanti piccoli commerci con cui molte famiglie africane si guadagnano di che sopravvivere. Ma sarebbe un’impressione errata. Aggregando tutte le donne sedute a bordo strada e gli uomini che spingono una bici nel continente, il giro d’affari del carbone vegetale appare nella sua reale dimensione: colossale. E ingenti sono i danni che rischia di infliggere all’ambiente, alle finanze pubbliche e persino alla lotta al terrorismo perché, nonostante abbia un ruolo di primo piano nelle economie del continente, il settore del carbone e della legna da ardere rimane per la maggior parte informale.

Vendita di carbone nello slum di Kibera a Nairobi (© The Seed / Pamela Adinda)

Legna e carbone vegetale in numeri

Secondo i dati del rapporto The Charcoal Transition della Fao, nel 2016 il mondo ha estratto circa 3,7 miliardi di metri cubi di legno dalle foreste del pianeta. Di questi, circa la metà sono stati usati come combustibile e sono diventati per l’83% legna da ardere e per il 17% carbone vegetale. Quest’ultimo è dunque è quantificabile 351 milioni di metri cubi, pari a in 52 milioni di tonnellate, di cui 32 milioni prodotti nella sola Africa@.

Per farsi un’idea delle proporzioni può essere utile un confronto con i volumi italiani: nel 2016 una nota del Crea (Consiglio per la ricerca nell’agricoltura e l’analisi dell’economia agraria) riportava che i boschi italiani contengono «oltre 1,2 miliardi di metri cubi di legno, con un aumento annuale di massa legnosa di oltre 36 milioni di metri cubi. Di questi ogni anno vengono tagliati oltre 10 milioni di metri cubi»@.

Sempre i dati Fao indicano che ancora oggi quasi due miliardi e mezzo di persone sul pianeta ricorrono a legna e carbone per cucinare: un terzo della popolazione mondiale. In Africa subsahariana, il dato sale di parecchio: a contare su queste fonti di energia è il 90% della popolazione. Sostengono il trend, in crescita, della produzione e del consumo principalmente due fattori: l’aumento demografico e la rapida urbanizzazione.

Trasporto di carbonea Bagamoyo, Tanzania (© AfMC / Jaime Patias)

In Tanzania, ad esempio, l’85% della popolazione urbana utilizza carbone sia per cucinare che per la fornitura di energia a piccole e medie imprese: secondo uno studio del 2007 citato nel rapporto Fao, alla fine del secolo scorso la sola città di Dar es Salaam, il centro urbano più grande del paese, era responsabile del consumo di metà del carbone a livello nazionale.

Quanto al volume economico dell’industria del carbone vegetale in Africa subsahariana, nel 2011 le proiezioni di Afrea – il programma della Banca mondiale finanziato dai Paesi Bassi che si occupa di studiare le energie rinnovabili in Africa – indicavano in 8 miliardi di dollari il valore del settore per il 2007 e ipotizzavano per il 2030 lo sfondamento della soglia dei 12 miliardi, con un totale di 12 milioni di persone impiegate nella produzione, vendita e distribuzione del carbone.

Unep, l’agenzia Onu per l’Ambiente, propone invece altri dati, partendo dal valore ufficiale della produzione di carbone (dati 2012) e usando prezzi variabili da 200 dollari per tonnellata sul mercato locale (cioè 5 dollari per un sacco da 25 chili) a 800 dollari per tonnellata sul mercato internazionale. Con queste premesse Unep arriva ad assegnare al settore un valore economico compreso fra i 9,2 e i 24,5 miliardi di dollari.

Per fornire il polso della situazione a livello dei singoli paesi, il rapporto Fao riporta ad esempio che in Tanzania il settore del carbone vegetale contribuisce all’economia nazionale per circa 650 milioni di dollari (pari a circa il 2,2% del Pil) mentre in Kenya il valore più che raddoppia toccando 1,6 miliardi (1,2% del Pil).

Si cucina col carbone nello slum di Korogocho a Nairobi (© The Seed / Purity Mwendwa)

Carbone e vita quotidiana

Guardando al quotidiano delle vite delle persone, la popolarità del carbone è facile da spiegare. Dal lato di chi lo compra, è la fonte di energia più conveniente: brucia più a lungo e produce più calore della legna, è più leggero e per questo più facile da trasportare e può essere conservato più a lungo, senza rischiare di marcire o di essere danneggiato dagli insetti.

Dal lato di chi lo produce e vende, data l’abbondante domanda, è una fonte di reddito piuttosto sicura. Standard Digital, uno dei principali quotidiani keniani, racconta la storia di Sipporah Kemunto, che vende carbone a Kisii, nel Kenya occidentale. Sipporah ha iniziato vent’anni fa con 200 scellini (circa 2 euro al cambio di oggi) prestati da un’amica, con i quali ha comprato il suo primo sacco di carbone. «Con quell’unico sacco sono riuscita a vendere dieci barattoli di carbone il primo giorno: molto al di sopra delle mie aspettative». Oggi la signora Kemunto vende un sacco a 1.100 scellini, per un guadagno fra i 500 e i 550 scellini, in un paese dove la paga giornaliera per un addetto alle pulizie, ad esempio, è di 622 scellini a Nairobi e 349 scellini in aree non urbane. Il suo lavoro l’ha costretta a molti sacrifici, come quello di svegliarsi prestissimo la mattina per fare il giro dei ristoranti suoi clienti e fornire loro il carbone, o quello di lavorare in condizioni non molto salubri. Ma grazie al carbone è riuscita a comprare due acri di terra fuori Kisii e a far studiare due figli all’università mentre il terzo sta finendo le superiori@.

Taglio della foresta nel Congo RD ( AfMC / Ennio Massignan)

Impatti del carbone

Il primo impatto connesso alla produzione di carbone vegetale riguarda il degrado delle risorse forestali – definito come riduzione della biomassa, declino della composizione e della struttura della vegetazione – se non addirittura la deforestazione. È difficile, avverte il rapporto Fao, indicare con chiarezza quanto la produzione di carbone vegetale da sola determini degrado o deforestazione. Un tentativo di fornire una stima del fenomeno è uno studio del 2013 che quantifica gli ettari di foresta persi in Africa a causa del carbone in quasi tre milioni, pari all’80% della deforestazione complessiva nelle aree tropicali. La Tanzania distrugge così ben un terzo delle sue risorse forestali, mentre lo Zimbabwe si ferma allo 0,33 per cento.

Vi è poi la questione delle emissioni di gas serra (anidride carbonica, ma anche metano e carbonio) durante tutte le fasi della filiera. Anche in questo caso si tratta di un dato stimato e si collocherebbe fra 1 e 2,4 miliardi di tonnellate di gas serra, cioè fra il 2 e il 7 per cento delle emissioni globali imputabili all’attività umana.

Altro impatto è quello sulle casse dello Stato: la Fao stima che le perdite per tasse non pagate si collochino, a livello continentale, fra il miliardo e mezzo e i 3,9 miliardi di dollari. Anche in questo caso è la Tanzania il paese dove il danno è maggiore: 100 milioni di dollari di tasse non riscosse. Un ruolo non secondario in questo meccanismo di evasione è quello della consolidata prassi della tangente, che ha anche l’effetto di aumentare il prezzo del carbone per il consumatore finale. L’incidenza delle mazzette – di solito richieste da militari e polizia durante il trasporto – sarebbe pari al 12% in Malawi e fino al 30% in Kenya.

Infine, l’ampia informalità del settore genera un sommerso che apre ampie zone di manovra per gruppi criminali e terroristici. Il rapporto di Unep e Interpol, The Environmental Crime Crisis@, stima che milizie e gruppi terroristici nei paesi africani dove sono in corso conflitti – fra cui Mali, Repubblica Centrafricana, RD Congo, Sudan e Somalia – possono guadagnare fra i 111 e i 289 milioni di dollari all’anno fra mazzette e partecipazione attiva al commercio illegale. In un posto di blocco nel distretto di Badhadhe, Somalia, i terroristi di Al Shabaab sono riusciti a raccogliere fra gli 8 e i 18 milioni di dollari in un anno, più altri 38-56 fra commercio in proprio e tangenti nei porti.

Quanto al contrabbando internazionale le osservazioni sul campo degli estensori del rapporto hanno permesso di documentare, fra Uganda, RD Congo e Tanzania, movimenti di camion che di notte portavano sacchi di carbone in punti di raccolta nei pressi di aree protette o addirittura attraverso i confini. Nel complesso, il giro d’affari del carbone illegale crea profitti fra i 2,4 e i 9 miliardi di dollari nella sola Africa orientale, centrale e occidentale.

Fornello ad uso domestico di bassa resa e grande spreco di calore (© AfMC / Ennio Massignan)

Ultimo aspetto è poi quello della salute umana: alcuni studi indicano che nei contesti domestici in cui si usano fornelli a carbone la concentrazione di Pm10 (polveri sottili) è di un sesto rispetto alle case in cui si usa legna da ardere. La transizione da legna a carbone potrebbe ridurre del 65% le infezioni respiratorie. Tuttavia, i bracieri tradizionali attualmente in uso, e sono la stragrande maggioranza, rappresentano una minaccia alla salute perché sprigionano più monossido di carbonio.

Le possibili soluzioni

Secondo il rapporto Fao, una riduzione pari all’86% nelle emissioni generate da produzione e consumo di carbone vegetale potrebbe ottenersi attraverso una serie di interventi. Fra questi vi sono l’introduzione di pratiche sostenibili nella gestione delle foreste, l’uso di biomasse alternative provenienti ad esempio dagli scarti della lavorazione del legno, l’introduzione di prodotti agglomerati (briquettes) che riutilizzino la polvere di carbone combinata con scarti della produzione agricola o con terreno e l’introduzione di fornelli migliorati, in grado di consumare meno carbone.

La riduzione più significativa tuttavia verrebbe, secondo la Fao, dal miglioramento dei sistemi tradizionali di carbonizzazione, che di solito avviene dentro fornaci con un’efficienza di conversione molto bassa. Secondo uno studio del 2016, migliorare tale efficienza dal 15 al 25% permetterebbe di ridurre del 40% la legna necessaria per produrre la stessa quantità di carbone.

Lavoro comunitario per ripiantare alberi nelle colline attorno a Morogoro, le Mukunganya Hills, durante la stagione delle piogge.  (© AfMC)

Il lavoro dei missionari della Consolata

In Tanzania, dove il problema del degrado delle risorse forestali e, a volte, addirittura della deforestazione è particolarmente serio i missionari della Consolata hanno iniziato in due località altrettanti progetti per sensibilizzare la popolazione e coinvolgerla in un’opera di rimboschimento.

  • Il primo microprogetto si svolge nel villaggio di Makota, a Ihemi, circa 50 chilometri da Iringa. La popolazione locale vive di agricoltura di sussistenza, alla quale affianca altre attività occasionali per aumentare il proprio reddito. Fra queste vi è proprio il taglio degli alberi per ottenere legname e carbone. Le attività relative al legname vengono svolte in modo incontrollato, senza pianificazione né reintegro delle piante tagliate con nuovi alberi. Per questo l’erosione del suolo e la deforestazione stanno diventando fenomeni evidenti. Il progetto in corso prevede tre seminari di formazione per la popolazione locale tenuti dai leader locali e dai funzionari dell’agenzia tanzaniana per i servizi forestali. Le persone formate parteciperanno poi alla posa di alcune piante pr ogni famiglia e se ne prenderanno cura.
  • Alle Makunganya Hills, vicino a Morogoro, vi è poi in corso da fine 2016 un progetto simile. In questa zona, le colline sono ora spoglie, sia a causa dei frequenti incendi che del taglio degli alberi per ottenere legname per costruzioni e legna da ardere. A detta del responsabile sul campo, il microclima locale è cambiato e le risorse idriche della zona si sono notevolmente ridotte. Anche qui il progetto prevede la posa di migliaia di piante e tre seminari di approfondimento per la popolazione locale sui problemi e sui rischi connessi alla deforestazione. Parteciperanno circa 500 persone e, oltre al rimboschimento, si lavorerà con la comunità locale per avviare un progetto parallelo di apicoltura.

Chiara Giovetti




Grecia: Ripresa economica sulla pelle dei poveri


Il governo di Alexis Tsipras promette la fine della durissima politica di austerità che da anni mantiene la Grecia dentro l’Ue a costi altissimi per i greci. La fine dell’emergenza e degli «aiuti» della Troika è probabile, grazie al miglioramento dell’economia, ma la popolazione vive oggi livelli di povertà, disparità, esclusione sociale che non si vedevano da decenni.

Conto alla rovescia per il debito greco. Dopo sette anni di dure politiche di austerità, entro la fine dell’estate Atene potrebbe dire addio ai programmi finanziari europei di salvataggio. «L’accordo con i creditori è dietro l’angolo, presto riprenderemo a camminare sulle nostre gambe», ripetono da mesi fonti governative.

La data è quella del 20 agosto prossimo, giorno nel quale scadrà il piano di bailout (salvataggio del paese insolvente, ndr) in corso. Tra maggio e giugno però la Grecia dovrà sottoporsi agli ultimi e determinanti test sui progressi fatti in materia di riforme strutturali interne, così come stabilito negli accordi con la Troika. E, benché una rondine non faccia primavera, le premesse lasciano ben sperare.

La kolotoumba di Tsipras

L’esecutivo di Alexis Tsipras si presenterà alle verifiche decisive della primavera forte del parere favorevole incassato a Bruxelles il 22 gennaio scorso. «Atene sta facendo bene», è stato il giudizio positivo dei ministri dell’Economia riuniti in eurosummit, tale da permettere lo sblocco della terza tranche di aiuti – pari a 5,5 miliardi di euro – accordata al paese nell’estate del 2015.

Il lungo braccio di ferro con i falchi della finanza internazionale che si consumò proprio in quel 2015 sembra oggi solo un ricordo lontano.

Dalla mirabolante kolotoumba (capriola, ndr) di Tsipras in poi, in effetti, i rapporti tra la Grecia e il resto dell’Europa si sono fatti via via più distesi. E non poteva essere altrimenti, visto che sotto i ponti della minacciata Grexit sono passate finora tutte quelle misure di austerità cui il leader di Syriza – ricevendo espresso mandato da parte del suo popolo – aveva giurato ferma resistenza.

Di fatto, la capitolazione del premier ellenico punta dritto a un altro traguardo, ossia la ristrutturazione generale del debito greco accordata già nel 2012. Lo stesso Fondo monetario internazionale ha lasciato uno spiraglio aperto, a patto che la Grecia continui a rispettare tutte le condizioni date.

Shock economy senza opposizione

Esauritosi il ciclo dell’opposizione sociale e delle grandi manifestazioni di piazza che aveva fatto seguito al primo periodo di applicazione della shock economy, la strada per il governo di Atene si presenta ora meno in salita. Basti pensare che persino il fronte compatto e combattivo della «nessuna negoziazione» sulle privatizzazioni si è sgretolato come un muro di sabbia, lasciando dietro di sé frustrazione, delusione e malumori. Sotto la scure dell’addio ai monopoli statali, nel dicembre scorso sono finite infatti la Deh, il colosso pubblico dell’energia elettrica, la Hellenic Petroleum, la società di raffinazione e distribuzione petrolifera pubblica, e la Depa che gestisce il trasporto del gas naturale oltreché la sua vendita all’ingrosso e la distribuzione.

Il plauso dei mercati non si è fatto attendere: i tassi decennali sui bond greci sono calati fino al 4,8% (a luglio 2015 erano schizzati al 18%); «il graduale miglioramento della liquidità» a disposizione delle banche elleniche ha fatto sì che la Commissione europea prorogasse, per una volta senza quasi battere ciglio, il regime di garanzie pubbliche fino a marzo 2018; altrettanti segnali di ripresa economica, lenti ma significativi, sono arrivati la scorsa estate dal settore del turismo, con un +7% rispetto all’anno precedente.

Una nuova stretta allo stato sociale in vista

L’esecutivo guidato da Alexis Tsipras difficilmente riesce a nascondere un certo ottimismo, e assicura «un’uscita pulita» del paese dall’austerity entro la data stabilita.

Senza troppo frenare gli entusiasmi, dal canto suo, la Troika continua a ribadire che, per completare con successo la revisione finale del programma di aiuti, Atene deve provvedere entro giugno all’implementazione di ulteriori «difficili misure». Ottantadue, per l’esattezza, divise tra provvedimenti di natura fiscale e nuovi tagli al welfare.

All’uscita dal tunnel mancano ancora importanti tasselli quali l’adeguamento di una legislazione fiscale favorevole all’industria marittima, una nuova normativa sul valore degli immobili che assegni loro l’effettivo prezzo di mercato e non quello stabilito in maniera autonoma dalle autorità fiscali locali (con un conseguente aumento dei tassi e/o della base imponibile per i proprietari in sede di dichiarazione dei redditi annuale), la riduzione – e l’anticipazione al 2019 anziché al 2020 – della soglia del reddito esentasse, un nuovo taglio alle pensioni, la revisione dei benefici sociali, degli assegni familiari e delle prestazioni di invalidità, la riforma della contrattazione collettiva, la definizione di criteri più severi in materia di pignoramenti e di confische per i debitori insolventi. Vale a dire, un altro giro di vite allo stato sociale per una popolazione già stremata e stritolata da sette anni di sacrifici.

E i greci se la passano male

Se in termini di disavanzo primario la Grecia comincia a stare meglio, i greci invece non se la passano affatto bene. Un recente rapporto della Caritas locale parla di «una fase molto buia» e di «un paese vulnerabile», e i dati sono impietosi a riguardo: a causa della recessione negli ultimi quattro anni i salari hanno subito una contrazione tra il 10% e il 40%, perdendo fino al 24,9% del loro potere d’acquisto per i lavoratori adulti e del 34,5% per i giovani fino a 25 anni. Nonostante un lieve calo negli ultimi due anni, il tasso di disoccupazione continua a essere il più alto in Europa (21%), mentre la metà dei giovani di età compresa tra i 15 e i 24 anni non risulta essere impiegata. Questi ultimi, assieme ai lavoratori sopra i 50 anni, costituiscono la fascia di popolazione che ha risentito maggiormente della crisi, a fronte della mancanza di misure sociali di supporto e di politiche dedicate al loro inserimento nel mondo del lavoro.

Si calcola inoltre che nel 2015 solo un greco su cinque abbia lavorato per più di dodici mesi e questo spiega in parte perché almeno mezzo milione di persone – su 10 milioni di abitanti totali – negli ultimi anni ha preferito lasciare il paese e tentare fortuna altrove. Per la maggior parte si tratta di professionisti e di personale ad alta formazione – dottori, ingegneri e scienziati -, con almeno un titolo postuniversitario, master o dottorato, nel proprio curriculum.

© Kohlmann Sascha

Povertà ed esclusione sociale

La fotografia scattata dalla Caritas locale trova pieno riscontro in un altro studio recentemente condotto dall’Unione europea, secondo il quale il 22,2% della popolazione greca si trova in «una situazione di grave povertà» (nel 2010 era stimata al 18%), ossia non è in grado di pagare un mutuo o un prestito, di stare al passo con le bollette, di permettersi il riscaldamento e di far fronte a spese inattese. Circa 3,8 milioni di persone, pari al 36% della popolazione, è invece severamente a rischio esclusione sociale. In Europa riescono a fare peggio solo Romania e Bulgaria. Piuttosto allarmante anche il numero di bambini che vive sotto la soglia di povertà (40%). Non meno preoccupante la condizione degli anziani, le cui pensioni hanno subito una riduzione del 50-60%, raggiungendo la cifra media di circa 665 euro mensili, spesso utilizzate per mantenere un intero nucleo familiare. In generale, le criticità maggiori provengono da problemi di lavoro (60,9%), dalla mancanza di soluzioni abitative adeguate (36,7%) e dai bisogni legati allo stato di salute (il 39,9% dei greci, ossia una persona su tre, ha dichiarato di avere difficoltà nel sostenere le cure mediche necessarie).

L’ipoteca sul futuro rimane

Non solo numeri. La conferma di quanto la sofferenza sociale nel paese abbia raggiunto un livello di esasperazione si ha dalle immagini arrivate lo scorso novembre dal tribunale di Atene, dove, durante la prima giornata di vendita all’asta delle case dei greci morosi nei confronti delle banche – per inciso, altra condizione richiesta al governo di Tsipras nell’imminente revisione – si sono verificati scontri con la polizia all’interno dell’edificio che hanno costretto i notai alla fuga attraverso un’uscita laterale.

Che il debito ellenico abbia tecnicamente i giorni contati è dunque uno scenario verosimile e auspicabile. Che la Grecia sia invece in procinto di liberarsi definitivamente dalla morsa dell’austerità è più facile a dirsi che a farsi. La fine degli aiuti comunitari non significherà difatti il ritorno alla normalità per un paese che ha pagato caro il prezzo della crisi e che, con ogni probabilità, continuerà a farlo anche nei prossimi anni, quasi fosse un’ipoteca sul presente e sul futuro del paese.

Monia Cappuccini

© Jan Wellman

 


Le tappe della crisi greca

2009 A ottobre il neoesecutivo socialista di Georges Papandreu rivela che il governo precedente ha falsificato i bilanci e che il deficit della Grecia supera di quattro volte il limite Ue. Vengono declassate le banche elleniche.

2010 L’Ue, la Banca centrale europea e il Fondo monetario internazionale (Fmi), cioè la cosiddetta Troika, accordano il primo programma di salvataggio: 110 miliardi di euro per l’attuazione di un piano di austerità che provoca una violenta opposizione sociale.

2011 Titoli declassati a livello «spazzatura», vola lo spread. L’esecutivo dimissionario di Papandreu sostituito dal governo di unità nazionale del tecnocrate Lucas Papademos, già vicepresidente della Bce. Varata altra finanziaria «lacrime e sangue».

2012 Approvate nuove misure di austerity in vista del secondo piano di aiuti di 130 miliardi di euro. Piazze in subbuglio, guerriglia nelle strade. A marzo arriva l’ok per la ristrutturazione del debito. Dal voto di maggio non esce nessuna maggioranza, si torna alle urne a giugno, il leader di Nuova Democratia, Antonis Samaras, diventa Primo ministro. Nella finanziaria tagli per 10 miliardi di euro.

2013 Crollo del 23% del Pil dal 2008, disoccupazione record al 28% e giovanile al 60%, altri 15mila posti di lavoro tagliati nel settore pubblico. Antonis Samaras chiude nottetempo la tv di stato Ert e licenzia 2.700 dipendenti. Uccisione di Pavlos Fyssas: il leader di Alba Dorata, Nikolaos Michaloliakos, assieme ad altri 17 deputati, sono trasferiti in carcere con l’accusa di appartenere a un’organizzazione criminale. Era dalla caduta del regime dei Colonnelli che non si verificava l’arresto di parlamentari.

2014 Atene torna sui mercati finanziari e incassa quasi 4 miliardi dalla vendita di titoli di stato. I creditori esigono nuove misure di austerità per l’ultima tranche di aiuti. Il partito Syriza di Alexis Tsipras vince le elezioni europee e guadagna terreno nei sondaggi. Crisi di governo dopo la nomina del presidente della Repubblica, si torna alle urne.

2015 Il leader della sinistra radicale, Tsipras, vince le elezioni promettendo di rinegoziare il piano di salvataggio e di porre fine all’austerità. I conti peggiorano: indebitamento per 330 miliardi di euro, debito pubblico al 180% del Pil, insolvenza del prestito Fmi di 1,5 miliardi. Tsipras accusa i creditori di «saccheggio» e annuncia un referendum sulle nuove misure di austerità. Il 5 luglio il 61,3% vota oxi (no). L’Europa lancia l’ultimatum per evitare la Grexit. Riprendono i negoziati con un braccio di ferro di 17 ore: Atene capitola e riceve un terzo piano di aiuti.

2016 La Banca greca annuncia la ripresa dell’economia entro l’estate. L’Ue eroga altri 7,5 miliardi di euro utilizzati per pagare gli interessi sul debito. Il Parlamento annuncia un largo piano di privatizzazioni e vota la riforma delle pensioni e del sistema fiscale.

2017 Nonostante i segnali incoraggianti, il paese è ancora a rischio inadempienza. Atene prosegue sulla strada dell’austerity e approva la riforma del lavoro e nuovi tagli al welfare. La Germania si oppone alla rinegoziazione dei debiti esistenti avanzata da Alexis Tsipras.

2018 Potrebbe essere l’anno della fine dei programmi di aiuti ma non del controllo sul debito greco e sui piani di austerità da parte dei creditori internazionali. Atene prevede un rimborso di almeno il 75% entro il 2060.

M.C.


Intervista al professor Vassilis Arapoglou

Tra emarginati e poveri invisibili

«Parliamoci chiaro, l’austerità accompagnerà la Grecia ancora a lungo per una semplice ragione: il debito deve essere ripagato, pena l’applicazione di sanzioni disciplinari. Tra due anni il paese sarà chiamato a saldare enormi tassi d’interesse e le politiche di austerità serviranno a fare cassa. Probabilmente assumerà forme diverse e non sarà più così dura, una sorta di austerità postsalvataggio».

Una previsione nient’affatto rosea quella di Vassilis Arapoglou, professore di sociologia all’Università di Creta e autore, assieme a Kostas Gounis, del volume Contested Landscape of Poverty and Homelessness in Southern Europe, pubblicato di recente per Palgrave (pp. 149, euro 54,99).

Professor Arapoglou, qual è stato l’impatto della crisi finanziaria in Grecia?

«Il drammatico deterioramento delle condizioni di vita iniziato nel 2010 ha subito un’interruzione solo due anni fa ma, di fatto, siamo di fronte a un arretramento sociale di dimensioni epocali. Ovviamente non si tratta di una situazione sanabile, almeno per com’è organizzato il capitalismo europeo oggi. Nel 2016 il tasso di povertà era calcolato in base agli standard del 2008 e si avvicinava al 50% della popolazione. Volendo utilizzare i criteri attuali, il quadro non cambia: soprattutto la fascia sotto i 25 anni risulta per metà disoccupata o precaria. Sostanzialmente la Grecia ha conosciuto un aumento impressionante della disuguaglianza sociale. Ad Atene, ad esempio, sono cresciuti sia i “poveri invisibili”, ossia gente già tagliata fuori dai diritti basilari e da un adeguato sostegno pubblico, sia la divisione tra “nuovi poveri invisibili”, il cittadino appartenente alla classe media, e gli altri emarginati (tossicodipendenti, malati mentali, migranti illegali e in transito). Seppur nelle differenze, tutti condividono il rischio di un comune destino di miseria».

Come si posiziona la Grecia nella mappa delle povertà nel Sud Europa?

«Il caso greco è più unico che raro. Oltre all’improvvisa riduzione del reddito disponibile, alla disoccupazione, all’espansione della precarietà e dei posti di lavoro a basso reddito, si è verificata un’escalation del costo delle case, su cui hanno pesato l’aumento dell’energia, la tassazione sulle proprietà e le difficoltà nel garantire un’adeguata manutenzione. Tali fattori, ad esempio, differenziano le città greche da quelle spagnole, colpite dallo scoppio della bolla speculativa immobiliare, o da quelle italiane, parimenti impoverite dalla crisi. Penalizzati dal mercato del lavoro e dal caro alloggi, nonché da una politica europea sull’accoglienza piuttosto ostile, i migranti in particolare hanno potuto fare affidamento su iniziative di solidarietà locale, che in linea generale hanno contribuito a drenare e a impedire lo scoppio delle marginalità sociali. Ciò deve essere un motivo di orgoglio per i popoli del Sud Europa, nonché una risposta concreta al tentativo di stigmatizzare i loro comportamenti come irresponsabili».

A proposito di queste iniziative, in che modo la crisi ha rimodellato il panorama locale dell’assistenza sociale?

«Dopo aver smantellato ogni forma di welfare, i programmi di austerità hanno indirizzato nuovi canali di supporto verso la privatizzazione delle disposizioni pubbliche e la promozione della beneficenza. Paradossalmente Atene è oggi un esempio di “importazione” in Grecia di un inedito modello di assistenzialismo, in cui le agenzie locali istituzionali giocano un ruolo importantissimo non solo in termini organizzativi e di coordinamento, ma anche di orientamento delle misure da implementare fino al coinvolgimento di filantropi internazionali per la loro realizzazione. Le iniziative di solidarietà dal basso rischiano così di finire strozzate da questo meccanismo. Bisognerebbe invece affrontare lo stato di necessità attraverso un sistema di misure che garantiscano nell’insieme un adeguato sostegno al reddito, un’occupazione stabile, alloggi sociali e una copertura sanitaria. In pratica, l’esatto contrario del progetto di devoluzione sociale perseguito dal neoliberismo».

M.C.




SOLIDARIETÀ AI MISSIONARI E AL POPOLO DEL VENEZUELA


MESSAGGIO DELLA DIREZIONE GENERALE DEI MISSIONARI DELLA CONSOLATA

“Consolate, consolate il mio popolo!” Isaia 40,1

Un Paese alla fame e sull’orlo della guerra civile” quello raccontato dai nostri missionari dal Venezuela, ascoltando le storie di giovani, professionisti, anziani, studenti e di famiglie povere: “la tessera per il razionamento alimentare, la mancanza di medicine, l’iperinflazione, i supermercati vuoti, il clima di insicurezza, la rabbia per le libertà civili violate”. E ancora “Con le strade trasformate in terreno di una battaglia campale infinita, il regime di Maduro si afferra al potere con un colpo di mano per cambiare la Costituzione. Mentre l’opposizione politica grida al golpe”.

Queste sono alcune considerazioni fatte a Padre Stefano, Superiore Generale, che è in costante contatto telefonico con loro, per manifestare la vicinanza di tutto l’Istituto, la preoccupazione per l’aggravarsi della situazione degli scontri e, attraverso di loro, la nostra solidarietà al popolo venezuelano di fronte ai gravi problemi che lo affliggono.

I missionari sono sereni e stanno bene, ringraziano per il ricordo e le preghiere, loro unica preoccupazione è il futuro incerto di un paese allo stremo, e per il quale chiedono di pregare costantemente.

In questi giorni il Venezuela è tornato sotto i riflettori delle maggiori agenzie di informazione internazionali, apparso nei titoli di apertura dei telegiornali e sulle prime pagine dei quotidiani nazionali e rispettivi siti web a causa dell’escalation della violenza, con i numerosi morti, feriti e i detenuti, ennesimo tragico epilogo di una situazione che si trascina oramai da 5 anni, dove non sembra esserci via d’uscita.

Mentre la gente soffre e vive nel terrore, i protagonisti del conflitto venezuelano, governo e opposizione, si trovano nel punto più distante tra loro, intenti solo a lanciare l’uno all’altro minacce e accuse.

 

I MISSIONARI A FIANCO DELLA GENTE

A Caracas i missionari della Consolata, insieme ad altri missionari e missionarie di altre Congregazioni hanno aperto una casa di accoglienza per barboni, senza casa, gente della strada che possono qui trovare riparo e sostegno, e se sono disponibili anche cura per rilanciarsi nella vita. Sempre a Caracas, capitale del Venezuela, abbiamo una Parrocchia situata nella periferia composta da almeno 150/200.000 persone che vivono incollate sulle casette di fortuna sulle colline attorno alla capitale. È un agglomerato di problemi, violenza, droga e malavita, ma anche di gente per bene che si guadagna la vita con un duro lavoro quotidiano e che poi, alla sera, si mette ancora in coda per arrivare alla sua casetta e vivere un momento di serenità con la propria famiglia. In questa situazione e contesto in nostri missionari cercano di costruire speranza ed essere segno di consolazione per un gruppo di cristiani che, certamente non sono maggioranza, ma sono presenza e fraternità e questo già basta per poter sognare almeno un poco.

Inoltre a Caracas, oltre alla parrocchia di Carapita, abbiamo la Casa Regionale con un centro per l’Animazione Missionaria vocazionale collegato anche al Centro della città di Barquisimento. La casa regionale è un pochino originale giacché non rappresenta lo stile delle solite case regionali, luogo di uffici e di organizzazione, ma è proprio la casa di tutti e dove tutti possono trovare un letto da dormire, un pasto da condividere e qualcuno che ascolta i tuoi problemi. E quando dico tutti, voglio dire tutti, non soltanto i missionari.

L’AMV è in mano ad un’equipe che lavora anche con i Laici della Consolata e con gli Amici della Consolata, un’esperienza importante e condivisa che vale la pena di essere studiata ed approfondita.

Tra tutte queste nostre presenze merita un ricordo particolare quella con gli indigeni. Abbiamo un’equipe di cinque missionari di diverse nazionalità che lavorano in due comunità distinte: una alla città di Tucupita dove gli indigeni si trasferiscono in tempi difficili o cercando espedienti lavorativi e sul Delta Amucuro dove gli indigeni Warau vivono a loro stile sulle palafitte sospese sull’acqua. I missionari, senza pretese, ma con l’unica forza della presenza condividono la vita di questo popolo assumendone le sorti, con l’unica pretesa dell’amore.

Insieme a tanti altri sacerdoti, consacrati e consacrate e ai fedeli laici i nostri missionari hanno scelto di rimanere nel paese, per stare accanto alla gente, condividerne la situazione, attenti ai loro bisogni concreti, nel cammino sofferto di una comunità ecclesiale schiacciata tra due blocchi che tra loro hanno rotto ogni ponte e contatto.

La loro testimonianza di umile presenza tra i poveri e gli indifesi delle periferie di Caracas, realizza molto bene l’esortazione rivolta a tutti noi da Papa Francesco:

Non stancatevi di portare conforto a popolazioni che sono spesso segnate da grande povertà e da sofferenza acuta, come ad esempio in tante parti dell’Africa e dell’America Latina. Lasciatevi continuamente provocare dalle realtà concrete con le quali venite a contatto e cercate di offrire nei modi adeguati la testimonianza della carità che lo Spirito infonde nei vostri cuori (cfr. Rm 5,5). … Mentre con gioia ringrazio il Signore per il bene che voi andate compiendo nel mondo, vorrei esortarvi ad attuare un attento discernimento circa la situazione dei popoli in mezzo ai quali svolgete la vostra azione evangelizzatrice…” (Papa Francesco, ai partecipanti ai Capitoli Generali dei Missionari e delle Missionarie della Consolata, Sala Clementina, 5 giugno 2017)

UNA SITUAZIONE COMPLESSA

Ci sarebbe bisogno di un’analisi sistematica ed approfondita per decifrare la complessità delle cause, nazionali ed internazionali, che hanno contribuito a gettare il Venezuela nel caos.

Qui ci limitiamo ad alcune considerazioni che, pur non essendo esaustive, danno però l’idea della gravità del momento.

“ […] A seguito della caduta internazionale dei prezzi dell’oro nero, il Paese è sprofondato nel caos economico. Solo nel 2016 le entrate per prodotti derivati dalla vendita del petrolio erano scese del 5000% annuo. Di conseguenza, la necessità strategica di cercare risorse provenienti da fonti alternative all’industria petrolifera.”

«[…] Nella zona amazzonica sono state date delle concessioni a società di origine russa, canadese, britannica, sudafricana, cinese, iraniana e australiana, per lo sfruttamento di territori pieni di riserve aurifere, argento, petrolio, ferro, diamanti, coltan, uranio e ogni tipo di risorsa strategica… Si assiste alla dislocazione degli abitanti originari che per secoli hanno popolato queste zone; e ciò avviene solo per l’avidità che induce allo sfruttamento sconsiderato delle risorse del sottosuolo» (in Dossier Caritas Italiana, “Inascoltati. Un popolo allo stremo chiede i suoi diritti fondamentali”, www.caritas.it )

La rivoluzione bolivariana, avviata da Hugo Chàvez quasi vent’anni fa, si sta spegnendo in un sanguinoso caos. Perfino il procuratore generale dello Stato, Luisa Ortega Diaz, alto funzionario nominato dal potere chavista, ha condannato la violenza della repressione della Guardia Nazionale bolivariana contro le manifestazioni di protesta, che ha causato decine di vittime.

La proposta fatta dal Presidente Maduro per l’elezione di una nuova Assemblea Costituente, è stata respinta dall’opposizione che la considera soltanto un “nuovo tentativo di golpe”. L’avvilupparsi della crisi politica, la carestia, e l’iperinflazione (che potrebbe arrivare al 1600% secondo l’Fmi nel 2017) hanno fatto fare crac anche a tutto il progetto del socialismo bolivariano sostenuto, almeno fino alle ultime presidenziali, aprile 2013, da una maggioranza, seppur limitata, della popolazione.

Oggi il blocco sociale, che seguì il caudillo rivoluzionario morto nel 2013 e le sue promesse di riscatto sociale, è in minoranza. Per questo Maduro – che secondo i sondaggi ha ormai contro il 70% del Paese – ha rinviato le elezioni, amministrative e regionali. E per questo, insieme alla miseria sempre più drammatica nel Paese, l’opposizione si è lanciata in piazza.

LA NOTTE DEL VENEZUELA NON È ANCORA FINITA!

Infatti la situazione attuale si mostra qualitativamente diversa dal recente passato, perché le libertà sociali sono sempre più sotto assedio, la repressione inusitata, la crescente insicurezza personale e la sfiducia nel sistema giudiziario: la mancanza di tutela dei diritti lascia i cittadini indifesi davanti a una violenza mai vista. Il popolo venezuelano continua a protestare, inascoltato!

La crisi umanitaria avvolge il Venezuela in una spirale drammatica. L’82% della popolazione è in povertà, di cui il 52% in povertà estrema. La vita stessa delle persone è minacciata da quando sono venuti a mancare gli alimenti necessari per la sopravvivenza e la disponibilità di medicine per le cure fondamentali.

Questo favorisce l’aumento di morti premature, in particolare delle fasce più deboli della popolazione, specialmente bambini, anziani e malati. La mortalità dovuta a queste cause non risulta nelle cifre ufficiali di cui dispongono i mezzi di informazione, perché l’interesse è incentrato soltanto sul numero dei morti e dei feriti delle manifestazioni che si verificano ogni giorno, sin dal mese di aprile di quest’anno. In realtà, le cifre reali sono altre. Sono oltre 11.000 i bambini morti nel 2016 per mancanza di medicinali e la mortalità materna è aumentata quasi del 70%. (questi sono alcuni dati dell’Osservatorio di Caritas Venezuela, che emergono da una ricerca sullo stato nutrizionale dei bambini, riportati nel Dossier di Caritas www.caritas.it).

GLI APPELLI DELLA CHIESA

Anche se il Vaticano, che nei mesi scorsi guidò una trattativa per un compromesso fra governo e opposizione, ha dovuto gettare la spugna, giudicando “quasi impossibile” una nuova mediazione.

Anche se fuori e dentro del Venezuela, di fronte all’ostinazione e chiusura delle parti, governo di Maduro e partiti dell’opposizione, sembrano rassegnati al peggio, la Chiesa continua a lanciare appelli al dialogo, alla fine della violenza e alla ripresa dei negoziati.

La Conferenza episcopale del Venezuela in una lettera recentemente inviata al Presidente Maduro 8 luglio 2017, ha chiesto al Governo “di ritirare la proposta di un’Assemblea Costituente, di rendere possibile lo svolgimento delle elezioni stabilite dalla Costituzione”; e di “riconoscere l’autonomia dei poteri pubblici, abbandonando la repressione inumana di coloro che manifestano un dissenso, di smantellare i gruppi armati” e di liberare “le persone che sono state private della libertà per ragioni politiche”.

Ancora, i vescovi chiedono di impegnarsi “a risolvere i gravissimi problemi della gente e di permettere l’apertura di un canale umanitario perché possano arrivare medicine e alimenti ai più bisognosi”. Alle Forze Armate nazionali chiedono di “adempiere il proprio dovere di servizio al popolo nel rispetto e a garanzia dell’ordine costituzionale”. Dalla dirigenza politica i presuli esigono l’impegno nell’esclusivo bene “del popolo e mai per i propri interessi”, rispettando “la volontà democratica del popolo venezuelano”. Alle istituzioni educative e culturali chiedono di collaborare a “far crollare i muri che dividono il Paese”, incoraggiando “ogni sforzo in favore della pace e della convivenza, fondati sulla legge dell’amore fraterno”. (le lettera si         trova in: www.caritas.it)

Papa Francesco stesso in più di un’occasione ha lanciato accorati appelli al Governo e a tutte le componenti della società venezuelana:

“affinché venga evitata ogni ulteriore forma di violenza, siano rispettati i diritti umani e si cerchino soluzioni negoziate alla grave crisi umanitaria, sociale, politica ed economica che sta stremando la popolazione.” (Regina Coeli, 30 aprile 2017)

E in vista della festa dell’indipendenza del Venezuela del 5 luglio ha assicurato:

“la preghiera per questa cara Nazione e la mia vicinanza alle famiglie che hanno perso i loro figli nelle manifestazioni di piazza. Faccio appello affinché si ponga fine alla violenza e si trovi una soluzione pacifica e democratica alla crisi. Nostra Signora di Coromoto interceda per il Venezuela!” (Angelus, 2 luglio 2017)

E in una lettera indirizzata all’episcopato venezuelano venerdì 5 maggio il Pontefice esprimeva la sua solidarietà ai Vescovi del Venezuela e la chiara convinzione:

“che i gravi problemi del Venezuela possono essere risolti se c’è volontà per costruire ponti, se si desidera dialogare seriamente e rispettare gli accordi raggiunti. Desidero incoraggiarvi a non permettere che i figli amati del Venezuela si lascino vincere dalla sfiducia e dalla disperazione, perché questi sono mali che penetrano nel cuore delle persone quando non si vedono prospettive future”.

I nostri missionari in Venezuela, nei dialoghi telefonici avuti, e nello scambio via posta elettronica, sono concordi nel sostenere la via del dialogo e dei negoziati come l’unica percorribile, perché:

“Nelle persone è sempre più diffusa la volontà di un forte cambiamento, bisogna seguire, però, la via della pace e della democrazia. La maggioranza del popolo chiede una soluzione pacifica. Ma i costi umani di questo processo sono troppo alti. Il governo deve ascoltare la gente che grida. È necessario trovare un accordo. Non sappiamo di quanto tempo avremo bisogno in Venezuela per riconciliare la popolazione e risanare le ferite che ci stiamo infliggendo”.

Noi come missionari della Consolata, facciamo nostro e rilanciamo l’appello di Papa Francesco, convinti che, quando ogni speranza tace, l’unica via di uscita stia proprio nella ricerca di soluzioni consensuali.

SOLIDARIETÀ’ CON IL POPOLO VENEZUELANO

Cari missionari, amici e uomini e donne di buona volontà, con questo messaggio vogliamo esprimere la nostra solidarietà a tutto il popolo venezuelano e la vicinanza e l’affetto ai nostri missionari, attraverso il ricordo e la preghiera.

La situazione d’insicurezza ed incertezza del Venezuela alla stremo, richiama quella vissuta dal profeta Isaia in uno dei periodi più difficili della storia del popolo di Israele: la città santa ridotta ad un cumulo di macerie, le persone più capaci e preparate deportate, distruzione e disperazione tutt’intorno, regna il silenzio e la morte: non un canto, non un grido di gioia, solo tristezza e tante lacrime.

Il   profeta è invitato a contemplare i germogli di speranza che spuntano tra le rovine e, soprattutto a fidarsi del Signore per “saper irrobustire le mani fiacche e rendere salde le ginocchia vacillanti e dire agli smarriti di cuore: coraggio non temete! Ecco il vostro Dio giunge” (Isaia 35, 3-4)

Caro popolo venezuelano questa profezia del profeta Isaia, nella situazione in cui vi trovate, sembrerebbe “un sogno impossibile”, eppure chi crede, non si rassegna di fronte al male, non lo considera ineluttabile, perché sa che Dio è fedele ed è personalmente coinvolto nella storia del suo popolo.

E a voi missionari auguriamo che la testimonianza della vita fraterna, il vostro impegno a fianco dei poveri, possano realizzare lo specifico del nostro stile missionario:

“Consolate, consolate il mio popolo, gridate a Gerusalemme che è finita la sua schiavitù…” (Isaia 40,1-2).

Attraverso di voi la consolazione di Dio possa diventare una tenera carezza che rincuora e asciuga le lacrime; soccorso a chi si trova in condizioni disperate, riscatto per il misero sollevandolo dalla polvere (1Sam 2,8), mutando il lamento di tanti in danza e il loro grido in canto di gioia (Salmo 30,12).

In questo modo, in voi, la gente potrà toccare con mano, un Dio che veramente consola perché libera da tutte le schiavitù.

Rinnovando il nostro impegno di sostenervi e ricordarvi nella preghiera insieme a tutto il popolo venezuelano, vi salutiamo con l’esortazione del nostro Beato Fondatore:

«Coraggio dunque, sostenuti dalle nostre preghiere; coraggio in Domino, giorno per giorno, ora per ora. Ai piedi della nostra Ss. Consolata vi benedico di gran cuore» (Lett., IX/1,150).

La Direzione Generale dei Missionari della Consolata

p. Stefano Camerlengo
P. Bhola James Lengarin
P. Godfrey Portphal Alois Msumange
P. Jaime Carlos Patias
P. Antonio Rovelli

Roma, 15 agosto 2017, Solennità dell’Assunzione della Beata Vergine Maria

 




Guatemala: La pace è una chimera


In un paese di solida tradizione machista, confermata anche dal nuovo presidente Jimmy Morales, le donne che riescono a emergere sono una forza della natura. Come Claudia Samayoa, cornordinatrice di Udefegua, un’organizzazione che protegge i difensori dei diritti umani. Perché in Guatemala la guerra è finita da tempo, ma la pace non è mai arrivata. Lo sperimentano sulla propria pelle non soltanto le donne, ma anche gli indigeni che pure costituiscono la metà della popolazione totale.

Sono trascorsi venti anni. La guerra civile è infatti ufficialmente terminata nel dicembre del 1996. Eppure, in Guatemala la pace rimane una chimera. La violenza, la povertà, le ingiustizie sono la quotidianità. Il paese conta 16,5 milioni di abitanti (stime 2016). Circa il 45 per cento di essi sono indigeni (Xinka, Garifuna e soprattutto Maya, questi ultimi divisi in una ventina di gruppi). Secondo i dati ufficiali dell’Istituto nazionale di statistica (Ine), il 59,3 per cento della popolazione vive in povertà. In particolare, ogni 5 indigeni 4 sono poveri, in maggioranza nelle aree rurali (2014).

Esasperati da una classe politica corrotta e malavitosa, nell’ottobre del 2015 i cittadini guatemaltechi hanno ritenuto di individuare una soluzione eleggendo presidente un personaggio sui generis, Jimmy Morales, noto attore comico e membro di una chiesa evangelica. Come quasi sempre accade, il nuovo è però diventato vecchio in brevissimo tempo.

In un contesto tanto complicato chiedere il rispetto dei diritti umani è un’impresa difficile e spesso molto pericolosa. Un dato per capire meglio: tra gennaio e novembre 2016 in Guatemala ci sono state 223 aggressioni contro difensori dei diritti umani, 14 dei quali sono stati assassinati. Si trattava di persone che difendevano l’ambiente, il diritto alla verità e alla giustizia, il diritto alla terra e quello al lavoro.

Per proteggere e aiutare i difensori dei diritti umani o – come recita lo slogan – «per il diritto a difendere i diritti» (por el derecho a defender derechos), dal 2000 nel paese centroamericano opera l’organizzazione «Unità di protezione per le difensore e i difensori dei diritti umani in Guatemala» (Unidad de Protección a Defensoras y Defensores de Derechos Humanos Guatemala), in sigla Udefegua.

Di tutto questo abbiamo parlato con la fondatrice e responsabile dell’organizzazione, Claudia Samayoa, che lo scorso novembre per la sua attività è stata premiata dal Procuratore nazionale per i diritti umani (Pdh), Jorge Eduardo De León Duque.

Dopo la guerra, nessuna pace

Claudia, due parole per auto presentarti.

«Sono guatemalteca. Ho il privilegio di avere 3 figli e un compagno di vita che mi ha accompagnato in questa mia esistenza tutta dedicata ai diritti umani. Sono laureata in filosofia ma il mio paese mi ha costretto, fin dagli anni Ottanta, a occuparmi di diritti. Diritti alla verità e alla giustizia, all’educazione, diritti degli indigeni».

Chiusi 36 anni di sanguinosa guerra civile, per il Guatemala la strada pareva in discesa. Invece, a 20 anni dagli accordi di pace, il paese pare pacificato soltanto formalmente. Come mai?

«Dopo la firma della pace, ingenuamente credevamo di essere finalmente liberi. Invece, tra il 1998 e il 2000 – all’epoca io ero direttrice della Fondazione Rigoberta Menchú – il controllo del paese è stato ripreso da quella che io chiamo la mafia militare. Si tratta di un’organizzazione che include militari della contro-insurrezione guatemalteca e uomini del crimine organizzato (quello che si occupa di narcotraffico, contrabbando, traffico di esseri umani). Assunto il potere, costoro hanno iniziato a combattere tutti coloro che lavoravano per la pace e i diritti. Giovani e donne, in primo luogo».

La nascita di Udefegua

Davanti a questo potere intollerante avete deciso di reagire. In che modo, esattamente? 

«Assieme a varie entità abbiamo deciso di fare qualcosa di diverso: non lasciare solo chi lotta per i diritti. È così nata l’“Unità di protezione dei difensori dei diritti umani”, Udefegua, con un solo obiettivo: tutti – indipendentemente dalla propria ideologia, non importa se sono giovani o anziani, indigeni o non indigeni – hanno il diritto di lavorare per la difesa dei diritti umani. Perché non occorre essere un avvocato o appartenere a un’organizzazione per farlo».

In concreto, cosa fa Udefegua per coloro che lottano per i diritti umani?

«Noi li affianchiamo. Ci prendiamo carico di loro e delle loro investigazioni affinché possano svolgere il loro lavoro in sicurezza. Facciamo opera di informazione producendo bollettini (El Acompañante) con analisi, grafici e statistiche. In Guatemala abbiamo seguito più di 5.200 casi. Oggi lavoriamo non soltanto qui da noi, ma anche in molti altri paesi, dal Messico a Panama».

Sul corpo delle donne

Voi lavorate per la protezione dei difensori dei diritti umani, ma la violenza si manifesta già tra le mura domestiche. Si ritiene che nel paese 8 donne su 10 subiscano violenza fisica, psicologica, sessuale e patrimoniale da parte del proprio marito o compagno.

«Sì, c’è tanta violenza. La violenza sessuale ha raggiunto livelli mai visti prima. In soli due mesi ci sono state quasi 1.000 violenze sessuali denunciate. Questo significa che nella realtà sono state molte ma molte di più. In tutta la regione stiamo vivendo una guerra sul corpo delle donne. Come dimostra l’assassinio di Berta Caceres».

Di presidente in presidente: da un corrotto a un comico

Nel settembre 2015 i guatemaltechi hanno cacciato il presidente Otto Fernando Pérez Molina, eletto nel 2012 e coinvolto in un grave scandalo. Due mesi dopo hanno eletto presidente, a grande maggioranza, Jimmy Morales, di professione attore comico. Com’è accaduto?

«Non aveva nessuna possibilità, poi – a partire da giugno 2015 – i pastori evangelici hanno iniziato a dire di votare per lui, perché Jimmy era la soluzione. Ad essi si sono presto uniti i militari e gli ex paramilitari (appartenenti alle Pac, le Patrullas de autodefensa civil, nate nel 1981 e formalmente sciolte nel 1996, ndr). Morales non aveva alcuna proposta, però ha vinto con una grande partecipazione popolare».

In campagna elettorale il suo slogan è stato: «Ni corrupto, ni ladrón». Che presidente è Jimmy Morales?

«È machista, razzista, autoritario. Per Jimmy Morales i popoli indigeni sono soltanto dei guatemaltechi e non capisce perché debbano essere trattati diversamente. Lui sta promuovendo visioni vecchie di stampo nazionalista: tutti siamo Guatemala, dice. Però il suo Guatemala è il Guatemala che parla soltanto spagnolo e che non riconosce modi diversi di fare politica. La sua concezione è molto machista: le donne non possono fare politica se non dopo aver chiesto il permesso ai loro mariti. Sono posizioni molto antiche che hanno a che vedere con la sua appartenenza a una chiesa evangelica fondamentalista di matrice statunitense».

Nonostante i disastri perpetrati dalla destra, i partiti di sinistra – da Urng-Maiz a Winaq, dal Frente Amplio a Encuentro por Guatemala – non hanno mai ottenuto un consenso significativo. Come si spiega?

«Il Guatemala è un paese molto conservatore e di destra. La sinistra è sempre stata assolutamente minoritaria: in parlamento oggi ci sono pochissimi deputati di sinistra e centrosinistra. Per la gente è difficile votare diversamente, considerando valido il detto “meglio il vecchio conosciuto, che il nuovo sconosciuto”».

La condizione indigena

Circa metà della popolazione del Guatemala è indigena. La sua condizione continua a essere drammatica.

«Negli ultimi anni la popolazione indigena si è impoverita. Nelle comunità indigene la miseria è aumentata del 12 per cento. Nel paese c’è denutrizione cronica: uno ogni due bambini è denutrito e questa percentuale sale tra i bambini indigeni. Sono cifre ufficiali. In Guatemala tutto si manipola, ma in questo caso neppure il governo può nascondere la realtà. Purtroppo, non abbiamo ottenuto quanto sognavamo negli anni Ottanta, eppure c’è stata una mobilitazione importante dei popoli indigeni».

Intende dire che, nonostante le oggettive difficoltà, c’è stato un cambio in positivo?

«Quando io lavoravo per la Fondazione Menchú, l’enfasi era sull’educazione bilingue. Oggi questo è stato superato. Oggi i popoli indigeni lottano come comunità e non più come singoli soggetti. Lottano per i loro diritti (incluso il diritto allo sviluppo e quello a essere consultati). Hanno anche iniziato a costruire ponti con la popolazione non-indigena. In questo modo si riducono le barriere del razzismo e quelle nate durante la guerra armata. È un modo per arrivare a una conciliazione».

L’avanzata evangelica

Anche in Guatemala le chiese evangeliche sono in continua crescita a scapito della chiesa cattolica. Come vede la situazione?

«Gli evangelici sono ormai il 35 per cento della popolazione. Quanto alla chiesa cattolica, è divisa in due correnti, come accade in molti paesi. Una è quella della gente, quella che lotta per l’ambiente e contro il crimine organizzato. Una chiesa che fa molto arrabbiare la destra, che l’accusa di promuovere la guerra, di essere marxista e comunista (come si diceva un tempo). Con l’arrivo di Francesco questa chiesa è stata rafforzata. Poi c’è la chiesa tradizionale che non appoggia i poveri, che dice di voler mantenere una posizione distaccata. Questa è rappresentata dalla Nunziatura, per esempio. Come cattolica io spero che, presto o tardi, il messaggio di Francesco arrivi a tutta la struttura. Già oggi abbiamo vescovi molto compromessi con la realtà. Mons. Ramazzini e mons. Cabrera sono i più rappresentativi, ma non sono più soli».

Il Guatemala cambierà

Claudia, passano i decenni ma sembra che il Guatemala abbia sempre gli stessi problemi e qualsiasi soluzione, alla fine, sia destinata al fallimento. C’è troppo pessimismo in questa visione?

«Secondo me, il nostro presente e il nostro futuro stanno nel diritto a difendere i diritti umani. In questi anni mi ha mantenuta viva la visione di tanta gente. Se riusciremo a liberarci delle forze intolleranti, il Guatemala cambierà e non soltanto esso, ma l’intera regione. Assieme abbiamo un grande potere e questa è la mia speranza».

Paolo Moiola