Benvenuti ad Aguas Santas


Un progetto di accoglienza di migranti e rifugiati. Un servizio vissuto dai volontari della Fundação Allamano di Aguas Santas, nel Nord del Portogallo, come una chiamata alla missione ad gentes in Europa. Il Vangelo vissuto e portato alle periferie.

«Oggi abbiamo 28 ospiti. Sono tutti uomini, arrivati da noi dopo lunghi viaggi e brutte esperienze. A parte due quarantenni, gli altri hanno tra i 20 e i 30 anni. Gli ultimi due sono arrivati dall’Afghanistan». José Miranda, laico volontario della Fondazione Allamano, ci racconta l’accoglienza di profughi iniziata nel 2020 nella casa dei Missionari della Consolata di Aguas Santas, 10 km dalla città di Oporto, Nord del Portogallo. «Gli altri vengono da Pakistan, Togo, Camerun, Nigeria, Guinea Bissau, Guinea Conakry, Ghana, Mali, Gambia, Senegal».

I più poveri tra i poveri

Incontriamo José tramite una videochiamata. Camicia azzurra, occhiali tondi, capelli rasati a zero. Occhi sorridenti. Mani grosse ed espressive.

Ci parla di quella che considera un’attività di vera missione ad gentes in Europa, una delle risposte che i Missionari della Consolata stanno dando all’appello di papa Francesco di portare il Vangelo alle periferie.

«Abbiamo iniziato tre anni fa con un’accoglienza molto breve: l’Alto commissariato per le migrazioni, un organo del governo portoghese, ci aveva chiesto una disponibilità di qualche settimana. Solo letto e cibo. Nient’altro. Come un albergo. I migranti sono i più poveri tra i poveri. Da quell’esperienza abbiamo iniziato a pensare a un progetto di accoglienza più strutturato per accompagnarli all’autonomia».

Incontro ai bisognosi

José parla benissimo l’italiano: è stato dal 1995 al 1998 tra Rivoli (To), Vittorio Veneto (Tv) e Roma. «Ho 46 anni. Da piccolo abitavo vicino ai missionari di Aguas Santas. Andavo a giocare a pallone da loro. Poi mi hanno invitato nel gruppo dei giovani missionari della Consolata. Avevo 16 anni. Due anni dopo sono entrato in seminario a Lisbona. In seguito sono andato a Rivoli per imparare l’italiano nel 1995. Nel 1996 a Vittorio Veneto per il noviziato, e nell’agosto del 1997 a Roma per studiare teologia, ma dopo un anno sono tornato a Porto dai miei. Adesso sono sposato e ho due figli di 13 e 20 anni.

Lavoro in una ditta che trasporta container. Parlo sempre con tante persone di tutto il mondo. È un lavoro che mi piace.

Nel frattempo, sono rimasto legato all’Imc, e da qualche anno sono un volontario della Fondazione Allamano, nata dieci anni fa dalla volontà dei Missionari della Consolata di avere un “braccio sociale operativo” in un quartiere popolato da molti anziani e famiglie in difficoltà».

«C’è molta gente arrivata qui per il lavoro – spiega José -. Gli anziani, i bambini e i giovani sono i più bisognosi. L’idea era quella di fare qualcosa per loro: distribuire pacchi alimentari, aprire un centro diurno con attività ricreative e culturali, offrire servizi domiciliari nell’area della salute e sociale (la Fondazione supporta anche la fattoria pedagogica e gli orti comunitari nel centro Imc di Cacém, cfr MC 5/2022, nda).

La Fondazione è amministrata da volontari e diretta da Ana, assistente sociale, e Jacinto, che gestisce gli spazi interni e esterni della struttura.

La sua sede è nella casa Imc: un ex seminario dove ora vivono sette padri della Consolata più Delfino che ha fatto la professione a fine luglio».

I primi ospiti e il Covid

Quando la Fondazione ha deciso d’impegnarsi nell’accoglienza, i volontari hanno visitato altre realtà già attive, come i gesuiti di Lisbona. «Siamo stati a Lisbona a marzo 2020. Una settimana dopo si è fermato tutto per il Covid. Eravamo pronti per i primi nove rifugiati provenienti dai centri di accoglienza di Torino e Bari, ma la pandemia li ha tenuti bloccati fino a novembre.

Nel frattempo, però, l’Alto commissariato, a maggio 2020, ci ha chiesto di accogliere Michael, un ventiquattrenne del Ghana, in Portogallo da sei mesi.

È stato molto bello iniziare con lui. Durante il lockdown Michael ci ha aiutato in tutte le attività della casa. È un ragazzo molto in gamba, umile, con un sorriso facile. Gli piace ballare. Ha dato una mano anche nell’animazione missionaria, veniva agli incontri, stava con i giovani.

Michael ha attraversato l’Africa fino alla Libia dove ha lavorato per un po’. Dopo due o tre mesi senza essere pagato, sono arrivati alcuni uomini con le armi dicendo a tutti: “Nessuno vi pagherà, ma vi possiamo portare in Europa. Che ne dite?”. Quando qualcuno ha detto di no, l’hanno ammazzato. Allora tutti sono partiti. Dopo due notti nel mare, li ha raccolti una nave che li ha portati a Lampedusa. Un anno dopo Michael è arrivato in Portogallo».

I primi nove ospiti dall’Italia sono arrivati ad Aguas Santas a novembre 2020. Nella casa Imc la Fondazione Allamano ha allestito nove stanze con tre letti e un bagno ciascuna. «Si sta bene da noi – prosegue José -. L’Alto commissariato è venuto a visitarci, e ci ha detto che la nostra ospitalità è la più bella del Portogallo. Essere solo in tre per stanza, invece che in 10 o 15, permette ai rifugiati di avere un po’ di spazio personale».

Lingua e lavoro

Il protocollo di accoglienza prevede un’ospitalità di 18 mesi. È il tempo per iniziare un processo di integrazione e autonomia.

«Se vuoi rimanere nel paese, devi imparare la lingua – dice José -. Il portoghese non è facile, però, anche se alcuni di loro non erano mai andati a scuola, tutti hanno avuto molta buona volontà».

José ci racconta che tutti gli ospiti hanno iniziato a lavorare già dopo tre mesi. «Le aziende erano tutte contente. La maggior parte di loro è andata a lavorare nel settore delle costruzioni civili. Quattro hanno partecipato a un progetto di una multinazionale dell’arredamento, e hanno lavorato lì per otto mesi imparando anche il portoghese. Finito il progetto, due sono stati assunti, e sono molto contenti. Ora li stanno anche aiutando a trovare un’abitazione propria».

Cominciando a lavorare e a parlare portoghese, i rifugiati iniziano a essere autonomi.

Convivenza interculturale e interreligiosa

Dopo i primi nove arrivati a novembre 2020, a gennaio sono arrivati due ragazzi diciottenni dal Pakistan, tramite un altro programma per rifugiati in Grecia.

Gli ospiti già presenti erano tutti di origine africana. I due pachistani, perciò, apparivano molto diversi per la loro cultura. «Anche gli altri, però, erano tutti diversi tra loro. L’Africa ha molte culture. In più, ogni ragazzo ha una sua storia, ed è arrivato qui con uno scopo personale», dice José accennando alla grande quota di «diversità» presente nel piccolo gruppo di ospiti.

«Oggi sono ventotto. Sono arrivati un po’ per volta in gruppetti di due, tre o quattro. Noi abbiamo sempre detto di sì. La maggior parte sono ancora con noi.

Ricordo due ragazzi del Camerun che sono andati via dopo 15 giorni: ci hanno lasciato un biglietto per ringraziarci e per dirci che andavano in Francia. Il Portogallo non è uno dei paesi dove gli africani pensano di andare, se non quelli che parlano già portoghese. Piuttosto puntano a Germania, Inghilterra, Francia. È capitato altre due volte: con un ragazzo iracheno e uno siriano che avevano famigliari in quei paesi».

La maggior parte degli ospiti sono musulmani, i cristiani sono pochi, alcuni non sono credenti. «Questa è stata una bella sfida – sorride José -. Musulmani accolti dai missionari. Per me è un arricchimento grandissimo. Loro parlano molto della loro religione, e il rispetto reciproco è grande. Capita che, per andare in camera, passino davanti alla cappella dove, di giovedì, c’è sempre il santissimo esposto. E loro passano di lì con moltissimo rispetto. Quando facciamo degli incontri insieme, diciamo sempre una preghiera. Per loro è importante pregare anche con noi».

Negli ultimi tempi, in cinque hanno iniziato a chiedere di fare catechesi con uno dei missionari, Antonio Malila del Kenya.

Uno di loro, della Guinea Bissau, è stato battezzato durante la veglia pasquale di quest’anno.

«Noi di questo non parliamo molto, perché non è lo scopo dell’accoglienza, e non vogliamo creare confusione nelle persone. Però è stato un momento importante per tutti».

La quotidianità

«La maggior parte degli ospiti, ora lavora, esce presto la mattina, si preoccupa di tenere in ordine la propria stanza e i luoghi comuni, come la cucina e gli spazi esterni. Noi li aiutiamo con i documenti, con le questioni sanitarie, andiamo con loro dal medico, dall’oculista, dal dentista. Poi suggeriamo loro come presentarsi alle aziende, come fare il curriculum vitae e, quando è possibile, andiamo con loro per i colloqui.

Quando qualcuno ha un po’ di soldi da mandare in famiglia al paese di origine, li aiutiamo. Anche quando hanno voglia di giocare a pallone in cortile, cosa che succede spesso, li aiutiamo volentieri», conclude José allegro. Nella stessa struttura vive anche la comunità di otto missionari della Consolata. Vivono in una zona separata, però sono sempre presenti tra i profughi. «Soprattutto padre Antonio Malila, che è africano e ha un grande dialogo con loro, prendono il caffè insieme, fanno gite…».

Diventare autonomi

Michael, il primo ospite, è l’unico per il momento a essere andato via. Ha trovato una fidanzata, ed è uscito dalla casa dei Missionari della Consolata diverse settimane prima della fine dei 18 mesi del progetto, per andare a vivere con lei. Continua ad andare alla Fondazione Allamano per i pacchi di cibo e di prodotti per la vita quotidiana, ma anche per la vicinanza che ha sperimentato con i volontari.

«Degli altri, sono 14 quelli che hanno già finito i 18 mesi del progetto. Ma ci sono due problemi: il costo dell’abitazione, e i documenti di soggiorno che vengono rinnovati di sei mesi in sei mesi. Alcuni sarebbero già in grado di sostenere l’affitto di un alloggio, soprattutto se ci andassero in gruppetti, però, quando uno ha dei documenti solo per sei mesi, è difficile trovare un lavoro stabile, e anche una casa in affitto».

Famiglie ucraine

Nella primavera scorsa, dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, anche il Portogallo ha iniziato a ospitare profughi da quel paese.

«C’è stata una risposta che nessuno immaginava – racconta José -. Ci sono state persone che sono partite per andare a prendere i profughi e portarli in Portogallo. Noi ci siamo detti: “Le nostre camere sono tutte piene. Però ci sono quattro stanze nella zona delle attività di animazione giovanile”. Allora ho detto ai missionari: “Anche noi vorremmo accogliere degli ucraini”, ed è stato facile ottenere un sì, nonostante nessuno sapesse cosa sarebbe successo, se l’ospitalità sarebbe durata poche settimane o anni.

Quando il sindaco di Maya ha deciso di accogliere delle famiglie, circa cinquanta persone, famigliari di ucraini già residenti in zona, hanno chiamato subito noi.

Alla fine, abbiamo deciso per un’accoglienza a tempo, fino all’estate. Così abbiamo chiesto al sindaco di garantirci che. nel giro di due o tre mesi, avrebbe trovato degli alloggi per le famiglie che sarebbero arrivate. Il bene deve essere fatto bene: a delle famiglie bisogna offrire un luogo dignitoso che permetta la vita di famiglia, non una semplice stanza, che va bene solo temporaneamente.

Sono venute quattro famiglie più una donna sola di 60 anni, per un totale di diciassette persone: una famiglia formata da due bimbe di uno e quattro anni, mamma, sorella della mamma con un’altra bimba, e nonna; la seconda era composta da una mamma con due figlie di diciassette e sedici anni e un figlio di dodici; la terza da una bambina di sei anni con la mamma e i nonni; infine, c’erano una donna di cinquant’anni con la madre».

Convivenza facile

«Mi ha stupito la volontà degli ucraini di vivere e di fare andare tutto bene. Due giorni dopo il loro arrivo erano già lì che s’impegnavano a fare cose, studiare il portoghese. Non li ho mai visti disperati. Hanno perso tutto, gli uomini sono rimasti in Ucraina per fare la guerra, eppure si mostravano sempre forti e sorridenti – esclama José con ammirazione -. Il nostro paese ha fornito loro i documenti di soggiorno per tutto il tempo che vogliono e un sussidio economico. Il comune li accompagna con gli assistenti sociali».

José mette l’accento sul bel clima di convivenza che gli ospiti hanno creato con le famiglie ucraine. «Sono stati da noi tre mesi. Oggi, diversi di loro lavorano. Due famiglie sono in case del comune per sei mesi gratuitamente. Le altre due famiglie hanno voluto ritornare in patria.

Con gli altri ospiti la convivenza è stata sempre facile: la casa ha un grande spazio esterno dove si trovavano tutti insieme, e si aiutavano. Non erano obbligati a parlarsi, ma si sono relazionati subito tra loro spontaneamente. È stata un’esperienza bella».

Missione in Europa

Per José, gli ingredienti principali di una buona accoglienza sono l’ascolto e la comunicazione dell’affetto.

«Essere straordinari nell’ordinario: noi abbiamo cercato di fare così. Il comune di Porto ha accolto 200 persone in un antico seminario. Questa è la mia idea di Chiesa. Una Chiesa che fa missione in Europa anche in questo modo.

Oggi è questo lo scopo principale della Fondazione Allamano: ci occupiamo degli anziani e dei giovani portoghesi, ma soprattutto dei migranti. Il nostro punto identificativo è l’accoglienza.

Noi abbiamo la fortuna di poter fare quello che la Chiesa e papa Francesco stanno chiedendo: andare alle periferie.

Quello che stiamo facendo con la fondazione mi fa molto felice. Non è semplice, anche per il finanziamento delle attività. Però si va avanti con la grazia di Dio».

Luca Lorusso
foto di José Miranda




Prestiti e ricatti

Testo sui ricatti dei prestiti di Francesco Gesualdi |


Qualcuno li aveva definiti «maiali» (Piigs). Erano i paesi comunitari dell’area mediterranea – Portogallo, Italia, Grecia e Spagna – più l’Irlanda, che tra il 2008 e il 2013 si erano trovati in grave difficoltà a causa del loro debito. Intervenne la «Troika» che, in cambio di prestiti (onerosi), pretese una serie di pesanti impegni. Oggi la situazione finanziaria pare più stabile, i governi più deboli, la gente più povera.

Fra il 2008 e il 2013, un precipitare di eventi, non tutti collegati fra loro, rese particolarmente difficile la situazione debitoria di vari paesi dell’eurozona. E a indicare quelli più in difficoltà venne creato l’acronimo Piigs («maiali», in inglese), comprendente Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna.

Dall’Irlanda alla Grecia

L’Irlanda fu il primo paese a mostrarsi pesantemente inguaiato, e non per mala amministrazione o per avere voluto garantire ai cittadini chissà quali lussi, ma per aver salvato le proprie banche. L’eccesso di azzardo aveva portato le principali banche irlandesi sull’orlo della bancarotta e, per evitare il loro fallimento, il governo irlandese le foraggiò con 64 miliardi di euro. Un’operazione fatta a debito che in cinque anni portò il debito pubblico irlandese da un minuscolo 25% del Pil nel 2007, a uno spaventoso 120% nel 2012.

Il secondo paese a lanciare l’Sos fu la Grecia che, per la verità, già da anni si portava dietro un pesante fardello. Fin dal suo ingresso nell’euro aveva un debito pubblico pari al 100% del Pil, ma la situazione sembrava stabilizzata. Senonché dal 2004 il debito aveva ripreso a crescere un po’ per fare fronte alle spese connesse alle Olimpiadi, un po’ per garantire ai cittadini pensioni e salari più alti, oltre che servizi migliori. La situazione precipitò nel 2010 quando si seppe che lo scoperto annuale superava il 15% del Pil, mentre il limite imposto dai trattati europei era (ed è) al 3%. Nell’aprile del 2010 la Grecia venne dichiarata inaffidabile dalle agenzie di rating e di colpo non ottenne più un centesimo di prestito dal sistema bancario e finanziario privato. Senza nuovi prestiti, la Grecia non avrebbe potuto pagare né interessi né rate in scadenza: di fatto sarebbe stato come dichiarare fallimento. Una vera sciagura per i creditori, al 70% stranieri, e per l’euro che poteva subire una grave svalutazione per perdita di fiducia. Fu così che, per evitare la catastrofe, il 2 maggio 2010 l’Unione europea, la Banca centrale europea e il Fondo monetario internazionale, la famosa «Troika», misero a disposizione della Grecia 110 miliardi di euro per le scadenze più urgenti. Questi non bastarono e in seguito vennero accordati altri prestiti: 172 miliardi nel 2012 e 86 miliardi nel 2015. Oggi vediamo che il debito pubblico greco ha continuato a crescere, fino a raggiungere, nel marzo 2018, 330 miliardi, il 180% del Pil, detenuto per l’80% da soggetti pubblici: governi europei, Fondo monetario internazionale, Banca centrale europea e greca. Soggetti che, pur essendo pubblici, non si sono mostrati più magnanimi dei creditori privati. Anzi si sono dimostrati peggiori perché hanno approfittato della loro posizione di potere per mettere il parlamento e il governo greco sotto ricatto. Per prima cosa hanno chiarito che non regalavano, ma prestavano con tanto di interessi e di scadenze prefissate per la restituzione del capitale. Poi però hanno fatto di peggio: hanno condizionato l’esborso dei prestiti alla sottoscrizione di una serie di impegni.

Christine Lagarde, IMF Managing Director. © Simone D. McCourtie / World Bank

Le «riforme» della Troika

È successo alla Grecia esattamente come successe, negli anni Ottanta del secolo scorso, nei confronti dei paesi del Sud del mondo, quando il Fondo monetario internazionale si dichiarò disponibile a venire in loro soccorso purché accettassero di introdurre una serie di riforme che avevano come obiettivo la trasformazione delle loro economie in sistemi neoliberisti. E con la scusa di aiutarla a ritrovare la propria sostenibilità economica e a riprendere la strada della crescita, anche la Grecia venne obbligata ad adottare una serie di misure, «riforme» come dice la Troika, cheavevano come obiettivo la riduzione del peso dello stato e la crescita del potere del mercato e, per converso, la riduzione della sicurezza sociale, dei salari e dei diritti dei lavoratori. Con conseguenze disastrose su tutti i piani. Dal 2008 al 2015 in Grecia la spesa sanitaria pro capite fu tagliata di un terzo tanto che oggi un quarto dei greci si ritrova senza copertura sanitaria. Negli ospedali mancano lenzuola, garze e medicinali. Le infezioni ospedaliere sono sempre più frequenti, gli interventi non riusciti si moltiplicano, i medici migliori fuggono all’estero. Salari e pensioni hanno subito tagli dal 30 al 50% mentre la disoccupazione è salita al 25% con i giovani colpiti in maniera particolare. La povertà estrema è passata dal 9% nel 2011 al 15% nel 2015 e, se includiamo anchei greci in povertà relativa, scopriamo che la percentuale complessiva dei poveri al 2015 si colloca al 23% della popolazione. Dal 2009 al 2016 il numero dei senza tetto è quadruplicato a causa dell’abolizione del sostegno all’alloggio. Mezzo milione di greci, su un totale di 10 milioni, vivono grazie ai pasti messi a disposizione dalle organizzazioni umanitarie. Una vera tragedia umana che molti non hanno retto facendo raddoppiare il numero dei suicidi passati da 373 nel 2009, a 616 nel 2015.

Il turno dell’Italia

Anche l’Italia venne inclusa fra i Piigs. Non tanto per un peggioramento repentino del suo debito pubblico, quanto per il suo stato di indebitamento cronico. Con un debito strutturalmente al di sopra del 100% del Pil, gli occhi dei mercati erano puntati sull’Italia per cogliere il benché minimo segnale di peggioramento da sfruttare per organizzare un attacco speculativo contro di essa e magari anche contro l’euro (come avvenuto anche a maggio-giugno 2018, ndr). L’Unione europea sudava freddo e avrebbe tanto desiderato poter entrare a gamba tesa nella politica interna italiana per imporle l’adozione di misure d’austerità che avrebbero rassicurato i mercati e quindi ridotto i rischi di ritorsioni da parte del mondo della finanza. Ma a differenza della Grecia, l’Italia non aveva chiesto prestiti all’Europa, per cui mancava l’appiglio su cui esercitare il ricatto. Alla fine l’Unione europea trovò il modo di fare passare dalla finestra ciò che non riusciva a fare entrare dalla porta e lo fece appellandosi all’intervento di due strutture tecniche: la Banca d’Italia e la Banca centrale europea. Fu così che il 4 agosto 2011, Silvio Berlusconi, allora presidente del Consiglio, si vide recapitare una lettera a firma di Mario Draghi e Jean-Claude Trichet (riquadro), in cui si segnalava che dopo aver discusso la situazione dei titoli di stato italiani, il Consiglio direttivo della Banca centrale europea aveva giudicato necessario sollecitare le autorità italiane a «un’azione pressante per ristabilire la fiducia degli investitori». E, per non rimanere nel generico, la lettera elencava dettagliatamente le riforme che dovevano essere intraprese dal governo italiano, compresa l’abolizione delle Province, passando per la piena liberalizzazione dei servizi pubblici, la riforma delle pensioni, la revisione della legge sui licenziamenti e molto altro ancora.

Berlusconi non riuscì a realizzare le riforme auspicate e il 12 novembre del 2011 fu sollecitato a dimettersi per lasciare la poltrona a Mario Monti. Un cambio di guardia voluto dall’Europa che molti non hanno esitato a definire un colpo di stato.

Il gendarme dei conti pubblici

Come richiesto da Draghi e Trichet, il compito di Mario Monti era di «ristabilire la fiducia degli investitori» che, tradotto, significava due cose. La prima: dimostrare che la priorità dell’Italia è servire l’interesse dei creditori. La seconda: dimostrare che la fede dell’Italia è nel mercato. Di qui le operazioni che Monti e i governi successivi compirono: inasprimenti fiscali per garantire maggiori entrate allo stato, taglio alle spese per garantire un avanzo quanto più ampio possibile da destinare agli interessi, privatizzazioni per trasferire al mercato quante più attività possibili, riforme del lavoro per accrescere il potere delle imprese. Il tutto suggellato dalla modifica dell’articolo 81 della Costituzione (legge costituzionale 20 aprile 2012 n. 1, approvata con maggioranza qualificata di due terzi del Parlamento, ndr), in ossequio al Fiscal compact, che ha introdotto l’obbligo di pareggio di bilancio a significare che lo stato ha rinunciato a qualsiasi ruolo di orientamento dell’economia. E naturalmente disponibilità a controlli preventivi da parte della Commissione europea che ha il diritto di verificare i programmi di bilancio prima di mandarli all’approvazione del parlamento italiano. E se, per caso, vi trova dei numeri fuori posto ha il diritto di imporre dei correttivi.

Da quando l’Unione europea ha assunto il ruolo di gendarme dei conti pubblici, il percorso che porta all’approvazione dei bilanci nazionali si è fatto lungo e complesso.

Volendo, la procedura inizia a Bruxelles piuttosto che nelle varie capitali europee secondo un cronoprogramma scandito in cinque tempi:

1) Gennaio-marzo: gli organi dell’Unione europea analizzano la situazione di ciascun paese della zona euro e formulano indicazioni di programma per ciascuno di essi.

2) Aprile-luglio: sulla base delle indicazione ricevute da Bruxelles, ogni governo elabora un programma finanziario di medio periodo, corrispondente almeno a un triennio. In Italia il documento, denominato «Documento di economia e finanza» (Def), deve essere approvato dal Parlamento entro il 10 aprile e subito inviato a Bruxelles per un giudizio di merito. L’Unione europea si prende tre mesi di tempo per esaminarlo e formulare le proprie raccomandazioni.

3) Settembre: tramite un apposito documento denominato «Nota di aggiornamento al Def», il governo italiano recepisce le raccomandazioni dell’Unione europea e le sottopone all’approvazione del parlamento.

4) Ottobre: il governo elabora due documenti distinti: il primo, denominato «Documento programmatico di bilancio», descrive le spese previste per l’anno a venire e come saranno coperte; il secondo, denominato «Legge di bilancio», definisce nel dettaglio tutte le misure da assumere per raggiungere gli obiettivi previsti. Il primo documento è mandato a Bruxelles per un parere rapido. 5) Novembre-dicembre: il parlamento discute e approva il «Documento programmatico di bilancio» e la «Legge di bilancio».

Al servizio di pochi

Visto il potere delegato agli organi di controllo europeo, rimane difficile definire i nostri parlamenti strutture sovrane. Ma lo scandalo non è la perdita di sovranità a favore di una struttura sovrannazionale. Lo scandalo è che la struttura sovrannazionale non ha come fine la costruzione di un’Europa più equa, più solidale, più sostenibile al servizio dei diritti di tutti, ma un’Europa al servizio dei mercati affinché i padroni della finanza possano arricchirsi sempre di più alle spalle di tutti.

Francesco Gesualdi