L’ad gentes della cooperazione

testo di Chiara Giovetti |


Salute mentale in Costa d’Avorio, biogas per le scuole del Kenya, rifugiati venezuelani in Brasile. Sono tre degli ambiti nei quali i missionari della Consolata si impegneranno in questo 2020,  cercando di coniugare la più che centenaria esperienza di lotta alla povertà con gli attuali temi dell’inclusione e dell’ambiente.

(© AfMC/Ariel Tosoni)

1. Costa D’Avorio

La malattia mentale, terra di nessuno della sanità

«Si può dire che i malati mentali siano l’ad gentes del mondo della salute: quelli che nessuno ha ancora avvicinato, di cui nessuno vuole occuparsi». Padre Matteo Pettinari, missionario italiano che lavora a Dianra, Costa d’Avorio, usa questa immagine per sottolineare come la salute mentale sia ancora un ambito inesplorato e ai margini, così come ad gentes indica appunto la missione che si rivolge a chi ancora non è stato raggiunto dall’annuncio del Vangelo.

Insieme ai confratelli padre Ariel Tosoni, argentino, e padre Raphael Ndirangu, kenyano, padre Matteo ha avviato un dialogo con la sanità pubblica ivoriana, in particolare con il professor Asséman Médard Koua, direttore dell’ospedale psichiatrico di Bouaké – struttura sanitaria che si occupa della salute mentale di tutta la regione settentrionale del paese – e con la sua équipe. «L’ospedale in cui il professor Koua lavora», spiega padre Ariel, «dovrebbe gestire i pazienti psichiatrici di un bacino d’utenza pari a undici milioni di persone».

Numeri in linea con quelli riportati sul sito di Samenta-com@, il progetto di salute mentale comunitaria lanciato dal ministero della Salute e igiene pubblica ivoriano e dalla tedesca Mindful-Change-Foundation.

In Costa d’Avorio, si legge sul sito, a partire dal 2002 la popolazione è stata colpita psicologicamente e socialmente dalle varie crisi, cioè dai disordini e conflitti che hanno scosso il paese nel primo ventennio del XXI secolo. L’offerta e l’accesso alle cure per la salute mentale sono limitati: due ospedali psichiatrici pubblici e circa trenta psichiatri per oltre 26 milioni di abitanti.

Secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, le persone colpite da disturbi mentali e neurologici sono presenti in tutte le regioni del mondo, in tutti i contesti sociali e in ogni fascia d’età, indipendentemente dal livello di reddito dei loro paesi. A livello mondiale, il peso di questi disturbi sul carico complessivo delle malattie è del 14%; nei paesi a basso reddito tre su quattro pazienti affetti da tali disturbi non hanno accesso alle cure di cui hanno bisogno.

(© AfMC/Ariel Tosoni)

«Chi li aiuterà se non voi?»

In Costa d’Avorio esiste un coordinamento chiamato Urss-Ci, acronimo di Unione dei religiosi e delle religiose nella salute e nel sociale in Costa d’Avorio, del quale i missionari della Consolata sono parte. «Il professor Koua ci ha avvicinato in quanto membri Urss-Ci», spiegano ancora i padri Matteo, Ariel e Raphael. «La sanità pubblica fatica a seguire questi malati, ci ha detto il medico: se anche voi religiosi impegnati nell’ambito sanitario restate prigionieri di timori e remore e li rifiutate, allora chi li aiuterà?».

A questo primo dialogo è succeduta poi una sessione di formazione che lo psichiatra ha tenuto al centro sanitario Beato Joseph Allamano (Csja) di Dianra, gestito dai missionari della Consolata, e l’avvio di una collaborazione che ha coinvolto anche il neonato Distretto sanitario di Dianra per mezzo del suo direttore.

Sono già attivi alcuni servizi che permettono di seguire pazienti affetti da epilessia e da malattie psichiatriche: tutte persone che la comunità emargina perché le considera possedute.

«Fin dalla prima visita del professor Koua al centro sanitario», racconta padre Matteo, «abbiamo toccato con mano l’urgenza di fornire servizi in questo ambito. Noi missionari non avevamo fatto preventivamente una grande pubblicità alla cosa. Avevamo giusto segnalato, durante la messa e nelle comunità di base, che sarebbe venuto un medico specializzato in salute mentale e che, se qualcuno conosceva persone con disturbi di questo tipo, poteva farle venire per una consultazione: si sono presentate 72 persone solo il primo giorno».

Oggi il centro di Dianra lavora applicando un protocollo e utilizzando schede fornite da Samenta-com; offre consultazioni ai pazienti per identificarne con precisione, sulla base di una serie di domande contenute nelle schede, il tipo di disturbo e definire poi la terapia.

(© AfMC/Ariel Tosoni)

Formare operatori

ll 2020 sarà dunque l’anno in cui si penserà a come dare maggior forma, struttura ed efficacia a questa collaborazione appena partita e già così significativa. «Certo», riconoscono i missionari di Dianra, «non possiamo fare un centro psichiatrico. Ma se già con la formazione del nostro personale sanitario siamo in grado di accompagnare diverse di queste persone che prima erano lasciate ai margini, perché non pensare a uno spazio piccolo e semplice da costruire – ad esempio un appatam, la versione locale della paillote – che diventi una sorta di centro dove i pazienti possano svolgere attività diurne?».

Lo spazio, per come lo stanno concependo i missionari, potrebbe ospitare corsi di teatro, danza e varie forme di arte-terapia che vanno dalla pittura alla musica e alla scrittura, e diventerebbe un luogo dove, anche grazie all’aiuto di volontari, si ferma la dinamica di emarginazione e ci si sforza, viceversa, di invertirla, riavvicinando di nuovo i pazienti psichiatrici al resto della comunità attraverso l’arte come strumento di socializzazione.

Immagini della costruzione dell’impianto di biogas finanziato dalla Caritas italiana nel 2019 (© AfMC/Denis Mwenda)

2. Kenya, il biogas

Energia pulita per le scuole

La ricerca di fonti energetiche rinnovabili resa urgente negli ultimi anni dalla necessità di limitare le emissioni di anidride carbonica ha portato maggior attenzione sulle cosiddette biomasse, di cui fanno parte i rifiuti biodegradabili derivanti dall’agricoltura e dall’allevamento. Il biogas può essere prodotto a partire da questi rifiuti e utilizzando i cosiddetti digestori.

I digestori, spiega la Fao, sono grandi serbatoi in cui il biogas viene prodotto attraverso la decomposizione di materia organica mediante un processo chiamato digestione anaerobica. Sono chiamati digestori perché il materiale organico viene «mangiato» e digerito dai batteri per produrre biogas@.

Nel 2019, una delle strutture educative gestite dai missionari della Consolata in Kenya, la scuola materna e primaria Familia Takatifu (Santa Famiglia) di Rumuruti, in Kenya, ha utilizzato questo metodo per dotarsi del gas necessario a soddisfare il fabbisogno di energia della cucina che serve gli oltre 700 allievi della scuola.

Il progetto, finanziato da Caritas Italiana nell’ambito del suo programma che sostiene ogni anno centinaia di microprogetti nel mondo, si è concluso lo scorso gennaio e ha visto diverse fasi: lo scavo dello spazio dove collocare il digestore, la costruzione di quest’ultimo in cemento, l’introduzione della biomassa nel digestore, la sua messa in funzione per la produzione di biogas e l’installazione nelle strutture della scuola di un impianto in grado di portare il gas dal punto dove viene prodotto alla cucina.

Immagini della costruzione dell’impianto di biogas finanziato dalla Caritas italiana nel 2019 (© AfMC/Denis Mwenda)

I vantaggi del biogas

«La scuola ora usa il sistema a biogas per la cottura dei cibi, la bollitura dell’acqua e anche, in parte, per l’illuminazione», riporta il responsabile di progetto padre Denis Mwenda Gitari. «Il residuo prodotto, inoltre, si può usare come fertilizzante per l’orto della scuola e», conclude il missionario, «il biogas ci permette ora di risparmiare sui costi necessari a garantire la qualità e la continuità delle attività scolastiche».

Già nel 2013 a Familia ya Ufariji, la casa per i ragazzi di strada che i missionari della Consolata gestiscono nella capitale Nairobi, si era installato un biodigestore che usava scarti e rifiuti della struttura integrati con quelli derivanti dall’allevamento di sei mucche e tre vitelli@. Nel corso del 2020 si tenterà poi di portare il biogas anche nella scuola primaria di Mukululu.

Le tecnologie per la produzione di questo tipo di energia si sviluppano continuamente e cercano di adattarsi alle esigenze e al potere d’acquisto delle comunità rurali dove vengono utilizzate. Il Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo delle Nazioni Unite (Ifad) promuove, nel suo portale dedicato alle soluzioni per lo sviluppo rurale individuate dalle comunità locali@ , un sistema per la produzione di biogas che è più flessibile@ perché utilizza plastica e non cemento per costruire digestori trasportabili, facili da installare e rapidamente produttivi.

Costruzione dell’impianto di biogas per la scuola Familia Takatifu a Rumuruti (© AfMC/Denis Mwenda)

 


3. Boa vista

La migrazione venezuelana

La situazione politica ed economica del Venezuela non ha ancora smesso di spingere migliaia di persone a emigrare. L’Alto Commissariato Onu per i rifugiati parla di 4 milioni e mezzo di migranti e rifugiati Venezuelani nel mondo@.

Alimentação crianças – alimentazione dei bambini (© AfMC/Jaime Patias)

Il reportage di Marco Bello e Paolo Moiola, di cui nel numero scorso di MC è uscita la prima puntata@ – vedi questo MC pag. 10 -, ha raccontato la vita dei migranti venezuelani arrivati nello stato brasiliano di Roraima e, in particolare, delle oltre 630 persone che vivono in uno spazio occupato e autogestito a Boa Vista. Ka Ubanoko, questo il nome dello spazio, ospita 150 famiglie indigene in prevalenza di etnia warao, ma ci sono anche gruppi E’ñepa, Cariña, Pemon e 76 famiglie non indigene.

Un’équipe itinerante di missionari della Consolata assiste questi rifugiati e migranti: da fine luglio 2019, cento bambini e venti adulti hanno cominciato a ricevere ogni martedì e venerdì un pasto preparato sul posto da volontari. I fondi per l’intervento sono venuti da donatori privati che sostengono direttamente l’Istituto missioni Consolata (Imc), da benefattori della città di Boa Vista e da alcune parrocchie del Sud del Brasile più sensibili alla situazione dei migranti e dei rifugiati.

Dallo scorso dicembre, grazie al sostegno di un donatore statunitense, è stato possibile intensificare e stabilizzare il programma di lotta alla malnutrizione, estendendolo a 12 mesi (cioè per tutto il 2020) e aumentando fino a 150 i bambini e a trenta gli adulti assistiti.

(© AfMC/Jaime Patias)

Bambini sradicati

«Una delle conseguenze più preoccupanti di questa situazione», riportava lo scorso autunno il consigliere generale Imc, padre Jaime Patias, al rientro dalla sua visita a Ka Ubanoko, «è che questi bambini, completamente sradicati, non riceveranno per mesi, forse per anni, alcuna forma di istruzione». Uno dei rischi connessi alla crisi venezuelana, in altre parole, è quello di far crescere una generazione di giovani privi di formazione e di competenze, limitando molto le loro possibilità di contribuire in modo attivo alla ricostruzione del loro paese.

Alimentação crianças – alimentazione dei bambini – volontari al lavoro per preparare il cibo (© AfMC/Jaime Patias)

Per questo, prima del pasto, i bambini seguiti dall’équipe missionaria ricevono almeno una formazione civico-sociale. Nel corso del 2020 si valuterà la fattibilità di un intervento il cui obiettivo sia quello di fornire a questi bambini una formazione più continua e strutturata.

Chiara Giovetti




Venezuela-Brasile. Ka Ubanoko, la nostra casa

Testo e foto di Paolo Moiola e Marco Bello |


Reportage dal centro autogestito dei migranti venezuelani

Nella capitale dello stato di Roraima (Brasile), alcune centinaia di migranti venezuelani di etnia warao, rifiutati dalle agenzie Onu, si sono organizzati dal basso e hanno creato un’esperienza unica di convivenza e resilienza. A fianco dei  migranti non indigeni e superando varie difficoltà.

Boa Vista. Estrema periferia della città. Superata una scuola militare, arriviamo davanti a uno spazio chiuso da reti e muri. Varcato un cancello semi divelto, abbiamo subito l’impressione di entrare in un piccolo mondo a parte.

Alla nostra destra si erge un ex palazzetto sportivo costituito da due gradinate che circondano lo spazio di gioco in cemento, il tutto coperto da una tettoia di lamiera. Notiamo subito che, sui gradini, sono accumulate, borse, valigie, asciugamani e indumenti vari, utensili, suppellettili e oggetti casalinghi di ogni tipo. Tutto è posizionato con grande ordine. A terra, a fianco delle gradinate, ci sono dei materassi e anche un vecchio letto. Alcune amache sono appese alle colonne della struttura. Sul terreno da gioco è stata sistemata qualche tenda da campeggio. Il tutto ricorda un grande accampamento. Ai lati della struttura sono stesi dei teloni con l’inconfondibile scritta e logo dell’Unhcr-Acnur, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati.

Proseguiamo quasi in punta di piedi, cercando di non invadere gli spazi con le nostre videocamere e fotocamere, come troppo spesso fanno i giornalisti. Però non possiamo diventare invisibili. Qua e là tanti bambini si rincorrono e giocano. Parecchi di loro si fermano a guardarci incuriositi. Mentre nei pressi di alcuni alberi ci sono dei focolari accesi con pignatte annerite appoggiate sopra.

Di fronte a noi e ai lati varie casette, meglio dire baracche, realizzate con materiali di recupero, cartoni, assi di legno, lamiere, danno al luogo un’aria di villaggio. Ci sono cartelli scritti a mano: «Si riparano biciclette», «Lavaggio». C’è pure un negozietto che vende piccole cose di utilità quotidiana, proprio come si fosse in un quartiere.

Siamo a Ka Ubanoko, che – ci viene spiegato – nella lingua dei Warao significa «dormitorio comune». Si tratta di un centro sportivo mai terminato e poi abbandonato, del quale sono rimaste in piedi diverse costruzioni tra cui un palazzetto, una piscina e altre strutture.

Ci accompagna padre Oscar Liofo, missionario della Consolata congolese, che da alcuni mesi segue la gente di Ka Ubanoko. In questo spazio occupato e autogestito (come capiremo in seguito) vivono oggi in 639, tutti migranti venezuelani, di cui 150 famiglie indigene, quasi tutte warao, ma anche altre etnie (E’ñepa, Cariña, Pemon), e 76 famiglie non indigene.

Padre Oscar ci guida dentro Ka Ubanoko, verso una zona di tende piantate sotto una tettoia di cemento. Anche qui ogni angolo è diventato un focolare domestico nel quale vive una famiglia, fianco a fianco con la famiglia vicina. Il missionario conosce tutti, saluta, fa battute in portoghese e gli viene risposto in spagnolo.

Fiorella, medico e leader

Padre Oscar ci conduce da Fiorella Ramos, medico internista, indigena warao, «coordinatrice» di Ka Ubanoko. Parla spigliata Fiorella, ha 37 anni e due figli. In Venezuela era direttrice di un ospedale, e in contemporanea faceva visite private. «Con quello che guadagnavo riuscivo appena a comprare da mangiare, intanto correvo da un lavoro all’altro, senza poter stare con la mia famiglia e non restava nulla per aiutare i miei genitori. Nel 2018 ho deciso di partire, ma ci ho messo un anno a prepararmi psicologicamente e a mettere da parte i soldi». È stata una scelta difficile, confessa Fiorella, lasciare i parenti, parte della famiglia, un buon lavoro, il proprio paese. La sua è però una storia condivisa con molti connazionali.

L’8 gennaio 2019 Fiorella parte con la sorella e Fernando, il figlio più piccolo. Il viaggio dal Venezuela al Brasile non è pericoloso né troppo caro, anche se è molto stancante e, se non hai i documenti in regola, devi seguire strade alternative per passare la frontiera.

Fiorella e il suo gruppo arrivano a Boa Vista, capitale dello stato brasiliano più settentrionale, Roraima, la sera del giorno dopo. «Mio fratello – racconta – stava vivendo nell’abrigo (rifugio letteralmente, campo profughi in questo caso, ndr) chiamato Pintolandia, per cui speravamo di poterci sistemare lì, ma ci dissero che non potevamo entrare senza permesso. Ci accampammo non lontani per la strada, dove c’era già una famiglia indigena. Abbiamo vissuto 19 giorni riparandoci sotto le tettoie di una struttura locale. In quel periodo abbiamo chiesto almeno tre volte di entrare a Pintolandia, ma non ci lasciarono, dicendo che era pieno». Altre famiglie si uniscono e il gruppo in strada arriva a contare 38 persone. «Usavamo i bagni di una stazione di benzina non lontana, l’acqua la prendevamo da un rubinetto a cui si poteva accedere. Di giorno dovevamo stare in un parco lì vicino seminascosti, mentre di notte dormivamo sotto delle tettoie. Mio fratello riusciva a portarci del cibo cotto da dentro l’abrigo».

Del gruppo fa parte anche Anibal Pérez, un Warao della comunità di Mariusa. Tra lui, Fiorella e sua sorella nasce un’intesa e i tre, pensando al futuro, iniziano a scrivere un progetto di «Sviluppo integrale», come lo definisce il medico. È l’embrione di Ka Ubanoko. «Nel progetto si pensava a un’organizzazione, si parlava di salute, educazione, economia e infrastrutture. È in quel periodo che conoscemmo padre Jaime Patias e Luis Ventura, entrambi della Consolata, che iniziarono ad appoggiarci con alimenti e materiale per l’igiene personale. Anche quelli dell’Acnur venivano, ma dicevano che non potevano accoglierci nel centro». Intanto continua ad arrivare gente dal Venezuela, e anche indigeni espulsi da Pintolandia: «Eravamo ormai 150 famiglie».

Miracolo a Boa Vista

Poi accade una specie di miracolo. «Un brasiliano informò il cacique Wilson, uno di noi, che non lontano da dove eravamo accampati c’era un grande spazio abbandonato, un club sportivo in rovina, dove avrebbero potuto sistemarsi molte persone».

Un’avanguardia va a visitare il posto. All’epoca è invaso da arbusti ed erba alta. Vi sono nascoste tre famiglie venezuelane non indigene. Il centro è anche luogo di passaggio di malviventi e vi accadono cose strane. Ma la decisione è ormai presa: Fiorella e Anibal guidano il gruppo a prendere possesso di quel luogo. È il 3 marzo 2019, e per Fiorella e i suoi sono ormai due mesi di vita trascorsi all’addiaccio. Appena arrivati, i migranti iniziano a ripulire l’intera area e a dividersi gli spazi.

Fiorella e Anibal portano in questo luogo il modello che avevano pensato nel progetto di sviluppo e che avevano iniziato ad applicare dove erano accampati. «Già sulla strada avevamo sperimentato questa organizzazione. Anche perché erano iniziate ad arrivare donazioni da alcuni enti, ed è stato necessario formare gruppi per evitare conflitti e soprusi».

L’organizzazione si basa su un coordinamento centrale con una coordinatrice eletta, Fiorella, e una vice coordinatrice, Alida Gomez, anch’essa Warao. Le famiglie sono divise in gruppi, normalmente secondo la comunità di origine, che fanno capo a dei responsabili anch’essi eletti, detti cacique («capo», nel mondo indigeno). I cacique sono cinque, di cui quattro warao e una criolla (come vengono chiamati i non indigeni). C’è poi un’organizzazione per settore, tramite comitati, su tutto quello che è fondamentale per la comunità: educazione, pulizia, salute, alimentazione, sicurezza, sport, protezione del bambino e della donna, infrastrutture.

Eppure, la convivenza tra i vari gruppi non è così facile come sembra. Tra gli abitanti di Ka Ubanoko talvolta scoppiano dei conflitti. «Da quando siamo qui, ci sono stati cinque scontri fisici. Quando avvengono, si cerca di regolarli tramite i cacique dei gruppi di appartenenza dei soggetti coinvolti – ci spiega Fiorella -. Alcuni capiscono, altri no. In questo caso siamo costretti ad espellerli». A volte poi ci sono incomprensioni tra indigeni e non indigeni, soprattutto a causa dell’inevitabile distanza culturale.

Fiorella ci mostra dove abita. È un’abitazione improvvisata fatta di materiali di recupero, eretta nella zona perimetrale del centro sportivo, normalmente abitata dai non indigeni. Ci vive insieme a parte della sua famiglia.

 

Sopravvivere

Torniamo verso il palazzetto vicino all’ingresso. Qui, sulle gradinate, hanno il loro «angolo» Alida Gomez e suo marito.

Alida viene da Tucupita (capoluogo del Delta Amacuro), è una signora di una certa età, con tre figli grandi rimasti in Venezuela. A casa faceva l’insegnante, ma poi ha deciso di partire: «Il Venezuela sta vivendo una situazione molto difficile in tutti gli ambiti: economia, educazione, salute. Ho preso la decisione personale di venire in Brasile per aiutare la mia famiglia – ci confida -. Speravo di poter trovare un lavoro rapidamente, ma la realtà è ben diversa. Essere indigena, avere la nostra cultura, significa essere respinti in tutti gli ambiti qui. Non abbiamo l’appoggio di nessuno, siamo soli». Oggi Alida aiuta la comunità facendo la vice coordinatrice di Ka Ubanoko, ma la vita a Boa Vista è molto dura. «Usciamo prima dell’alba e andiamo in giro a cercare rifiuti che si possono vendere, come le lattine di alluminio. Prendiamo anche i vestiti in buone condizioni. Mettiamo insieme più giorni di raccolta e vendiamo il metallo. In questo modo guadagniamo qualche decina di reais (la moneta brasiliana, ndr) che ci serve per comprare cibo. I vestiti recuperati li laviamo con il cloro. Se ci servono li usiamo, altrimenti li regaliamo ad altre famiglie». In effetti, in tutto Ka Ubanoko, in mezzo agli effetti personali portati dal Venezuela, si notano molti oggetti di recupero, trovati nei cassonetti della città brasiliana.

Alida continua a descriverci la vita quotidiana nel campo: «I bagni sono senza alcuna privacy. Sono senza porte, e pure insieme alle docce. L’acqua che beviamo è del filtro (ci sono due filtri con tre rubinetti ciascuno, installati da Acnur, per oltre 600 persone, ndr). Per cucinare e lavare usiamo l’acqua dell’acquedotto. Cuciniamo su fuochi con legna che recuperiamo in giro. Occorre fare sempre attenzione, perché qui ci sono molte mosche che portano malattie. Con la farina di grano facciamo arepas (delle specie di piadine, ndr). Mangiamo anche riso e salsiccia (wurstel di pessima fattura, ndr). Se abbiamo qualche soldo in più, compriamo del pollo o altra carne. Chi ha amici o parenti a Pintolandia, riceve talvolta del cibo avanzato da loro».

Anche la lingua può essere un problema. I venezuelani, indigeni e non, parlano lo spagnolo (qui detto castellano, ndr), mentre in Brasile devono imparare il portoghese. Alida, che è qui da quasi un anno, ammette di capirlo ma di non parlarlo.

Gli «amici» di Ka Ubanoko

Ka Ubanoko è quindi una grande realtà di migranti autogestita e autorganizzata. Nessuna delle agenzie delle Nazioni unite o delle grandi Ong, tantomeno il governo federale o dello stato di Roraima, o la municipalità di Boa Vista, la controllano e la gestiscono. Diversi enti intervengono con appoggi puntuali e specifici. Fiorella è molto brava a tenere le relazioni e si era già fatta conoscere dalle istituzioni quando il gruppo era accampato sui bordi della strada.

«Ci ha aiutato qualche istituzione civile e religiosa – ricorda lei -. Come la pastorale migranti della diocesi, le suore scalabriniane, i missionari della Consolata, la Caritas. E Ong come Medici senza frontiere e Adra».

Poco appoggio è invece arrivato da Acnur (i due purificatori già citati) e Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni). L’esercito brasiliano (che a Roraima controlla gli abrigos ufficiali come Pintolandia) è intervenuto ripristinando l’energia elettrica che il comune aveva tolto e mettendo in sicurezza la piscina (vuota) del centro sportivo.

«Cerchiamo di coinvolgere alcuni enti tramite progetti. I missionari della Consolata, ad esempio, sono attivi su un progetto di alimentazione, sia generale sia per i bambini. Con Fé e alegria (dei Gesuiti, ndr), abbiamo lavorato a un progetto di educazione, differenziato plurilingue, perché qui siamo di diverse etnie e lingue nazionali». Ci sono stati problemi perché Ka Ubanoko non è un posto ufficiale, anzi, è un’occupazione illegale, per cui molte attività non si possono realizzare sul posto, ma occorre appoggiarsi ad altri enti e luoghi. Come il progetto della Consolata che si svolge in un oratorio dei frati Cappuccini, poco distante.

«Con la Caritas abbiamo preparato un progetto di tipo economico: un appoggio per produrre artigianato e per l’agricoltura». Il progetto fornisce la materia prima e alcune donne confezionano prodotti artigianali che poi vendono. Mentre nel secondo caso dovrebbe fornire gli attrezzi per coltivare e le sementi, ma non è ancora partito.

Spiritualità migrante

Superato un campo in terra battuta usato per giocare a calcio o pallavolo, ci spostiamo verso la zona centrale di Ka Ubanoko, dove tante piccole tende a iglù sono appoggiate su un pavimento e riparate da un soffitto in cemento che pare precario. Innumerevoli fili corrono da tutte le parti con panni e vestiti colorati appesi ad asciugare.

Qui incontriamo Leany Torres Moraleda, che coordina il comitato culturale e spirituale di Ka Ubanoko. Leany è una giovane mamma, 29 anni con una figlia di 8, originaria della comunità di Nabasanuka (nel delta del rio Orinoco, ndr), dove la sua famiglia è sempre stata impegnata al servizio dell’identità indigena. Suo papà e suo zio hanno ricoperto anche cariche politiche. È laureata in turismo e ha passato parte della sua vita in città, a Tucupita, dove insegnava nella scuola primaria. Allo stesso tempo era molto impegnata nella pastorale indigena della chiesa cattolica e con un gruppo culturale chiamato Eco Warao.

«Con mia figlia e mia nipote siamo partite a maggio e sapevamo già dell’esistenza di Ka Ubanoko. Arrivate a Boa Vista dopo un viaggio rocambolesco con un gruppo di altri indigeni, passammo la notte alla rodoviaria (la stazione degli autobus, dove c’è un centro di transito per migranti gestito dall’esercito, ndr), senza dormire. Quando riuscimmo ad arrivare a Ka Ubanoko, ad alcuni di noi parve molto brutto. La mia impressione invece fu positiva».

I primi tempi non sono stati facili. «La mia famiglia è conosciuta, così c’era qualcuno che non voleva vederci a Ka Ubanoko e ci diceva di andare a Pintolandia», racconta Leany. «Poi il cacique Camilo ci ha prese nel suo gruppo, e, vista la sua autorità, le acque si sono calmate».

Leany è sempre stata molto attiva nella promozione dei diritti e della cultura warao. Per questo si preoccupa subito della possibile perdita di identità, soprattutto dei bambini migranti. «In Ka Ubanoko stiamo lavorando con l’infanzia missionaria. E all’inizio abbiamo avuto delle incomprensioni con i criollos perché loro sostenevano che noi facciamo un’attività che li esclude. Abbiamo spiegato che la nostra visione è differente. Ovvero non è solo insegnare a pregare, insegnare la parola di Dio, ma stimolare i bimbi affinché conoscano la cultura warao, formino un sentimento di appartenenza, costruiscano un’identità».

Leany ci tiene a spiegare bene la propria filosofia: «In qualsiasi luogo noi siamo, non smetteremo mai di essere Warao: è nel nostro sangue. Anche se andremo in un altro stato del Brasile, fisicamente saremo uguali. Ci adatteremo alla società di questo paese, impareremo la lingua e avremo un lavoro. Ma saremo sempre indigeni. Qui a Ka Ubanoko stiamo facendo un buon lavoro, e ci siamo resi conto che i bimbi non indigeni, dopo aver ascoltato le canzoni e visto i balli warao, iniziano a cantare pure loro. Questo è molto importante. Bimbi warao che non parlavano la lingua madre, adesso iniziano a farlo. Il nostro impegno va molto più in là. Quello che ci unisce è che siamo venezuelani e siamo indigeni. Tuttavia, se non prendiamo in mano la situazione, la nostra gente smetterà di sentirsi indigena».

Ka Ubanoko è un’esperienza importante, anche se è difficile prevedere quanto durerà. Permette ai migranti di non cadere nell’assistenzialismo del campo profughi, di prendere in mano la propria vita e – allo stesso tempo – sentirsi parte di un qualcosa di organizzato, che protegge e permette di essere protagonisti. Per il bene comune.

Marco Bello e Paolo Moiola
(1.a puntata – continua)


Yakera!

La parola – «Yakera» – ci è subito piaciuta. Facile da pronunciare. Facile da ricordare. E, soprattutto, portatrice di un significato positivo. Gli indigeni warao la utilizzano in molte circostanze: per dire «va bene», ma anche per salutare.

I Warao sono l’etnia del delta dell’Orinoco, in Venezuela, che sta lasciando le proprie comunità per rifugiarsi in Brasile. Abbiamo percorso un pezzo del loro viaggio di migrazione (Boa Vista, Pacaraima, Santa Elena de Uairén, Manaus) e visitato i centri che li ospitano per cercare di capire dalla loro viva voce il perché di una scelta difficile, spesso drammatica. In questa indagine ci hanno aiutato i missionari della Consolata che da tempo lavorano con i Warao, sia in Venezuela che in Brasile.

M.B. – P.M.


Breve descrizione del popolo Warao

Un futuro senza canoe?

La gente delle canoe è nativa del delta dell’Orinoco. Oggi sono almeno 50mila, rappresentando la seconda etnia indigena del Venezuela.

I Warao costituiscono una delle principali etnie indigene del Venezuela. Per numero infatti sono il secondo gruppo più numeroso dopo i Wayú (Guajiro). Secondo il censimento del 2011, i Warao sarebbero 48.771, una cifra probabilmente sottostimata. Il loro nome è un’autodenominazione che significa gente (arao) di canoa o, secondo altri studiosi, gente delle terre basse. Gli indigeni chiamano i non Warao hotarao, gente delle terre alte. Sia in un caso che nell’altro il significato di Warao rimanda ai luoghi da essi abitati. Che sono i canali (caños) del delta dell’Orinoco nello stato Delta Amacuro e, dopo varie migrazioni, anche le aree adiacenti della Guayana Esequiba (un territorio conteso tra Guayana e Venezuela), nonché gli stati venezuelani di Bolivar, Monagas e Sucre.

Conoscere l’ambiente naturale in cui vivono i Warao è indispensabile per capire questo popolo. Anche se esso è cambiato e sta cambiando a causa dei mutamenti climatici e dei disastri prodotti dall’uomo e anche se una parte consistente dei Warao si è urbanizzata (soprattutto a Tucupita, capoluogo del Delta Amacuro) o è emigrata – non si sa se in maniera stabile o temporanea – in Brasile.

Come si diceva, la gran parte delle comunità tradizionali dei Warao è posta lungo i canali dell’Orinoco. Questo fiume, che nasce nella cordigliera di Parima (massiccio della Guayana), ha una lunghezza di 2.140 chilometri e una portata d’acqua imponente, seconda soltanto a quella del Rio delle Amazzoni. Prima di gettarsi nell’Oceano Atlantico, l’Orinoco forma un delta che raggiunge un’apertura di circa 400 chilometri. La vastità della regione deltica (circa 22.500 km2, poco meno della Toscana) determina diversità tra le comunità warao a causa dei maggiori o minori contatti con il mondo non indigeno (criollo) e delle diverse condizioni di ciascun microambiente. La vita è scandita dall’acqua. La stagione secca va da gennaio ad aprile, con molti canali che diventano salmastri. La successiva stagione delle piogge dura fino a settembre con una piena (detta creciente) che sommerge coste e isole del delta. Le case dei Warao – chiamate janoko, che significa il luogo della ja, l’amaca – sorgono lungo i canali, ma sono costruite su palafitte proprio per essere pronte a resistere alle maree. Per sopravvivere nel delta è necessaria una conoscenza precisa dell’ambiente naturale, che comunque oggi risulta meno gestibile e prevedibile di un tempo a causa dei mutamenti prodotti da fattori antropici (inquinamento delle acque fluviali e deforestazione, su tutto). Le attività tradizionali dei Warao sono la pesca (in particolare del morocoto o pirapitinga e dei granchi), la caccia e la raccolta di frutti silvestri. Ad esse si sono in seguito aggiunte alcune coltivazioni agricole, in primis quella del riso e poi la Colocasia Esculenta della quale vengono mangiati sia i tuberi (bolliti oppure grigliati) che le foglie (come verdure cotte). La pianta autoctona per eccellenza è la palma di moriche (conosciuta come palma di buriti in Brasile), una vera ricchezza della natura. Tutti i suoi componenti (foglie, frutti, semi, corteccia) sono infatti utilizzabili per fare prodotti di artigianato o come alimento. Dall’amido del moriche si ricava una farina (aru) che è alla base della dieta dei Warao.

Come sempre accade per i popoli indigeni, la cosmovisione e la vita religiosa dei Warao sono difficili da comprendere per i non indigeni. Quello che si può affermare è che tradizione orale e mondo magico-religioso sono strettamente legati all’ambiente naturale in cui essi vivono. La presenza e l’attività dei missionari sono cambiati nel corso del tempo, soprattutto in ambito cattolico. Dalla filosofia coloniale del «civilizzare l’indio selvaggio» si è passati a interventi nel campo dell’istruzione e della salute, rispettando i valori indigeni.

Negli ultimi anni, la situazione per le comunità warao si è complicata a causa della presenza di varie bande criminali che agiscono impunite lungo l’Orinoco trafficando con la droga, la tratta delle donne e il contrabbando di benzina.

Al momento, il futuro dei Warao non pare promettente. Molte comunità lungo l’Orinoco sono state abbandonate o si sono spopolate. Molti indigeni si sono urbanizzati, ma senza una vera integrazione con i criollos. Altri sono emigrati, ma si trovano a vivere in una condizione di isolamento e pura sopravvivenza. Una parte consistente dei Warao, popolo delle canoe, sembra dunque aver perso per sempre la ragione prima del proprio nome.

M.B. – P.M.

 


La voce del governo venezuelano

«I Warao si spostano perché nomadi»

A Boa Vista, non c’è semaforo o incrocio dove non ci sia un venezuelano. E gli indigeni warao si notano anche di più. Nella capitale di Roraima, abbiamo incontrato il console del Venezuela, per chiedergli i motivi di tanti migranti del suo paese e di tanti Warao per le strade delle città brasiliane.

Boa Vista. L’indirizzo è Av. Benjamin Constant 968, nel centro della città, capitale dello stato di Roraima. È una modesta casa su un solo piano, resa facilmente riconoscibile dal suo vivace color arancione e naturalmente dalla grande bandiera venezuelana che sventola sul pennone posto nel giardinetto antistante l’entrata.

A sorvegliare la sede consolare c’è una sola persona, una poliziotta brasiliana, seduta tranquillamente davanti a un tavolino a lato della porta d’ingresso. All’interno ci sono due impiegate e alcune persone in attesa. Sulla vetrata che separa le addette dal pubblico è appeso un foglio che informa del piano Vuelta a la patria: requisiti, documenti, condizioni. È un programma istituito dal governo di Caracas per tentare di far tornare a casa i migranti.

Il console si chiama Faustino Torella Ambrosini. Ci accoglie con cordialità ricordandoci subito le origini italiane: i suoi genitori arrivarono in Venezuela dalla provincia di Avellino. Prima di diventare diplomatico insegnava storia all’Università Centrale del Venezuela, il principale ateneo pubblico del paese. È console generale del Venezuela a Boa Vista dal dicembre 2018, dopo un’esperienza analoga di cinque anni a Manaus. Boa Vista non è una metropoli come quest’ultima ma è importante perché dista soltanto 215 chilometri da Pacaraima, porta d’ingresso in Brasile per molti venezuelani (indigeni inclusi) che infatti si vedono ad ogni incrocio, nei rifugi ufficiali (abrigos) e in quelli improvvisati.

Nello studio dove ci accomodiamo, accanto alla bandiera, il ritratto del presidente Maduro sta in mezzo a quelli, più piccoli, dell’eroe nazionale Simón Bolívar e di Hugo Chávez. Siamo qui per chiedere al console della migrazione dei Warao, ma non possiamo non iniziare dalla situazione generale del paese. Com’è?, domandiamo. «Difficile», risponde senza pensarci su un attimo. E aggiunge: «È la situazione che vivono i paesi e i popoli che soffrono a causa di un embargo illegale imposto da uno stato che si considera al di sopra di tutti gli altri. Il Venezuela è un paese la cui economia si fonda sul petrolio e con la valuta che ottiene dalla sua vendita compra alimenti e medicinali, come anche materie prime e prodotti industriali di uso comune. Non avendo libero accesso al mercato estero e ai nostri conti bancari in dollari, per il cittadino venezuelano la quotidianità si è fatta molto complicata».

Anche per la popolazione dei Warao. Il console parla di un numero di indigeni attorno alle 69mila persone, mentre l’ultimo censimento – risalente al 2011 – ne contava circa 49mila. Rispetto alla gravità del problema della loro migrazione, il nostro interlocutore minimizza. «Sono – ci spiega – una popolazione nomade e in quanto tale si muovono. Dal Delta Amacuro si sono distribuiti negli stati Monagas, Sucre, Bolivar, ma anche in Caracas, Valencia… Voglio dire che non è da oggi che stanno venendo in Brasile. Sono sempre venuti qui. In questo momento, semplicemente ne arrivano di più e si fermano più a lungo».

Chiediamo al console se i Warao abbiano lasciato i loro fiumi anche sulla spinta di fattori ambientali e invasioni di gruppi non indigeni. «Il mondo è cambiato ed è cambiato anche per i Warao. Le condizioni ambientali nel delta dell’Orinoco non sono certamente le stesse di un tempo, ma rimangono sostenibili. È possibile continuare a pescare e a seminare, soprattutto palme e frutta tropicale».

Facciamo notare al console come molte comunità warao lungo l’Orinoco e i suoi canali (i cosiddetti caños) si siano svuotate. «Abbiamo una popolazione che è indigena e vive nel proprio habitat e una popolazione indigena che è trapiantata in città. Lo dico perché molte persone che s’incontrano qui in Brasile sono indigeni urbanizzati. E poi vi chiedo: perché tra tutte le etnie indigene del Venezuela in Brasile arrivano soltanto i Warao? Perché – lo voglio ribadire – loro già venivano qui. Quasi tutti gli altri gruppi indigeni sono sedentari, nonostante l’embargo economico (che è la vera motivazione della migrazione dei venezuelani) valga per tutti».

Nomadi ma anche urbanizzati: sembrerebbe un ossimoro, o almeno una contraddizione in termini. Faustino Torella Ambrosini ribadisce i due concetti aggiungendo: «L’indigeno warao che è andato in città difficilmente torna indietro. Ha tutto il diritto di agire così: queste persone appartengono ai popoli tradizionali, ma sono anche venezuelani. E poi, in questo loro cambiamento, c’è un ministero che li aiuta».

Il console si riferisce al Ministerio del Poder Popular para los Pueblos Indígenas, attualmente guidato da Aloha Núñez, indigena Wayú (Guaijra). Cosa fa questo ministero?, gli chiediamo. «È stato creato per aiutare i popoli indigeni a integrarsi. A incorporarsi nella società venezuelana. Sempre con rispetto per la loro volontà». Incorporarsi come?, insistiamo. «Ad esempio, con la Gran mision vivienda para indigenas. Noi li aiutiamo a costruire le loro case utilizzando materiali e disegni tipicamente indigeni. Come per le palafitte». Il console ricorda anche l’esistenza di un’università, la Universidad indígena de Venezuela, istituita appositamente per gli indigeni negli stati Bolivar e Amazonas.

Chiediamo anche dell’operazione Vuelta a la patria pubblicizzata dal volantino affisso all’entrata. «È un progetto – spiega il diplomatico – del nostro governo per i venezuelani che non hanno avuto fortuna nei paesi – Ecuador, Perù, Panama, Colombia, Argentina e Brasile – dove sono emigrati e che vogliono tornare a casa. L’esecutivo favorisce il rimpatrio di queste persone. Hanno partecipato anche gli stessi Warao per una cifra importante: non meno di mille».

Mille indigeni che sono rientrati, tornando da dove erano partiti. Non possiamo verificare la veridicità di questo numero, a prima impressione piuttosto elevato. Il console Faustino Torella Ambrosini è un rappresentante ufficiale del governo di Caracas e, in quanto tale, non può che difenderne l’operato. A suo merito, va detto però che non è rimasto chiuso nella propria sede consolare, ma ha visitato di persona gli abrigos di Boa Vista (compreso quello spontaneo di Ka Ubanoko) e di Pacaraima,  dove sono concentrati molti Warao. E gli indigeni ci hanno confermato sia la visita del console che la sua disponibilità.

Marco Bello – Paolo Moiola


Questo servizio rientra nell’ambito del progetto «The Warao Odissey» eseguito da Missioni Consolata Onlus e prodotto con il contributo finanziario dell’Unione europea e della Regione
Piemonte attraverso il bando «Frame Voice Report!» del Consorzio Ong Piemontesi.





Dal Sinodo per l’Amazzonia una nuova sfida per la missione

«Non indurite il vostro cuore»

testo della Fesmi, Federazione stampa missionaria italiana |


«Vi vedo un po’ inquieti, forse non capite di che cosa ha bisogno l’Amazzonia… Noi abbiamo una nostra visione, questo ci avvicina a Dio, la natura ci avvicina a poter contemplare di più il volto di Dio, a contemplare l’armonia con tutti gli esseri viventi. Mi sembra che non vi tornino i conti, vi vedo preoccupati, dubbiosi di fronte a questa realtà che noi cerchiamo. Non indurite il vostro cuore».

Tra le tante parole ascoltate in queste settimane intorno all’Amazzonia è l’appello pronunciato da Delio Siticonatzi Camaiteri – indio cattolico peruviano, membro del popolo Ashaninca, una delle 390 etnie indigene della grande foresta che il Papa ha voluto a Roma nel cuore della Chiesa universale – il riassunto più efficace che come riviste missionarie ci portiamo a casa da questo Sinodo: «Non indurite il vostro cuore».

Conferenza stampa del 7/10/2019 (foto Guilherme Cavalli_Cimi)

Fin dal suo cammino di preparazione, il Sinodo ha proposto uno sguardo unitario su una regione del mondo parcellizzata dagli interessi di un’economia assetata di materie prime e ridotta a riserva da sfruttare, senza rispetto per niente e per nessuno.

Questo Sinodo ha avuto il coraggio di mettersi in ascolto di popoli e culture che il mondo globalizzato vorrebbe ridurre a semplici reperti da museo. Persone e comunità che invece hanno un messaggio forte da portare alla società e alla Chiesa del XXI secolo e desiderano, allo stesso tempo, ascoltare la parola di Gesù.

Questo Sinodo chiede alla Chiesa di essere autenticamente missionaria, e a noi riviste missionarie (associate nella Fesmi, Federazione stampa missionaria italiana) lascia in eredità alcuni compiti.

1) Continueremo a parlare dell’Amazzonia. Abbiamo visto in queste settimane quanto anche in certe frange del mondo cattolico i pregiudizi sui suoi popoli siano radicati. Quanta ignoranza, quanta superficialità, quanto disprezzo per coloro che vivono una cultura diversa dalla nostra. ; quanti occhi chiusi sui tanti cristiani che anche in Amazzonia sono perseguitati e muoiono nell’indifferenza di un mondo che non accetta mai di porsi domande sull’unico vero idolo del nostro tempo: il proprio carrello da riempire al supermercato. Per questo moltiplicheremo i nostri racconti. Aiuteremo a scoprire che uno sviluppo amico della biodiversità fisica e culturale dell’Amazzonia è possibile ed è già realtà là dove non regna solo la legge del profitto massimo e immediato. Andremo avanti a ripetere il messaggio che Papa Francesco ha messo al cuore dell’enciclica Laudato Sì: tutto è connesso.

2) Racconteremo il cammino della Chiesa dal volto amazzonico, di comunità che alla luce del Vangelo vogliono rileggere la propria storia, la propria cultura, i propri miti. È quanto la prima evangelizzazione realizzò in Europa, dando vita a sintesi e devozioni straordinarie; perché dovrebbe creare scandalo se a compiere questa stessa inculturazione della fede oggi sono i cristiani di altri continenti?

3) Riveleremo i volti delle comunità cristiane dell’Amazzonia, con ministeri che hanno qualcosa di importante da suggerire alle nostre comunità; i volti delle donne, che in tanti luoghi sono già punto di riferimento e leader di comunità, e i volti dei martiri/testimoni che stanno pagando con la vita per un mondo nuovo.

Ma proveremo anche a far capire a chi si scandalizza che no, in Amazzonia nessun cristiano guarda alla statuetta della Pachamama come a un idolo da adorare. In quelle viscere ritrova un’immagine della misericordia di Dio che troppi cristiani in Occidente oggi fanno fatica a contemplare.

«Non indurite il vostro cuore». Alla fine, il punto è proprio questo. Perché la dove il cuore è duro non c’è posto per la missione.

In Amazzonia come nelle nostre città.

Fesmi

Foto di gruppo del 17/10/2019 – Vatican Media

Firma del Patto delle Catacombe (foto Guilherme Cavalli-Cimi)




Con Puat Subyz nella Raposa Serra do Sol

testo e foto di Dan Romeowww.iviaggididan.it


Incontro fratel Francesco Bruno, detto Cico, classe 1946 di Pinerolo (Torino), a Boa Vista, in Roraima, Brasile. Arrivato là nel ‘76, è un uomo d’altri tempi, con un umorismo contagioso e una manualità in grado di passare dalla riparazione di un carburatore alla realizzazione di chilometri di acquedotti. Lo definisco un eroe, capace di amore, dedizione, passione, tenacia e coraggio. Trascorro con lui pochi giorni alla scoperta delle missioni tra i popoli indigeni e dei progetti realizzati.

A bordo del suo camioncino Chevrolet raggiungiamo le missioni di Maturuca e Camarà. Le lunghe ore trascorse insieme mi aiutano a comprendere, attraverso i suoi racconti, le questioni che lo preoccupano maggiormente e che affliggono i territori indigeni minacciati da fazendeiros e garimpeiros (allevatori di bestiame e cercatori d’oro).

Questi ultimi stanno sfruttato da tempo le terre ancestrali occupandole abusivamente e attentando con ogni mezzo alla stessa esistenza delle popolazioni indigene della Raposa Serra do Sol: Macuxi, Wapichana, Taurepang, Ingarikó e Patamona.

Per i popoli indigeni la terra è tutto, è la vita stessa. Soddisfa tutti i loro bisogni materiali e spirituali. Fornisce cibo e riparo ed è il fondamento della loro identità e del loro senso di appartenenza.

Le invasioni e la situazione dei territori indigeni

L’invasione dei territori indigeni si protrae da oltre 500 anni ed è stata da sempre attuata attraverso la violenza sulle popolazioni, la distruzione degli ecosistemi, il furto delle conoscenze e la schiavitù fisica e spirituale. Una guerra che sembra non avere fine.

Il decennio che volge al termine rivela quanto il colonialismo rimanga vivo e operativo. Un’offensiva orchestrata da potenti interessi finanziari, corporazioni neo-estrattive e megaprogetti di sviluppo, continua a minacciare vite, culture e territori.

L’avanzare dei governi di destra e autoritari in Brasile rafforza la strategia di colonizzazione che va contro i diritti delle popolazioni indigene della Raposa Serra do Sol, attraverso meccanismi istituzionali che favoriscono quelli che alcuni definiscono etnocidio ed ecocidio.

Nonostante le violenze subite, le popolazioni indigene resistono e vogliono essere soggetti del proprio destino. La causa indigena appartiene a tutti, indigeni e non. I processi come la perdita di biodiversità e il cambiamento climatico rappresentano, infatti, una minaccia crescente per il mondo intero.

L’intervista

Dopo il nostro primo incontro a Raposa Serra do Sol, ho occasione di incontrare Puat Subyz, questo il nome indigeno di fratel Cico (sarebbe Chico, pronunciato scico in brasiliano, ndr), varie volte. Puat Subyz significa scimmia urlatrice, ma, come precisa lui stesso, l’origine del soprannome deriva dalla barba che all’inizio portava bella folta e fluente.

Mi racconti l’origine della tua vita da missionario in Roraima?

«Tutto è nato quando ho saputo che i missionari in Brasile avevano bisogno di un meccanico riparatore.

Quando sono arrivato a Boa Vista, nel 1976 e, più precisamente, a Calungà, dopo soli tre giorni, un missionario mi ha invitato ad andare con lui in moto in un villaggio indigeno. Un viaggio sotto la pioggia e segnato da numerose cadute nei profondi banchi di sabbia fine. Arrivati nella chiesetta del villaggio, il missionario, in abito talare bianco, durante la sua predica ha puntato il dito verso l’esterno della chiesa dicendo ai fedeli, cinque donne e sei bambini: “Voi non dovete fare questo”. Indicava gli uomini del villaggio che dormivano tra le alte erbacce dove erano caduti durante la sbornia della sera precedente.

Da quel giorno, iniziai a chiedermi come fare per evangelizzare e riparare le persone in panne (e non più solo gli automezzi)».

Quali sono state le tappe della tua lunga esperienza?

«Da quel lontano 1976, ho vissuto 14 anni a Calungà nel Centro Educativo della Consolata, insegnando e lavorando a riparare macchinari e automezzi della diocesi e della popolazione locale. Il fine settimana, partivo alla volta dei villaggi di lingua indigena Wapixana nella regione di Serra da Lua, per il lavoro di evangelizzazione e assistenza religiosa.

Dal 1991 al 1996, sono stato animatore missionario nelle scuole e nelle parrocchie di Erexim, nel Rio Grande do Sul. Ho poi trascorso 18 mesi nella missione di Catrimani nella terra yanomami, un anno alla missione parrocchiale di Alto Alegre, tre anni alla missione della Barata nella regione Taiano, sei anni all’area missionaria di Caranà a Boa Vista, un anno a Maturuca, sei anni nella missione di Camará nella regione Baixo Cotingo. Dal 2016 sono tornato a Maturuca».

Quali le maggiori difficoltà che hai incontrato in questi anni?

«In primo luogo, la malaria. I numerosi incidenti e le cadute con la mia motocicletta, i viaggi lunghi su strade e sentieri sconnessi e disseminati di pietre, crateri, pantani, torrenti da guadare; imboscate da parte di garimpeiros e fazendeiros evitate solo grazie alla protezione degli stessi indigeni; le incomprensioni e, in ultima istanza, i miei limiti personali e la poca preparazione per lavorare con popoli e culture molto differenti da me».

Quali e quante sono le etnie che hai incontrato in questi anni nella Serra do Sol?

«Nella Regione Baixo Cotingo, ho lavorato con i Macuxi e con gli Irian, due etnie con lingua simile che oggi convivono ma che in passato erano sempre in lotta tra loro. In misura minore ho anche interagito con individui di lingua Wapixana. Nella regione Serras invece, ho lavorato solo con Macuxi e poche persone di altre etnie presenti nelle nostre assemblee periodiche. In generale, i Macuxi, costituiscono la maggioranza insieme a minoranze di Ingarikó, Taurepang, Patamona, Maiongong e qualche Wapixana. Gli Irian, nella Regione Baixo Cotingo, sono al secondo posto come numerosità. Da notare che i Wapixana sono del gruppo linguistico Aruak. Tutti gli altri del gruppo linguistico Carib».

Quali sono le tue maggiori preoccupazioni legate ai problemi che da sempre affliggono le terre indigene?

«Al momento nella Regione Serras, ci sono invasioni di turisti con vari tipi di distrazioni. C’è una forte presenza di venditori ambulanti, che offrono mercanzie di ogni sorta, tra cui bevande alcoliche e droga, senza nessun controllo da parte del governo. Al contrario, il paradosso è che gli indigeni non possono portare i loro prodotti in città a causa della “mosca della Carambola” e il controllo del governo da questo punto di vista è molto severo.

Fortissime le incursioni dei politicanti che offrono di tutto, soprattutto la realizzazione di fantomatici progetti che non sono in sintonia con l’ecosistema della regione e la stessa cultura indigena. Molte le promesse mai mantenute, per fortuna degli indigeni, i quali spesso si lasciano ingannare da questi uomini in malafede e senza scrupoli.

Nella Regione Serras c’è poca vegetazione, tipica dei climi semi aridi. Gli indigeni hanno iniziato da qualche tempo a organizzare fiere di sementi e piante con relativo scambio di prodotti del territorio; stanno così crescendo gli scambi e il commercio di beni che generano lentamente un aumento della produzione alimentare locale.

La televisione è purtroppo il mezzo più distruttivo nelle comunità indigene: è comune vedere nelle capanne di legno e foglie, televisori con grandi schermi alimentati da piccoli generatori o dallo stesso generatore del villaggio, quando questo funziona.

Nella terra yanomani, sono presenti oltre ventimila invasori garimpeiros e questo comporta malattie, morte e annientamento sociale e culturale per gli indigeni.

Il furto delle conoscenze e la distruzione dell’ecosistema sono piaghe secolari.

Purtroppo sono pochi gli indigeni che si preoccupano di queste tematiche che affliggono la loro società e il loro ambiente naturale».

Esistono ancora le condizioni per il pieno esercizio del diritto all’autodeterminazione delle popolazioni indigene?

«Ci sono molti indigeni e giovani impegnati che partecipano a incontri su questi temi, ma la lotta è durissima. Sono drammatici gli eventi recenti che vedono precipitare la situazione delle terre indigene e peggiorare le condizioni di vita dei popoli nativi a seguito dell’insediamento del nuovo governo di Jair Bolsonaro. Il nuovo presidente ha promesso, durante la campagna elettorale, di permettere l’estrazione dei minerali nelle riserve degli indigeni. Questo ha incoraggiato i cercatori d’oro a continuare le devastazioni per l’estrazione del prezioso metallo violando deliberatamente la legge e inquinando i fiumi.

Dal punto di vista dei diritti umani la situazione peggiora di giorno in giorno. Gli indigeni denunciano gli invasori finanziati dall’agrobusiness di violenza, terrorismo e guerriglia allo scopo di raggirare la legge, calpestando quanto affermato nella stessa Costituzione».

Credi sia possibile arrivare a una fine della violenza, della criminalizzazione e della discriminazione nei confronti delle popolazioni indigene e dei loro territori, garantendo la punizione dei responsabili?

«È il grande sogno indigeno ma anche di moltissimi brasiliani. Purtroppo, la realtà delle cose in Brasile peggiora di giorno in giorno. Impunità totale dei colpevoli ricchi e potenti, punizioni severe per gli indigeni e la povera gente».

Dan Romeo




Amazzonia (Catrimani). «Niente foto, per favore»

testo e foto di Paolo Moiola


Trascorso oltre mezzo secolo dalla sua fondazione, la Missione Catrimani prosegue la sua esperienza nella terra degli Yanomami. Una terra assediata dai garimpeiros che avanzano e fanno disastri nella più totale impunità. La malaria è sempre presente e le «attrazioni» dei Bianchi catturano una parte degli indigeni. Eppure, nonostante tutti questi problemi, la Missione Catrimani rimane un posto unico. Che merita una lunga vita.

Sono ancora a Manaus quando mi raggiunge una email di padre Corrado Dalmonego, responsabile della Missione Catrimani nella Tiy, la Terra indigena yanomami. Dice di essere di passaggio a Boa Vista e che tra pochi giorni tornerà in foresta. «Ti interesserebbe venire con me?», domanda. Se mi interessa? È da anni che ho a che fare con gli Yanomami, ma li ho sempre incontrati a Boa Vista. In vari luoghi: alla sede della loro associazione Hutukara, come nella filiale del Banco do Brasil, però sempre fuori dal loro contesto territoriale.

«Certo che accetto», rispondo. «Per farti spazio sull’aereo io rinuncerò a caricare un sacco di pane secco», spiega il missionario. Mi ha paragonato a un sacco di pane e neppure fresco, penso tra me e me. Vabbè se questo è il prezzo da pagare, lo pago. Purtroppo però non è il solo. «Niente foto agli Yanomami, per favore», aggiunge padre Corrado. Anche se la mania dei selfie ha svilito il ruolo delle foto, per un giornalista non poter fotografare è un divieto pesante. Tuttavia, non discuto. «Va bene – rispondo -. Accetto le tue condizioni».

Dopo una notte in bus, al mattino raggiungo Boa Vista, capitale dello stato di Roraima.

Per raggiungere Catrimani

A Boa Vista operano alcune compagnie di piccoli aerei (quasi sempre Cessna) che monopolizzano il mercato: il business è grosso. Non certo per merito dei pochi missionari, però. A parte qualche eccezione, non sono loro a volare nella Terra indigena Yanomami. Sono (purtroppo) i garimpeiros e coloro che stanno dietro il malaffare minerario. Va ricordato che, in linea teorica, chiunque voglia entrare in terra indigena dovrebbe chiedere il permesso alla Funai1.

Negli anni Ottanta-Novanta, durante le invasioni del territorio yanomami e ye’kwana, vennero identificate 82 piste d’atterraggio clandestine2. Quante siano oggi è difficile dirlo anche perché le operazioni di contrasto sono molto più blande che nel recente passato.

Perché – viene da chiedersi – andare alla Missione Catrimani con un aereo? Perché raggiungerla via fiume è pericoloso a causa della presenza delle rapide. Raggiungerla via terra è invece lungo e difficile: sono 5 giorni di cammino con esperte guide indigene. Tuttavia – occorre sottolinearlo con forza -, è un bene che vie semplici da percorrere non ce ne siano: una strada sarebbe la fine di tutto, come ha dimostrato la devastante esperienza della Perimetral norte, la via oggi abbandonata che portò morti e distruzione a metà degli anni Settanta.

Dalla savana alla foresta

Il decollo è tranquillo, favorito da una giornata relativamente limpida. Schiacciato sullo stretto sedile posteriore, alla mia sinistra una pila di scatole di cartone contenenti non so cosa e un paio di sacchi di yuta con alimenti, i piedi posti sopra le nuove batterie solari per la missione, accompagnato dal pigolio continuo delle decine di pulcini che, chiusi all’interno di uno scatolone bucherellato, viaggiano nel vano bagagli sulla coda del Cessna, in tutto questo ammiro (e filmo) il panorama sotto di noi.

I primi 15 minuti di volo mostrano un paesaggio dominato dal lavrado, la savana amazzonica. Poi, l’ecosistema cambia: inizia la foresta e qualche rilievo, che può superare i 1.000 metri d’altezza.  Sono le propaggini della Serra da Mocidade, dai missionari chiamata Serra dos Opikɨtheri per ricordare i loro veri abitanti. Da qui in avanti inizia la Terra indigena yanomami (Tiy).

Ecco il fiume Catrimani, che – lo raccontò negli anni Sessanta padre Silvano Sabatini nei suoi appassionati reportage3 – sarebbe un punto di riferimento se non fosse che il giovane pilota del Cessna ha un Gps portatile (posato sulle sue ginocchia).

Ecco alcune maloche (yano) ed ecco la Missione Catrimani. Il Cessna fa alcune virate per mettersi in condizione di atterrare sulla pista in terra battuta.

La pista della Missione Catrimani, costruita dai padri Bindo Meldolesi e Giovanni Calleri, venne ufficialmente inaugurata il 7 marzo 1966, quando vi atterrò il primo aereo4. All’epoca era una striscia di terra ed erba lunga circa 400 metri e larga 30, con tutt’attorno una fitta foresta. Oggi, essa è lontana dalla pista varie decine di metri, lasciando spazio a una radura (e ciò – a dire il vero – non è un buon segno dal punto di vista ambientale).

Il piccolo aereo tocca terra con qualche scossone dovuto al terreno sconnesso ma senza difficoltà.

La pista è a circa duecento metri dalle costruzioni della missione, dalla quale qualcuno ci fa cenni di saluto. Uno Yanomami dall’età imprecisabile (ma non giovane) ci viene incontro e saluta padre Corrado. Strano – penso tra me e me – che non ci siano più persone. Saprò più tardi che, proprio in questi giorni, quasi tutti gli Yanomami di Catrimani sono ospiti in altre maloche per una festa.

Iniziamo subito a scaricare i numerosi bagagli stipati sul velivolo, che si fermerà soltanto poche ore. Nel frattempo, l’anfitrione indigeno è tornato con una carriola, che però non è utile per trasportare le pesanti batterie solari. Così, lui ed io assieme, parlando a gesti e sorrisi, uno da una parte e uno dall’altra, le solleviamo e le portiamo verso la missione.

Per la salute, per l’istruzione

Ci sono alcune donne con neonati in braccio e vari bambini, subito attratti dallo scatolone con i pulcini, anch’essi atterrati sani e salvi come gli umani. E ci sono due suore della Consolata, che mi accolgono con calore.

Sono l’italiana Giovanna Geronimo e Noemi del Valle Mamani, argentina di etnia kolla. È invece in trasferta la suora che da più tempo vive a Catrimani, la keniana di etnia kikuyu Mary Agnes Njeri Mwangi5.

La missione è un piccolo complesso composto da casette di legno a un piano, la maggior parte di un color verde foresta che s’intona perfettamente con l’ambiente amazzonico. Le suore m’invitano a dissetarmi in quella che ospita la cucina e il refettorio, luogo giusto per scambiare qualche parola. Suor Giovanna, nativa di Martina Franca, è l’ultima arrivata essendo qui dal settembre 2018, ma opera in Brasile da oltre 30 anni. Suor Noemi è a Catrimani dall’agosto del 2009, pur con una pausa di alcuni anni. «Mi occupo degli insegnanti – spiega -. Una sorta di accompagnamento pedagogico». L’insegnamento – e questa è una conquista fondamentale – avviene sia nella lingua indigena che in portoghese. «Il primo anno è in yanomae, gli altri due in portoghese», precisa la suora.

Usciamo per una visita alla missione, che si conferma molto curata: erba tagliata, piante da frutto, fiori, nulla fuori posto.

Ci dirigiamo verso la casetta che ospita l’ambulatorio gestito dalla Sesai (Secretaria especial de atenção à saúde Indígena), organizzazione pubblica per la salute indigena che il presidente Bolsonaro vuole eliminare o almeno ridimensionare.

L’ambulatorio è una stanza essenziale alle cui pareti interne sono appesi manifesti informativi. Ci sono i farmaci e poi, poggiato su un bancone, lo strumento forse più importante: il microscopio per l’individuazione del parassita della malaria. «In questo momento – racconta suor Noemi -, c’è un aumento dei casi di malaria per varie cause, non ultima la rottura della macchina che serve per spargere lo spray anti zanzare».

Nel frattempo, arriva anche l’infermiere di turno in questo periodo. Si chiama João Lima Dias, 47 anni. «La difficoltà principale – mi spiega – nasce dal fatto che dobbiamo seguire 22 comunità. Dato che siamo pochi, è difficile curare tutte le persone nelle varie maloche disperse sul territorio».

Saluto João, perché padre Corrado vuole mostrarmi la maloca (yano) di una delle comunità più vicine.

La maloca e il suo mondo

Camminiamo veloci all’ombra di un bosco non fitto. All’improvviso questo lascia il posto a una piccola radura occupata da una maloca a cielo aperto, casa della comunità Maamatheri (dove il suffisso – theri indica gruppo, comunità, e maama significa pietra). Passiamo da un’entrata che è poco più di un pertugio, ma che dà accesso a un mondo.

La yano ha una intelaiatura di base fatta di sottili pali di legno ai quali vengono applicate foglie di una palma (nota come ubim, nome scientifico geonoma) e liane per formare le pareti e il tetto. La grande tettoia forma una sorta di anello al cui centro rimane una piazza utilizzata per feste e danze, distribuzione di alimenti, cerimonie con gli sciamani, accoglienza degli ospiti.

La maloca è una casa comunitaria, cioè polifamiliare o, per meglio dire, a famiglia estesa (- theri). «Qui vivono 30 persone – spiega padre Corrado dal centro della piazzetta -. Nella maloca ciascuna famiglia occupa uno spicchio delimitato dalle amache stese attorno a un fuoco». Non ci sono dei contenitori tipo armadi: tutto è in vista. Gli unici oggetti che riesco a vedere sono alcune pentole di varie dimensioni. Ci sono anche un tavolone, delle panche e una lavagna: è il piccolo spazio destinato alla scuola.

Oggi, sotto la grande tettoia circolare, razzolano le galline e giocano alcuni bambini. L’unico adulto è una donna che, seduta sul pavimento in terra battuta, è intenta a grattugiare i tuberi della manioca con la cui farina gli Yanomami preparano delle focacce chiamate naxihi (beijù, in portoghese). Dal tetto scende una grata in legno su cui ci sono un paio di pesci arrostiti. Mi spiegano che sono noti come aracu.

Nella maloca le amache sono poche, segno che la maggior parte degli abitanti è in trasferta. «Sì – mi spiega padre Corrado -, come ti ho detto gli abitanti sono andati a una festa». Visto che la yano è quasi disabitata, il missionario mi concede di scattare qualche foto. Quello di padre Corrado è un atteggiamento di difesa verso gli Yanomami sotto due punti di vista: uno culturale per rispettare o preservare la concezione dell’ũtupë, l’immagine spirituale della persona6; uno antropologico volto a frenare la reazione di una parte degli indigeni che ai fotografi hanno iniziato a chiedere un compenso per lasciarsi fotografare. Chissà cosa avrebbe fatto padre Corrado se fosse stato presente quando, nel marzo 2014, accompagnata da una troupe della Bbc, passò dalla missione una celebrità internazionale come l’ex calciatore David Beckhamp7.

Il Rio Catrimani

Lasciata Maamatheri, c’è il tempo per una visita alla sponda del Catrimani, il fiume che bagna la missione e che le dà il nome. L’acqua pare normale, ma non c’è certezza che i detriti – in primis, il pericolosissimo mercurio – prodotti dai garimpeiros installatisi a monte non siano giunti fin qui. La sponda opposta dista vari metri e dal letto del fiume spuntano rocce e sassi.

La pesca è praticata dagli Yanomami ma non ha mai avuto il rilievo della caccia ed è sempre stata un’attività (praticata con la tecnica del veleno sparso in acqua) prevalentemente femminile.

Sulla riva, all’ombra degli alberi, è legata una piccola barca. Risalendo il Catrimani con piccole imbarcazioni a motore in 4-5 ore si raggiungono le ultime comunità; scendendo si può arrivare, dopo 3-4 giorni, fino al Rio Branco, il fiume che attraversa Roraima da Nord a Sud. Padre Corrado chiosa: «Queste sono le nostre strade. Perché qui i fiumi non ci dividono, ma al contrario ci uniscono.

Unica

Non c’è più tempo: il pilota vuole ripartire. Debbo risalire sul Cessna. Sul sedile posteriore si accomoda un anziano Yanomami che ha chiesto di essere portato a Boa Vista. Io mi sistemo accanto al pilota.

Alla Missione Catrimani ho trascorso soltanto mezza giornata, la grande maggioranza degli Yanomami era in trasferta e praticamente non ho potuto scattare foto. Eppure, a dispetto di tutto questo, è stata un’esperienza unica perché unica è la Missione Catrimani.

Paolo Moiola

Note:

(1) Sulle modalità di entrata in terra indigena si veda quanto scritto nel sito: http://www.funai.gov.br.

(2) Isa, Mineria Ilegal en los Territorios Yanomami y Ye’kuana (Brasil-Venezuela), 2017.

(3) Silvano Sabatini, Le prodezze del vostro aereo, in «Missioni Consolata», n. 9, maggio 1968.

(4) Bindo Meldolesi, Il campo è pronto!, in «Missioni Consolata», n. 7-8, luglio-agosto 1966.

(5) Una sua intervista è stata pubblicata sul numero di marzo.

(6) Su questo concetto proprio degli Yanomami si rimanda a Corrado Dalmonego, «Il corpo e l’immagine», in Nohimayu – L’incontro, Editrice Emi, Verona, settembre 2019. (Qui sopra la copertina del libro.)

(7) Da quella visita è stato ricavato un documentario: David Beckhamp – Into The Unknown.

In precedenza:

(1) Suor Mary Agnes (marzo);

(2) Davi Kopenawa (aprile);

(3) Enock Taurepang (maggio);

(4) dom Sergio Castriani (giugno);

(5) dom Mário Antônio da Silva (luglio);

(6) Convegno Yanomami; lettura dell’Instrumentum laboris del Sinodo panamazzonico (agosto-settembre).




Cari Missionari – a proposito di parchi e uomini


Una buona idea

Per rendere il clima più gradevole e salvare la vita umana sulla terra: ogni persona semini o pianti un albero all’anno. Sette miliardi di piante in un anno, in 50 anni, sarebbero 350 miliardi di piante in più. Immaginate che succederebbe se ciascuno ne piantasse due o tre.

Dopo pochi anni, la temperatura scenderebbe, le piogge arriverebbero più regolari e ci sarebbero meno squilibri meteorologici (siccità prolungate, nubifragi, ecc.).

Certo non basta seminare o piantare, occorre anche concimare in modo organico e innaffiare e accudire l’albero in modo che nasca, cresca e si sviluppi bene. Può essere il tipo di albero che preferite: da frutta, ornamentale o di legno pregiato.

Qualcuno può dire, non tutti possono fare questo, per esempio i bambini, i malati, chi è anziano. Ma io dico: i parenti prossimi e o vicini lo possono fare per lui.

Un altro dirà: e chi non possiede nemmeno un metro di terra? Quelli che abitano in un appartamento, quando vanno in ferie – ovunque vadano – possono farlo o possono aiutare altri a farlo. E coloro che per svariati motivi non si muovono mai dalla città o dalla loro casa? Possono organizzare raccolte di fondi per comprare semi o piantine da distribuire nelle regioni e paesi dove non hanno sementi e piantine. C’è tanta gente, in tante regioni e molti paesi che hanno terra da poter piantare o seminare alberi adatti al loro clima, ma non hanno sementi e possibilità di farlo senza aiuto da lontano.

Le persone che hanno un posto importante e di responsabilità nel modo, comincino a dare il buon esempio, e chi ha la possibilità semini o pianti: 10, 100, 1000 piante per supplire le persone pigre o incapaci di «capire il clima» in cui siamo immersi.

Per finire: ognuno faccia questo per salvarsi e per salvare l’umanità, perché se pensa di farlo per guadagnare soldi, continuerà solo con la distruzione del clima e dell’umanità in atto. Qualcuno lo fa già, questo bel lavoro, ma non è sufficiente, dovrebbero farlo tutti per un ottimo risultato.

Cico Bruno
15/05/2019


A proposito del  dossier sui parchi in india

Il dossier di Eleonora Fanari «La vita non vale un parco», apparso sul numero di maggio, ha suscitato diverse reazioni. Le pubblichiamo tutte scusandoci per i tagli dovuti ai limiti di spazio.

Un grande grazie per l’interessantissimo dossier della bravissima Eleonora Fanari. È un incentivo forte alla preghiera e all’impegno in situ per il miglioramento dei rapporti tra uomini e felini in India, in Asia, nel mondo. Cordialmente,

Francesco Rondina 18/05/2019

Cari Missionari,
il dossier di maggio è fantastico, ma il modo con cui l’autrice allarga e restringe i contesti di valutazione mi mette un po’ in difficoltà. Alcuni punti vanno chiariti:

  1. L’obbligo di rispettare le leggi è per tutti, ricchi e poveri, cacciatori e raccoglitori, militari e civili.
  2. Tutti sappiamo che le tigri rischiano l’estinzione, ma se c’è un posto al mondo dove la probabilità di essere uccisi o gravemente feriti dalle tigri è altissima, questo posto è il Sunderbans. Chi vuole cacciare, pescare, raccogliere miele selvatico, laddove vive la tigre, deve prendersi le sue responsabilità, esattamente come se le prende chi fa paracadutismo, chi si immerge nelle acque bazzicate dallo squalo bianco, chi va a fare alpinismo o altri sport estremi […].
  3. I continui riferimenti all’Italia non sono l’ideale per far capire quale sia davvero lo stato delle foreste in India, che è dieci volte più estesa della nostra penisola. Per arrivare alla percentuale di copertura forestale attualmente registrata in Italia, l’India di strada ne deve fare ancora parecchia. E poi bisogna distinguere tra bosco e bosco, tra foresta e foresta. […]
  4. Per quanto riguarda invece gli abomini commessi dalle guardie forestali, qui invece il contesto andrebbe allargato ben al di là del Sunderbans. In tutta l’India le forze dell’ordine sono protagoniste negative. Non scopro niente di nuovo quando dico che contro le donne […], contro le bambine, contro i cristiani, contro chi professa religioni diverse dall’Induismo, vengono consumati atti di inaudita gravità e ferocia.
  5. Le Tiger Reserve sono una gran bella cosa ma chi pensa di poterle trasformare in un contravvenzionificio […] capisce davvero poco di ecologia… Chi viola i regolamenti andando a gettare le reti là dove non è consentito dalla legge, può essere recuperato in altri modi […], non con l’imposizione del pagamento di una somma di denaro che è fuori dalla sua portata. L’accanimento fiscale, quello che pensa di risolvere i problemi a colpi di tasse e di multe, non è un buon deterrente, incentiva semmai l’indebitamento e spiana ancora di più la strada allo strozzinaggio, che in India rappresenta un’altra gravissima piaga.

Distinti saluti

Luciano Montenigri
18/05/2019

Cari Missionari,
sono contento che siate tornati ad occuparvi del problema del rapporto tra esseri umani e specie animali problematiche all’interno dei parchi e delle altre aree protette.

Spero che in futuro […] ci direte qualcosa, e con dossier altrettanto approfonditi, sullo status della tigre in Cambogia, in Laos, in Vietnam.

Lì veramente le tigri sono a un passo dall’estinzione, lì le organizzazioni internazionali dovrebbero concentrare la loro attenzione per contrastare il bracconaggio, il land grabbing, la deforestazione e sostenere gli sforzi di coloro che credono ancora nella possibilità di salvare la tigre, salvare l’elefante, il delfino di fiume, il bucero, i ditterocarpi, le conifere e un bel po’ di altre specie.

La regola della par condicio cerchiamo di farla valere anche per i parchi, per le foreste e per gli animali, oltre che per gli esseri umani.

Donatello Di Roberto
18/05/2019

Cari Missionari,
per me il dossier dell’ottima Eleonora, ripropone il problema della moralità delle forze dell’ordine, che è un’emergenza non locale ma globale.

Nel nostro paese raramente veniamo a sapere di guardie forestali cattive, ma altrettanto non possiamo dire di vigli urbani […], di carabinieri, di poliziotti, di finanzieri, di guardie giurate […].

[…] Inutile far finta di niente o prendersela con quella o quell’altra ideologia o filosofia politica: gli uomini in divisa che abusano del loro ruolo sono una tragica realtà in India, ma anche negli Stati Uniti, in Venezuela, in Nicaragua, in Honduras, in Costarica, in Nigeria, in Camerun, nel Congo e nella Repubblica Centrafricana.

Il Sunderbans è veramente la punta della punta dell’iceberg. Distinti saluti.

Mario Pace
18/05/2019

Cari Missionari,
l’ambiente del Sunderbans, del quale vi siete occupati nel dossier di maggio, l’India lo condivide col Bangladesh, paese che, per quel che ne so, è alquanto più indietro per ciò che riguarda la tutela degli ecosistemi naturali.

Assai più dell’India, il Bangladesh è ad alto rischio sommersione, perché la percentuale di territorio che si trova al livello del mare è molto maggiore: di qui l’importanza di tutelare le foreste di mangrovie che invece, spesso e volentieri, vengono eliminate per far posto agli allevamenti di gamberetti.

Questi sono i veri nemici del popolo del Bangladesh: non le tigri, il cui numero è ridicolo se paragonato a quello degli esseri umani, ma la pretesa di trasformare il delta in un mega allevamento di crostacei da vendere all’estero per intascare dollari ed euro.

In effetti, anche dal punto di vista economico, l’operazione si è rivelata […] disastrosa: molti di coloro che avevano abbandonato l’agricoltura e la pesca tradizionale si sono pentiti d’aver puntato tutto sui gamberi, e hanno tentato la riconversione, ma ormai era troppo tardi, perché i terreni erano stati irreparabilmente degradati dal sale, dagli antibiotici, dagli insetticidi e compagnia bella (come ha messo in evidenza una bella serie di documentari della Bbc intitolata Indian Ocean mandata).

Anche in quel poco di territorio che è sopra il livello dell’Oceano Indiano, la situazione è tutt’altro che rosea: per esempio sulle Chittagong Hill, la minoranza Jumma ha patito persecuzioni da parte del governo, e lì le tigri, gli elefanti, i rinoceronti e gli altri animali rari non c’entravano niente.

Non sarebbe il caso che amici delle minoranze etniche – come Survival – e amici delle specie a rischio estinzione – come Wcs e Wwf criticatissime nel dossier – unissero le forze anziché polemizzare, o, peggio ancora, ignorarsi? Cordialmente,

Giuseppe Stefanini
24/05/2019

Buongiorno,
[…]. Da tempo vedo nella rubrica di dialogo con i lettori valutazioni varie sulla linea editoriale. Neanch’io sono proprio persuaso: personalmente preferisco un giornalismo fatto di più opinioni diverse, ma ci può anche stare che voi da tempo abbiate scelto una posizione più schierata e militante, anche se a mio avviso spesso acritica.

In questo senso ho trovato, peraltro oltre le righe accettabili, il dossier di Eleonora Fanari. Non voglio entrare nella discussione antropologica retrostante, che pure sarebbe stata ed è opportuna, né nella descrizione dei fatti, che certamente l’autrice conosce meglio di me […]. Il riquadro «conservazionisti versus ambientalisti» merita invece un cenno molto risoluto, perché dimostra che l’autrice conosce bene i meccanismi della delegittimazione dei nemici, e non si fa scrupolo nell’utilizzarli. Le scelte concrete effettuate e i piani di conservazione più o meno riusciti stanno nelle cose di questo mondo, ma quando invece si delegittima, si sottintende la malafede, non va bene per niente: in questo l’articolo è del tutto simile a quando la mafia spargeva a Palermo la voce che don Puglisi faceva lavoro con i bambini per fini poi purtroppo divenuti merce corrente nella chiesa attuale. Non mi è piaciuto affatto.

Marco Camoletto
25/05/2019

Mi spiace che il nome della Wcs sia rimasto coinvolto nella polemica tra difensori dei Dalit e difensori della fauna selvatica (dossier di maggio). Per me Wcs significa persone come Alan Rabinowitz, uno che le Tiger Reserve le ha sempre intese come piena valorizzazione dell’uomo e degli ecosistemi.

Il suo libro «La vita nella valle della morte», che racconta gli anni del suo impegno nella Birmania nordoccidentale, nell’area in cui al tempo della seconda guerra mondiale venne realizzato il famoso «Sentiero di Ledo», è uno stupendo inno alla vita considerata nella molteplicità delle sue espressioni e alla collaborazione concreta tra Asia e Occidente, tra militari e civili, tra buddhisti e cristiani, tra credenti e meno credenti.

Anche negli Usa, Alan e Wcs a molti non piacciono, c’è chi li ha addirittura accusati di complicità con il regime dei generali (del Myanmar, ndr). Per me invece Alan è semplicemente uno che ha cercato di ridare un po’di dignità, anche dal punto di vista ecologico, a un paese disastrato dalle guerre, dalla miseria, dall’ignoranza, dalla droga, dal fanatismo.

Alan ha portato avanti il suo impegno per la creazione della Hukawng valley tiger reserve affrontando mille difficoltà, […] e, per quel che ne so, la Wcs l’ha sempre sostenuto; così come sta sostenendo, malgrado tanti ostacoli, il lavoro che in Afghanistan sta svolgendo un altro valoroso, […]
Alex Dehgan.

Grazie Alan e grazie Alex: grazie a voi e alla Wcs molte persone han capito che l’oro, la giada, i diamanti, i rubini, gli smeraldi sono poca cosa rispetto a un ambiente sano, grazie a voi si sta affermando l’idea che la tecnologia deve servire la pace, non la guerra, grazie a voi molti si sono accorti che preparare «trappole» fotografiche per monitorare e salvare tigri, leopardi, elefanti, cervi e capre è più bello che preparare trappole esplosive e mine per uccidere e mutilare esseri umani.

Ivo Scorfanetti
30/05/219

Il dibattito riflette quanto si sta vivendo nel nostro mondo oggi in rapporto alla degenerazione ambientale che ormai coinvolge tutto e tutti. Di fronte ai fatti oggettivi ci sono atteggiamenti diversi: si va da chi nega l’esistenza del problema del riscaldamento climatico e ne minimizza le conseguenze sull’ambiente, a chi afferma che tale riscaldamento è opera solo dell’uomo che è il primo nemico della terra. La soluzione del problema starebbe, per questi ultimi, in una riduzione drastica della popolazione umana.

Accanto a questi ci sono quelli che hanno visto l’affare: un certo ambientalismo paga e aumenta il turismo, ma per essere efficace deve essere libero dalle pastoie dovute a nativi che hanno con l’ambiente relazioni semi religiose e tradizioni arcaiche. Se accettano di far parte dello spettacolo, bene, altrimenti via.

Questo si riflette anche negli atteggiamenti di chi vuole difendere l’ambiente: ci sono quelli che mettono l’uomo al centro e chi invece gli animali (tutti, sia quelli del cielo che della terra che dell’acqua). I secondi, più dei primi, rischiano di diventare involontari alleati di chi sulla natura intende invece solo guadagnarci.

Noi non abbiamo ricette per questo, ma siamo convinti che o ci si salva tutti insieme (uomini, animali e ambiente) o non ci si salva affatto.

Il sogno di Dio è quello del «paradiso» dove uomini e animali vivono in armonia e l’uomo non è il padrone che sfrutta a suo piacimento, ma è il giardiniere, il custode, l’artista che continua l’opera stessa di Dio con gli occhi stessi di Dio che gioisce della bellezza dell’opera delle sue mani.

Non è tempo di contrapposizioni, ma di lavorare davvero insieme.




Roraima. Il vescovo: continueremo a lottare per i diritti di tutti

Testo e foto di Paolo Moiola |


Secondo vicepresidente della Conferenza dei vescovi brasiliani (Cnbb), dom Mário Antônio Da Silva è vescovo di Roraima. Ha assunto la guida di questa diocesi di frontiera nel settembre 2016, trovandosi ad affrontare i problemi di sempre (la questione indigena), ma anche problemi inediti. Come l’arrivo di migliaia di venezuelani bisognosi di tutto. Dom Mário si è rimboccato le maniche, senza perdersi d’animo.

Boa Vista. Una targa ricorda che l’edificio – una struttura bassa e lunga non priva di eleganza – è stato costruito nel 1924 dai missionari benedettini per fungere da ospedale. Successivamente è diventato sede vescovile e tale è rimasto oggi. Ad attenderci sulla veranda che guarda sul giardino e sulla nuova struttura costruita a lato per ospitare il centro pastorale diocesano, c’è dom Mário Antônio da Silva, vescovo di Roraima dal settembre 2016. Sostituisce dom Roque Paloschi, che a sua volta aveva preso il posto di dom Apparecido José Dias, il successore di dom Aldo Mongiano, missionario della Consolata.

Nato nel 1966 a Itararé (San Paolo), vescovo dal 2010, dal 6 maggio secondo vicepresidente della Conferência Nacional dos Bispos do Brasil (Cnbb), dom Mario è consapevole ma non spaventato dalle sfide che deve affrontare in uno stato amazzonico che il governo Bolsonaro tiene sotto stretta osservazione. In primo luogo, per la presenza di numerosi popoli indigeni e di due importanti riserve: quella degli Yanomami e la Raposa Serra do Sol. Oltre a ciò, da circa un anno, si è aperta anche la questione della frontiera Nord con il Venezuela da cui transitano moltissimi venezuelani in fuga dal loro paese.

 

Da Manaus a Boa Vista

Monsignor Mário Antônio, lei è stato vescovo ausiliario in una metropoli come Manaus. Che situazione ha trovato qui a Boa Vista?

«Ho trovato una situazione sociale complessa, ma anche una Chiesa unita. Con molte potenzialità. Con un laicato diffuso, soprattutto all’interno dello stato. E soprattutto con la presenza di missionari e missionarie di numerose congregazioni del Brasile e di varie parti del mondo. Ho trovato una Chiesa profetica e attenta alle questioni sociali e politiche».

La popolazione di Roraima è inferiore alle 600mila unità (quasi due terzi residenti a Boa Vista), ma ha una composizione sociale particolare rispetto ad altri stati brasiliani.

«Sì, nel senso che essa è composta per la maggior parte da migranti. Però, allo stesso tempo c’è una presenza di popolazione indigena – intendo i popoli originari di qui – abbastanza grande essendo calcolata in circa l’11 per cento del totale. Sono i veri, primi abitanti. In Roraima hanno ottenuto conquiste importanti. In primis, l’omologazione delle loro terre. Ci sono comunità consolidate, altre che hanno bisogno di aiuti per una vita più autonoma».

Però, le conquiste indigene di cui lei parla oggi sembrano messe in discussione.

«Ci sono varie minacce provenienti sia dal governo nazionale che da quello statale. È una situazione che ci preoccupa. Oggi più che mai le popolazioni indigene debbono unirsi per far valere i loro diritti al territorio e alla cultura. Allo stesso tempo, hanno necessità di un accompagnamento pubblico su questioni come la salute e l’istruzione».

L’emergenza migratoria

Fuori dalle stazioni dei bus e lungo le strade di Boa Vista si vedono gruppi di venezuelani. Com’è la situazione della migrazione dal vicino Venezuela?

«La migrazione è in atto da tempo. Negli ultimi due anni – 2017 e 2018 – c’è però stato un flusso migratorio senza eguali. Soprattutto di venezuelani che entrano in Brasile attraverso il nostro stato di Roraima e precisamente da Pacaraima, la città sul confine con il Venezuela. Si stimano oltre 55mila arrivi dei quali 30mila stanno in capitale, il 10 per cento della sua popolazione. Vengono per fame, per trattamenti medici, per lavoro. Necessitano di alloggi: un 10 per cento sta negli abrigos (rifugi) dei militari, l’altro 90 per cento in altri luoghi, in parte anche nelle strade e nelle piazze. La maggior parte vive nell’informalità e spesso è sfruttata come manodopera a buon mercato. E poi ci sono i migranti che entrano nei circuiti dell’illegalità per l’opportunismo dei gruppi criminali, brasiliani e non. Soprattutto nell’ambito della distribuzione della droga».

Oltre all’immigrazione dei venezuelani, c’è quella degli indigeni di etnia Warao che vivono in quel paese.

«I Warao sono stati i primi ad arrivare. Oggi sono in un rifugio qui in capitale e in un altro a Pacaraima, al confine. La prima sfida è tenere unite le famiglie. La seconda è la comunicazione perché molti di loro parlano soltanto la lingua indigena».

Qual è stata la reazione della popolazione locale a questa ondata migratoria?

«La popolazione ha reagito in maniera molto differente. Alcuni accolgono, danno lavoro, sono tolleranti. Altri invece non hanno rispetto per la dignità dell’essere umano e mostrano attitudini xenofobe sia a parole che con atti di violenza. Per questo come Chiesa, assieme ad altre organizzazioni nazionali e internazionali, siamo impegnati a lottare per superare queste situazioni d’ostilità e xenofobia».

Le Chiese neopentecostali

Come Chiesa cattolica che rapporti avete con le altre chiese?

«L’ecumenismo ci spinge a una relazione di prossimità con le altre confessioni. Con momenti celebrativi, di studio ed anche opere sociali. Mi riferisco alle Chiese bibliche tradizionali».

Però in tutto il Brasile crescono i seguaci delle Chiese neopentecostali. Che tipo di rapporti avete con loro?

«La relazione con le Chiese evangeliche neopentecostali è molto complicata. Sembra che esse abbiano un progetto religioso-politico. Anzi, più politico che religioso. Dove arrivano, facendo uso della fede e della parola di Dio, facendo leva sulla tematica profetica, approfittando della questione del dizimo (il tributo in denaro versato dai fedeli alla propria chiesa, ndr), ma anche dell’ingenuità della gente, purtroppo portano divisioni. Inoltre, disorganizzano le comunità nella lotta sociale per i diritti e per le necessità (di salute, istruzione, abitazione, eccetera). Insomma, queste chiese non lavorano per l’armonia».

E voi, come lavorate?

«Noi sentiamo la necessità di lavorare per rinforzare la popolazione, soprattutto quella più fragile».

Su Bolsonaro e il suo governo

Il 12 ottobre 2018, tra il primo e il secondo turno delle elezioni, lei scrisse una lettera pastorale che parlava di democrazia e dittatura e che le attirò addosso molte critiche.

«Era una lettera pastorale di riflessione e orientamento per votare in maniera etica, cosciente e libera, optando per un candidato che favorisse la vita e la democrazia. Abbiamo ricevuto molte reazioni, anche offensive».

Alla fine ha vinto Jair Bolsonaro. Monsignore, che dice?

«Che il risultato è preoccupante. Ma è certo che noi continueremo nelle nostre battaglie a difesa dei popoli indigeni e dei piccoli contadini. Della salute e della casa. Della popolazione che vive nelle periferie come di quella che sta nell’interiore dello stato. E lavoreremo per la difesa dell’ambiente perché veramente ci sia sostenibilità nella produzione e rispetto del creato».

Più Amazzonia nella Cnbb

Lo scorso maggio la 57.ma assemblea generale della Conferenza dei vescovi del Brasile (Cnbb) ha rinnovato i proprio vertici. Il nuovo presidente è dom Walmor Oliveira de Azevedo, arcivescovo di Belo Horizonte (Minas Gerais). Come secondo vicepresidente è stato nominato proprio dom Mário Antônio da Silva.

La sua nomina è una scelta significativa perché dimostra l’attenzione della Chiesa brasiliana per l’Amazzonia e per quel Sinodo panamazzonico, al quale il governo di Brasilia guarda con malcelato sospetto.

Anche per questo, a fine maggio, Bolsonaro e dom Walmor si sono incontrati a porte chiuse a Palácio do Planalto, sede della presidenza della Repubblica. Difficile però che meno di un’ora di colloquio sia riuscita a cancellare mesi di accuse e incomprensioni.

Paolo Moiola

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Migranti dal Venezuela: Più solidarietà che xenofobia

Secondo Acnur, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, i migranti venezuelani (inclusi rifugiati e richiedenti asilo) sono 3.706.624 (dato aggiornato all’11 aprile 2019). La cifra effettiva potrebbe però essere più alta in quanto molti stati non conteggiano i migranti irregolari. La gran parte di queste persone ha scelto di migrare in un paese latinomericano, con preferenza per Colombia, Perù, Ecuador, Cile e Argentina. Per il Brasile si calcola un numero d’arrivi inferiore rispetto ai paesi di lingua spagnola: 240mila venezuelani, ma la metà di essi lo avrebbe già lasciato. La principale porta d’ingresso nel paese è la città di Pacaraima, nello stato di Roraima (mappa a lato).

Come sempre capita quando ci sono migrazioni consistenti, in ogni paese ci sono stati episodi d’intolleranza e xenofobia, ma in generale la solidarietà ha prevalso. In Brasile, l’esercito ha attivato dal marzo 2018 l’«Operazione accoglienza» (Operação Acolhida). Gli interventi più consistenti sono però in mano alla Chiesa cattolica con la Caritas, la diocesi di Roraima e le congregazioni missionarie. Oltre all’accoglienza immediata, è stato attivato il programma «Cammini di solidarietà» (Caminhos de Solidariedade) che invia i migranti in diverse diocesi di vari stati brasiliani.

Paolo Moiola




«Gli indigeni, organizzati e perseguitati»


Testo e foto di Paolo Moiola


Dagli Ashaninka alla metropoli di Manaus, finora il percorso di dom Sérgio Eduardo Castriani si è svolto tutto all’interno dell’Amazzonia. Un mondo affascinante al quale oggi l’arcivescovo guarda con crescente preoccupazione. Disboscamenti, incendi, offensiva contro i diritti dei popoli indigeni. Tutte le problematiche da tempo esistenti si sono aggravate dopo l’avvento di Bolsonaro alla presidenza del Brasile.

Manaus. Dom Sérgio Eduardo Castriani, oggi arcivescovo di Manaus, conosce bene l’Amazzonia. «Sono quarant’anni che vi abito», ricorda con orgoglio. Iniziò nel 1979 a Feijó, in Acre, stato brasiliano confinante con Perù e Bolivia, dove lavorò a lungo con gli Ashaninka (Kampas). Un periodo ricordato con nostalgia. Tanto che, durante il nostro incontro, dom Sérgio – classe 1954 – si alza per andare nel suo studio a prendere una vecchia foto in bianco e nero: «Eccomi vestito da indigeno», dice indicandomi un giovane ritratto con una tipica tunica ashaninka.

Dall’Acre egli fu destinato al Nord, municipio di Tefé, stato di Amazonas dove ebbe la possibilità di conoscere molte altre etnie: Mayorunas (Matsés), Miranhas, Cocamas, Kambebas, Kanamaris, Kulina, Katukinas, Tikuna. Nominato vescovo, rimase a Tefé fino al 2012 quando divenne arcivescovo.

La metropoli amazzonica oggi conta oltre due milioni di abitanti ed è in continua e rapida espansione. «Ma – precisa dom Sérgio – risulta sempre più invivibile. Perché la qualità della vita in certi quartieri è di volta in volta peggiore. La questione della sicurezza di fronte al dominio delle bande rende la vita difficile alle persone comuni. Per parte loro, i ricchi sono sempre più chiusi in strutture abitative (condominios fechados) per accedere alle quali si possono incontrare più difficoltà che per entrare in un paese straniero».

Su Bolsonaro e il suo governo

Monsignor Castriani, dopo i primi mesi di governo Bolsonaro, lei è più pessimista o più ottimista?

«Sono più realista, perché si sta confermando lo scenario peggiore. Il Brasile sta cambiando in peggio, ma nulla che non sia stato detto durante la campagna elettorale».

Come mai i brasiliani hanno premiato un personaggio pericoloso come Jair Bolsonaro?

«Con l’elezione di Bolsonaro il popolo brasiliano ha dato una risposta alla crisi economica, etica e morale del paese. Bolsonaro significa quello che è nuovo, anche se è sbagliato. La gente è stanca dei politici. Il Partito dei lavoratori (Partido dos trabalhadores, Pt) ha avuto le sue opportunità per fare qualcosa di diverso. Personalmente ho partecipato alle due elezioni di Lula. Allora c’era molta speranza. Però hanno fatto tutto quello che facevano gli altri, a cominciare dalla corruzione. Con il Pt le banche hanno guadagnato molto denaro. In tanti hanno detto di no. Poi, al secondo turno dello scorso ottobre, molti hanno comunque votato Pt perché non volevano Bolsonaro ma non perché volessero il Pt. Io ho votato Pt perché non potevo votare un tipo come Bolsonaro. Disgustoso. Parla con il linguaggio che si sente dai barbieri. Detto questo, bisogna anche ammettere che molta gente buona lo ha votato. Il mio medico per esempio ha votato per lui. Eppure è un uomo intelligente. Il suo argomento era la ricerca del nuovo, il fatto di non volere più il Pt al potere».

Rimanendo in tema di elezioni, le chiese neopentecostali si sono schierate per il nuovo presidente.

«Già quattro anni fa Bolsonaro ha cominciato la sua campagna con le chiese pentecostali. Si tratta di chiese che hanno molti seguaci fedelissimi che obbediscono al pastore. E che portano avanti questo discorso moralista contro le persone Lgbt (Lesbiche, gay, bisessuali, transgender, ndr) e omofobico. Bolsonaro si diceva cattolico, ma è stato battezzato nel Giordano dai neopentecostali (nel maggio 2016 in Israele dal pastore – oltre che politico e imprenditore – Dias Pereira detto Everaldo della chiesa Assembleia de Deus, ndr). In ogni caso, lui fa il gioco dei pentecostali, come d’altra parte lo fece Dilma. All’inaugurazione del suo secondo mandato invitò Macedo davanti al quale s’inchinò, mentre il nunzio apostolico (della Santa Sede) rimase in secondo piano».

 

C’è una spiegazione a questa scelta di campo delle chiese evangeliche?

«Il potere. E poi esse dispongono di uno strumento in più. Tutto il mondo vuole salute e denaro. Sempre più denaro. Le chiese evangeliche danno un supporto teologico attraverso la “teologia della prosperità”. Con essa si può giustificare tutto, anche ruberie e corruzione, perché la ricchezza è considerata una benedizione di Dio. Se i loro uomini andranno al potere, per il Brasile questo sarà un pericolo molto grave. Non dimentichiamo che il presidente ha la possibilità di nominare moltissime persone in posti di responsabilità».

Il Consiglio indigenista missionario (Cimi) e la Commissione pastorale della terra (Cpt) sono due organismi della Chiesa cattolica brasiliana che fanno un lavoro straordinario. Adesso avranno più problemi?

«Senza alcun dubbio: il primo per il discorso delle terre indigene, il secondo per la questione della proprietà privata. D’altra parte, problemi ne avevano avuti anche con Dilma. Ricordo che un uomo pacifico come dom Roque Paloschi, presidente del Cimi, subì una persecuzione giudiziaria nel Mato Grosso do Sul.

In ogni caso, Bolsonaro si è presentato dicendo che il Cimi e la Cnbb (la Commissione dei vescovi brasiliani, ndr) sono “la parte marcia della Chiesa cattolica”. Il problema è che, in questo momento storico, non abbiamo soltanto un presidente siffatto, ma anche un apparato giudiziale conservatore e un congreo conservatore dominato dallo schieramento Bbb».

Già, Bbb: Biblia, boi, bala («Bibbia, vacche, pallottole»). D’altra parte, anche lo slogan elettorale di Bolsonaro è stato Brasil acima de tudo, Deus acima de todos («il Brasile sopra tutto, Dio sopra tutti»). Non le pare un uso improprio della religione?

«Sì, è stato un utilizzo strumentale della fede per affermare che Dio sta con lui, con il presidente eletto. Dio gli ha dato il mandato. Un discorso neopentecostale. Pericolosissimo perché così si può giustificare tutto».

I governi del Pt

Torniamo a parlare di ambiente. L’Amazzonia come può essere salvata?

«La situazione dell’Amazzonia è urgente. Negli ultimi 40 anni ho visto cambiare tutto: dalla foresta al clima alle città. Tuttavia, il Brasile ha una buona legislazione ambientale. Se fosse applicata, ci sarebbero pochi problemi. Purtroppo, anche sotto il Pt – in particolare durante il secondo mandato di Dilma – è andata male perché ha distrutto l’Ibama (Instituto Brasileiro do Meio Ambiente e dos Recursos Naturais Renováveis) e gli altri organi di controllo».

Monsignore, lei ha votato per Haddad, ma mi pare sia molto critico verso il Pt.

«Sì, è vero ho scelto Haddad, ma sono molto severo verso il Pt. Se lei va a leggere gli editoriali degli ultimi anni della rivista Porantin, edita dal Cimi, sono tutti critici verso quei governi. Ricordo che la Cnbb non è mai stata consultata o ricevuta da Dilma».

Durante i governi del Partito dei lavoratori è stato fatto qualcosa per l’Amazzonia e i suoi abitanti?

«Quando iniziò, io vidi che all’interno dell’Amazzonia per la prima volta ci furono famiglie che ebbero dei soldi. Fu una liberazione. Anche se si dice che il denaro è lo sterco del diavolo, tuttavia senza soldi non può esserci libertà. La bolsa familia è stata uno strumento importantissimo come lo è stata l’arrivo dell’elettricità. Queste sono state conquiste del governo di Lula nei suoi primi anni. Però dopo le cose sono cambiate perché è entrata la corruzione e, con il potere, il partito è diventato elitista. Il mio ideale è stato il Pt dei primi tempi».

Il Pt di Lula, dunque. Però ora lui è in prigione, condannato a una lunga pena detentiva. Se lo aspettava?

«Non me lo aspettavo. Un presidente deve essere giudicato dalla storia. Per il paese Lula ha fatto cose buone. Le accuse nei suoi confronti erano troppo poco per condannarlo. Io credo che lui non abbia fatto nulla di male. Il problema è il sistema che vige nel Brasile. Tutti i partiti fanno lo stesso e il Pt non è stato diverso».

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«Sono diversi. Per fortuna»

Lasciando da parte il governo presente e quelli del passato, come descriverebbe la situazione dei popoli indigeni?

«Nel 1979, quando arrivai in Acre, un ministro dell’Interno disse che gli indigeni sarebbero spariti in 10 anni. Invece sono la popolazione che più è cresciuta nel paese. Io penso che i popoli indigeni siano i poveri più organizzati del Brasile e che, al tempo stesso, siano i più perseguitati proprio perché organizzati».

Monsignore, ha senso parlare d’integrazione?

«La cultura indigena è completamente diversa. Io ho conosciuto molti indigeni sia nell’entroterra che in città. Di solito, a un certo punto delle nostre conversazioni, io debbo ricordare loro: “Io non sono indio. Non lo sono”. Questo per spiegare che non arrivo a capire tutto ciò che mi dicono. Attenzione però, questa è una ricchezza per il Brasile: sarebbe terribile perdere questa diversità. Per fortuna, i popoli indigeni hanno una grande resistenza».

A proposito di cultura, risponde al vero che gli indigeni sono più rispettosi verso l’ambiente?

«Sì, in generale. E questo vale anche per ribeirinhos (comunità che vivono in prossimità dei fiumi, ndr) e caboclos (meticci nati dall’unione di un indio con un bianco, ndr). Ma tutto dipende da quanto sono entrati in contatto con noi bianchi».

Lei è passato da due piccole città – Feijó e Tefé – a una metropoli come Manaus. Qui come vivono i cosiddetti «indigeni urbani»?

«Con tutti i problemi di chi vive nelle periferie. In più essi non sono considerati indiani dal governo, ma c’è una grande resistenza culturale con un buon numero di organizzazioni indigene. Il pregiudizio è ancora grande tra la popolazione bianca. A volte, inoltre, anche coloro che discendono da indigeni tendono a non accettare le loro origini».

(Official White House Photo by Tia Dufour)

Bolsonaro e il Sinodo

È cosa nota che il governo Bolsonaro guardi con sospetto e timore al Sinodo Panamazzonico del prossimo ottobre. Lei come se lo spiega?

«Il Sinodo è esattamente l’opposto di tutto quello che il governo Bolsonaro e i suoi pensano: partecipazione popolare, valorizzazione dei popoli originari, preservazione dell’ambiente. Si tratta di concetti la cui comprensione negli uni e negli altri è diametralmente contraria. Come la lettura che essi fanno dal momento della loro conquista del potere: la Chiesa cattolica sta cercando di riconquistare il potere perduto in favore delle chiese pentecostali e del mondo laico».

Nonostante tutte le difficoltà, lei pensa che il Sinodo sarà un successo?

«È già un successo nella misura in cui è iniziato un processo di riflessione che certamente avrà anche delle conseguenze pratiche».

Paolo Moiola


Riflessioni sull’etnoturismo

Un selfie con gli indigeni?

Due città amazzoniche importanti: Manaus in Brasile e Iquitos in Perù. Due comunità indigene – i Bora (originari della regione del Rio Putumayo) a Iquitos, i Desana (della regione del Rio Uaupés) a Manaus – che, indossando vestiti tradizionali e con i volti dipinti, accolgono nella maloca gruppi di turisti davanti ai quali si esibiscono in danze e canti.

I turisti si mostrano entusiasti dello spettacolo offerto, scatenati con le loro macchine fotografiche, le telecamere e soprattutto con gli immancabili smartphone.
Difficile dire se, per questi indigeni, sia giusto o sbagliato mostrarsi così. Difficile dire se sia una scelta volontaria o soltanto dettata da questioni di sopravvivenza. Difficile capire se, dopo queste visite, i turisti avranno una conoscenza più approfondita del mondo indigeno e una maggiore empatia con esso oppure soltanto una foto o un selfie da mettere su Facebook, Instagram o su altri social network. Alcune ricerche suggeriscono che scattare selfie faccia bene allo spirito di chi li fa. Sarebbe bello che facesse bene anche all’esistenza di chi – volente o nolente – li subisce.

Paolo Moiola

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Consiglio indigeno di Roraima: «Per la terra e per il rispetto»


Il Consiglio indigeno di Roraima (Cir) riunisce nove etnie. In Brasile, è considerato una delle organizzazioni indigene più attive. Come testimonia anche la vittoria ottenuta per il riconoscimento e la difesa della terra indigena Raposa Serra do Sol. Abbiamo incontrato il coordinatore generale del Cir, Enock Batista Tenente, un Taurepang di 29 anni.

Testo e foto di Paolo Moiola

Boa Vista. Sul murale, al centro del disegno con le piume colorate, è posta la sigla Cir. Sta per «Conselho indígena de Roraima» (Consiglio indigeno di Roraima), la principale organizzazione indigena dello stato amazzonico brasiliano. Formalmente essa esiste dal 1990, ma in realtà è operativa dagli anni Settanta.

Il Cir ha come obiettivo la lotta per garantire i diritti e l’autonomia dei popoli indigeni di Roraima, uno stato che conta (almeno) nove etnie: Macuxi, Wapichana, Ingarikó, Patamona, Sapará, Taurepang, Wai-Wai, Yanomami e Yekuana.

Questa varietà di soggetti fa sì che la struttura organizzativa del Cir sia improntata alla massima partecipazione. Ogni anno si tiene una grande assemblea generale che costituisce il maggiore organo deliberativo. L’ultima – la 48ª – si è svolta al lago Caracaranã, nella terra indigena Raposa Serra do Sol, dall’11 al 15 marzo.

Per parlare del consiglio indigeno e dell’attuale situazione politica brasiliana, nella sede del Cir, a Boa Vista, capitale di Roraima, incontriamo Enock Batista Tenente, che da due anni riveste il ruolo di coordinatore generale, in questo aiutato dal vice Edinho Batista de Sousa e da Maria Betania Mota de Jesus, in rappresentanza del movimento delle donne indigene.

Enock, 29 anni e 3 figli piccoli, ci accoglie nel suo ufficio «da bianco» indossando però un copricapo di piume colorate.

«Senza terra non esistiamo»

Enock, a chi è venuta l’idea del Conselho Indígena de Roraima?

«Il Cir è stato creato dai nostri leader con una partecipazione importantissima della Chiesa cattolica. Oggi esso coordina 237 comunità in 11 regioni dello stato di Roraima».

Quali etnie sono rappresentate nell’attuale coordinamento generale del Cir?

«La giunta è composta dal sottoscritto Taurepang e da due Macuxi, Edinho e Maria Betania».

Taurepang e Macuxi, dunque. L’organizzazione però abbraccia altri gruppi indigeni.

«Certo. Il Cir raggruppa nove diverse etnie sotto una sola bandiera e con tre obiettivi: terra, educazione e salute. È una lotta dura visto che l’attuale congiuntura politica non è favorevole per i popoli indigeni. Anche se, per la prima volta, abbiamo eletto una deputata federale, Joênia Wapichana».

La terra rimane sempre la vostra priorità?

«Il nostro territorio è per noi il bene più prezioso. Senza territorio non possiamo avere né salute, né educazione. In una parola non esistiamo. Per questo siamo sempre pronti a dare la vita per la terra».

In che modo? Percorrendo quale strada?

«Non tirando le frecce, perché occorre sempre rispettare la vita del prossimo, sia esso un indigeno o un non indigeno.

Noi chiediamo che ci vengano assicurati i diritti garantiti nella Costituzione federale del 1988. Abbiamo persone preparate in legge per aiutarci in questo.

Noi non abbiamo invaso la terra di nessuno: chiediamo soltanto rispetto. Di essere rispettati nel diritto a vivere nel nostro territorio. Di essere rispettati come società, come esseri umani e come indigeni. E qui intendo dire Macuxi, Wapichana, Ingarikó, Patamona, Sapará, Taurepang, Wai-Wai, Yanomami, Yekuana».

È corretto dire che la diversità indigena è anche una diversità tra indigeni?

«Il Cir non ha una sola identità. Per questo è stato capace di unire le identità di nove popoli differenti. Perché non va dimenticato che noi siamo differenti: un Taurepang è differente da un Macuxi, un Macuxi è differente da Wapichana e così via. Eppure questa organizzazione è capace di unirci tutti in un luogo, in una sala per discutere della nostra vita. Il Cir è un’università e un tribunale: è tutto per noi».

Da fuori, cioè dal mondo non indigeno, vengono i garimpeiros e le grandi opere. Che ne pensa il Cir?

«Che non vogliamo i grandi progetti che distruggono la natura. Non vogliamo estrazioni minerarie nei nostri territori. Se il grande Creatore ha messo il petrolio sotto la terra è per lasciarlo lì».

Vi accusano di non volere il progresso, la civiltà, il futuro.

«I governanti ci dicono che siamo arretrati. Ma costoro non si sono mai seduti con noi per chiederci cosa vogliamo come società, popoli e individui. Noi non chiediamo cose che vengano da fuori: non ci occorrono quelle per essere felici. Vogliamo valorizzare ciò che esiste nelle nostre comunità: la nostra cucina, le nostra medicina, i nostri canti, le nostre danze. Soltanto questo e nulla di più».

Ci dica di Joênia.

«Nella elezione della dottoressa Joênia si è riflessa la nostra forza e unità. È un risultato ottenuto con molta lotta, ma soprattutto senza comprare voti e senza corruzione. Lei è la nostra deputata. La sua elezione è una cosa molto buona per noi».

Come la quasi totalità dei leader indigeni, anche lei pare avere una pessima opinione dei politici brasiliani. Adesso anche Joênia è un rappresentante politico.

«La tratteremo non come una politica, ma come una donna indigena. Lei non ha il profilo, la parola o i sorrisi di un politico. I politici hanno ingannato non soltanto la società indigena ma anche quella bianca. Per questo chiediamo a Joênia di comportarsi come un leader indigeno e non come un leader politico. Lei è nata nel movimento indigeno. È stata la prima donna indigena a difenderci nel Supremo tribunale federale nel giudizio sulla Raposa Serra do Sol. Ha appena vinto lo stesso premio che ricevette Martin Luther King» (Enock si riferisce allo United Nations prize in the field of human rights assegnatole il 25 ottobre 2018, ndr).

Enock, con un presidente come Bolsonaro e un Congresso così anti indigeno Joênia non avrà vita facile.

«Joênia è figlia del movimento indigeno di Roraima. E proprio per questo la gente crede nel suo lavoro. Lei non sarà mai sola. Perché noi siamo Joênia».

Paolo Moiola


Joênia Batista de Carvalho Wapichana

Donna, indigena, deputata

© Carlo Zacquini

Molti anni dopo Mario Juruna Xavante, un altro indigeno entra nel congresso brasilano. E, per la prima volta, è una donna.

Mario Juruna

Nata nel 1973, l’avvocata Joênia Batista de Carvalho detiene una serie di primati. Appartenente al popolo Wapichana, nel 1997 è la prima indigena del paese a ottenere la laurea in diritto (prima all’Università federale di Roraima e, anni dopo, anche all’Università dell’Arizona, negli Stati Uniti). Nel 2008 è la prima a difendere un caso davanti al Supremo tribunale federale, il massimo organo giudiziale del Brasile.

Nel 2018 si presenta alle elezioni per il congresso federale con la «Rede sustentabilidade», il partito fondato dalla candidata presidenziale ed ex ministra dell’ambiente Marina Silva. Nonostante lo scarso successo del suo partito, Joênia Wapichana ottiene 8.267 voti, un numero sufficiente per diventare la prima deputata indigena nella storia del Brasile. In precedenza, a Brasilia era arrivato solamente un indigeno: Mario Juruna del popolo Xavante, in carica dal 1982 al 1986.

Per la neodeputata il 2018 si conclude in bellezza: il 25 di ottobre le viene infatti assegnato dalle Nazioni Unite il prestigioso premio per i diritti umani (United Nations prize in the field of human rights), per la sua attività in difesa delle comunità indigene.

Joênia proviene dalla Terra indigena Raposa Serra do Sol, omologata dal presidente Lula nel 2005. Per oltre dieci anni il suo lavoro di responsabile legale del Conselho indígena de Roraima (Cir) ha riguardato la difesa della demarcazione e l’uscita da quei territori dei fazendeiros (arrozeiros, produttori di riso, per la precisione). Oggi si ritrova a difendere quella conquista dalla volontà del nuovo presidente Bolsonaro e del nuovo Congresso di rimettere tutto in discussione.

Paolo Moiola


Governo Bolsonaro, popoli indigeni e Cimi

«Il maggior latifondista del paese è l’indigeno»

In tutte le sedi le posizioni circa i diritti indigeni appaiono inconciliabili.

All’apertura della 40a sessione del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite (Ginevra, 25 febbraio 2019) Damares Alves, ministra brasiliana della donna, della famiglia e dei diritti umani, ha affermato che i popoli indigeni avranno «uno sguardo speciale» («um olhar especial») dal governo Bolsonaro. Volendo apparire credibile la ministra ha precisato di essere «madre socioaffettiva di una giovane indigena dell’etnia kamayurá».

Le affermazioni della ministra sono state molto criticate dalla delegazione del Consiglio indigenista missionario (Cimi) durante il suo incontro con Michelle Bachelet, alta commissaria dell’Onu per i diritti umani. «Sottolineiamo che le popolazioni indigene non vogliono una relazione socioaffettiva con lo stato brasiliano. I popoli indigeni non vogliono essere portati a casa alla fine della giornata. Vogliono una relazione (con lo stato) che riguardi i loro diritti», ha detto il responsabile degli affari internazionali del Cimi, Flávio Vicente Machado.

L’onorevole Ms. Damares Regina Alves, Ministero per le Donne, la Famiglia e i Diritti Umani | © UN/Violaine Martin

Il clima che si respira con il governo di Jair Bolsonaro è ben esemplificato da quanto detto da un funzionario della ministra dell’agricoltura Tereza Cristina, proprietaria terriera ed ex presidente del gruppo parlamentare degli agricoltori e allevatori (Frente parlamentar agropecuária). Il suo segretario speciale per le questioni fondiarie, Luiz Antonio Nabhan Garcia, latifondista e presidente dell’Unione democratica ruralista (l’associazione dei grandi proprietari terrieri del Brasile), ha affermato che «il più grande latifondista del paese è l’indigeno» («o maior latifundiário do país é o índio», 22 febbraio 2019).

Potrebbe essere una semplice opinione se non fosse che il ministero dell’agricoltura ha ricevuto dal presidente Bolsonaro (con Medida provisória n. 870 del 1 gennaio 2019) l’incarico per «l’identificazione, la delimitazione, la demarcazione e le registrazioni di terre tradizionalmente occupate da popolazioni indigene». Pertanto, quella di Nabhan Garcia è da considerarsi non tanto un’affermazione personale quanto piuttosto una vera e propria minaccia ai diritti costituzionali dei popoli indigeni del Brasile.

Paolo Moiola

 




Tigri, uomini e riserve in India:

La vita non vale un parco

Testi e foto di Eleonora Fanari


Sommario

Reportage dall’area protetta del Bengala occidentale: Attenti alla tigre

Popolazioni Indigene in India
I parchi in India

Rischi e contraddizioni delle politiche ambientali:  Più ambiente per tutti, meno diritti per alcuni

Conservazionisti versus Ambientalisti
Campa

Resort lussuosi per l’«eco turismo» sulle terre degli sfollati: Largo al turismo

Questo dossier è stato firmato da:

Reportage dall’area protetta del Bengala occidentale: Attenti alla tigre

Essere pescatori residenti nei dintorni della riserva delle tigri di Sundarbans e vedere rispettati i propri diritti è sempre più difficile. Le politiche ambientaliste del governo producono norme e divieti che portano molti alla fame, diversi a rischiare l’illegalità e, a volte, la morte per sbranamento, e molti altri all’emigrazione.

La riserva delle tigri del Sundarbans – il cui nome in bengalese significa «la bella foresta» -, patrimonio dell’Unesco dal 1987, è il parco naturale nel quale si consuma uno dei più discussi e complessi conflitti tra conservazione ambientale e diritti umani nel territorio indiano. La riserva, che si trova nell’India Nord orientale, è situata nel golfo del Bengala, sul delta del Gange, estremo Sud dello stato del Bengala occidentale, nella più grande foresta di mangrovie del mondo.

Il grosso arcipelago sul quale si estende è formato da 102 isole, 54 delle quali ospitano una popolazione di 4,5 milioni di persone, per la gran parte dalit e indigeni che lottano per la propria sopravvivenza spartendosi il territorio con la famosa tigre del Bengala, una specie in via d’estinzione e protetta dal 1973.

Remi in barca, ma senza smettere di lottare

Sohankharo Arhi, abile pescatore del villaggio di Mathurakhanda, raccoglie i remi della sua piccola barca per sistemarla sulla sponda del fiume.

Ci troviamo qui, sull’isola di Bali (non quella famosa), una delle isole dell’arcipelago, per svolgere delle ricerche sul conflitto che da anni produce vittime tra i più poveri, e lo osserviamo. In questo villaggio, secondo il censimento del 2011, vivono 3.826 persone, delle quali l’80,4 per cento sono dalit, la casta più bassa degli intoccabili, e il 2,2 per cento indigeni1.

Oggi Sohankharo torna a casa a mani vuote. La sua famiglia e le famiglie dei suoi colleghi pescatori in questa giornata mangeranno, forse, solo riso bianco. Le guardie forestali li hanno avvistati mentre navigavano all’interno della riserva, in zona proibita, e li hanno sanzionati con una multa di 2mila rupie (25 euro) a testa e la confisca delle reti e dell’intero pescato. Da quando le normative sulla conservazione ambientale hanno iniziato a inasprirsi, influenzando le sorti di questi piccoli pescatori, un nuovo conflitto socio ambientale emerge in questa «bella foresta» di mangrovie.

Mentre la tigre del Bengala diventa sempre più visibile, soprattutto agli occhi stranieri, attraendo milioni di turisti ogni anno da tutto il mondo, le comunità che abitano questo territorio sono, al contrario, sempre più invisibili. Le loro necessità, i loro bisogni e i loro diritti sembrano affondare in quel terreno fangoso sul quale abitano che non lascia tregua nemmeno nei momenti di secca.

Nuove regole contro la pesca

Il rischio continuo di maree e alluvioni tipico del territorio e la salinità della terra, che impedisce una florida attività agricola, creano una costante incertezza. Gli uomini come Sohankharo non hanno facoltà di scelta, e l’attività di pesca rimane una delle più importanti fonti di reddito per la maggior parte delle famiglie, sfamando circa l’ottanta per cento della popolazione.

Il «Progetto tigri», nato nel 1973, è stato rinforzato dal governo tra il 2005 e il 2006 con nuove norme che hanno creato, tra le altre cose, zone protette inviolabili nelle quali l’accesso è proibito. La popolazione si è ritrovata, così, senza un’alternativa valida, se non quella di infrangere la legge.

«La zona accessibile non è abbastanza pescosa per poter sfamare tutti e, spesso, non siamo al corrente dei confini imposti dalle guardie. Nessuno ci avvisa, se non a bastonate e con multe salate quando ci sorprendono pescare nelle acque del fiume», si sfoga Sohankharo, mentre ci racconta delle difficoltà poste da un territorio già di per sé difficile, e si lamenta del fatto di aver dovuto pagare ingenti somme di denaro semplicemente per svolgere il proprio lavoro.

L’isola si affaccia direttamente sulla zona inviolabile del parco al di là del fiume, e navigare quelle acque rappresenta un rischio.

923 licenze di pesca per 52mila pescatori

Le ultime norme emanate sulla protezione ambientale si assommano ad altre e macchinose regolamentazioni del passato. Una di queste è quella riguardante il certificato di licenza di navigazione, un documento rilasciato nel 1973 dal dipartimento forestale per regolare l’attività di pesca in un’area di 892 km2. Da allora queste licenze, pari a un numero di 923, non sono mai state incrementate e, a oggi, quelle attive per i 52.917 pescatori dell’intero arcipelago, sono di circa 713, un numero irrisorio che lascia quasi tutti i pescatori in una situazione di illegalità permanente.

Alcuni titolari di queste licenze le adoperano dandole in affitto a prezzi inaccessibili ai piccoli pescatori che spesso si indebitano pur di proseguire la loro attività.

Sohankharo commenta: «Non essendo in possesso della licenza, per pescare ho bisogno di prenderne una in concessione a un costo di 30/32mila rupie l’anno (circa 400 euro). Ma negli ultimi anni questo certificato non mi ha permesso ugualmente di pescare, e molti di noi si sono ritrovati a pagare il certificato e anche le sanzioni e le confische da parte delle guardie, lasciandoci in un perenne stato di debito».

Pescatori sbranati e tigri in aumento

Mentre, da un lato, i pescatori lottano con le norme proibizioniste imposte dal dipartimento forestale e con il sistema burocratico e corrotto che ne consegue, dall’altro si ritrovano a dover fare i conti con le «norme naturali» imposte da un territorio ostile nel quale anche l’aggressività delle stesse tigri protette ha la sua parte.

Il timore di essere intercettati dalle guardie forestali spinge la maggior parte dei pescatori a recarsi in luoghi meno visibili, esponendosi di fatto ai possibili attacchi dei felini.

Per il dipartimento forestale del Bengala gli attacchi mortali delle tigri sono dieci all’anno, ma per le comunità locali e le organizzazioni che operano nel territorio, i morti sono almeno dieci al mese2.

Mentre visitiamo il villaggio di Muthurakhanda, abbiamo l’onore di conoscere il capo del villaggio, Ankul Das, che ci racconta: «Nel corso degli anni la popolazione di granchi, gamberetti e pesci è diminuita nelle zone cuscinetto (zone attigue alla riserva, accessibili alla popolazione, ndr). Gli abitanti dei villaggi entrano illegalmente nella zona centrale alla ricerca di una buona pesca, e alcuni vengono uccisi. Poiché queste morti non vengono denunciate, il governo ne rimane all’oscuro».

Le numerose vedove del Sundarbans spesso non ricevono alcun compenso per la loro perdita: un eventuale rimborso è stabilito solo se il pescatore viene aggredito dalle tigri in acque legali.

Da quando il «progetto tigri» è stato inaugurato, il numero dei felini è in crescita. Nilanjan Mallick, il direttore della riserva del Sundarbans, lo conferma al quotidiano «The Tribune»3: le videocamere installate nella riserva hanno registrato nell’anno 2016/17 un numero di circa 83 tigri.

Questo risultato rispecchia gli sforzi del progetto del governo indiano. Il paese è oggi sede della maggior parte delle tigri nel mondo: 2.226 secondo la stima ufficiale del 2014. Un aumento del 30 per cento rispetto alle 1.706 del 2010.

Il mondo conservazionista esulta a questi numeri, mentre le vedove come Aparna Singh, 30 anni e tre figli, dell’isola di Koltali, gemono in silenzio e a stento mandano avanti le loro famiglie.

Incontriamo Aparna nella nostra seconda visita alle Sundarbans nel marzo 2017. Timida, ci invita a entrare nella sua piccola casa. Appesa alla parete di bambù vi è la foto del marito, Pradhan Singh. Con gli occhi rivolti verso il basso Aparna ricorda il giorno in cui il marito fu catturato dalla tigre: «Erano in tre nella barca. Come ogni giorno, erano andati per la raccolta dei granchi. Da quel giorno Pradhan non è mai ritornato».

Il padre di Pradhan, che vive insieme alla nuora, ci spiega che gli attacchi sono aumentati, sia per l’aumento delle tigri che per la necessità dei pescatori di spingersi in acque pericolose: «I pescatori, per paura dei guardiaparco, si avventurano nelle zone forestali più interne, ed è lì che si trovano le tigri». Poiché la tigre attacca sempre una persona alla volta, i pescatori vanno in gruppetti di almeno tre persone. Se uno di loro dovesse morire per un attacco, gli altri si assumerebbero l’onere di prendersi cura della sua famiglia.

L’alternativa di emigrare

Mentre le guardie forestali ingrassano con le confische di pesce fresco, i piccoli pescatori si indebitano per rischiare la vita ogni giorno.

Per capire meglio le condizioni di vita dei pescatori, ci rechiamo nell’isola Satjelia, una delle più povere e popolose. «Non abbiamo altra scelta, se non quella di morire di fame», commenta Utpal Mishra, un pescatore che ci spiega come le norme vigenti non propongono alcuna alternativa alle comunità locali, se non quella di emigrare. Utpal Mishra ci racconta che alterna il lavoro di pescatore a quello di migrante: «Per sei mesi all’anno vivo a Delhi, per fare il bracciante nell’edilizia. Altre volte vado a Mumbai, Bangalore, Calcutta, o Tamil Nadu. Siamo in molti a spostarci, ma la famiglia e il legame con la nostra terra non ci permettono di abbandonare le acque del fiume».

Un altro pescatore sui 50 anni, anche lui da mesi senza licenza in quanto confiscata dalle guardie, ci dice che suo figlio vive lontano, in Italia. Ce lo dice con fierezza. Anche alcuni suoi amici che vivono nella Sundarbans del Bangladesh, al di là del confine nazionale, hanno famiglia in Italia.

Senza possibilità di sopravvivenza in India, si recano in terre lontane: potremmo forse chiamarli rifugiati della conservazione ambientale?

Quelli che invece rimangono qui, rischiano ogni giorno sanzioni, estorsioni o abusi da parte del corpo forestale, e a volte la vita, com’è successo il 16 marzo 2017, quando un peschereccio con 28 persone a bordo è stato avvistato dalla forestale e capovolto. Gli uomini, le donne e i bambini, subito soccorsi e trasportati in ospedale, hanno poi dovuto sostenere i costi per le cure mediche, negate dal dipartimento forestale4.

Pescatori no, turisti sì

Il Sundarbans, ecosistema ricchissimo di biodiversità, è oggi un territorio a rischio. Le problematiche legate al suo degrado non sono certo da attribuirsi solo ai suoi abitanti, ma a decadi di sfruttamento delle risorse. Nonostante questo, i pescatori continuano a essere incriminati per danni contro l’ambiente, mentre il turismo continua a proliferare in maniera incontrollata. Vengono proibite le imbarcazioni a remi dei residenti, ma le numerose barche turistiche a motore attraversano ogni giorno la zona protetta del parco senza problemi.

Gli abitanti della zona si domandano se queste misure di protezione ambientale, che ledono i loro diritti fondamentali, stiano effettivamente contribuendo alla protezione dell’ecosistema. Alcuni denunciano, ad esempio, la presenza di uomini, probabilmente legati alla mafia del legname, che tagliano alberi nella foresta senza curarsi di farlo anche quando sono in fiore, ostacolandone la riproduzione. È una pratica teoricamente illegale che però pare non essere ostacolata dalla forestale. Molti altri denunciano poi i grossi pescherecci che attraversano le acque protette rilasciando materiale inquinante.

Tutto ciò senza menzionare i diversi disastri ambientali che non vengono risolti dalle autorità, come quello causato nel 2014 da una petroliera che, collidendo con un’altra imbarcazione nelle acque al confine tra Bangladesh e India, ha rilasciato nel mare migliaia di litri di petrolio5.

Le popolazioni locali esistono

Secondo l’ambientalista Santanu Chacraverti, autore del report The Sundarbans fishers pubblicato nel 2014 dal Collettivo internazionale a sostegno dei pescatori (International collective in support of fishworkers), la problematica in Sundarbans è legata all’incapacità dell’amministrazione locale di analizzare il problema in termini olistici e di cercare soluzioni che prendano in considerazione tutte le questioni: dal degrado ambientale al sovraffollamento, dalla protezione forestale ai diritti delle popolazioni, dal turismo alla gestione comunitaria delle risorse. Quest’ultimo elemento è tra i più importanti, perché riguarda l’inclusione delle comunità locali nella gestione del territorio.

Nonostante l’assoluta importanza della protezione della biodiversità, le norme legate alla conservazione ambientale non possono dimenticarsi dell’esistenza dell’uomo che vive dentro o ai margini di questi territori.

Alcuni studiosi, come Paul J. Ferraro (del dipartimento di economia alla Georgia state university di  Atlanta, Usa), osservano che la creazione di zone protette con misure restrittive, come nel caso del Sundarbans, non sempre crea vantaggio all’ambiente, in quanto i conflitti che sorgono in risposta al malessere della popolazione impediscono la giusta gestione del territorio.

Gli abitanti delle Sundarban, come Utpal Mishra o Sohankharo, sono i primi a voler proteggere la natura. La loro vita dipende da essa, ma per loro non è solo fonte di reddito, rappresenta la loro casa e la loro identità.

È proprio Utpal Mishra che, un giorno, esplorando le Sundarbans in barca, ci dice: «Scendiamo, camminiamo nella foresta. Come potete studiare il nostro territorio se non capite cosa significa camminare su questo terreno?».

Mentre una guerra globale sulle risorse naturali è alla ricerca di ipocrite soluzioni omogenee per tutti, i pescatori delle Sundarbans ci dicono che non si possono trovare soluzioni se non si sa cosa vuol dire sporcarsi i piedi nel terreno fangoso e buio della foresta.

Eleonora Fanari

Note:

1   www.census2011.co.i
2  Shreya Das, The tiger widows of Sunderbans: caught between the tiger and apathy, «The Indian Express», 27/12/2017.
3  Pritha Lahiri, Sujoy Dhar, Tigers burn bright in the Sundarbans, «The Tribune», 07/10/2017.
4  Informazione condivisa con l’autrice dall’organizzazione Dakshinbanga Matsyajibi Forum (Dmf).
5  Un sends team to clean up Sunderbans oil spill in Bangladesh, «The Guardian», 18/12/2014.

 

Popolazioni Indigene in India

I popoli originari dell’India, o adivasi, rappresentano l’8,6 per cento del totale della popolazione indiana, circa 104 milioni di persone (secondo il censimento del 2011). L’uso del termine adivasi risale al periodo coloniale e si parla di comunità tribali già nel primo censimento del 1901.

A livello istituzionale le comunità tribali in India vengono riconosciute con la locuzione scheduled tribes (St) che appare per la prima volta nella costituzione indiana del 1950, nell’articolo 366 (25). In essa si attribuiscono agli adivasi diritti legati al loro stato di marginalità storica e alla loro diversità culturale, considerata una ricchezza per il paese.

Secondo l’Iwga (International work group for indigenous affairs) «in India, ci sono 705 gruppi etnici ufficialmente riconosciuti come scheduled tribes. Ci sono poi diversi gruppi indigeni non riconosciuti. La maggiore concentrazione di queste popolazioni si trova nei sette stati Nord orientali dell’India e nella cosiddetta “cintura tribale centrale” che si estende dal Rajasthan al Bengala occidentale». Gli adivasi vivono in tutta l’India, ma principalmente nelle zone montuose e collinari, lontano dalle pianure fertili. Tra le comunità più conosciute vi sono i Santhal e i Gond nello stato di Orissa, i Baiga in Chattisgarh, i Gujjar e i Tharu in Uttar Pradesh e Uttarakhand.

La lotta indigena per il bene comune

Gli adivasi considerano la terra come una risorsa comune, e tradizionalmente hanno sempre controllato e gestito le risorse naturali disponibili attraverso istituzioni comunitarie consolidate.

La maggior parte di queste comunità vive in aree fortemente boscose, la loro economia si basa principalmente su un’agricoltura di sussistenza, sulla caccia o la raccolta.

Le politiche Indiane da decenni sfruttano le risorse naturali delle terre ancestrali indigene danneggiando l’ambiente e minando lo stile di vita delle popolazioni native. I numerosi conflitti, a volte armati (come in Bhastar, Chattisgarh), tra lo stato e le comunità indigene, continuano a perpetuarsi in tutto il territorio indiano, incidendo sul loro stato di povertà e di salute. Per questo motivo, un gran numero di membri di queste comunità si ritrova a dover migrare nelle grandi città come New Delhi, Mumbai e Calcutta, nelle quali vengono spesso sottopagati e posti alla mercé di grandi impresari e latifondisti (Karnika Bahuguna, Madhu Ramnath et al., Indigenous people in India and the web of indifference, DownToEarth, 10/08/2016).

E.F.

I parchi in India

L’idea di istituire delle aree protette nasce negli Stati Uniti nel 1872 con la creazione dello Yellowstone nel territorio di Montana e Wyoming. In India, i parchi naturali nascono nel 1935, quando viene fondato il primo, l’Haley national park, oggi conosciuto come il Corbett national park, nello stato di Uttarakhand.

Fino al 1970 i parchi istituiti sono cinque. Ma a inizio anni ‘70 esplode l’interesse per la protezione ambientale, ed entra in vigore la Wildlife protection act (Wlpa) 1972, una legge molto restrittiva per la gestione e la protezione di flora e fauna. La Wlpa 1972 proibisce la caccia all’interno delle zone protette e stabilisce una serie di reati classificati sotto la fattispecie di crimini ambientali.

Da questo momento in poi le restrizioni aumentano e iniziano i conflitti tra le comunità indigene e il corpo forestale.

 

Mezza Italia di aree protette

Fino al 2002 le aree protette erano divise in due categorie: National park (Np), dove non sono permesse numerose attività umane, e Wildlife sanctuary (Wls) dove le attività umane sono maggiormente tollerate. Con la modifica della Wlpa nel 2002 vengono introdotte due nuove categorie di aree protette: Conservation reserves e Community reserves, aree protette che fungono da zone cuscinetto o connettori e corridoi di migrazione tra parchi nazionali, riserve naturali e foreste protette. Le aree di conservazione sono quelle disabitate e di proprietà del governo indiano, ma utilizzate per sussistenza da comunità umane, le aree comunitarie sono quelle nelle quali parte delle terre è di proprietà privata.

Secondo i dati ufficiali del Gennaio 2019, in India oggi vi sono un totale di 868 aree protette (104 parchi nazionali, 550 santuari della fauna selvatica, 87 riserve di conservazione, 127 riserve comunitarie), che coprono circa il 5 per cento del territorio indiano, 165.088 km2, equivalente a mezza Italia.

Alcuni parchi nazionali e santuari della fauna selvatica che ospitano una considerevole popolazione di tigri, sono stati definiti Tiger reserves, riserve delle tigri, e godono di uno status speciale e di politiche di maggiori restrizioni. A oggi nel paese le riserve delle tigri sono 51.

E.F.


Rischi e contraddizioni delle politiche ambientali:

Più ambiente per tutti, meno diritti per alcuni

Nella corsa mondiale alla conservazione ambientale, l’India si difende bene. Le sue foreste coprono una superficie maggiore di due volte l’Italia, le aree protette aumentano a vista d’occhio, e tra queste, fiore all’occhiello, le riserve delle tigri sono quasi raddoppiate in 15 anni. Peccato che le sue politiche sempre più restrittive per conservare l’ambiente producano migliaia di sfollati, soprattutto tra le popolazioni più povere di indigeni e dalit, territori militarizzati, violenze impunite e appetiti economici che tutto sono fuorché rispettosi della natura.

Negli ultimi decenni siamo stati testimoni dello sviluppo internazionale di nuove politiche ambientali per espandere zone verdi, creare aree protette, ridurre il bracconaggio, preservare specie animali a rischio, conservare la biodiversità.

Il tema è all’ordine del giorno di numerosi paesi che vedono nella biodiversità anche un contributo alla sicurezza alimentare e alla salute dell’intera società, e un fattore di diminuzione della vulnerabilità del territorio di fronte ai disastri ambientali e ai cambiamenti climatici.

La Convenzione sulla diversità biologica

Il principale strumento che la comunità internazionale si è data per la tutela della biodiversità a livello planetario è la Convenzione delle Nazioni unite sulla diversità biologica (Cbd), oggi sottoscritta da 193 paesi. Adottata a Rio de Janeiro nel 1992 al primo Summit della terra, la Conferenza sull’ambiente e lo sviluppo delle Nazioni unite (Unced), la Cbd è un trattato giuridicamente vincolante che si pone come obiettivi principali «la conservazione della diversità biologica, l’uso durevole dei suoi componenti e la ripartizione giusta ed equa dei benefici derivanti dall’utilizzazione delle risorse genetiche».

L’organo di governo della Cbd è la Conferenza delle parti (Cop) che si riunisce ogni due anni per analizzare i progressi compiuti, verificare le priorità e pianificare nuovi ambiti di lavoro. Tra i venti obiettivi stabiliti nella Cop10 tenutasi nell’ottobre 2010 in Giappone, nella prefettura di Aichi, l’undicesimo prevede che, entro il 2020, le aree di conservazione coprano almeno il 17 per cento delle zone terrestri del pianeta e il 10 per cento delle aree marine e costiere.

Questo obiettivo, secondo il rapporto Protected planet 2019 del Programma delle Nazioni unite per l’ambiente (Unep), si sta raggiungendo efficacemente: «Vi sono buoni progressi nell’ampliamento delle aree protette. La copertura terrestre è in aumento dal 14,7 per cento nel 2016 al 14,9 nel 2019, e la copertura marina è passata dal 10,2 per cento al 17,3 delle acque nazionali. Se gli sforzi da parte dei governi per attuare gli impegni proseguiranno, è probabile che gli obiettivi di copertura terrestre e marina saranno raggiunti entro il 2020. […] Attualmente le aree protette nel mondo sono 245.449. La maggior parte di esse sono terrestri e coprono oltre 20 milioni di km2. Le aree marine protette coprono 26 milioni di km2, rappresentando il 7,47 per cento degli oceani»1.

L’India, le aree protette e gli sfollati

In linea con gli obiettivi della Cbd, anche l’India sta compiendo il suo percorso di espansione forestale e di creazione di aree protette: le foreste, a inizio 2019, sono arrivate a coprire il 21,34 per cento del territorio, cioè 701.673 km2, più di due volte l’Italia, e le aree protette sono passate da 604 nel 2006 a 868 nel 20192, un’area pari a 165.088 km2, il 5 per cento della superficie complessiva del paese.

Si direbbe un successo per tutti, se non fosse che queste politiche, che vogliono rispondere alla crisi ambientale planetaria, sono talvolta strumento di violazione dei diritti dei popoli che abitano da sempre le terre che si vogliono preservare.

In India, si stima che vivano nelle zone forestali protette circa 4,3 milioni3 di persone, e la loro presenza, per la maggior parte dei casi, è indesiderata e bersaglio di violenze e sfratti.

Il governo, nel salvaguardare le foreste, ha «dimenticato» di tutelare i diritti delle popolazioni che vi abitano: spesso le zone protette sono state create senza tener conto delle esigenze delle comunità locali, le quali, in maniera inaspettata, si sono ritrovate a vivere dentro nuovi confini.

Se prendiamo il caso particolare delle riserve delle tigri, dal 2005 a oggi il loro numero è raddoppiato, da 28 a 51, provocando lo sfollamento di migliaia di famiglie. Secondo uno studio di Lasgorceix e Kothari4, già nel 2009 il numero delle famiglie sfrattate dalle proprie terre era di circa 20mila, cioè più o meno 100mila persone.

Secondo la nostra ricerca sul campo, condotta per conto dell’organizzazione Kalpavriksh e finanziata da Rights and resources inititiaves (Rri)5, sarebbero da aggiungere negli ultimi dieci anni altri 60mila6 sfollati ai 100mila rilevati nel 2009.

In nome delle tigri

«Le tigri sono sempre state venerate da noi come animali sacri, noi le rispettiamo e loro rispettano noi […]. Non abbiamo paura delle tigri, il nostro peggiore nemico sono ora le guardie forestali», ci dice Sukharo Arhi, pescatore del Sundarbans.

In questo territorio le vittime delle tigri del Bengala sono molte, ma per i locali la vera minaccia sono le guardie forestali. Le restrizioni legate alla pesca, le minacce e, a volte, le torture inflitte ai pescatori per vietarne l’attività, hanno lasciato l’intera comunità senza un’alternativa, facendola sprofondare in una situazione di miseria.

Stiamo parlando di violazioni di diritti umani tollerati dalle istituzioni. Esse di solito non vengono denunciate e, quando lo sono, non vengono perseguite dalle autorità perché a denunciare sono persone di casta bassa, indigeni o dalit, che non vengono prese in considerazione.

Secondo le popolazioni locali e numerose organizzazioni, tra le quali Kalpavriksh, negli ultimi dieci anni i casi di torture e minacce da parte dello stato sono aumentati7. Questo dato è confermato anche dal recente rapporto delle Nazioni unite (Report of the special rapporteur on indigenous people 2018), nel quale si afferma che il numero di crimini, violenze, conflitti e sfratti dalle zone protette è in continua crescita.

L’aumento di restrizioni all’interno di queste aree coincide con l’aumento di attenzione internazionale per la difesa della tigre, considerata specie a rischio e inserita dal 2008 nella lista rossa dell’Iucn (Unione mondiale per la conservazione della natura). L’allarme sull’estinzione delle tigri, ha condotto le numerose organizzazioni conservazioniste e lo stesso ministro indiano dell’Ambiente e delle foreste a prendere dei provvedimenti.

Senza scienza né consenso

In India il primo documento che parla esplicitamente della necessità di aumentare le restrizioni per preservare le tigri, è un rapporto del 2005 redatto dalla «Task force della tigre» istituita nel 2003 dal ministero indiano dell’Ambiente e delle foreste, intitolato Joining the dots, nel quale si evidenzia come l’estinzione della tigre sia un effetto della crisi ambientale8.

Nello stesso 2005 l’India ha creato un nuovo corpo per la protezione della tigre, la National tiger conservation authority (Ntca), con lo scopo di assicurare la riproduzione della specie e la protezione del suo habitat. L’anno dopo, nel 2006, è stata modificata la Wildlife protection act del 1972 per stabilire nuove regole e delimitazioni all’interno delle riserve delle tigri istituendo un’area inviolabile chiamata Critical tiger habitat (Cth) nella quale è vietata qualsiasi attività umana e, attorno a essa, una cintura di territorio protetto, la buffer area (zona cuscinetto), che prevede la coesistenza tra fauna e attività umana. La buffer area dovrebbe garantire i diritti forestali delle popolazioni locali, come l’uso sostenibile delle risorse naturali, e i diritti sociali e culturali.

Il 16 Novembre 2007 il ministro indiano dell’Ambiente e delle foreste e la Ntca hanno dato ordine ai singoli stati del paese di creare le Critical tiger habitat entro il 2008. Sono state così create 31 zone inviolabili in tempi brevi, violando le misure che si sarebbero dovute adottare, cioè fare degli studi scientifici preventivi e approfonditi, informare le comunità locali e raccoglierne il consenso.

Queste nuove disposizioni, oltre a negare alle comunità l’uso delle risorse naturali, hanno istituito un meccanismo che legalizza gli sfratti prevedendo una semplice ricompensa economica. Ne è conseguito che dal 2008 gli sfratti dalle aree protette sono aumentati senza peraltro che siano state elargite le ricompense alle comunità colpite.

Sradicati, su terre sterili e senza diritti

Uno dei tanti casi è quello della riserva di Achanakmar, nello stato del Chattisgarh: nel 2009 sono stati sfollati dal Critical tiger habitat sei villaggi che corrispondevano a circa 600 famiglie, tutto ciò senza alcun consenso da parte delle comunità.

Abbiamo visitato la zona di recente, e constatato che oggi quelle famiglie, ricollocate all’esterno dell’area inviolabile, si trovano a vivere in case di cemento decadente, su un lembo di terra sterile, e prive del diritto di accedere alle risorse naturali.

Secondo il nostro studio sul campo, lo stesso è accaduto nella riserva delle tigri di Melghat, in Maharastra, dove sono state sfrattate 1.360 persone. Altre 20mila sfrattate dal parco delle tigri del Kanha nel Madhya Pradesh; 597 famiglie dal parco di Sariska in Rajasthan e più di 3.814 famiglie dal parco di Nagarhole in Karnataka9. La lista continua, e si allunga sempre di più.

Le riserve delle tigri sono le zone più colpite, ma gli sfratti riguardano tutte le zone di conservazione, perfino i corridoi ecologici, cioè quelle «corsie» create per far muovere liberamente gli animali da una zona protetta all’altra, e altre zone attigue ai parchi. Com’è successo, ad esempio, al villaggio di Tummadhia Katha che si trova ai margini del parco naturale del Corbett, nello stato dell’Uttarakhand, dove le dimore abitate dalla comunità indigena dei Van Gujjar, una comunità pastorizia di origini musulmane, sono state demolite per due volte negli ultimi tre anni.

Proteggere la natura con le forze armate

Com’è chiaro dai casi riportati, le politiche di conservazione non si limitano a salvaguardare la biodiversità, ma a controllare i territori utilizzando spesso modalità militari, come l’uso di forze armate e di network informativi.

Le armi da fuoco vengono utilizzate contro le comunità locali accusate di bracconaggio o di altri crimini contro l’ambiente. Di fatto queste comunità sono considerate dai conservazionisti, come ad esempio il Wwf, nemiche dell’ambiente e usurpatrici dell’ecosistema. Un giudizio che si riflette nelle politiche ambientaliste del governo indiano.

Un recente rapporto del Wwf Italia, pubblicato nel maggio 2018, intitolato Bracconaggio connection, descrive il bracconaggio come una delle cause principali dell’estinzione animale, considerando queste azioni «pervasive e devastanti». Questo nonostante alcuni studi dell’Iucn, pubblicati nella rivista online «Natura» e nel Iucn red-list report10, mostrino come tra gli undici maggiori rischi per l’estinzione delle specie animali non vi sia il bracconaggio, ma altre attività umane come lo sfruttamento delle terre per le attività agricole e lo sviluppo urbano. È interessante notare come il report del Wwf colleghi la rete di criminali che fa bracconaggio alla povertà e al bisogno di «facili guadagni»: sono collegamenti pericolosi che si ritorcono sulla pelle dei piccoli contadini locali, doppiamente vittime delle politiche conservazioniste e delle grosse organizzazioni illegali di bracconaggio.

Con la licenza di sparare a vista

Uno dei casi più discussi ed emblematici dell’India è quello del parco nazionale di Kaziranga, in Assam, dove una squadra armata di 430 uomini, tra guardie forestali, paramilitari11 e forze speciali per la protezione della tigre e del rinoceronte, pattugliano la zona con fucili calibro 200 e 303.

Il parco, famoso per i rinoceronti a un corno in via d’estinzione, è altrettanto famoso per il numero delle vittime uccise in nome della lotta al bracconaggio. I guardaparco, per assicurare la massima protezione agli animali, godono di immunità legale e, in accordo con quanto dichiarato nel Piano di conservazione dei rinoceronti nel parco nazionale di Kaziranga, hanno il dovere di «sparare a vista»12 a chiunque sia sospettato di bracconaggio, senza prove, senza arresto né processo.

Come denunciano diversi attivisti locali, questa condizione d’immunità conferita alle guardie, le ha deresponsabilizzate spingendole a sparare anche senza una ragione. Ne è un esempio il caso di Akash Orang, un bambino di 7 anni che nel settembre 2016 è stato ferito alla gamba da un guardaparco con dei colpi di pistola che gli hanno procurato un’invalidità a vita. Secondo gli attivisti, molte vittime della lotta al bracconaggio sono innocenti cittadini che vengono utilizzati dalle guardie per esibire dei risultati visibili. Secondo i dati della Bbc13, dal 2009 a oggi sono state circa 65 le persone uccise ai margini del parco. Numerose quelle accusate di crimini contro l’ambiente, arrestate o torturate impunemente.

Diritti forestali: sanciti e poi violati

La legge indiana sui diritti forestali delle popolazioni indigene e degli altri abitanti tradizionali della foresta (il Fra, Forest rights act), emanata nel 2006, riconosce la diversità dell’uso, dell’accesso e delle pratiche di conservazione della foresta e della biodiversità da parte delle popolazioni native, e garantisce alle comunità il diritto alla terra ancestrale. Il Fra riconosce l’ingiustizia sociale ed economica inflitta alle popolazioni forestali sin dal periodo coloniale, conferendo ampio potere di gestione del territorio al gram sabha (il consiglio degli anziani), e aprendo nuovi spazi democratici e meccanismi d’inclusione a favore di un nuovo modello di conservazione.

Queste disposizioni legislative che concepiscono la conservazione come basata sulla coesistenza piuttosto che sul conflitto, sono in linea con gli impegni internazionali sottoscritti dall’India firmando la Convenzione sulla diversità biologica (Cbd). Nella Cbd, infatti, si afferma la necessità di «promuovere la piena ed effettiva partecipazione delle comunità indigene e locali, e anche il loro previo e informato consenso e coinvolgimento nella creazione, espansione e gestione delle aree protette».

Le atrocità raccontate sopra allora non violano solo i diritti umani e costituzionali fondamentali, ma anche le stesse disposizioni nazionali e gli impegni internazionali in materia di conservazione ambientale presi dal paese. Lo afferma anche il già citato rapporto delle Nazioni unite sui diritti degli indigeni14 che denuncia: «In India i popoli tribali sono stati sfrattati dalle riserve delle tigri per decenni, spesso senza alcuna forma di riparazione. Ciò continua a verificarsi nonostante il Forest rights act del 2006».

Interessi ambientali o economici?

Nonostante quello che dicono l’Onu e altri osservatori internazionali, il governo indiano continua a essere appoggiato da una rete di organizzazioni protezioniste come il Wwf, la Wcs (Wildlife conservation society), l’Ifaw (International fund for animal welfare), e altre (anche chiamate Business international organizations, Bingo), che difendono un modello di conservazione basato su esclusione e controllo. Sembra non interessare loro che dietro la pretesa governativa della difesa ambientale ci siano anche corposi interessi economici.

Secondo un rapporto del 2015 dell’Istituto indiano per la gestione delle foreste di Bhopal15 che ha stimato i dati economici relativi a 25 servizi ecosistemici offerti al paese da sei riserve delle tigri (quelle di Corbett, Kanha, Kaziranga, Periyar, Ranthambore e Sundarbans), il loro valore economico ammonta a circa 1 miliardo di euro l’anno. Di questo, solo il 9 per cento (90 milioni) va a favore dalla popolazione locale. Il 47 per cento (470 milioni) a favore del paese, mentre ben il 43 per cento (430 milioni) è il valore in qualche modo utilizzato a livello mondiale.

Tra i valori economici stimati, quello che riguarda l’industria del turismo è facilmente quantificabile. Ogni anno i parchi delle tigri, infatti, mentre tengono fuori le popolazioni locali, attirano migliaia di persone dall’India e dal resto del mondo. L’introito derivato dai biglietti per l’ingresso al parco di Corbett ammonta a 1 milione di euro annui.

Un altro elemento di contraddizione delle politiche restrittive per la salvaguardia dell’ambiente è il giro d’affari legale e illegale legato al taglio degli alberi16. Capita che il corpo forestale favorisca gruppi criminali organizzati nel taglio e commercio illegale della legna. Nella riserva delle tigri di Buxa, nello stato del Bengala occidentale, alcuni agenti forestali e alti ufficiali di polizia sono stati colti in flagrante17.

Nel parco di Buxa e di Jaldapara le comunità locali avevano già più volte denunciato il taglio illegale degli alberi ma non avevano ottenuto alcuna risposta dalle autorità, in quanto queste erano direttamente coinvolte. Altri introiti provengono da attività come la pesca, il foraggio, la vendita di miele, frutti e altri prodotti che tradizionalmente vengono utilizzati dalle comunità per la loro sussistenza, ma che sempre di più vengono controllate dai governi locali degli stati indiani.

Per esempio, dal 2017 lo stato del Chattisgarh ha proibito la vendita diretta del mahua, un frutto da cui si ricava un liquore che rappresenta un’importante fonte di sussistenza per la comunità indigena dei Baiga. Questa proibizione ha influenzato negativamente l’economia locale18.

Inoltre è molto importante lo sfruttamento da parte dello stato dei bacini idrici utilizzati anche per la produzione di energia elettrica. Molte sono le dighe presenti all’interno di zone protette, come ad esempio la diga di Kalagarh nella riserva di Corbett, nello stato dell’Uttarakhand, costruita nel 1974 per contribuire alla distribuzione idrica in tutto lo stato e nella città di New Delhi.

La diga ha lasciato gli abitanti di queste zone quasi a secco.

Inoltre, bisogna menzionare il mercato legato allo scambio di emissioni di gas serra – ossia le quote di emissioni fissate dai rispettivi governi locali alle imprese – che gioca un ruolo fondamentale nell’interesse sulla protezione delle foreste. In India, uno dei meccanismi per ridurre le emissioni inquinanti e riforestare le zone degradate è il Campa, o Compensatory Afforestation Act, un meccanismo di compensazione in base al quale il valore delle imposte versate dai privati è calcolato in rapporto alla perdita forestale in termini di biodiversità e servizi ecosistemici. Questi fondi poi dovrebbero essere utilizzati per riforestare aree degradate, peccato che spesso anche questo meccanismo si basi su giochi di corruzione e interesse. Infatti in molte zone, le aree prese in considerazione per riforestare non sono aree degradate ma aree utilizzate a livello comunitario dalle popolazioni indigene che vengono quindi sgomberate. Come è avvenuto nel caso del parco delle tigri del Tadoba, nel Maharastra, dove a Sitarampeth, in quella che era una zona usata dalla popolazione locale per il pascolo, è stata eretta una staccionata per creare un sito di «riforestazione» con circa 100 alberi in un terreno che ha una superficie di 608 ettari, 6 milioni di metri quadrati.

Un paese in lotta

«Se la comunità internazionale continua a nascondersi dietro false promesse di conservazione, non ci resta altro che lottare, e mostrare che un nuovo modello di conservazione non è solo possibile ma necessario», commenta Neema Pathak dell’organizzazione indiana Kalpavriksh. Numerose sono le realtà, sia in India che in altre parti del mondo, che hanno tramutato la loro lotta in atti fruttuosi, riuscendo a sviluppare dei progetti di conservazione e di gestione comunitaria del territorio.

È necessario riesaminare e rivedere criticamente le pratiche di conservazione e di sviluppo, e utilizzare le disposizioni della legge sui diritti forestali e sulla protezione della biodiversità per costruire dei progetti di convivenza non solo nelle aree protette, ma anche nelle aree limitrofe. Bisogna inoltre fare in modo che le istituzioni internazionali prendano coscienza delle situazioni locali e che si preoccupino di usare maggiori provvedimenti per far rispettare gli accordi internazionali sul rispetto dei diritti umani. Solo allora lo stato indiano, e gli stati tutti, riusciranno a prendere dei provvedimenti per garantire la conservazione della biodiversità in maniera adeguata, garantendo anche diritti e opportunità uguali per tutti.

Eleonora Fanari

Note:

Conservazionisti versus Ambientalisti

Organizzazioni come la World wide fund for nature (Wwf), la Wildlife conservation society (Wcs) e l’International conservations (Ic), sono considerate estremiste da molti attivisti e ambientalisti, a causa delle loro politiche di conservazione, identificate sotto il nome di Fortress conservation. Infatti nonostante il Wwf riconosca apertamente la necessità di integrare le comunità locali nella conservazione dell’ambiente, spesso finanzia operazioni militari come nel citato parco di Kaziranga in Assam.

Questo comportamento è da un lato frutto della cecità di molti conservazionisti nel considerare la protezione ambientale una priorità a qualsiasi costo, anche quello della vita delle persone. Dall’altro queste organizzazioni internazionali risentono di idee coloniali ed eurocentriche e non considerano le popolazioni tribali capaci di governare in maniera appropriata le zone forestali.

L’importanza di includere le comunità indigene nella conservazione ambientale è stata riconosciuta solo recentemente, nel 2007, dalle Nazioni unite.

Questa mentalità coloniale, in un paese come l’India è rappresentata dalle classi dominanti che spesso siedono ai vertici di queste organizzazioni e che ostacolano il riconoscimento di leggi come la Forest Rights Act.

Dall’altro lato, come dimostrato dalle ricerche di Rosaleen Duffy (Rosaleen Duffy, We need to Talk about the militarisation of conservation, 20/07/2012)., sono numerose le organizzazioni transnazionali che finanziano training militari e altre misure anti bracconaggio, attività che risultano lucrative per il settore privato. Inoltre numerosi sono gli articoli che accusano il Wwf di scandali e di partnership con grosse multinazionali. In un articolo di Jonatham Latham (Jonathan Latham, Way Beyond Greenwashing: Have Corporations Captured Big Conservation?, 07/02/2012). si legge che l’organizzazione del panda ha stipulato delle partnership con aziende come la Monsanto, legata agli Ogm, e la Wilmer, una delle più grandi compagnie mondiali di olio di palma, primo responsabile della distruzione forestale del Borneo indonesiano.

Survival International ha inoltre più volte condannato le attività del Wwf, considerato direttamente coinvolto in Africa in attività lucrative come concessioni per la caccia e per il taglio di legname.

Il dibattito tra nuovi e vecchi conservazionisti è oggi grosso oggetto di discussione, e un campo di ricerca ancora in esplorazione.

E.F.

Campa

Il Campa (Compensatory and afforestation fund management and planning authority bill), approvato nel luglio 2016, rappresenta una delle strategie del governo Indiano per ridurre le emissioni inquinanti senza rinunciare all’obiettivo della crescita economica, considerata prioritaria.

Attraverso il meccanismo del Campa il governo ha dichiarato l’investimento di 6,2 miliardi di dollari per le politiche di riforestazione, fondi che provengono dai tributi pagati dai privati negli ultimi 12 anni per impiantare le proprie aziende in zone forestali.

Il Campa, come affermato dal ministro dell’Ambiente, Prakash Javadekar «potrà assicurare la crescita economica senza rinunciare alla salvaguardia degli ecosistemi».

La legge è stata fortemente criticata e considerata come «anti tribale», «anti forestale» e, infine, contraria ai princìpi etici. Le politiche di riforestazione, infatti, consentono l’approvazione dei progetti ancor prima che vengano individuate le stesse aree forestali interessate dai piani di riforestazione. Un sistema che rischia di compromettere abitabilità, diritti ed economie rurali.

Uno studio condotto dal Community forest rights – learning and advocacy ha analizzato un campione di 2.548 piantagioni, approfondendo 63 casi attuali di riforestazione coperti con i fondi del Campa. Esso rivela che nel 60 per cento dei casi i progetti sono consistiti nella installazione di monocolture, per lo più di alberi teak piantati in zone precedentemente utilizzate dalle comunità locali. Inoltre molti piani di riforestazione hanno trasformato zone precedentemente considerate come aree di massima biodiversità in monocolture. Ciò significa che questi fondi non solo vengono utilizzati nella violazione più totale del diritto alla terra delle comunità locali, ma che stanno anche contribuendo alla distruzione degli ecosistemi, là dove erano nati per uno scopo esattamente opposto, ovvero quello di preservare e proteggere l’ambiente.

E.F.

Resort lussuosi per l’«eco turismo» sulle terre degli sfollati:

Largo al turismo

Mentre le comunità locali sono cacciate dalle loro terre perché considerate nemiche dell’ambiente, numerosi resort turistici sorgono dentro e attorno le riserve.

Il 14 febbraio 2017 il villaggio di Tumadhia Katta è assalito dalle guardie forestali che hanno distruggono le case degli abitanti, accusati di invasione illegale in territorio protetto. Il villaggio si trova all’esterno dei limiti del parco naturale di Jim Corbett, ed è abitato da 46 famiglie della comunità indigena dei Van Guajjar, una comunità nomade che da sempre si dedica alla pastorizia.

La riserva delle tigri di Jim Corbett, situata nella prospera foresta occidentale del Tarai, nello stato dell’Uttarakhand, è il più vecchio parco naturale del continente asiatico istituito nell’anno 1936. È la riserva con la maggiore densità di tigri, circa 215, e rappresenta un importante polmone verde e uno dei parchi più preziosi del paese. È distante 200 km dalla caotica capitale New Delhi, e offre un facile accesso per i 200mila turisti che lo visitano ogni anno.

Nel report The value of wildlife tourism for conservation and communities pubblicato nell’ottobre 2017 da TofTigers, si legge che il turismo è un’importante fonte di reddito per le comunità locali, le quali possono giovarsi di tale risorsa come beneficio positivo per il loro sviluppo economico. Purtroppo però, al contrario di quanto sostenuto dallo studio, i Van Gujjar non sembrano godere di una situazione particolarmente favorevole. Spesso, anzi, il loro stile di vita nomade e pastorizio, è considerato ostile per la conservazione e la protezione del territorio e quindi osteggiato.

I Van Gujjar, pastori discriminati

Gli abitanti del villaggio di Tumadhia lottano dal 2013 contro l’ordine di sfratto emanato dal tribunale dell’Uttarakhand, ordine fortemente contestato sia per la sua infondatezza che per il suo carattere discriminatorio.

I Van Gujjar sono una comunità proveniente tradizionalmente dagli altopiani del Jammu e del Kashmir. Secondo la loro mitologia discesero dalle alte cime dell’Himalaya su richiesta del Re, perché gli portassero in dono il loro pregiato latte di bufala, principale prodotto dei pastori Van Gujjar. Nel corso del tempo si insediarono nelle ricche praterie dell’Uttarakhand, preziose per il pascolo del bestiame.

Intorno alla foresta protetta di Corbett vi sono oggi circa 37 insediamenti abitati da una popolazione di 340 famiglie. La maggior parte di esse si trova nel distretto di Nainital, dove sorge il villaggio di Tumadhia Katta.

In balia degli umori delle guardie

Nel nostro viaggio verso il parco naturale di Corbett incontriamo Safi Bhai, 42 anni, membro dell’Aiufwp (All indian union of forest working people), un sindacato nazionale che supporta i diritti delle comunità forestali. Ci accompagna nel villaggio di Tumadhia Katta, dove risiede.

Saphi è il pastore della casa, si sveglia ogni mattina alle 5 per mungere i bufali e inizia la sua giornata con un denso chai (té) lattiginoso. Nella sua dimora, che si trova al centro di un’immensa prateria, ognuno ha un ruolo ben definito. Il figlio di 15 anni raccoglie il fieno per il bestiame, la figlia prepara la colazione e la madre ripulisce l’esterno della casa dalle erbacce.

I Van Gujjar del villaggio di Tumadhia, come molti altri nella zona, sono sempre stati discriminati dalle istituzioni dell’Uttarakhand, stato che non ha mai riconosciuto la comunità nomade come gruppo indigeno.

Considerati estranei nella loro terra, sono maltrattati dal dipartimento forestale che ha sempre esercitato un potere di tipo feudale sulla comunità. Sempre in balia degli umori delle guardie, i Van Gujjar trascorrono la vita pagando imposte e sanzioni ingiustificate al dipartimento che, in cambio di permessi, come quello per il pascolo, richiede tangenti sotto forma di latte, burro, yogurt e altri prodotti.

Proteggere zone eco fragili con espulsioni

Le problematiche nel villaggio sono aumentate dopo la revisione del 2011 delle linee guida per l’istituzione di una zona eco fragile (Esz, eco sensitive zone) intorno all’area protetta: una fascia di 10 km lungo il suo perimetro. Nonostante l’Esz abbia la potenzialità di regolare le attività commerciali e di sviluppo, alcune organizzazioni ambientaliste e sociali la considerano problematica perché non dice niente sulle necessità degli abitanti.

Nel 2015 il ministro indiano dell’Ambiente e delle foreste ha iniziato a fare pressione sul processo di istituzione dell’Esz perché venisse accelerato, tanto che il 19 dicembre 2016, la corte suprema dell’Uttarakhand ne ha disposto la creazione. Nella stessa ordinanza, il tribunale ha ordinato anche l’immediata espulsione della comunità dei Van Gujjar dalla zona, poiché considerati «responsabili di incendi e altre attività illecite all’interno e ai margini dell’area protetta».

Ashok Chaudhary, il presidente dell’Aiufwp, ha dichiarato al Times of India che «oltre ad essere un’affermazione infondata, non dobbiamo dimenticare che i diritti dei Van Gujjar sono protetti dal Forest rights act del 2006, che deve essere ancora riconosciuto sia nei fatti che nello spirito».

In seguito al pronunciamento della corte, Saphi Bhai, già nel mirino delle autorità locali per il suo attivismo, nel febbraio 2017 è stato sfrattato con la sua famiglia dalle forze di polizia e dalle guardie forestali. Il loro villaggio è stato assalito con violenza, gli abitanti umiliati e le case distrutte.

La moglie di Saphi Bhai è stata vittima di abusi sessuali, i suoi figli sono stati brutalmente molestati e lui pestato e poi arrestato.

Resort turistici vs nativi

Mentre da un lato le comunità locali soffrono lo stigma di stranieri nella propria terra e sono vittime di violenze, dall’altro investitori e turisti sembrano essere accolti nelle aree protette a braccia aperte. Il parco, infatti, ospita 77 resort sorti per la maggior parte lungo i corsi dei due fiumi principali che attraversano la zona cuscinetto della riserva, il Ramganga e il Kosi. Questi resort, che possono accogliere fino a 3.200 persone, sono tutti privati e, secondo un reportage prodotto nel 2012 dalla testata locale Tehelka, intitolato Corbett: now on sale, gli appezzamenti di terra che si trovano lungo i 17 km che vanno dal fiume Dumunda fino a Marcha sono tutti in vendita. Inoltre quasi tutte le località turistiche sono recintate e il 70 per cento di esse sono state costruite in terre che originariamente erano coltivate dalle comunità locali. Ma chi vende queste terre che dovrebbero essere protette dal dipartimento forestale?

 

Crimine organizzato e forestali corrotti

Nel corso delle nostre ricerche sulle violazioni del Forest rights act intorno all’area protetta di Corbett, incontriamo Nainital P. C. Joshi, un attivista che abita nella città di Ramnagar, ai margini del parco. Secondo Joshi queste terre erano precedentemente di proprietà delle numerose comunità che abitavano in questi territori. «Col tempo la maggior parte dei villaggi sono stati evacuati per la creazione della riserva delle tigri; altri sono stati minacciati dalla mafia edilizia, e la maggior parte dei villaggi oggi presenti nella zona cuscinetto sono quasi disabitati».

Joshi mi racconta che un’organizzazione criminale sta inducendo i contadini, tramite minacce, a vendere le loro terre per un prezzo irrisorio di 125 euro per ettaro. Lo scopo è quello di rivendere in seguito quelle stesse terre a prezzi commerciali per lo sviluppo di attività turistiche.

Le stesse notizie vengono riportate da Tehelka che documenta il coinvolgimento del dipartimento forestale nella vendita privata di terreni teoricamente protetti e nel rilascio di permessi per lo svolgimento di attività lucrative all’interno del parco. Rajiv Bhartari, direttore del parco dal 2005 al 2008, racconta a Tehelka che durante il suo mandato aveva sollevato diverse obiezioni sugli accordi presi dal suo predecessore con alcuni privati, in particolare con il Leisure Hotel che utilizzava parte della riserva delle tigri come sua proprietà privata con libero accesso al fiume e alle strade forestali anche durante la notte. Bhartari, in seguito alle sue denunce, è stato trasferito.

L’ipocrisia del turismo sostenibile

Mentre si vietano attività commerciali alle comunità locali, il turismo, sotto la forma di «eco turismo», viene giustificato come attività sostenibile in grado di migliorare le condizioni di vita delle comunità locali.

Di fatto, però, i grossi interessi legati al turismo così come ad altre attività lucrative all’interno della foresta, non fanno altro che ledere sia i diritti delle comunità indigene dei Van Gujjar, sia quelli della natura stessa.

Molti resort stanno estraendo pietre e sabbia dal letto dei fiumi, incidendo sull’intero equilibrio idrico. Mentre, la pesca nel fiume Ramnagar, autorizzata dal 2004 con il pretesto di generare profitto per le comunità locali, è diventata un’attività eco sostenibile promossa dai vari resort per i loro ospiti appassionati di quello sport.

Tutto questo va a discapito degli animali da proteggere che non sono liberi di accedere a quei luoghi recintati da alti muri. Motociclette, musica ad alto volume e matrimoni sontuosi si svolgono nelle località alla periferia della riserva, in violazione delle disposizioni conservazioniste che sono invece perentorie per quanto riguarda lo sfratto della comunità dei Van Gujjar dalla loro terra.

In definitiva, i Van Gujjar, che vengono considerati invasori delle aree protette e nemici della conservazione ambientale, vivono in case fatte di mattoni di terra cruda, consumano solo cibo vegetariano e conducono una vita semplice senza fuoristrada, macchine, strade asfaltate o altre fonti di inquinamento. Al contrario, i promotori del turismo sostenibile sono stanziati all’interno della zona protetta del parco con numerosi resort di lusso, strade asfaltate e attività che minacciano la zona eco fragile della riserva delle tigri.

Il richiamo sordo della notte

I Van Gujjar, il cui nome significa «Gujjars che vivono all’interno della foresta», non vengono riconosciuti come abitanti nativi di queste zone e, ancor meno, come loro protettori, nonostante la foresta rappresenti il loro rifugio, il loro tempio e il loro dio. «Noi ci prendiamo cura degli alberi e dei nostri bufali, e loro si prendono cura di noi», commenta ad alta voce Safi Bhai. Durante la nostra visita al villaggio di Tumadhia, i suoi abitanti si riuniscono nel patio della casa di Saphi per discutere sulle strategie e i nuovi sviluppi politici da intraprendere. «Siamo stanchi di queste accuse di intrusione nella zona protetta. Vorremmo solo vivere una vita sicura e il governo dovrebbe darci l’opportunità di farlo». Mentre ci appisoliamo su una piccola branda postaci sulla terrazza della casa, respiriamo il silenzio scandito dai dolci mormorii della notte: la brezza smuove le erbacce da togliere al mattino; sentiamo il muggito del bufalo in attesa di esser munto; l’acqua del fiume si rinfresca nella notte per essere riposta nelle ampolle dalle donne. C’è anche il leggero ronfo di Saphi Bhai che riposa i suoi sensi per potersi prendere cura della foresta al sorgere del sole. «Siamo come animali», dicono i Van Gujjars, «noi eseguiamo il richiamo della natura e la natura ci restituisce i suoi frutti». Se il governo indiano rispondesse al grido di queste popolazioni, se ascoltasse i rumori della notte e il richiamo della foresta, forse potrebbe creare delle alternative valide e nuovi modelli di protezione ambientale nel rispetto della natura e della vita dei suoi abitanti.

Ma questo non cambierà, finché verranno salvaguardate le sole tigri per farne un’attrazione turistica.

Eleonora Fanari

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Questo dossier è stato firmato da:

  • Eleonora Fanari – ricercatrice indipendente, attivista ambientale. Laureata in Lingua e letteratura hindi all’Università orientale di Napoli. Dopo un master in Sociologia alla Jawaharlal Nehru University, New Delhi, ha iniziato a collaborare con varie organizzazioni indiane no profit, in particolare Kalpavriksh, interessandosi principalmente dei problemi legati all’esclusione sociale e al diritto alla terra.
    Negli ultimi anni si è interessata dei conflitti socio ambientali derivanti dalla contraddittorietà di molti processi di sviluppo nel sub continente indiano, con particolare riferimento alla complessità dei cosiddetti forest rights. Ora lavora come ricercatrice presso l’Universita autonoma di Barcellona, Spagna, nel progetto di ricerca dell’EjAtlas/EnvJustice, una piattaforma interattiva che cataloga migliaia di storie di resistenza locale. Per l’EjAtlas continua ad affrontare le tematiche relative alla conservazione ambientale e ai conflitti derivanti da essa.
  • A cura di – Luca Lorusso, giornalista redazione MC.
  • Archivio MC: Survival International, La loro terra, il nostro futuro, dossier MC agosto-settembre 2017.