Uomini e maiali

Le immagini trasmesse dalle televisioni argentine sono state molto impattanti. In questi giorni, diversi canali hanno mostrato scene riprese in una discarica di rifiuti (basural a cielo abierto) a testimonianza della miseria in cui versano vasti strati della popolazione del Paese. I titoli apparsi in sovra impressione sugli schermi erano sconvolgenti: «Shopping nella discarica»; «In cerca di alimenti nella discarica»; «Così si arrangiano quelli che hanno sempre meno»; «Mangiano e si vestono con ciò che trovano tra i rifiuti»; «Una realtà che fa male».

Esagerazioni? Purtroppo, no. Scene di questo tipo le ho viste personalmente in occasione di un rilevamento ambientale, sociale e umano a Pichanal, una località situata a 25 chilometri da Orán, provincia di Salta. Qui, qualche anno fa, comunità indigene locali (Guarani e Wichi) e l’equipe di Pastorale aborigena della diocesi di Orán cercarono di fermare il progetto per trasformare una discarica illegale in una mega discarica e uno stabilimento di trattamento delle acque reflue previsti a poche centinaia di metri dalla zona abitata.

I dati ufficiali del 2023 indicano che oltre il 40 per cento della popolazione argentina vive in povertà. (Foto José Auletta)

Anche in questo caso le fotografie parlano da sole: basta guardarle. In modo particolare ne ricordo una: all’arrivo del camion dei rifiuti, in pochi secondi si produsse un assemramento di uomini, donne (alcune di esse in gravidanza), bambini e… porci, tutti quanti lì per rovistare tra i rifiuti appena sversati. Identicamente, mi fece rimanere a bocca aperta la scritta di propaganda governativa dipinta sulla fiancata del camion: «Curando l’ambiente! (Cuidando el medio ambiente)».

Come postilla finale, una nota di attualità politica. In una delle sue ultime interviste, il presidente uscente, Alberto Fernández (domenica 10 dicembre è entrato alla Casa Rosada Javier Milei, il nuovo presidente eletto, ndr), ha avuto il coraggio di affermare: «In Argentina, l’indice della povertà (40,1% secondo l’istituto di statistica, ndr) è mal calcolato. Se ci fosse una tale quantità di poveri, l’Argentina sarebbe distrutta».

Probabilmente, l’ex presidente non ha mai avuto modo di frequentare le discariche del paese che fino a ieri governava.

José Auletta da Yuto (Jujuy)




Davos in calo, diseguaglianze in aumento


Il 53° Forum economico mondiale di Davos si è svolto dal 16 al 20 gennaio scorsi. Il titolo di quest’anno, «Cooperazione in un mondo frammentato», suggeriva una maggior attenzione ai temi dello sviluppo e della cooperazione. Ma, al di là di qualche iniziativa isolata e limitata, i risultati non sono incoraggianti, specialmente in un tempo in cui le diseguaglianze aumentano ancora.

Nella sua più recente edizione, il Forum di Davos sembra essere tornato alle origini, quando era un evento per manager concentrato sull’economia e sulla finanza e non un vertice su temi geopolitici a cui partecipavano anche capi di stato e di governo. Lo ha scritto Liz Hoffman, ex cronista del Wall Street Journal che oggi scrive per Semafor, la newsletter di notizie fondata da Ben Smith e Justin Smith, due noti giornalisti statunitensi ed ex direttori rispettivamente del sito Buzzfeed e del gruppo di media Bloomberg.

L’European management forum, come si chiamava all’inizio, fu fondato nel 1971 su iniziativa dell’ingegnere ed economista tedesco Klaus Schwab per aiutare le aziende europee a mettersi al passo con le tecniche di gestione usate negli Stati Uniti. Nel 1987 cambiò nome in Forum economico mondiale (in inglese: World economic forum, Wef) e cominciò ad assumere un ruolo sempre più rilevante come evento di politica internazionale: «I leader greci e turchi qui hanno firmato l’accordo del 1988 che ha evitato una guerra», scrive sempre Hoffman su Semafor@.

«I ministri della Corea del Nord e della Corea del Sud si sono incontrati di persona per la prima volta dalla fine del loro conflitto. Shimon Perez e Yasser Arafat si sono dati la mano per una foto. In poco tempo, Davos è diventato il luogo in cui discutere della scarsità d’acqua e della disparità di reddito, un’era che ha raggiunto l’apice con la marcia per il clima di Greta Thunberg nel 2020».

Lo scorso gennaio, a Davos erano assenti molti dei leader mondiali: per gli stati del G7 era presente solo il cancelliere tedesco Olaf Scholz, mentre mancavano sia il presidente Usa, Joe Biden, che quello cinese Xi Jinping. La lista dei partecipanti, riportava Euronews a gennaio@, contava «2.700 persone, tra le quali 52 capi di stato o di governo, 19 governatori di banche centrali, e 116 miliardari, il 40 per cento in più rispetto a dieci anni fa». Fra questi ultimi, tuttavia, non figuravano quest’anno Bill Gates e George Soros, e l’Italia ha mandato solo il ministro dell’Istruzione e del merito, Giuseppe Valditara.

Le iniziative lanciate a Davos

Negli anni, i dibattiti e gli incontri del Forum di Davos hanno anche portato al lancio di iniziative rilevanti nello sviluppo e nella cooperazione, come la nascita dell’Alleanza globale per i vaccini (Global alliance for vaccines and immunisation, o Gavi), che ha contribuito a vaccinare centinaia di milioni di bambini nel mondo.

Anche quest’anno, riporta il sito di approfondimento sui temi della cooperazione, Devex@, sono state avviate alcune iniziative di interesse per lo sviluppo. Una di queste è stata annunciata durante un evento dal titolo: «Sbloccare gli investimenti, non l’aiuto, per i mercati frontiera», cioè i mercati degli stati con sistemi economici più stabili rispetto ai paesi meno sviluppati, ma comunque più a rischio per gli investitori rispetto alle cosiddette economie emergenti.
Costa d’Avorio, Kenya e Tanzania sono tre esempi di mercati frontiera, mentre Sudafrica, Messico e Indonesia lo sono di mercati emergenti.

In questo evento, Samantha Power, che dirige l’agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale, Usaid, ha annunciato@ il lancio di un fondo del settore privato che si chiamerà Enterprises for development, growth and empowerment fund (Edge) e che verrà finanziato dal governo Usa con 50 milioni di dollari.

Un’altra iniziativa emersa al Forum è la Coalizione dei ministri del commercio sul clima@, che è composta da 50 ministri di 27 giurisdizioni, con quattro capofila – Ecuador, Unione Europea, Kenya e Nuova Zelanda – e dovrebbe promuovere politiche commerciali utili a far fronte ai cambiamenti climatici attraverso iniziative locali e mondiali.

Grafico tratto dal rapporto di Oxfam sui trucchi dei ricchi per diventare più ricchi.
1. Compra un bene (asset), una compagnia che aumenti di valore e che non sia tassata almeno fino a quando non la vendi.
2. Usa la tua ricchezza per influenzare i politici e i media a tuo vantaggio.
3. Ignora le leggi sulle tasse, tanto le autorità non hanno la capacità di sfidarti.
4. Nascondi le tue entrate e ricchezze in paradisi fiscali.
5. Evita le tasse sull’eredità, ci sono tanti modi per passare senza imposte le tue ricchezze agli eredi.

Il rapporto Oxfam sulle diseguaglianze

Il 16 gennaio 2023, giorno dell’apertura dei lavori a Davos, la confederazione di organizzazioni non profit Oxfam ha pubblicato il rapporto Survival of the richest@ (Sopravvivenza dei più ricchi, ma nella sua versione italiana il titolo è La diseguaglianza non conosce crisi) e Gabriela Bucher, direttrice esecutiva di Oxfam international, il segretariato con sede a Nairobi che coordina la confederazione, ne ha presentato alcuni dei dati salienti proprio al Wef, durante la tavola rotonda dal titolo Reversing the tide of global inequality (Invertire l’ondata di disuguaglianza globale)@.

Il mondo sta assistendo a un’esplosione delle ineguaglianze, ha detto Bucher, la pandemia ha colpito un mondo già molto iniquo, ne ha esposto le fratture e le ha amplificate. Durante la pandemia c’è stata un’accelerazione nell’accumulazione nelle mani di quell’1% dell’umanità – ottanta milioni su otto miliardi – che detiene il 45,6% della ricchezza globale. Questa accelerazione si vede nella redistribuzione della nuova ricchezza creata nel biennio 2021-2022, in cui l’1% più ricco ha ottenuto il 63% di quella nuova ricchezza e il restante 99% della popolazione mondiale il 37%. Prima della pandemia, la proporzione era di circa metà ciascuno.

La soluzione non può venire solo dalla crescita economica, se la redistribuzione rimane così ineguale: «Che cos’è la prosperità e come la misuriamo? Ha a che fare con il Pil oppure con la vita delle persone? A San Paolo del Brasile, per esempio, due persone che vivono a pochi isolati di distanza possono avere un’aspettativa di vita di 22 anni diversa l’una dall’altra».

Occorre un intervento di tipo fiscale: un’imposta patrimoniale fino al 5% sui multimilionari e miliardari del mondo, si legge nel rapporto, permetterebbe di raccogliere 1.700 miliardi di dollari all’anno, sufficienti per far uscire dalla povertà due miliardi di persone e finanziare un piano globale per porre fine alla fame. E i super ricchi continuerebbero comunque ad arricchirsi: il tasso di accumulazione della ricchezza di cui hanno goduto, specialmente negli ultimi tre anni, è talmente elevato che l’aumento dei loro patrimoni sarebbe di gran lunga superiore alla quota che perderebbero per un prelievo del 5%.

Prendendo la lista dei miliardari del mondo stilata ogni anno dalla rivista Forbes e che quest’anno conta 2.668 nomi, Oxfam ha infatti calcolato due possibili scenari da oggi al 2030: nel primo, attraverso interventi fiscali e altre misure redistributive, la ricchezza totale dei super ricchi tornerebbe ai livelli del 2012, cioè a circa 5mila miliardi di dollari. Viceversa, se l’accumulazione dovesse continuare ai ritmi attuali, nel 2030 i membri della lista di Forbes controllerebbe un patrimonio netto complessivo pari a circa 30mila miliardi di dollari: il doppio di quello che, secondo le proiezioni dell’Ocse@, sarà il prodotto interno lordo dell’Unione europea fra sette anni. Già oggi, ricorda il rapporto, 81 uomini detengono più ricchezza del 50% più povero del pianeta e i 10 più ricchi fra loro possiedono di più di 228 milioni di donne africane messe insieme@.

Chiara Giovetti

 

Davos 2023, panel per sblocacre gli investimenti (da screenshot)

Davos 2023, panel sul ridurre le diseguagiianze (da screenshot)


28 marzo, Giornata mondiale della Tubercolosi

Il più recente rapporto sulla tubercolosi pubblicato dall’Organizzazione mondiale della sanità stima che nel 2021 si siano ammalate di tubercolosi (Tbc) 10,6 milioni di persone, +4,5% rispetto al 2020. I decessi sono stati 1,6 milioni, di cui 187mila tra le persone sieropositive all’Hiv. È stata la prima volta in diversi anni che i casi di tubercolosi sono aumentati, dopo una diminuzione costante fra il 2005 e il 2020. La pandemia da Covid-19 ha ridotto i servizi sanitari per molte malattie, ma il suo impatto sulla risposta alla tubercolosi è stato particolarmente grave. La conseguenza più ovvia e immediata, si legge nel rapporto, è stata un forte calo globale del numero riportato di persone con nuova diagnosi di Tbc. Con la malattia non diagnosticata e non trattata, più persone sono morte e sono aumentate le nuove infezioni.

La tubercolosi è una malattia trasmissibile che fino alla pandemia da Covid-19 era la principale causa di morte nel mondo provocata da un singolo agente infettivo, anche più dell’Hiv/Aids. La Tbc è causata dal bacillo Mycobacterium tuberculosis, che si diffonde quando le persone malate espellono i batteri nell’aria, ad esempio con la tosse. Si stima che circa un quarto della popolazione mondiale sia stata infettata, ma la maggior parte delle persone non svilupperà la malattia. Senza trattamento, che consiste nell’assunzione di antibiotici, il tasso di mortalità è del 50%. Esiste una forma di Tbc resistente ai farmaci caratterizzata da batteri che sono resistenti almeno all’isoniazide e alla rifampicina, i due farmaci più potenti contro la malattia@. Oggi esiste un solo vaccino autorizzato, il Bcg: permette di prevenire le forme gravi di tubercolosi nei neonati e nei bambini piccoli, ma non protegge abbastanza gli adolescenti e gli adulti, che rappresentano quasi il 90% delle trasmissioni di tubercolosi a livello globale. A settembre 2022, c’erano 16 vaccini candidati nei trial clinici: 4 in fase I, 8 in fase II e 4 in fase III.

La Tbc, ha detto Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità, al Forum di Davos lo scorso gennaio@, è la malattia dei poveri, non è più un problema di salute pubblica nei paesi ricchi, dai quali però vengono le risorse necessarie a finanziare gli studi su vaccini e terapie.

Lo schema che vediamo spesso all’opera, ha ricordato Tedros, è quello osservato, ad esempio, con Ebola nel 2014: è bastato che un solo caso arrivasse in un paese ad alto reddito perché anche i paesi ricchi cominciassero a preoccuparsi, tanto che nel 2018, quando vi è stata un’altra ondata di infezioni in Repubblica democratica del Congo, l’impegno per contenerla e trovare un vaccino è stato immediato. Quanto alla pandemia da Covid-19, che fin da subito ha interessato paesi emergenti o ad alto reddito, lo sforzo per contrastarla è stato senza precedenti. Occorre suscitare anche per la lotta alla tubercolosi un simile livello di impegno: per questo il direttore dell’Oms ha annunciato a Davos l’intenzione di istituire un nuovo Consiglio per l’accelerazione della ricerca, cercando di coinvolgere «finanziatori, agenzie globali, governi e utenti finali nell’identificazione e nel superamento degli ostacoli allo sviluppo del vaccino contro la tubercolosi».

Per cercare di creare la volontà politica necessaria a rendere più rapida ed efficace la lotta alla malattia, il direttore del Fondo globale per la lotta contro Aids, tubercolosi e malaria, Peter Sands, ha suggerito alcuni punti di discussione. Il primo è fare leva con i paesi donatori sull’«argomento morale»: anche la tubercolosi è una pandemia; eppure, le risorse investite per contrastarla sono pochissime. Le persone colpite da Tbc non valgono il denaro che andrebbe speso esattamente come quelle colpite da Covid? Un’altra strategia, ha aggiunto Sands, è quella della paura: la tubercolosi ha dei tassi di mortalità che fanno sembrare il Covid una malattia moderata e, anche se la sua trasmissibilità non è nemmeno lontanamente comparabile a quella del coronavirus, l’esperienza di questi ultimi anni ci ha insegnato proprio che non si può contare sul fatto che la trasmissibilità rimanga sempre uguale. Per questo occorre accelerare i tempi per eradicare questa malattia il prima possibile.

Chi.Gio.

Tedros Ghebremesyos direttore generale dell’OMS intervine a Davos 2023 sulla tubercolosi (da screenshot)




Se i ricchi arrivano anche nello spazio


Lo spazio è la nuova frontiera dell’uomo. E, in quanto tale, suscita dubbi e domande. I viaggiatori attuali sono da considerarsi turisti spaziali o pionieri di una nuova era? Gli enormi costi di questi viaggi sono giustificabili? Le colonizzazioni extraterrestri saranno presto una necessità reale per l’umanità?

Il prossimo febbraio 2022, la missione AX-1, organizzata dall’Axiom Space, porterà l’israeliano Eytan Stibbe, lo statunitense Larry Connor e il canadese Mark Pathy a bordo della Stazione spaziale internazionale (International space station, Iss). A rendere particolarmente interessante la notizia è il fatto che i tre sono ricchi uomini d’affari che non hanno mai intrapreso la carriera d’astronauta. Sono, quindi, a tutti gli effetti dei semplici turisti spaziali.

A guidarli verso l’Iss sarà l’ex astronauta della Nasa Michael López-Alegria, che ha al suo attivo ben cinque missioni nello spazio. Sarà lui l’unico professionista che condurrà il terzetto a bordo del Falcon 9 della SpaceX di Elon Musk, il fondatore della Tesla. La navicella spaziale si aggancerà alla stazione internazionale, dove, per la «modica» cifra di 55 milioni di dollari ciascuno, i tre magnati saranno ospitati per otto giorni.

Il costo esorbitante che i turisti dovranno pagare spianerà la strada verso una nuova forma di economia dopo che, nel 2019, la Nasa ha accettato di accogliere visitatori privati sulla stazione spaziale. Intanto, lo scorso ottobre, un regista e un’attrice russi sono stati 12 giorni a bordo della stazione per girare un film. Questi hanno preceduto l’attore Tom Cruise e il regista Doug Liman che si sono prenotati per un successivo volo durante il quale gireranno scene di un altro film. Intanto, Space Hero, un’agenzia di produzione televisiva, ha annunciato che, nel 2023, il vincitore del suo reality show avrà come premio un viaggio e soggiorno alla Iss con la Axiom Space.

Connor, Pathy e Stibbe, però, non si definiscono «turisti spaziali», bensì «pionieri di una nuova era», quella della colonizzazione di nuovi mondi. E questa definizione non è del tutto errata.

I tre «comuni mortali» si sono volontariamente sottoposti a test coordinati con istituti, ospedali, enti scientifici al fine di monitorare lo stato delle condizioni di esseri umani non completamente addestrati per affrontare eventuali colonizzazioni extraterrestri.

In particolare, Larry Connor ha scelto di collaborare con la Mayo Clinic e la Cleveland Clinic; Mark Pathy con il Montreal Children’s Hospital e la Canadian Space Agency, mentre l’israeliano Stibbe si sottoporrà a test coordinati con l’agenzia spaziale israeliana e la Ramon Foundation.

Inoltre, l’equipaggio non professionista, prima di essere portato in orbita, ha dovuto affrontare 15 settimane di training e i dati raccolti durante il loro addestramento saranno utilizzati per successive missioni esplorative.

I viaggi nello spazio stanno conoscendo un’accelerazione a causa dell’interesse di alcuni tra i maggiori miliardari del mondo. Foto Piro4D – Pixabay.

Voli suborbitali e voli orbitali

Le missioni spaziali hanno sempre generato polemiche per gli alti costi e le energie umane, tecnologiche e logistiche profuse. È quindi naturale che anche la missione AX-1, riservata a gente facoltosa, abbia partorito contraddittori anche tra coloro che hanno sempre sostenuto la necessità di investimenti nell’esplorazione dello spazio. L’alto costo della «gita» sembra uno schiaffo alle ristrettezze economiche in cui versa parte della popolazione mondiale, ma se vogliamo preservare il futuro dell’umanità, dobbiamo anche guardare oltre l’oggi e il domani. Con il depauperamento delle risorse del nostro pianeta, l’aumento di popolazione e la sempre maggiore richiesta di energia, la colonizzazione di altri pianeti sarà, a detta di un numero sempre maggiore di scienziati e politici, non più una scelta, ma una necessità. In questo quadro le missioni turistiche, per quanto facciano storcere il naso perché (sino a oggi) riservate a una ristretta cerchia di persone, potrebbero rappresentare una prima verifica della possibilità di periodici viaggi di trasferimento di nuovi coloni.

Nel frattempo, il turismo spaziale decolla e sono già diverse le compagnie che stanno offrendo voli sia suborbitali (quelli che raggiungono un’altezza massima di 100 chilometri) che orbitali (quelli che raggiungono e superano i 400 chilometri, potendo agganciarsi così all’Iss). L’agenzia di consulenza spaziale Northern sky reserach stima che, entro il 2028, i voli suborbitali potranno valere 2,8 miliardi di dollari per salire a 10,4 miliardi entro il 2040 mentre i voli orbitali raggiungeranno i 610 milioni di dollari entro il 2028 e i 3,6 miliardi entro la decade successiva.

Una satellite in orbita attorno alla terra. Foto Pixabay.

Branson contro Bezos

Jeff Bezos di Amazon ha fondato «Blu Origin». Foto Daniel Oberhaus.

Le principali compagnie che si contendono il mercato dei voli turistici suborbitali sono la «Virgin Galactic» di Richard Branson e la «Blue Origin» di Jeff Bezos.

La prima opererà con la SpaceShipTwo, una navicella guidata da due piloti che potrà trasportare sei passeggeri i quali dovranno sottoporsi ad un addestramento di tre giorni prima del volo. La SpaceShipTwo verrà poi trasportata a 12mila metri di altezza da un jet, il WhiteKnightTwo e, dopo essersi sganciata dall’aereo madre, razzi propulsori porteranno la navicella a un’altezza di circa 90 chilometri. Il volo è parabolico e i passeggeri proveranno solo in parte la sensazione della microgravità prima di rientrare sulla Terra, nel New Mexico. La società di Branson ha già venduto 600 biglietti a un prezzo tra i 200mila e i 250mila dollari ciascuno.

Il magnate Richard Branson ha fondato la Virgin Galactic per viaggiare nello spazio. Foto Virgin Galactic.

La Blue Origin, invece, opererà con una capsula portata a 100 chilometri da un booster (razzo ausiliario), il New Shepard, con una traiettoria verticale. Dopo aver subito gli effetti della microgravità per pochi minuti, i passeggeri rientreranno nel Texas utilizzando un sistema di paracaduti tipo quello utilizzato dalle navicelle sovietiche, mentre il booster potrà essere riutilizzato per successivi lanci. A differenza dei clienti della Virgin Galactic, quelli che si affideranno alla Blue Origin necessiteranno di un solo giorno di addestramento.

Compagnie in orbita

L’unica azienda che si affaccerà a breve al turismo spaziale orbitale è, come già scritto, l’Axiom Space fondata dall’ex direttore operativo dell’Iss Michael Suffredini e dall’iraniano naturalizzato statunitense Kam Ghaffarian. L’Axiom ha stretto una collaborazione con la SpaceX di Elon Musk, a cui è affidato il compito di trasportare i turisti in orbita, e la Nasa, che ospiterà i visitatori nella stazione spaziale al costo di 35mila dollari a notte per persona. Ma i programmi della Axiom Space sono ben più ambiziosi: nel 2024 dovrebbe entrare in funzione una «depandance» spaziale collegata all’Iss e, dal 2028, addirittura una stazione completamente indipendente che ospiterà i clienti senza appoggiarsi alla stazione spaziale internazionale.

Ci sono però altre compagnie già pronte a sfruttare la ghiotta occasione rappresentata da questa nuova forma di turismo: la Space Adventure di Eric C. Anderson e la stessa Virgin Galactic hanno in programma di spartire la torta con l’Axiom Space. La Space Adventure ha già una certa esperienza nel campo avendo trasportato sette turisti sulla stazione spaziale con la Soyuz russa per una settimana al costo «stracciato» di 20 milioni di dollari. Nel 2023 porterà altri turisti, e uno di essi avrà anche la possibilità di effettuare una passeggiata nello spazio. Recentemente, un accordo con la SpaceX ha permesso alla Space Adventure di programmare voli orbitali senza appoggiarsi all’Iss: i clienti resteranno semplicemente cinque giorni a orbitare attorno alla Terra.

I crateri della luna. Foto Ponciano-Pixabay.

«Cara Luna»

Il progetto turistico più ambizioso rimane però dearMoon di Yusaku Maezawa, un uomo d’affari giapponese che ha già siglato un contratto con la SpaceX per un viaggio attorno alla Luna in programma nel 2023, poco prima di Artemis III, la missione della Nasa che, nel 2024, riporterà un uomo e una donna (questa volta veri astronauti) sulla superficie del nostro satellite.

Elon Musk di Tesla ha fondato «SpaceX». Foto Daniel Oberhaus.

Maezawa sarà accompagnato da altri otto turisti a cui offrirà il volo, scelti dopo una selezione a cui hanno partecipato più di un milione di candidati. Non si conosce il costo dei biglietti che il giapponese ha riservato per sé e i suoi compagni di viaggio, ma la SpaceX sta già costruendo il nuovo razzo, la Starship, che trasporterà la comitiva.

Di tutte le missioni turistiche spaziali, però, dearMoon è quella più ambigua e meno dettagliata. Secondo il suo ideatore, lo scopo sarebbe quello di promuovere la pace nel mondo dando un nuovo impulso all’arte, un obiettivo piuttosto banale per una missione che costerà miliardi di dollari (Elon Musk ha lasciato trapelare che l’intera progettazione e realizzazione costerà alla SpaceX cinque miliardi di dollari).

Magnati e raccolte di fondi

Resta il fatto che, almeno nelle sue forme iniziali, il turismo spaziale sarà riservato a privilegiati, coloro che potranno permettersi il lusso di spendere milioni di dollari o euro per passare qualche ora nello spazio osservando a distanza un pianeta che, per loro, sta diventando sempre più stretto.

È forse anche per questo motivo che la cooperazione con istituti di ricerca e ospedali (in particolare dedicati alla cura di bambini) è ormai divenuta quasi una consuetudine per i magnati della finanza e dell’imprenditoria che decidono di spendere una cospicua quantità di denaro per assecondare un loro sfizio o una loro passione.

Una passeggiata spaziale. Foto NASA.

Ospedali nello spazio

Lo scorso settembre, la missione Inspiration4, guidata da Jared Isaacman, aveva indicato come scopo principale della gita turistica spaziale (costata, per quattro persone, 200 milioni di dollari) una raccolta fondi a favore del St. Jude Children’s Research Hospital, una fondazione gestita dalla Alsac (American lebanese syrian associated charities) fondata nel 1957 dall’attore libanese-statunitense Danny Thomas. Thomas era un devoto cattolico, che, appena giunto negli Stati Uniti, chiese aiuto a San Giuda Taddeo. Avendo trovato successo, fama e agiatezza, decise di dare vita all’Alsac che, nel 1962 costruì l’ospedale, divenuta oggi la quindicesima organizzazione benefica degli States. Oggi l’Alsac raccoglie circa 750 milioni di dollari ogni anno per il funzionamento del centro (i cui costi operativi si aggirano sui 620 milioni di dollari per anno). La raccolta di fondi costituisce il 74% del budget del St. Jude (in media gli ospedali nazionali raggiungono a malapena donazioni per il 10% del loro budget) e permette alla struttura sanitaria di ospitare ogni anno circa 7.800 bambini pazienti senza chiedere alcun contributo economico alle famiglie.

Isaacman, fondatore e proprietario della Shift4 Payment, aveva offerto i costosi biglietti ad altre tre persone, tra cui un medico ausiliario dello stesso St. Jude la quale era riuscita a sconfiggere un tumore osseo che l’aveva colpita nella sua adolescenza. Obiettivo della missione Inspiration4 era quello di raccogliere aiuti economici per 200 milioni di dollari (la stessa cifra sborsata da Isaacman per la vacanza spaziale) grazie alla pubblicità che ne sarebbe derivata. Il traguardo è stato raggiunto e superato (anche grazie alla donazione di 50 milioni di dollari fatta da Elon Musk), ma sono in molti ad aver storto il naso per la manipolazione sempre più frequente fatta dai miliardari per giustificare agli occhi della società i loro capricci.

La simpatia e la poca notorietà di Isaacman, gli hanno evitato numerose critiche per il suo costoso capriccio, cosa non accaduta con altri suoi colleghi del calibro di Jeff Bezos o Richard Branson o allo stesso Elon Musk.

La democratizzazione dello spazio, come qualcuno ha definito il turismo spaziale, è ancora un obiettivo lontano da raggiungere.

Piergiorgio Pescali

Il lancio di una navetta spaziale statunitense. Foto WikiImages – Pixabay. | Uno dei punti contestati a questi viaggi e anche il tasso di inquinamento prodotto dai lanci. Un solo volo inquina più di quanto possa inquinare un povero in tutta la sua vita.

 




Noi e Voi

Ai nostri missionari

Invio la foto della targa che è stata collocata nella Villa Pisani di Biadene (Tv), nel corridoio di entrata al teatro Binotto, in ricordo della loro scuola/seminario nell’immediato dopo guerra, su iniziativa di Fondazione Contea.

Gino Merlo
dell’associazioneAvi di Montebelluna (Tv) – 14/06/2021

Grazie per la segnalazione del bel gesto della Fondazione Contea. Anche se abbiamo lasciato Biadene, dove siamo stati dal 1949 al 1981, il cuore di molti missionari è sempre legato a quel luogo, così caro a tanti, soprattutto per l’affetto e la sintonia vissuti con la comunità locale.

Ringraziamo con due immagini: una visione del complesso della villa dove quella che era la chiesa è ora il teatro, e una foto di gruppo dei seminaristi del 1951-52.


Un dossier per agire

Problemi ambientali, soluzioni sociali

Si scrive sostenibilità, si pronuncia equità: così potrebbe essere sintetizzato il dossier infografico realizzato dal Centro nuovo modello di sviluppo in collaborazione con Riccardo Mastini, ricercatore in ecologia politica all’Università autonoma di Barcellona, e che ha per titolo Problemi ambientali, scelte sociali. Siamo abituati a pensare che la questione climatica, e più in generale la problematica ambientale, richieda solo interventi di carattere tecnologico, tutt’al più nuovi stili di vita; in realtà impone anche scelte di carattere fiscale e di spesa pubblica, perché questione ambientale e questione sociale sono intimamente intrecciate fra loro.

Degrado ambientale e tenore di vita

Per cominciare, la responsabilità del degrado ambientale è diversificata in base al tenore di vita. Basti dire che a livello mondiale il 10% della popolazione più ricca è responsabile del 49% di CO2 emessa. L’1% da solo è responsabile addirittura del 15%. Per contro, il 50% più povero contribuisce solo al 7% delle emissioni globali. Le stesse disparità le riscontriamo anche a livello di singole nazioni. Nell’Unione europea l’impronta pro capite di anidride carbonica dell’1% più ricco corrisponde a 55 tonnellate all’anno. Quella del 50% più povero è undici volte più bassa.

Nel valutare quali misure assumere per porre un freno alle emissioni di anidride carbonica, occorre considerare che nella nostra società c’è chi può decidere come vivere e chi invece lo deve subire. Chi si trova in povertà non può scegliere se vivere in centro o in periferia, se mangiare biologico o cibo spazzatura, se avere la casa coibentata o ad alta dispersione termica. Deve semplicemente adottare lo stile di vita meno dispendioso. Che non è automaticamente il meno impattante.

Povertà e ambiente

Molti poveri, ad esempio, sono costretti a vivere in periferia dove gli affitti sono generalmente più bassi, ma dove, contemporaneamente, mancano servizi essenziali (scuole, negozi, presidi medici) e trasporti pubblici. Di conseguenza l’auto si rende indispensabile con inevitabile aumento dell’impronta di carbonio. E arriviamo all’assurdo che al di sotto di certi livelli di reddito, l’impronta ambientale non è determinata dalla ricchezza, ma dal livello di povertà che non lascia possibilità di scelta come invece hanno i facoltosi.

Se sei così ricco da poterti permettere un’automobile di alta cilindrata, allora sei anche sufficientemente ricco da poterti permettere una vita senza automobile. I soldi ti permettono di scegliere il tuo stile di vita, e se finisci per condurne uno ad alto impatto ambientale, ne sei responsabile. Non altrettanto per i più poveri la cui mancanza di libertà annulla anche la responsabilità per le conseguenze che la loro vita arreca all’ambiente.

E a dimostrazione di come per i più poveri non esista una diretta correlazione fra impronta di carbonio e responsabilità, c’è il fatto che molti di loro hanno chiaro che investire in incrementi di efficienza per la propria casa, per i propri elettrodomestici e per la propria vettura può fare la differenza. Molti sanno che a parità di consumi, una famiglia che vive in una casa ben coibentata e utilizza elettrodomestici e veicoli ad alta efficienza energetica può arrivare a produrre fino a tre volte meno emissioni climalteranti rispetto a una famiglia costretta a utilizzare beni a bassa efficienza. Ma pur sapendolo non investono in innovazione perché non hanno i soldi per farlo.

Fisco che compensa

Le proteste dei gilet jaunes vanno lette in questa prospettiva. Vogliono dirci che le misure fiscali per ridurre il consumo di benzina e di elettricità si trasformano in misure contro i poveri se non sono accompagnate da maggiori servizi e da adeguati contributi alle ristrutturazioni.

Considerato il ruolo centrale giocato dalla collettività per il raggiungimento di una sostenibilità che non lasci indietro nessuno, è fondamentale garantirle tutto il denaro che serve per lo svolgimento delle proprie funzioni. Per questo il sistema fiscale assume importanza strategica, tanto più che non serve solo a raccogliere denaro per le casse pubbliche, ma anche a ristabilire equità fra cittadini e a orientare i comportamenti di famiglie e imprese affinché le loro scelte di consumo e di produzione non entrino in rotta di collisione con l’interesse generale.

Ecco perché è arrivato il tempo di porre con forza una seria riforma del fisco coerente con l’articolo 53 della Costituzione. Ossia che ogni forma di ricchezza (reddito, patrimoni, eredità) siano tassati secondo criteri di progressività e cumulo. Ricordandoci che i tre individui più ricchi d’Italia possiedono la stessa ricchezza del 10% più povero, ossia sei milioni di persone. Disuguaglianze che pesano come macigni e che paghiamo su tutti i piani: umano, sociale e ambientale.

Centro nuovo modello  di sviluppo

A proposito delle «briciole dei ricchi»

Gentile redazione,
mi è capitata tra le mani una copia del numero di giugno della vostra rivista (oserei dire nostra, perché ho appena fatto una donazione per riceverla a casa) e mi è piaciuta moltissimo.

Ho letto, ad esempio, gli articoli sul Sudafrica, e sono rimasto impressionato favorevolmente dalla lucidità e onestà intellettuale con le quali scrivete di quel paese che un pochino conosco tramite un amico sudafricano. Siete davvero in gamba! Ma tutta la rivista è davvero «ok».

In ultimo ho letto l’articolo di Francesco Gesualdi: «Le briciole dei ricchi e la giustizia sociale», alla fine della lettura ho pensato di scrivervi qualcosa nel merito. Senza la pretesa che lo pubblichiate. Vedete voi!

A proposito del capitalismo compassionevole

Nel merito: sono d’accordo su tutta la linea rispetto al «capitalismo compassionevole», al fatto che in realtà il capitalismo internazionale non vuole «lacci e lacciuoli» come si diceva anni fa quando l’amministrazione Clinton negli Usa per prima (forse) ha tolto questi lacci permettendo, di fatto, qualsiasi cosa al capitalismo internazionale, senza parlare poi dell’aggressività dei fondi sovrani cinesi, ecc.

Sono molto d’accordo sulla redistribuzione equa degli utili per una democrazia economica (e non solo) vera e inclusiva in tutto il mondo. Ho qualche perplessità sulle modalità necessarie per raggiungere l’obiettivo. Mi riferisco alla classica idea di tassare i ricchi, anche con una patrimoniale, per, appunto, redistribuire. Idea che sarebbe assolutamente condivisibile (anche qui se vivessimo ancora nel ‘900 con gli stati che da soli o quasi potevano determinare in buona parte il proprio divenire economico e sociale).

Purtroppo, non è più possibile ragionare in questi termini: tassazioni importanti e patrimoniale finirebbero soltanto per favorire la «fuga» di imprese e capitali all’estero. Paradisi fiscali compresi, anche quelli di casa nostra, nella stessa Unione europea.

Il potere delle multinazionali e dei grandi gruppi di investimento internazionali è tale che nessuno stato (tolti forse gli Usa da un lato e la Cina dall’altro che non sono realmente interessati al problema) ha il potere di condizionarli in un modo o nell’altro. Gruppi di potere quasi occulti quali il Bildenberg (occulti nel senso che nessun giornalista può o osa dire che cosa si dicono quando si riuniscono per decidere i nostri destini in base al loro interesse) di fatto condizionano le scelte politiche degli stati in un senso o nell’altro.

La globalizzazione è solo, o quasi, per i «ricchi». Noi poveri da un lato e la cosiddetta classe media (che non può scappare all’estero) dall’altro, la subiamo. Ad esempio, una nuova patrimoniale colpirebbe, alla fin fine, questi ultimi già sufficientemente vessati.

Altre soluzioni? Magari chiudere il mercato e creare una forma di autarchia europea contro la Cina. Certo (tolto un periodo di assestamento magari doloroso) non avremmo bisogno di nessuno per avere e produrre quello che ci serve e nel contempo potremmo mantenere rapporti il più possibile equi e paritari con il Terzo Mondo. Ma non credo sia possibile. Anche i nostri capitalisti o grandi imprese, per il loro interesse, vogliono la globalizzazione e vogliono i mercati aperti nei confronti della Cina (ad esempio la variante Covid Delta sta bloccando i porti cinesi e ne sentiremo le conseguenze), infatti ormai, per il guadagno di pochi, siamo legati a loro a doppio filo.

C’è anche la tassazione dei giganti del web… ma non scherziamo! Condizionano anch’essi gli stati a loro piacimento con l’aiuto degli Usa (e non solo) che fanno finta di volerli tassare.

Una soluzione forse praticabile sarebbe di trattenere in Italia (parlando di casa nostra) le imprese, abbassando la tassazione in cambio di assunzioni che compenserebbero almeno in parte le perdite dell’erario ma favorirebbero l’occupazione. Niente di nuovo, mi direte. Ma paesi come l’Irlanda, la Svizzera e molti altri hanno tratto grande benefico da scelte del genere.

Mi spiego. Se ad un’impresa (che, vivaddio, magari paga le tasse) che deve versare, ad esempio, tre milioni l’anno allo stato, si dicesse: un milione tienitelo ma devi assumere in modo che due milioni lo stato li veda rientrare con le tasse sui nuovi dipendenti? È noto che in Italia (per motivi di mentalità e di costo del lavoro) si tende ad avere meno dipendenti che in altri paesi.

Mi rendo conto che detta così si tratta di una proposta un po’ naif. Ma ci si potrebbe ragionare magari insieme ad una vera riforma della Giustizia, della Pubblica amministrazione, ecc.

Non sono un esperto. Non sono sicuramente all’altezza di chi ha scritto l’articolo. In sintesi, volevo solo dire che, a parer mio, certe ricette non funzionano più e bisogna avere il coraggio di pensarne di nuove!

A voi, pensatori ed economisti non asserviti, sta di aiutarci. A noi la presa di coscienza e la lotta non violenta ma decisa per mondo più giusto e solidale.

Grazie anche solo se qualcuno leggerà questa lettera. Avanti così con la vostra bellissima rivista!

Marcello Poggi
Genova, 14/06/2021