Brasile. Ailton Krenak, oltre il silenzio e l’invisibilità

Da 84 anni, il mese di aprile è dedicato alla celebrazione dei popoli indigeni dell’America Latina. Quest’anno, però, per quelli del Brasile, la ricorrenza dell’Abril indígena assume un significato particolare, essendo stata segnata da due avvenimenti di portata storica.

Il 10 aprile scorso, Davi Kopenawa, leader e sciamano noto a livello internazionale, ha incontrato papa Francesco per chiedergli di unire i suoi sforzi a quelli del presidente Lula per contrastare la minaccia che ancora oggi incombe sul destino del suo popolo, gli Yanomami, rappresentata dalla nuova ondata di cercatori d’oro che si riversano nel territorio a loro riconosciuto nel 1992.

Qualche giorno prima, il leader indigeno e ambientalista Ailton Alves Lacerda (1953), del popolo Krenak (di qui il nome Ailton Krenak), era stato insignito dall’«Accademia brasiliana delle lettere» del titolo di «immortale» (riservato ad accademici illustri) divenendo il primo scrittore indigeno a insediarsi nella prestigiosa istituzione brasiliana.

Già sul finire degli anni Ottanta, Krenak, tra i promotori del movimento indigeno, era stato protagonista di un altro atto di grande valore simbolico: durante i lavori dell’Assemblea nazionale costituente di cui era partecipante – in segno di lutto e protesta – si era dipinto il viso di jenipapo (frutto che rilascia una tinta scura utilizzata in diverse culture per la pittura corporale) per mobilitare l’opinione pubblica e i parlamentari affinché approvassero i due articoli della Costituzione (varata poi nel 1988) che riconoscono gli indigeni come cittadini brasiliani e il loro diritto a vivere sulle terre da essi tradizionalmente occupate secondo la propria cultura.

Divenuto un leader riconosciuto e affermato a livello nazionale fin dalla giovane età, non ha mai smesso di denunciare i soprusi e le violenze che, dall’inizio del XX° secolo fino al periodo della dittatura militare (1964-1985), hanno segnato in modo indelebile la sua storia personale e quella del suo popolo.

Dal 1940, con l’espansione dell’industria mineraria nel Minas Gerais a opera della compagnia «Vale do Rio Doce» (Valle del fiume Dolce), il territorio krenak è attraversato da una linea ferroviaria per il trasporto dei minerali destinati all’esportazione. Da quel momento, la vita degli indigeni krenak cambiò per sempre: il contatto con gli operai provocò la diffusione di malattie e l’ambiente fu completamente stravolto: «Le nostre montagne – scrive Krenak – si sono trasformate in merce da trasportare su treni e vagoni».

Considerati un intralcio allo sviluppo, i Krenak, che già allora erano un popolo di poche decine di persone (oggi sono circa 500), furono successivamente espulsi dalla terra d’origine e segregati (tra il 1969 e il 1972) in un luogo conosciuto come il «Riformatorio». Krenak, che fu deportato in questa struttura gestita dalla polizia militare quando era ancora un ragazzo per essere «rieducato», non esita a definirla un «campo di concentramento». Solo dal 1980 in poi, dopo un’altra serie di deportazioni, i Krenak riconquistarono il proprio territorio.

Nel 2015, una nuova tragedia si abbattè sul piccolo popolo indigeno: il cedimento della diga di contenimento di una impresa sussidiaria della Vale, provocò lo sversamento nel fiume di residui tossici derivanti dell’estrazione dei minerali ferrosi. Ailton Krenak sentì l’urgenza di denunciare il disastro ambientale che aveva determinato la morte del rio Doce o «Watu», cioè «nostro nonno» in lingua krenak, che era «entrato in coma».

Nella sua lunga frequentazione del mondo del bianco, Krenak ha compreso che è necessario traslare la potenza della lingua nella scrittura – «la scrittura dell’oralità» – attraverso la quale è possibile veicolare all’esterno il discorso e le rivendicazioni dei popoli indigeni.

Anche come reazione all’ennesimo trauma vissuto dal suo popolo, tra il 2019 e il 2022 ha scritto una serie di saggi che, in poco tempo, sono diventati dei veri e propri best sellers, tradotti in diciannove paesi: Ideias para Adiar o Fim do Mundo (2019), A vida não é util e O amanhã não está à venda (2020) e Futuro ancestral (2022).

Nel suo discorso di investitura all’Accademia brasiliana delle lettere, Krenak ha dichiarato che con lui entrano nell’istituzione oltre 300 popoli indigeni – più precisamente 305 -, e ha reso omaggio non alla «lusofonia» ma alla «sinfonia» delle oltre 200 lingue native che rappresentano la diversità culturale del Brasile.

Come l’indio «sceso da una stella colorata, brillante» di cui canta Caetano Veloso, Krenak, nell’uniforme verde e oro dei sovrani colonizzatori, ma con il capo cinto da una bandana del popolo Huni kuin – «gli uomini veri» dell’Acre (ai quali è legato da vincoli di parentela e di storia) -, è atterrato sul palcoscenico della Storia per riscattare i popoli indigeni dal silenzio e dall’invisibilità a cui sono stati relegati per oltre 500 anni e per riconnetterci con la nostra ancestralità, senza la quale non può esserci futuro.

Silvia Zaccaria

 




Paradosso conservazione

 


Ambientalisti poco radicati nell’ambiente, governi che fingono di proteggere la natura dei loro paesi per interessi economici. Il tutto a scapito delle culture e della sapienza ancestrale locali. Come si sdoganano pratiche non appropriate per la conservazione degli ecosistemi. In tutto il pianeta.

Come anche le persone più distratte si saranno accorte, a volte le tragedie sono simili a Nord come al Sud del mondo, ma la portata è ben diversa. Ad esempio, in Europa gli incidenti stradali di mezzi pubblici coinvolgono raramente più di poche persone, mentre ad altre latitudini le vittime si contano spesso a decine. Idem per attentati, malattie, infortuni sul lavoro, scontri di piazza e così via. Negli ultimi deccenni si è fatta strada un’altra similitudine: i paradossi del conservazionismo ambientale.

Nel nostro Paese la questione si è resa evidente nel nuovo millennio con il ritorno del lupo che, a partire dai pochi nuclei sopravvissuti sull’Appennino centromeridionale (dove alla fine degli anni Sessanta aveva raggiunto il minimo storico di nemmeno cento unità), in virtù delle misure protezionistiche, si è rapidamente diffuso verso nord e ora conta di oltre 3.300 esemplari in tutta Italia.

Il Piemonte, per la sua conformazione che lo rende un ponte naturale tra aree alpina e appenninica, è la regione montana maggiormente interessata al fenomeno e oggi vi si trova più di metà dei circa mille lupi censiti sulle Alpi italiane. Man mano che il numero di esemplari cresceva, alla soddisfazione degli ecologisti andava affiancandosi la preoccupazione, ben presto trasformatasi in aperta protesta, degli allevatori. Le predazioni sul bestiame allevato sono infatti cresciute di pari passo, e le misure di prevenzione (recinti elettrificati, cani da guardiania e pastori retribuiti) proposte dal programma Life Wolfalps dell’Unione europea, si sono rivelate applicabili ed efficaci solo in alcuni casi.

Nel contempo, la concessione dei pascoli comunali in affitto al migliore offerente, misura decisa in sede comunitaria, ha di fatto favorito le grosse aziende e cooperative, molte delle quali costituite ad hoc per ottenere fondi pubblici.

Alla conseguente moltiplicazione delle frodi ha fatto seguito un inasprimento dei provvedimenti da parte di carabinieri forestali e aziende sanitarie locali, penalizzando ulteriormente le piccole unità produttive che mal si adattano a richieste troppo fiscali (scadenze burocratiche, controllo sull’identificazione degli animali, aggiornamento puntuale dei registri aziendali, ecc.). Va poi tenuto conto che in Italia la maggior parte dei piccoli allevatori ha un’età media relativamente elevata, per cui i fattori citati sopra hanno agito su un tessuto sociale di per sé fragile e poco incline al cambiamento. Di fatto, negli ultimi anni un numero crescente di piccoli allevatori ha chiuso i battenti, con conseguente abbandono di aree montane che prima venivano tenute in ordine da essi a costo zero per la comunità. Il conseguente danno ambientale è enorme, poiché numerosi studi evidenziano senza ombra di dubbio come l’abbandono delle attività agro-silvo-pastorali comporti inevitabilmente una diminuzione della biodiversità e un aumento dei rischi idrogeologici.

Ma non è tutto, bisogna mettere in conto anche il ruolo sociale svolto dal piccolo allevamento, ad esempio nel prevenire l’inattività degli anziani, e trasmettere i saperi alle giovani generazioni per non perdere i patrimoni culturali. Non a caso, in un articolo apparso su MC nel luglio del 2017 veniva segnalato che «la montagna, se non è vissuta e protetta dai residenti, crolla».

Ambientalismo da città

In Italia l’ambientalismo ha avuto tra i suoi molti esponenti, a partire dagli anni sessanta, uomini politici come Arturo Osio e Fulco Pratesi, che nel 1967 hanno fondato la sezione italiana del World Wildlife Fund (Wwf). Come avvenuto per altri sodalizi di rilevanza nazionale (un esempio tra tutti è il Club alpino italiano), la spinta costitutiva è venuta da ambienti politico culturali del tutto estranei a chi in montagna doveva guadagnarsi da vivere faticando ogni giorno; pertanto, l’attività di tali enti si è sviluppata, nel migliore dei casi, a latere dei contesti sociali rurali, avendo invece come protagonisti alcuni cittadini che consideravano l’ambiente naturale in termini ideali e ricreativi. L’integrazione tra i due mondi è stata minima per cui, quando ci si è trovati di fronte a un punto forte divergente, come la questione del lupo, la contrapposizione è risultata molto dura.

Oggi, a causa dell’eccessiva importanza acquisita dai social network, anche a tale riguardo si sono formati due schieramenti che cercano di screditarsi l’un l’altro invece di dialogare.

Io ho lavorato trent’anni in qualità di veterinario pubblico in Val d’Ossola, incontrando centinaia di piccoli allevatori, e nessuno di loro è favorevole al ritorno del lupo. Vorrà ben dire qualcosa.

Fuori gli indigeni

Ma allarghiamo lo sguardo: secondo i dati di Survival International, al mondo esistono ben 120mila aree protette che coprono il 13% delle terre emerse. Il problema è che diversi milioni di indigeni, che su tale superficie si procuravano il cibo, sono stati sfrattati e si sono trasformati in «rifugiati ambientali». Dal 1872 (anno di fondazione del parco nazionale di Yellowstone, il primo al mondo) a oggi, la decisione di istituire delle misure conservazioniste in determinate aree è stata presa ignorando cultura, interessi e opinioni di chi ci viveva. Si è discusso a più riprese sui benefici per le specie da proteggere, sull’estensione di tali aree, sulle regolamentazioni di utilizzo, sui finanziamenti necessari e via dicendo, ma, anche quando lo si è fatto in buona fede, quasi sempre è stato dal di fuori.

Il grave errore metodologico è stato lo stesso commesso nel caso della cooperazione internazionale, laddove progetti decisi da esperti che vivevano altrove, sono stati calati sulla testa degli abitanti locali ignorandone la competenza elaborata attraverso secoli di vita in quei luoghi. Non a caso, in occasione del quinto congresso dell’Unione internazionale per la conservazione della natura svoltosi a Durban (Sudafrica) nel 2003, una delegazione di popoli indigeni ha rilasciato una dichiarazione in cui affermava che «prima ci hanno sfrattato in nome di re e imperatori, poi nel nome dello sviluppo e ora nel nome della conservazione». Oggi, dopo decenni di «cattedrali nel deserto», la valorizzazione delle esperienze locali si sta facendo strada in vari programmi di cooperazione, seppur a fatica e non certo abbastanza. Nel contempo, studi sempre più precisi riconoscono la validità delle metodiche di gestione tradizionale dell’ambiente. Tra questi, MC dello scorso novembre segnala una ricerca, pubblicata dalla rivista Nature sustainability a inizio 2023, che mette in risalto il ruolo importante delle popolazioni indigene nella conservazione forestale.

Infatti, secondo il rapporto Parks need people, redatto da Survival International nel 2014, la stragrande maggioranza dei luoghi a più alta biodiversità al mondo si trova in aree abitate da popoli tribali, i quali hanno saputo conservarla mirabilmente proprio perché si trattava di una qualità necessaria alla loro sopravvivenza. Ritenere che biologi e operatori turistici sappiano fare meglio, è un esempio di supponente arroganza.

Sviluppo e conservazione

Si commetterebbe però un errore a pensare che il cosiddetto «altrove» nel quale vengono prese decisioni sulla testa della gente abbia sede solo nei Paesi del Nord del mondo. Al contrario, certe politiche sviluppiste e conservazioniste sono oggi portate avanti soprattutto da funzionari dei governi e delle Ong di Paesi africani, asiatici e sudamericani sul territorio dei quali tali politiche vengono applicate. «Più realiste del re», queste figure non esitano a varare misure e progetti che possano inserirsi in programmi di sviluppo e conservazione elaborati dalle grandi agenzie internazionali, così da riceverne i finanziamenti.

Nel periodo coloniale, le risorse dei suoli intertropicali erano destinate ad arricchire le nazioni occupanti. Oggi il meccanismo non è cambiato, ma si è parzialmente rimodulato nello spazio, cosicché nelle capitali di tanti Paesi del Sud del mondo, Africa in primis, si sono sviluppati dei centri direttivi che, in sinergia con i dettami provenienti da governi stranieri e dalle grandi agenzie internazionali, sfornano politiche che scavalcano culture e interessi del mondo rurale in nome di uno sviluppo incentrato su forme e modi importati dall’estero. «Anche noi abbiano diritto ad avere le cose che avete voi», mi sono tante volte sentito dire da persone africane che vivono in città. Peccato che questo «avere» per pochi si traduca in un «togliere» per molti.

In altri termini, di tanti progetti pensati al Nord, ne hanno beneficiato solo un piccolo numero di persone, le quali potevano permettersi di adeguarsi alle nostre idee sviluppiste occidentali. Si è così contribuito a formare dei piccoli nuclei di persone egoiste tanto quanto noi. E le politiche di indebitamento proposte e consentite, sulle quali si sono poi innestati gli aggiustamenti strutturali imposti dal Fondo monetario internazionale per far fronte a tale debito, hanno costituito lo sfondo sul quale tutto ciò si è realizzato.

Guerrieri maasai seduti in cerchio.

Il caso Ngorongoro

Un esempio eloquente è quello del famoso cratere di Ngorongoro che, con i suoi 16 km di diametro, è in diretta continuazione con il celebre parco nazionale del Serengeti, in Tanzania. Frequentato dai pastori locali da tempo immemorabile, non ha mai avuto problemi di sovra sfruttamento poiché i suoi pascoli e le sue fonti idriche riuscivano a soddisfare le esigenze di ruminanti domestici e selvatici allo stesso tempo, e poiché la caccia tradizionale avveniva nel rispetto di norme conservazioniste tramandate da una generazione all’altra. Tuttavia, a partire dagli anni 60 si sono levate alcune voci preoccupate per determinate specie che sarebbero state a rischio, e da quel momento in poi l’accesso per le mandrie locali è stato sempre più ridotto. Nei decenni seguenti, l’apertura a operatori turistici ha fatto aumentare il numero dei visitatori annui fin oltre il mezzo milione. Si è quindi capito che il problema non erano i piccoli allevatori del posto, tanto che nel 2013 il governo tanzaniano ha dovuto riconoscere che «i pastori tradizionali masai sono di fatto degli ottimi conservazionisti» e a considerazioni analoghe sono giunti anche i consulenti della Banca mondiale.

L’esperienza ha infatti mostrato che, allontanando i popoli indigeni dai parchi, non solo si contribuisce allo sviluppo di un tessuto sociale di persone culturalmente sradicate, le quali cadono più facilmente preda di alcolismo e piccola criminalità (se non addirittura, in certi casi, finiscono per diventare manovalanza alle compagini terroristiche), ma si priva il territorio di un efficace controllo, a costo zero, nei confronti del bracconaggio su larga scala, della diffusione di specie invasive che diminuiscono la biodiversità e degli incendi, questi ultimi ben diversi dei tanto discussi interventi tradizionali di diserbo tramite fuoco messi in atto sotto la sorveglianza dei pastori stessi.

Saggezza versus economia

Purtroppo, come spesso accade, la saggezza derivante dall’esperienza viene trascurata dagli interessi economici di parte. Così, si contrabbanda come «ambientalista» la ridicola proposta di continuare a sostenere un’economia basata sullo sfruttamento di risorse energetiche fossili controbilanciandola con l’istituzione di aree protette sul 30% delle terre disponibili, nell’ottica di ciò che vengono definite «soluzioni basate sulla natura» (in inglese Nbs). In questo modo, per non mettere in discussione il diritto a inquinare di popolazioni ricche e nazioni emergenti, si condannano alla scomparsa popoli e culture che su quel 30% di terre hanno sempre vissuto in modo ecologicamente sostenibile e che verranno privati dei basilari mezzi di sostentamento.

Il paradosso è simile a quello che riguarda la produzione di auto elettriche: mentre in molti si rallegrano per il notevole progresso ecologico, in pochi si preoccupano per le terribili condizioni alle quali sono sottoposti i bambini in Repubblica democratica del Congo che vengono sfruttati nelle miniere dei minerali necessari a realizzare le batterie.

Intanto, attorno alla fauna selvatica circolano somme da capogiro, e in Africa subsahariana (dove il numero di persone sottonutrite ha superato i 280 milioni) i cacciatori stranieri pagano fino a 60mila euro per abbattere legalmente un elefante o un leone.

Forse sarebbe il caso di rimettere la persona al centro di ogni ragionamento.

Alberto Zorloni




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari

 


Dall’umiliazione alla dignità

Dopo aver condiviso le forti impressioni provocate da quanto descritto sull’umiliazione a cui si sottomettono vasti strati impoveriti della popolazione argentina, (vedi «Uomini e maiali» su MC notizie) ho avuto occasione di visitare recentemente una delle comunità indigene che la Provvidenza mi ha permesso di accompagnare vent’anni fa nelle vicinanze di Orán (Salta) nella lotta per il diritto al territorio ancestralmente occupato, contrastato dalla grande multinazionale Seabord Corporation (ex Ingenio San Martín del Tabacal), ma grazie a Dio recuperato.

È stata una mezza giornata di intense emozioni, al ricordare l’esperienza vissuta insieme dal 2004 al 2011, come parte di un’équipe della diocesi di Orán, per accompagnare la dura realtà dei conflitti per la terra di diverse comunità che dovevano affrontare l’opposizione ostile e violenta di potenti gruppi economici presenti nella zona.

Mi sto riferendo concretamente alla comunità Tupí Guaraní Iguopeigenda, situata a pochi chilometri della città di Orán.

La resistenza decisa di questa comunità ha fatto sì che si rafforzasse l’organizzazione comunitaria con criteri e valori propriamente indigeni, a cui è seguita l’elaborazione pratica di progetti di sviluppo produttivo per non finire nel circolo umiliante dell’impoverimento e dell’assistenzialismo. Sin dall’inizio, la resistenza ha avuto un obiettivo chiaro: «Non vogliamo dipendere da un precario pacco di alimenti, ma vivere del lavoro della terra che generosamente ci offre quello che coltiviamo con le nostre mani e che ci appartiene». Era, ed è, una dimostrazione chiara di dignità per affrontare le sfide della sussistenza.

Provvidenzialmente, proprio nel giorno in cui ho visitato questa comunità, mi si mostrava con sano orgoglio un riassunto di tutta l’esperienza, attraverso un cartello che riproduceva la memoria viva lasciata come eredità da Pablo Andrada, un hermano (fratello), morto recentemente.

«Siamo un’eredità viva, presente, dei Tupí Guaraní in questo mondo. E rimaniamo in una comunità radicata nel sud del Río Blanco. Iguopeigenda, la nostra identità.

Abbiamo un consiglio di anziani, e anche un nobile consiglio direttivo, e, insieme a tutti i fratelli, cerchiamo di raggiungere gli obiettivi.

Qui la cultura è trascendentale, così come le nostre tradizioni; professarla sarà veramente fondamentale per le future generazioni.

Come ogni comunità ancestrale, con coraggiosa saggezza, anche noi vigileremo sulla biodiversità e la preservazione dell’ambiente.

Siamo produttori di diversi tipi di frutta di stagione, così come ortaggi, tuberi e moringa per la medicina tradizionale.

Le nostre banane sono il nostro orgoglio, sia perché fonte di sostentamento per tutti sia per la loro pregiata qualità è nota in tutto il paese.

Siamo immensamente ed eternamente grati a tante persone per la loro collaborazione, e alle istituzioni per essere state un ponte verso un futuro migliore.

Allo stimato, padre José Auletta, un degno esempio di benevolenza: “grazie” da parte della comunità, per il suo aiuto, consiglio, saggezza e anche per la perpetua amicizia» (Pablo Andrada, Orán – Salta, 10/04/2021).

Un’ulteriore prova della dignità di questa comunità – che porto nel cuore, insieme a tante altre che la missione mi ha fatto incontrare – è il fatto che durante la mia visita essa abbia condiviso con altre comunità pervenute da diverse località la propria esperienza produttiva e di auto sostegno.

Tutto questo è un segno di speranza per una vita fraternamente sostenibile e degna.

José Auletta
missione di Yuto (Jujuy), Argentina, gennaio 2024

PADRE K’OKAL
Il missionario che spargeva allegria

La notizia arriva nel pomeriggio del 2 gennaio: padre K’Okal è scomparso. Penso subito a un sequestro. In Venezuela è diventata una pratica ricorrente. Poi la doccia fredda: è stato ritrovato il suo cadavere. Non ci credo. Cosa è successo? Mille sono le domande. Nei giorni successivi arrivano altri dettagli. La polizia conclude l’indagine in maniera sbrigativa: per loro si tratta di suicidio.

Non è possibile. Non K’Okal.

Padre Josiah Asa K’Okal («K’» per dire «figlio di», ndr), era riconosciuto in America Latina come difensore dei diritti degli indigeni, in particolare dei Warao, che erano diventati il suo popolo, la sua missione. Lavorava con loro oramai da molti anni, parlava bene la loro lingua, conosceva la loro cultura.

«Tu eri impegnato con i diritti umani del popolo Warao, e stavi alzando la voce per denunciare la sempre più preoccupante tratta di persone, dai villaggi indigeni warao verso Trinidad [e Tobago]. Stavi mettendoti contro una mafia pericolosissima, alla quale il tuo presunto suicidio è convenuto tremendamente, per diffondere tra le comunità il terrore del suo potere. Perché si suiciderebbe qualcuno che si è messo in una lotta tanto ardua?», scrive l’attivista Santiago Arconada Rodriguez.  I Warao mettono in dubbio il verdetto della polizia e chiedono un’inchiesta indipendente, un’autopsia indipendente. Lo stesso fanno altri movimenti indigenisti, di difesa dei diritti umani e della società civile venezuelana. Una lunga petizione è firmata da centinaia di organizzazioni e attivisti.

Grande sorriso, sempre allegro, positivo nei confronti della vita. Parlava tante lingue padre Bare Mekoro (il «Padre Nero», come lo chiamavano i Warao), e sempre con un approccio accogliente con tutti. Era keniano, ma era anche venezuelano (nel Paese dal 1997), e fiero d’esserlo.

Ricordo quando ci mostrò la sua carta d’identità di quel paese che amava. Era stato felice di tornarci, quando ci accompagnò per girare parte di «Odissea Warao» sulla migrazione warao dal delta dell’Orinoco verso il Brasile.

«Chi ha conosciuto K’Okal pensa che fosse un santo in carne e ossa. Era un uomo meraviglioso», dice un attivista che ha lavorato con lui.

Le parole di un membro della comunità Warao lo descrivono così: «Padre K’Okal ci ha insegnato ad amare la nostra gente, la nostra cultura. È stato il sale e la luce del nostro popolo, ci ha trasmesso la luce della Parola di Dio e il sale dell’allegria che spargeva ovunque andava».

Marco Bello
Torino, 19/01/2024

Una risata indimenticabile

Ancora lo ricordo mentre balla con un folto gruppo di rifugiati warao a Pacaraima, cittadina brasiliana posta sul confine con il Venezuela.

Stavamo viaggiando per documentare la migrazione di quel popolo indigeno, costretto ad abbandonare i villaggi posti lungo i canali del delta dell’Orinoco. Padre K’Okal, missionario della Consolata e antropologo, era persona fondamentale sia per aver condiviso con i Warao un lungo percorso, sia perché aveva imparato la loro lingua (come lo spagnolo, l’italiano e non so quante altre).

Nel 2022, a Quito, in Ecuador, aveva studiato alla Flacso e la sua tesi era stata proprio sui Warao rifugiati a Boa Vista («Entre vulnerabilización y resistencia estratégica: caso de los desplazados warao en Boa Vista»). Insomma, era una persona di grande intelligenza e preparazione.

Tuttavia, la cosa più bella di Josiah era la sua gioia contagiosa: sorrideva e rideva con estrema facilità e con tutti.

Padre Josiah Asa K’Okal è morto a soli 54 anni. Non di malattia e non per scelta. Una perdita pesante che in tantissimi sentiamo come una grande ingiustizia.

Paolo Moiola
Torino, 19/01/2024


ICE, Iniziative dei Cittadini Europei

Gen.mi direttore e redazione,
sono una vostra lettrice da sempre, e accolgo con gioia MC perché vi trovo parole sagge, notizie di prima mano da tantissime parti del mondo, semi di speranza, pagine di storia e di fede, presentazione di situazioni critiche analizzate senza pregiudizi né ipocrisia, rubriche interessanti. I dossier mi hanno sempre aiutata a capire meglio questo nostro mondo e talvolta li ho presentati anche a scuola (sono un’insegnante in pensione); tramite la vostra rivista sono venuta a conoscenza di problemi di cui i media più diffusi non si occupano, anche con anni di anticipo rispetto al deflagrare di una crisi.

Segno dei tempi, in una rivista missionaria trovano spazio sempre più spesso anche l’Europa e l’Italia, sia perché bisognose di una nuova evangelizzazione, sia perché terre di immigrazione.

A questo proposito mi riferisco  al bell’articolo «Sostituzione etnica o necessità?» che leggo nella pagina di «E la chiamano economia» del numero di dicembre ‘23, in cui, dati alla mano, Francesco Gesualdi presenta con chiarezza la situazione italiana con l’immigrazione clandestina, il «curriculum» di Frontex, il ruolo delle Ong, e la costruzione della paura. Condivido al cento per cento la necessità di una «operazione verità» e sottoscrivo la conclusione dell’articolo: «Dovremmo togliere la questione migratoria dalle grinfie dei trafficanti di esseri umani e dei trafficanti della politica. Dovremmo riportare il fenomeno nelle nostre mani per gestirlo con spirito di umanità, solidarietà e lungimiranza». Ora, proprio a questo scopo, perché non far conoscere le seguenti Iniziative dei cittadini europei (Ice)?

La prima è «Stop border violence», nata «per costringere la Commissione europea a garantire e applicare anche nei confronti dei migranti quanto previsto nell’art. 4 della carta dei diritti fondamentali della Unione europea» (che afferma: «Nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti», ndr).

L’altra è «Dignity in Europe, per garantire un’accoglienza dignitosa dei migranti in Europa».

L’Ice è un prezioso strumento di democrazia partecipativa a disposizione dei cittadini dell’Ue, che possono influire direttamente sulle politiche messe a punto dalla Commissione europea, presentando richieste sottoscritte da almeno un milione di cittadini Ue in almeno sette paesi membri.

Le due Ice di cui sopra sono nate, rispettivamente in Italia e in Francia, da persone di diversa formazione, e indipendenti da partiti politici, ma accomunate dall’angoscia per le violenze subite dai nostri fratelli migranti e per i loro diritti negati.

Penso che anche questi strumenti  possano contribuire a creare una società aperta, solidale, consapevole, che cura e ripara.

Grazie per l’attenzione e ancora complimenti e auguri per la rivista.

Giovanna Golzio
02/01/2024

 

Molte grazie per la segnalazione. Il tema dell’immigrazione ci sta ovviamente molto a cuore, essendo testimoni sul posto delle terribili e disumane realtà di tanti popoli.

Mi viene una «provocazione» leggendo l’art. 4 della carta dei diritti fondamentali della Unione europea: ho pensato che i soggetti cui riconoscere tali diritti siano molti, tra essi, ad esempio, anche i carcerati costretti a vivere in condizioni disumane (cfr. articolo del 15 gennaio in MC notizie sul nostro sito web).


Dossier sul Canada

Ciao Paolo (Moiola),
ho letto quanto hai scritto sul Canada nel dossier del mese scorso. Ho percorso con te, con l’aiuto del computer, il viaggio nell’Ovest del Paese. La lettura è affascinante; penso che anche il viaggio lo sia stato. Hai presentato in forma molto appropriata il tema dello sfruttamento minerario a scapito dell’ambiente e, sicuramente, con ritorni finanziari ingiusti in molti aspetti; la tematica della conquista e spogliazione dei popoli originari; il difficile e doloroso rapporto delle Chiese (e del governo coloniale e post) con essi.

Mi è piaciuto il riquadro sul multiculturalismo, di cui il Canada va giustamente fiero. Credo che tale tema insieme a quello del fenomeno migratorio (Toronto è la più grande «città Italiana» fuori Italia) meriti un approfondimento.

Paolo Fedrigoni, 02/01/2024, Montreal, Canada

Ho letto (il dossier) per intero. È molto, molto interessante. Non so se qualcuno ti ha detto che nella Carta canadese c’è scritto che nel nostro Paese ci sono due lingue ufficiali: l’inglese e il francese. Sono stati i francesi di François I, compreso Jacques Cartier, a dare il nome Canada al Paese. Avevano sentito gli irochesi pronunciare la parola kanata (non sapevano che significasse villaggio) ed è così che il nome è comparso (un po’ storpiato) sulle mappe. Gli inglesi vennero dopo. Mi è piaciuto molto il tuo approccio più antropologico.

Ghislaine Crête,  03/01/2024, Montreal, Canada




Canada. Acero di fuoco


Sommario

La sommità della torre di Calgary, simbolo della ricca città dell’Alberta che, nel 1988, ospitò le Olimpiadi invernali. Foto Paolo Moiola.

L’ambiente. Anche in «paradiso» fa troppo caldo

Nel paese nordamericano, abitato da 37 milioni di persone, ci sono ottomila alberi per abitante. Tuttavia, i problemi ambientali non mancano. Dal rapido innalzamento delle temperature allo scioglimento dei ghiacciai, dagli incendi (oltre 18 milioni di ettari di foreste distrutti nel 2023) fino all’invadenza delle compagnie minerarie nazionali, che spesso non godono di una buona reputazione.

Calgary (Alberta). Dalla sommità della torre il panorama lascia senza fiato. Le incredibili vetrate consentono una visione a 360 gradi della città dell’Alberta, nata come centro di allevatori (ancora oggi è soprannominata «Cowtown», città delle vacche) ma poi arricchitasi con il petrolio. Davanti e sotto di noi (ci sono vetrate anche a terra, formando un suggestivo pavimento trasparente) l’avveniristica Downtown, il fiume Bow, la rete ferroviaria e anche lo Saddledome, l’arena con tetto a forma di sella inaugurata pochi anni prima che Calgary ospitasse le Olimpiadi invernali del 1988. In lontananza, il panorama è meno chiaro: la catena delle Montagne Rocciose non si vede, nonostante la giornata sia favorevole.

Accanto a noi c’è un visitatore con un elegante turbante (essendo – con molta probabilità – uno dei tanti sikh residenti nel paese). «Nelle scorse settimane – ci dice – tutta l’area qui attorno era oscurata dal fumo degli incendi».

Purtroppo, dobbiamo credergli. Da maggio 2023 (cioè molto presto) e fino all’autunno (cioè molto tardi), il paese è stato devastato da un numero impressionante di incendi: 6.517. Alla fine di ottobre, avevano bruciato 18,5 milioni di ettari (185mila chilometri quadrati, cioè più della metà della superficie dell’Italia), circa il 5% dell’intera area forestale del paese e più di dieci volte la quantità dell’anno scorso. A parte all’estremo nord (dove non ci sono alberi), tutto il Canada è stato colpito e, in particolare, la British Columbia, i Northwest Territories, lo Yukon, l’Alberta e l’Ontario. Decine di migliaia di persone sono state costrette a evacuare (come anche noi avremo modo di constatare nel corso del viaggio).

Doug Prentice, ambientalista di «Extinction rebellion», in una strada di Victoria.. Foto Paolo Moiola.

Incendi e indigeni sfollati

In Canada, il problema degli incendi pare aggravarsi di anno in anno. L’innalzarsi delle temperature e i lunghi periodi siccitosi aumentano i rischi. Secondo gli esperti, la maggior parte degli incendi (77 per cento) sono stati provocati da fulmini1. A loro volta, gli incendi immettono nell’atmosfera grandi quantità di gas serra2 che aggravano il cambiamento climatico.

I boschi devastati sono cimiteri di alberi scheletriti e anneriti: vederli produce una fitta al cuore. Ma anche le conseguenze a livello umano sono tangibili. In varie piccole cittadine lungo il nostro tragitto automobilistico notiamo molte persone dai tratti indigeni riunite attorno a (piccole) strutture alberghiere. «Non abbiamo stanze perché sono arrivate famiglie indigene evacuate dai loro villaggi a causa degli incendi», ci spiega la gerente di un piccolo motel di Hay River, cittadina nei Territori del Nordovest (Northwest Territories).

Veniamo così a scoprire che, tra le migliaia di persone che hanno dovuto abbandonare le loro case, ci sono molti indigeni che abitano in zone remote dove un eventuale incendio viene subito dichiarato fuori controllo dalle autorità nazionali.

Chiediamo i nomi delle etnie ospitate, ma la donna non è sicura e va a informarsi. Torna poco dopo con la risposta. Si chiamano: K’atl’Odeeche e West Point. Si tratta di due delle 634 popolazioni appartenenti al grande gruppo indigeno noto come First nations.

Mappa con le dieci province e i tre territori che compongono il Canada; questo dossier si concentra su British Columbia, Alberta, Northwest Territories e Yukon.

A Victoria qualcuno si ribella

Molto critico verso le politiche del proprio governo è Doug Prentice, un ambientalista (noto con il nome di battaglia di Captain Painfully Obvius) che conosciamo a Victoria, città posta sull’isola di Vancouver e capitale della provincia della Columbia Britannica. Alto, baffi bianchi legati a treccia, bombetta nera in testa, lo incontriamo mentre è seduto nel suo «ufficio» in una via a traffico ridotto del centro cittadino. È circondato da cartelloni ecologisti homemade. A lato è parcheggiata la sua auto elettrica con appiccicati, in bella vista, alcuni adesivi con il logo di Extinction rebellion, il combattivo movimento ambientalista di cui Doug fa parte.

Lui è un fiume in piena. Due sono i progetti più contestati, ma ormai in dirittura d’arrivo: il gasdotto noto come Coastal gaslink pipeline che attraversa vari territori indigeni e i tagli di alberi secolari nella foresta pluviale di Fairy Creek nel territorio indigeno della Pacheedaht first nation, sull’isola di Vancouver. Per il gasdotto la compagnia TC Energy afferma di essersi ormai accordata con quasi tutte le comunità indigene coinvolte.

Quanto alle proteste di Fairy Creek, esse sono iniziate nell’agosto 2020 dopo il permesso di disboscamento concesso alla Teal cedar products. Gli ambientalisti hanno allestito i loro campi nella foresta iniziando un logorante confronto con le forze dell’ordine. A giudicare dal numero di persone arrestate in due anni di lotte (oltre mille), la protesta di Fairy Creek – oggi molto debilitata – è stato il più grande atto di disobbedienza civile nella storia del Canada.

Il paese è il secondo per estensione al mondo, poco abitato e ricco di risorse. Ospita il 9 per cento delle foreste mondiali e ci sono ottomila alberi per ogni suo cittadino (contro una media mondiale di 422)3. Probabilmente questa condizione privilegiata ha condizionato le sue scelte in campo ambientale.

Su questo punto nuove conferme ci arriveranno addentrandoci nello Yukon e in British Columbia, verso il confine con l’Alaska. Tra metà Ottocento e inizio Novecento, queste regioni furono protagoniste della cosiddetta «corsa all’oro». A suo modo epica e – volendo – anche romantica.

Canalone del Salmon Glacier, ghiacciaio canadese sul confine di Hyder, Alaska. Foto Paolo Moiola.

Meno ghiacciai, più miniere

Watson Lake è una cittadina dello Yukon, situata al miglio 635 dell’Alaska Highway, vicino al confine con la Columbia Britannica. È stata un centro di servizi per l’industria mineraria, in particolare per l’amianto e il tungsteno. Vi pernottiamo prima di dirigerci a Stewart, a Sud ovest di Watson Lake.

Seicentocinquanta chilometri dopo, ecco Stewart. Se non fosse per l’asfaltatura la sua via centrale sembrerebbe la strada di un villaggio western. Le case ai lati – semplici costruzioni in legno colorato (molte delle quali chiuse) – danno quest’impressione. Stewart è stata una città mineraria, mentre oggi i suoi cinquecento abitanti ruotano soprattutto attorno al turismo.

Il suo periodo di auge fu tra il 1902 e il 1910. Le cronache dell’epoca raccontano che diecimila persone vivevano e lavoravano qui e nel vicino Triangolo dell’oro (Golden triangle). Stewart era essenziale per le comunicazioni visto che è cresciuta al culmine inferiore del Portland Canal, un fiordo lungo circa 114 chilometri che s’incunea tra l’Alaska (Stati Uniti) e la Columbia Britannica (Canada).

A pochi chilometri da Stewart, appena superato il confine statunitense (privo di controlli), c’è Hyder (già Portland City), per lungo tempo legata allo stesso destino minerario. Oggi è un villaggio fantasma dove quasi tutto pare abbandonato. Per questo, viaggiatori e turisti che non abbiano un camper o una tenda di solito si fermano a Stewart dove sopravvivono alcuni piccoli alberghi e servizi (posto di salute, ufficio postale, chiesa, anche un museo). Ultimamente, nella zona sono riprese le attività minerarie4, ma questa non è una buona notizia. Il ritiro dei ghiacciai come effetto del cambiamento climatico offre l’opportunità di estrarre dalla terra minerali che, per migliaia di anni, sono rimasti protetti sotto uno scudo impenetrabile di ghiaccio e neve.

L’industria mineraria è un settore importante dell’economia canadese. Secondo la Mining association of Canada (Mac), contribuisce con il 7,9% al Prodotto interno lordo nazionale ed è responsabile del 22% delle esportazioni nazionali totali del Canada. Il settore minerario canadese impiega – direttamente e indirettamente – 665mila persone in tutto il paese. L’industria – secondo la Mac – è in proporzione il più grande datore di lavoro del settore privato per le popolazioni indigene canadesi e uno dei principali clienti delle imprese di proprietà degli indigeni. È dato confermato che oltre mille compagnie minerarie canadesi operino in circa cento paesi, costituendo il 60-75 per cento delle società minerarie del mondo. È altrettanto confermato che circa il 34 per cento di esse siano accusate di violare i diritti ambientali e quelli umani, soprattutto in America Latina. Varie organizzazioni civili, tra cui Mining watch Canada e il Jcap (The justice and corporate accountability project), segnalano – ad esempio – gli abusi della Barrick gold corporation, la più grande società di estrazione dell’oro al mondo, della Nevsun resources, della Hudbay minerals, tanto per citarne alcune.

Risalendo la strada sterrata che da Hyder si snoda a lato del canyon del Salmon glacier (ghiacciaio del salmone), proprio a cavallo del confine, iniziamo a incontrare camion ed escavatori di enormi dimensioni. Sono i mezzi che lavorano all’apertura di una nuova miniera. Un’attività che ha già prodotto migliaia di alberi abbattuti e montagne sventrate: un ambiente e un panorama completamente stravolti. Come praticamente tutti i ghiacciai, in questi ultimi decenni anche il Salmon si è progressivamente ristretto perdendo lunghezza e volume. È certo che una nuova miniera non potrà che portare altre conseguenze negative. E i primi a risentirne saranno i salmoni che popolano il Salmon river (il fiume formato dalle acque di fusione dello stesso ghiacciaio) e gli orsi dei boschi.

Sbancamento per l’apertura di una miniera a fianco del ghiacciaio Salmon, come gli altri da tempo in ritirata. Foto Paolo Moiola.

La questione dell’estrattivismo

Nulla di nuovo – dunque – anche nel paese nordamericano: salvaguardia dell’ambiente ed estrattivismo rimangono in contrasto inconciliabile. Lo sta raccontando da anni Naomi Klein, probabilmente la più nota scrittrice canadese contemporanea e militante del movimento globale per il clima, oggi condirettore del Centro per la giustizia climatica dell’Università della Columbia britannica (Ubc), a Vancouver.

Intervistata sulla giustizia climatica per Ubc Faculty of Arts nel marzo scorso, con riferimento al proprio paese la Klein ha affermato: «La giustizia climatica è inseparabile dalle richieste degli indigeni per la restituzione della terra e per il risarcimento dei danni arrecati. Perché il motivo principale per cui la terra è stata occupata è l’estra-  zione, compresa l’estrazione di combustibili fossili. Un’estrazione e un furto che continuano ancora oggi».

Paolo Moiola

Note

  • (1) In «Nature», Extratropical forests increasingly at risk due to lightning fires, 9 novembre 2023.
  • (2) Gli incendi possono immettere nell’aria circa 200 composti (tra essi metano, idrocarburi, monossido e biossido di carbonio, ossidi di azoto e particolato). Queste sostanze derivano dai processi di combustione della cellulosa, della lignina, ma anche delle resine e olii presenti nella vegetazione e nel suolo.
  • (3) In «Nature», Mapping tree density at global scale, 2 settembre 2015.
  • (4) Attualmente, sono operative due compagnie minerarie, entrambe canadesi: la «Blackwolf copper and gold Ltd» e la «Ascot resources company».

Mosaico canadese: un’opera dell’artista Tim Van Hom, nell’ambito del «The Canadian Mosaic Project».

L’immigrazione

Il multiculturalismo e il mosaico canadese

Nel corso della sua storia, il Canada è passato dall’etnocentrismo europeo attuato ai danni delle popolazioni native a un multiculturalismo spinto e codificato dalla legge. I dati dell’ultimo censimento (del 2021) suggeriscono molte considerazioni. Con riferimento a una popolazione complessiva di 37 milioni di persone ci sono 8,3 milioni di immigrati, pari a quasi un quarto del totale (23 per cento, la percentuale più alta tra i paesi del G7). Per fare un raffronto, in Italia ci sono attualmente oltre cinque milioni di migranti (di cui 3,6 non comunitari), pari all’8,6 per cento della popolazione totale, ai quali vanno sommati poco più di 500mila migranti senza permesso (dati Istat, 2023). Fino agli anni Settanta la maggior parte dei migranti verso il Canada proveniva dai paesi europei. Da allora in poi, l’immigrazione è diventata asiatica (con gli indiani in testa). A differenza degli stati nazionali europei o dei confinanti Stati Uniti, la filosofia del Canada su come incorporare gli immigrati non è il melting pot (crogiolo) ma il mosaico: tessere diverse per etnia, cultura, religione e lingua inserite fianco a fianco nel tessuto nazionale.

Il multiculturalismo come fondamento giuridico del Canada si è affermato negli ultimi cinquant’anni. Nel 1971, il governo di Pierre Trudeau – padre di Justin, attuale primo ministro del paese – adottò una politica multiculturale (sicuramente anche per frenare il crescente nazionalismo francofono del Québec). Nel 1982, il multiculturalismo fu confermato nella sezione 27 della Charter of rights and freedoms (Carta dei diritti e delle libertà) in cui si afferma: «La presente Carta dovrà essere interpretata in modo coerente con la preservazione e la valorizzazione del patrimonio multiculturale dei canadesi». Infine, nel 1988, fu approvato il Canadian multiculturalism act, una legge unica al mondo con la quale veniva sancito l’impegno del governo federale a promuovere e mantenere una società diversificata e multiculturale. «Si dichiara – recita il primo comma dell’articolo 3 – che la politica del governo del Canada è quella di riconoscere e promuovere la consapevolezza che il multiculturalismo riflette la diversità culturale e razziale della società canadese e riconosce la libertà di tutti i membri della società canadese di preservare, valorizzare e condividere il proprio patrimonio culturale».

Pa.Mo.

Un orso nel Salmon river, corso d’acqua formato dalle acque di fusione del ghiacciaio Salmon, posto sul confine con l’Alaska. Foto Paolo Moiola.

I popoli indigeni
Una storia di totem e bufali

Particolari di un totem indigeno a Kitwanga, nella British Columbia. Foto Paolo Moiola.

Gli indigeni sono 1,8 milioni, pari al 5 per cento della popolazione. La Costituzione canadese del 1982 li distingue in tre gruppi: First nations, Métis e Inuit. Tra i simboli indigeni più noti ci sono i totem e i bufali. Entrambi sono testimonianza del difficile incontro tra gli abitanti originari e i colonizzatori europei.

Kitwanga – Gitwangak (British Columbia). A voler essere sinceri, il luogo lascia un po’ delusi. I totem – una decina – sono allineati lungo una stradina secondaria poco fuori il villaggio di Kitwanga. Tutt’attorno è un prato con poche casette in legno, alcune in stato di apparente abbandono. C’è posto anche per un solitario campanile, anch’esso in legno (che – scopriremo poi – essere appartenuto a una chiesa anglicana bruciata nel 2021). Smaltita la sorpresa per il luogo, ci avviciniamo ai pali totemici e veniamo subito rincuorati nello scoprire che essi sono finemente intagliati, vere miniere di arte e storia.

Vi si riconoscono grandi mani, occhi e bocche giganti, animali (rane, orsi, aquile). I totem sono sculture in legno (di cedro rosso, di solito) a forma di pali (alti fino a dieci metri), create dai popoli indigeni della costa nordoccidentale. Sono scolpite per raccontare storie: di una nazione, di una famiglia, di un individuo. All’epoca della conquista non piacquero ai colonizzatori europei. Nel loro progetto di assimilazione i totem non erano contemplati. Anche i missionari cristiani incoraggiarono l’eliminazione dei totem, che consideravano ostacoli alla conversione delle popolazioni indigene.

Kitwanga è sulla terra dei Gitxsan, popolo indigeno delle First nations che vive lungo il fiume Skeena. Mentre siamo intenti a fotografare il luogo nella luce incerta della giornata, notiamo un giovane che ci osserva dalla veranda di una modesta abitazione a lato della stradina. Ci avviciniamo e lui ci accoglie con un ampio sorriso.

«Il luogo verrà sistemato», ci spiega senza attendere domande. Dice di chiamarsi Justice Moore e di avere 27 anni. È un agricoltore. «No, io non parlo la lingua indigena. Come nemmeno la parlano i miei genitori, visto che hanno frequentato le scuole residenziali nelle quali l’idioma nativo era bandito».

Lo sterminio dei bufali

Se i totem sono simbolo delle popolazioni indigene delle coste nordoccidentali, i bufali (termine improprio ma popolare rispetto a quello corretto di bisonti) sono il simbolo degli indiani delle praterie, quelli stanziati ai piedi delle Montagne Rocciose.

Prima dell’arrivo degli europei, questi grandi mammiferi (appartenenti alla famiglia dei bovidi) fornivano ai popoli delle pianure ogni tipo di risorsa: carne per cibarsi, pelli per vestirsi e coprire le tende, corna e ossa per costruire strumenti di ogni sorta.

Banff, cittadina dell’Alberta che dà il nome al famoso parco nazionale, ospita il Buffalo nations museum, una piccola gemma multimediale che celebra l’animale e i nativi (Blackfoot, Tsuut’ina, Nakoda, Nëhiyaw-Cree) che regolavano le loro esistenze su quelle mandrie. Su una parete del museo, è esposta una pelle dipinta con figure di bufali e indiani. Sotto di essa una targa offre al visitatore una lunga spiegazione in cui, tra l’altro, si legge: «Per generazioni il bufalo è stato un nostro parente, il bufalo è parte di noi e noi siamo parte del bufalo culturalmente, materialmente e spiritualmente».

Con l’arrivo dei colonizzatori questi animali furono sterminati (soprattutto per le loro pelli), passando da milioni (trenta, secondo alcune stime) alla quasi estinzione di fine Ottocento. Oggi sono tornati a circa 350-400mila esemplari, divisi tra Canada e Stati Uniti.

Una mandria di bufali (bisonti) pascola liberamente ai bordi di una strada. Foto Paolo Moiolla.

Il peso della storia e della legge

Sia i totem che i bufali testimoniano quanto difficile e denso di conseguenze sia stato l’incontro tra gli abitanti originari e i colonizzatori venuti dall’Europa.

Prima dell’arrivo dei norvegesi (alla fine del X secolo) e, soprattutto, degli esploratori francesi e britannici (dal 1534 in poi), le popolazioni indigene erano le sole ad abitare il territorio che forma l’attuale Canada. Invasione e persecuzioni coloniali, malattie importate (vaiolo, tubercolosi, influenza), fame, confisca delle terre, genocidio culturale, ne ridussero grandemente il numero (le stime al riguardo non sono però univoche)1.

Dopo i danni prodotti dall’Indian act del 1876 (in seguito emendato nelle parti più discriminatorie), la Costituzione canadese del 1982, nella sezione 35, riconosce l’esistenza dei diritti indigeni (e dei relativi trattati)2 ma senza entrare nei dettagli: non si parla né di autodeterminazione (self determination) né di autogoverno (self government). Nella stessa sezione 35 si distinguono i popoli indigeni in Inuit e First nations (Prime nazioni), più un terzo gruppo rappresentato dai Métis (meticci, in francese), nati dall’incontro tra coloni europei e membri delle Prime nazioni.

Nel settembre del 2007, l’assemblea delle Nazioni Unite adotta la «Dichiarazione sui diritti dei popoli indigeni». I suoi 46 articoli parlano di autodeterminazione e autogoverno (art.3 e art.4), uguaglianza e non discriminazione, cultura, lingua e identità, terre (art.10), territori e risorse, istituzioni e sistemi giuridici indigeni. Il Canada la recepisce 14 anni dopo: il 21 giugno 2021. Dopo altri due anni, il 21 giugno 2023, viene pubblicato il Piano d’azione della stessa, dopo una consultazione con le First nations, gli Inuit e i Métis.

«L’attuazione del Piano d’azione e della Dichiarazione delle Nazioni Unite contribuirà – si legge sui siti governativi – ai continui sforzi del governo canadese per abbattere le barriere, combattere il razzismo e la discriminazione sistemici, colmare i divari socioeconomici e promuovere una maggiore uguaglianza e prosperità per le popolazioni indigene».

«L’indiano scomodo»

Bufalo Nations Museum: una donna indigena con il proprio piccolo in una foto esposta al «Buffalo Nations Luxton Museum» a Banff, Alberta.

In Canada, il numero dei nativi è, da tempo, in costante crescita, come confermano anche i numeri (tabella).

Stando all’ultimo censimento, la popolazione indigena è cresciuta dell’8 per cento tra il 2016 e il 2021, arrivando a oltre 1,8 milioni di persone. Le province con i numeri più alti sono, nell’ordine, Ontario, British Columbia e Alberta. Smentendo fantasie e luoghi comuni, la maggioranza degli indiani oggi vive in aree urbane, fuori cioè delle riserve, dove ne rimane soltanto circa un terzo.

Per esempio, a Calgary – secondo le cifre fornite dal governo cittadino – ci sono 35.195 indigeni (2,9 per cento della popolazione nel 2016), la gran parte appartenenti alle First nations.

Proprio in una libreria di questa città andiamo a cercare qualche testo sul tema indigeno. Una commessa ci accompagna al reparto dedicato. «Questo è il più venduto», ci dice prendendo da un ripiano The inconvenient indian, titolo traducibile – più o meno – con «L’indiano scomodo».

L’autore, Thomas King – un bianco californiano -, scrive un saggio dai toni ironici ma senza sconti sul trattamento riservato fin dal primo contatto dai bianchi ai nativi del Nord America (Canada e Stati Uniti). Scomodità e inconvenienti che – nota lo scrittore – iniziano dalla stessa definizione. I conquistatori (di ieri e di oggi) hanno – infatti – sempre faticato a trovare un termine collettivo per definire i conquistati. Dall’eterno «indiani» (legato all’errore di Colombo) ad aborigeni, nativi, prime popolazioni, prime nazioni, insistendo sempre su un termine collettivo invece che sul nome proprio del singolo gruppo: Cree, Blackfoot, Navajo, Lakota e centinaia di altri.

L’entrata del piccolo ma interessante museo di Banff. Foto Paolo Moiola.

Ultimi della classe

In Canada, le popolazioni indigene godono di una teorica autonomia ma, in generale, la strada da percorrere per una effettiva parità con le popolazioni non indigene è ancora molto lunga. Il divario esistente si può misurare. Infatti, tutti i parametri sociali ed economici dei popoli indigeni risultano deficitari: alimentazione, situazione abitativa, condizioni di salute e aspettativa di vita, situazione lavorativa, livello d’istruzione.

Inoltre, come spiega anche The canadian encyclopedia, «i tassi di suicidio tra i giovani delle Prime nazioni sono circa 5-6 volte superiori alla media nazionale, mentre i tassi tra i giovani Inuit sono circa 10 volte superiori alla media nazionale». Sempre secondo la stessa fonte, «nel sistema giudiziario penale le popolazioni indigene sono sovra rappresentate come delinquenti e detenuti, e sottorappresentate come funzionari, operatori giudiziari o avvocati», mentre «tra la popolazione indigena i tassi di incarcerazione continuano ad aumentare».

Tutte conferme che, anche nella possibile presenza di volontà politica e consenso sociale, riparare i danni della colonizzazione è un’impresa che richiede tempo, molto tempo, probabilmente generazioni. E tuttavia, la storica e vittoriosa ribellione sul tema delle scuole residenziali indigene (di cui parliamo nelle pagine successive) ci fa concordare con un’affermazione che si legge nelle pagine conclusive de The inconvenient indian: «In cinquecento anni di occupazione europea, le culture native hanno già dimostrato a se stesse di essere tenaci e resilienti».

Paolo Moiola

Note

  • (1) Le stime vanno da un minimo di 350mila a un massimo di 2 milioni di indigeni. Si veda: «International Journal of Environmental Research and Public Health», Canada’s Colonial Genocide of Indigenous Peoples: A Review of the Psychosocial and Neurobiological Processes Linking Trauma and Intergenerational Outcomes, giugno 2022.
  • (2) Sono vigenti 11 trattati numerati (The numbered treaties). Sono stati sottoscritti tra il 1871 e il 1921 da governo federale (formalmente Corona britannica) e alcuni popoli nativi per la cessione di terre indigene in cambio di benefici (spesso più teorici che reali).

La fila dei totem a Kitwanga, terra dei Gitxsan. Foto Paolo Moiola.

La Chiesa e i popoli indigeni.
Il lungo cammino verso il perdono

Tra Chiesa cattolica e popoli indigeni canadesi c’è una tappa storica dolorosa: quella delle cosiddette «scuole residenziali». Una ferita profonda che ha segnato le re- lazioni tra l’istituzione e gli indigeni. Ai popoli originari si rivolse papa Giovanni Paolo II in occasione delle sue due prime visite al paese nordamericano (nel 1984 e nel 1987). Tuttavia, è stato papa Francesco – nel suo viaggio del 2022 – a chiedere perdono per quel grave passo falso.

Fort Simpson (Northwest Territories). Sulla spianata verde spira un vento fresco. Pochi metri più in là ci sono un’ampia spiaggia di terriccio grigio e, da ultimo, il corso del fiume Mackenzie. Un cartello di colore giallo, in inglese e francese, avverte: «Attenzione. Orso in zona». Mentre stiamo scattando una foto alla segnalazione, un uomo (probabilmente uno dei 1.291 membri della comunità) ci passa accanto con un cane al guinzaglio e ci avvisa: «C’è un orso che si aggira. È un tipo tranquillo, abitudinario della zona, ma state comunque attenti».

Il luogo è il fulcro storico (conosciuto come Ehdaa) di Fort Simpson (Łíídlıı Kųę, in lingua indigena), piccolo villaggio posto su un’isoletta, porta d’ingresso al parco nazionale Nahanni, che ospita le famose cascate Virginia. Sulla spianata di Ehdaa ci sono una grande struttura a forma di tenda indigena (teepee) costruita con tronchi d’albero e, soprattutto, un piccolo anfiteatro circolare, tutto in legno, dove si tengono cerimonie, assemblee e manifestazioni dei Dene, il principale gruppo indigeno della zona.

Una stele spiega, in tre lingue, cosa sia Ehdaa. Nelle righe finali si legge che, in questo luogo, i Dene diedero il benvenuto a papa Giovanni Paolo II in occasione della sua visita del 1987, una visita da lui fortemente voluta.

Fort Simpson 1987: si prepara la spianata per la visita di Giovanni Paolo II. Foto NWT Archives:Rene Fumoleau:N-1995-002-7619.

La cecità dei nuovi arrivati

Il pontefice sarebbe dovuto arrivare nel settembre del 1984, ma fu fermato dal maltempo. Allora, dall’aeroporto di Yellowknife, capoluogo dei Territori del Nordovest (Northwest Territories), mandò via radio un messaggio alle popolazioni autoctone, promettendo nel contempo che sarebbe tornato.

«La storia – disse nel corso del suo messaggio – ci documenta con chiarezza come nei secoli la vostra gente sia stata ripetutamente vittima dell’ingiustizia ad opera dei nuovi arrivati i quali, nella loro cecità, spesso considerarono inferiore la vostra cultura. Oggi, fortunatamente, questa situazione si è ampiamente ribaltata, e la gente sta imparando ad apprezzare la grande ricchezza che c’è nella vostra cultura, e a dimostrare nei vostri riguardi un grande rispetto. […] Voi siete chiamati a porre tutti i vostri talenti al servizio degli altri e a contribuire all’edificazione, per il bene comune del Canada, di una sempre più autentica civiltà della giustizia e dell’amore. Siete chiamati a un compito di grande responsabilità e ad essere un dinamico esempio dell’uso appropriato della natura, specialmente in un tempo in cui l’inquinamento e il deterioramento ambientale minacciano la terra».

Il papa tenne fede alla promessa fatta visitando Fort Simpson tre anni dopo, il 20 settembre del 1987. «Ancora una volta – disse sulla spianata di Fort Simpson – affermo il diritto a una giusta ed equa misura di autogoverno, assieme a un terreno proprio, e a risorse adeguate e necessarie per lo sviluppo di un’economia vitale, adeguata alle necessità della generazione presente e di quelle future».

In entrambe le occasioni, il papa parlò molto dei missionari. Nel 1984, disse: «Per quante colpe e per quante imperfezioni essi [i missionari] abbiano avuto, per quanti errori essi abbiano commesso, per quanti danni involontariamente abbiano provocato, si danno ora pena di riparare. […] I missionari rimangono tra i vostri migliori amici, dedicano la loro vita al vostro servizio […]. La meravigliosa rinascita della vostra cultura e delle vostre tradizioni che voi state sperimentando oggi deve molto agli sforzi continui e pionieristici dei missionari in campo linguistico, etnografico e antropologico». Nel 1987, nel corso della seconda visita, aggiunse: «[I missionari] hanno imparato ad amare voi e i tesori spirituali e culturali del vostro modo di vivere. Hanno mostrato rispetto per il vostro patrimonio, le vostre lingue e i vostri costumi».

In quelle due occasioni Giovanni Paolo II non toccò il tema più controverso, quello delle cosiddette «scuole residenziali» per i bambini dei popoli indigeni (Indian residential schools), anche perché la questione non era ancora deflagrata.

Scuole indigene residenziali: alunni indigeni della «Port Harrison School», Quebec. Foto H.J. Woodside – Library and Archives Canada.

Le scuole «per civilizzare»

Secondo The canadian encyclopedia, le scuole residenziali «erano scuole religiose, sponsorizzate dal governo, istituite per assimilare i bambini indigeni nella cultura euro canadese». Le Chiese coinvolte nella loro gestione furono soprattutto la Chiesa cattolica e, in misura più contenuta, quelle anglicana, presbiteriana e metodista.

Il sistema scolastico residenziale aveva il dichiarato obiettivo di «civilizzare» gli alunni indiani per assimilarli alla società dominante. «[Se] vogliamo fare qualcosa con l’indiano – si legge in un documento del 1879 -, dobbiamo prenderlo molto giovane. I bambini devono essere mantenuti costantemente nell’ambito delle condizioni civili». Gli alunni erano costretti ad abbandonare la loro lingua, le loro convinzioni culturali, il loro stile di vita e dovevano adottare le lingue europee (inglese o francese) e aderire al cristianesimo.

Le scuole residenziali sono state 139. Sono state attive dal 1884 (introdotte dall’Indian act) al 1996, ma i primi esempi risalgono al 1831. In totale, circa 150mila bambini dei popoli indigeni – Prime nazioni, Inuit e Métis – le hanno frequentate in un’età compresa tra i 4 e i 16 anni. Gli studenti risiedevano nelle scuole per almeno dieci mesi all’anno. Si stima che in esse siano morti – per svariate cause – tra i quattro e i seimila bambini. I ritrovamenti dei loro corpi sono aumentati in questi ultimi anni anche grazie all’utilizzo di moderne attrezzature di ricerca.

Uno dei casi più recenti e clamorosi è datato 25 giugno 2021. Quel giorno la Cowessess First nation ha annunciato il ritrovamento di 751 tombe senza nome in un cimitero vicino all’ex Marieval indian residential school. La scuola Marieval operò dal 1899 al 1997 e fu amministrata dalla Chiesa cattolica fino al 1968. Si trovava in un’area indigena a circa 140 chilometri a est di Regina, capoluogo della provincia del Saskatchewan.

Venuti alla luce gli abusi del sistema delle scuole residenziali, nei primi anni Duemila sono iniziate le azioni per arrivare alla verità, alla riconciliazione e alla compensazione delle vittime dei popoli indigeni. Nel 2001 è stato creato un ufficio per raccogliere e risolvere le denunce degli ex studenti, nel 2006 è stato approvato l’Accordo transattivo per le scuole residenziali indiane (Indian residential schools settlement agreement, Irssa), nel giugno del 2008 è stata lanciata la Commissione per la verità e la riconciliazione (Truth and Reconciliation commission, Trc), nel dicembre del 2015 la Trc ha rilasciato il suo rapporto finale (sei volumi).

Nel rapporto – molto pesante – si legge, tra l’altro: «[I bambini] hanno subito abusi, fisicamente e sessualmente, e sono morti nelle scuole in un numero che non sarebbe stato tollerato in nessun sistema scolastico […]». Le scuole residenziali non erano state progettate per educare i bambini indigeni, «ma soprattutto – è scritto – per spezzare il loro legame con la loro cultura e identità».

A fine giugno 2021, subito dopo il ritrovamento dei resti delle 751 sepolture anonime presso la Marieval school, il primo ministro Justin Trudeau ha dichiarato che i canadesi erano «inorriditi e pieni di vergogna».

Giovanni Paolo II stringe le mani a un capo indigeno durante la sua visita del 1987 a Fort Simpson. Foto Vatican News.

Le scuse di Francesco

Nel luglio del 2022, è toccato a papa Francesco affrontare il tema delle scuole residenziali nel corso del suo viaggio in Canada, da lui definito «pellegrinaggio penitenziale».

A Maskawacis, Alberta, nel territorio delle popolazioni Cree, non lontano dal luogo che, dal 1895 al 1975, ospitò la Ermineskin indian residential school,

la foto più significativa del papa non è stata quella in cui egli indossa un copricapo di piume. No. È stata quella che lo vede da solo, assorto in preghiera, davanti alle tombe del cimitero.

Il pontefice si è rivolto alle popolazioni indigene e ha chiesto scusa: «I am deeply sorry». «Ripenso al dramma subito da tanti di voi, dalle vostre famiglie, dalle vostre comunità – ha detto Francesco -; a ciò che avete condiviso con me sulle sofferenze patite nelle scuole residenziali. […] Fare memoria delle esperienze devastanti avvenute nelle scuole residenziali ci colpisce, ci indigna, ci addolora, ma è necessario. È necessario ricordare come le politiche di assimilazione e di affrancamento, che comprendevano anche il sistema delle scuole residenziali, siano state devastanti per la gente di queste terre. Quando i coloni europei vi arrivarono per la prima volta, c’era la grande opportunità di sviluppare un fecondo incontro tra culture, tradizioni e spiritualità. Ma in gran parte ciò non è avvenuto. E mi tornano alla mente i vostri racconti: di come le politiche di assimilazione hanno finito per emarginare sistematicamente i popoli indigeni; di come, anche attraverso il sistema delle scuole residenziali, le vostre lingue, le vostre culture sono state denigrate e soppresse; e di come i bambini hanno subito abusi fisici e verbali, psicologici e spirituali; di come sono stati portati via dalle loro case quando erano piccini e di come ciò abbia segnato in modo indelebile il rapporto tra i genitori e i figli, i nonni e i nipoti».

Le scuse e la richiesta di perdono di papa Francesco sono state apprezzate dai più. Tuttavia, non sono mancate alcune critiche sia dal lato indigeno che da quello governativo. In particolare, è stato criticato il mancato riferimento agli abusi sessuali e l’assunzione di responsabilità da parte della Chiesa cattolica intesa come istituzione.

Scuole indigene residenziali: alunni della «Red Deer School», Alberta. Foto United Church of Canada Archives.

Ricordando

Percorrendo la Mackenzie Highway (Waterfalls Route), all’incrocio stradale che porta alla cascate Lady Evelyn sul fiume Kakisa, notiamo sul prato un’installazione particolare.

È un cartellone con la scritta «Remembering the children» (Ricordando i bambini) e, accanto, la riproduzione di un cuore trafitto da una freccia con segnato un numero: 215. Tutt’attorno, appesi o posti a terra, decine di orsetti e bambolotti. Non è difficile trovare una spiegazione.

Quel numero indica i resti dei bambini indigeni trovati nell’ex Kamloops indian residential school, la più grande scuola residenziale del Canada, aperta nel 1890 e amministrata dalla Chiesa cattolica fino al 1969. La comunità indigena del luogo – Tk’emlúps te Secwépemc First nation, questo il suo nome – li ha portati alla luce nel maggio del 2021 e li ha voluti ricordare anche in questo modo.

Paolo Moiola

Un assorto papa Francesco davanti alle tombe senza nome del cimitero Ermineskin del popolo Cree a Maskwacis (già Hobbema), nell’Alberta, il 25 giugno del 2022, durante il suo viaggio «penitenziale» in Canada. Foto Vatican Media – AFP.

 




Chi governa il Brasile?

Il «marco temporal» (limite temporale) è la tesi giuridica secondo la quale i popoli indigeni avrebbero diritto soltanto sulle terre occupate (o contese) alla data limite del 5 ottobre 1988, giorno di promulgazione della nuova Costituzione brasiliana. Il 20 ottobre di quest’anno Lula aveva posto il veto, totale o parziale, su 24 dei 33 articoli del progetto legislativo 2903/2023 che lo prevedeva, bocciando gran parte dei punti più gravi.

Ebbene, giovedì 14 dicembre 2023, il Congresso nazionale ha annullato la maggior parte dei veti di Lula sul quel disegno di legge 2903/2023. In totale, 41 dei 47 punti analizzati in plenaria sono stati respinti da senatori (53 contro 19) e deputati (312 contro 137). In pratica, solo sei dei punti posti dal veto di Lula sono stati mantenuti. Ora, le decisioni su cui era stato posto il veto verranno incorporate nella legge 14.701/23, che ristabilisce il «marco temporal» in materia di diritti dei popoli indigeni.

Alla luce di quanto accaduto la domanda è: chi governa il Brasile? Purtroppo, Lula ha molto successo all’estero, piace per i suoi discorsi progressisti, ma in patria ha molta difficoltà a mettere in pratica i suoi propositi. Insomma, deve fare i conti con un Congresso in cui prevalgono impresari, latifondisti, conservatori, reazionari. Il presidente vorrebbe, finalmente, trattare i popoli indigeni con rispetto, ma gli interessi dei parlamentari sono contrastanti e finiscono per prevalere. Addirittura sulle decisioni della Corte suprema che aveva dichiarato incostituzionale la tesi (assurda) del «marco temporal».

Senatori e deputati federali si sono dati da fare e hanno approvato un’altra volta la stessa tesi. Di fronte al rifiuto di accettarla da parte del presidente Lula, non hanno esitato a ribadirla, aggravando la situazione con varie altre questioni che dimostrano – per l’ennesima volta – quanto costoro disprezzino gli indigeni e li trattino come ostacoli da abbattere.

Joenia Wapichana (al centro) e Sonia Guajajara (a destra) a Dubai, per la Cop28. (foto Estevam Rafael/Audiovisual/PR)

A cosa serve un ministero dei Popoli indigeni (quello retto da Sonia Guajajara), se non riesce ad ottenere i mezzi necessari per funzionare? La stessa cosa avviene per la Funai guidata da Joenia Wapichana. Un esempio: la mortalità tra gli Yanomami è oggi maggiore che negli anni di Bolsonaro anche se i piccoli ambulatori nella foresta – occupati, distrutti o abbandonati durante il governo precedente – sono stati riaperti. Quanto alla Polizia federale, dopo un inizio promettente, ha quasi abbandonato il compito di scacciare gli invasori dalla Terra indigena Yanomami. Pare che i militari non vogliano far parte di questa operazione, soprattutto a Roraima dove i politici locali – legati a doppio filo con i garimpeiros (cercatori d’oro) – sono contrari a queste operazioni.

La maggioranza degli elettori brasiliani si sono dati da fare per togliere di mezzo Bolsonaro, ma i restanti – spesso ingannati da una propaganda menzognera – hanno eletto uno stuolo di congressisti con la sua faccia.

Teoricamente, la Corte suprema potrebbe sentenziare che anche la nuova legge è incostituzionale, ma è improbabile che essa proceda contro tutto quello che i parlamentari hanno approvato. Per ora, la sola certezza è che essi hanno dichiarato apertamente guerra ai popoli indigeni. E pare non provino neppure vergogna.

Carlo Zacquini da Boa Vista (Roraima, Brasile)




Brasile. Loro sono foresta


La terra è cromosoma essenziale del Dna indigeno. Senza terra i popoli indigeni non sopravvivono in quanto tali. Nelle loro mani, l’ambiente – lo dicono gli studi scientifici – è più rispettato. Per questo non è esagerazione definirli «guardiani della foresta». Né affermare che essi «sono foresta».

La scena è ripresa nella terra indigena Yanomami (regione di Sururucu), in un accampamento di garimpeiros, i minatori illegali tristemente noti. Si vedono le loro tende piantate in uno spiazzo deforestato. Si sente una voce concitata: «Andiamo, andiamo, portateli qui». Non si tratta di animali della foresta, ma di alcuni giovanissimi yanomami, scalzi e in pantaloncini, entrati nell’accampamento degli invasori. I bambini vengono legati (sì, legati) al palo di una baracca venendo accusati dai garimpeiros di essere dei ladri. Il video si chiude così.

L’episodio è raccontato da Hutukara, la principale organizzazione degli Yanomami, che lo ha scoperto tramite Wãnori, un sistema di allarme via cellulare attivato per la prima volta lo scorso luglio. «Dico sempre che il futuro è già oggi –  ha commentato Davi Kopenawa, noto leader yanomami – . Penso che sia importante per noi poter sognare e pensare con altri amici che ci appoggiano, lavorano e combattono insieme. Quelli in città ascoltano, ma non capiscono di cosa hanno bisogno gli Yanomami. Quindi, è fantastico avere questo sistema di allarme per il nostro monitoraggio».

Insomma, anche in piena foresta amazzonica i cellulari sono divenuti strumenti imprescindibili, nel bene e nel male, per vittime e oppressori. A questi ultimi si devono le foto autocelebrative e spaccone postate sulle reti sociali. Alcune di esse sono state pubblicate anche da globo.com.  Si vedono i garimpeiros orgogliosamente in posa con armi da fuoco salde nelle loro mani, davanti a una tavola imbandita con pizze e fusti di birra.

Poco importa se si tratta di voglia di apparire o di una più banale umana stupidità: dimostrano che, nonostante le azioni di sgombero messe in atto dal governo Lula nei primi mesi del 2023 (con la distruzione – stando ai dati ufficiali – di 327 accampamenti, 18 aerei, 2 elicotteri, motori, barche e la riduzione dell’80 per cento dell’area dei garimpo), un numero imprecisato di garimpeiros continua a operare in terra Yanomami.

Secondo «Yamakɨ nɨ ohotaɨ xoa!» (Noi stiamo ancora soffrendo), il rapporto di Hutukara con Seduume e Urihi, uscito a luglio, dopo gli sgomberi delle autorità, si sta assistendo al ritorno di gruppi di garimpeiros sui fiumi Apiaú e Couto Magalhaes e nelle regioni di Papiu, Parafuri, Xitei e Homoxi.

L’insistenza degli Yanomami sull’invasione dei garimpeiros potrebbe apparire esagerata se non si spiegassero gli effetti sconvolgenti che essa produce sulla loro esistenza. Effetti che sono a un tempo ambientali, sanitari, sociali. «La foresta non è contro di noi… chi è contro di noi è l’uomo capitalista», ha spiegato a gennaio a New York Davi Kopenawa.

Secondo il Sistema di monitoraggio delle miniere illegali, da ottobre 2018 a dicembre 2022, l’area interessata dall’attività mineraria è cresciuta di un altro 300%, raggiungendo un totale di 5.053,82 ettari di area devastata, colpendo direttamente quasi il 60% della popolazione Yanomami.

Due giovani Yanomami con un cellulare: da luglio 2023 è stato ativato un sistema di allarme chiamato Wãnori. Foto Evilene Paixao Yanomami – Hutukara.

Conseguenze sulla salute e sulla vita quotidiana

Scrive il citato rapporto di Hutukara: «Oltre alla distruzione delle foreste, del suolo e dei fiumi, che ha un impatto diretto sull’economia delle famiglie indigene, che dipendono dalla pesca, dalla caccia e dalla terra per coltivare, l’attività mineraria influisce direttamente anche sulla salute e sul benessere delle persone e delle comunità».

La situazione sanitaria degli Yanomami vede la grande diffusione di infezioni respiratorie (polmoniti, in primo luogo), parassitosi intestinali, tungiasi (parassitosi epidermica) e – a causa della diffusione della contaminazione da mercurio (utilizzato dai garimpeiros) – ripercussioni pesanti sulla salute riproduttiva delle donne e sullo sviluppo psicofisico dei bambini.

E poi c’è l’esplosione dei casi di malaria, soprattutto nelle zone più vicine ai garimpos.

«Questa malattia, a sua volta, come le infezioni respiratorie, compromette non solo la salute individuale del paziente, ma anche l’economia delle comunità che dipendono dal lavoro familiare per produrre la propria sussistenza. Un uomo che non riesce a curare un campo durante la stagione secca perché indebolito dalla malaria, in futuro avrà maggiori difficoltà a sostenere se stesso e i suoi coresidenti, creando così un circolo vizioso di malaria, crisi economica e fragile socializzazione». Non è – pertanto – un caso se nelle zone a maggior incidenza malarica risultano più alti anche i livelli di denutrizione infantile.

Membri di una comunità indigena osservano gli aiuti alimentari governativi recapitati dall’aviazione militare brasiliana. Foto FUNAI.

Le foto di piccoli yanomami pelle e ossa hanno fatto il giro del mondo. L’esercito brasiliano è intervenuto lanciando da aerei ed elicotteri tonnellate di cibo. Com’è stato possibile arrivare a una simile emergenza?

Secondo varie indagini, il problema della denutrizione è direttamente collegato all’avanzata dei garimpos. Gli Yanomami si sono sempre mantenuti con la raccolta di cibo dalla foresta, con la pesca e la caccia e – in maniera assai minore – coltivando piccoli appezzamenti di terra. Oggi le loro modalità di sussistenza sono state sconvolte dall’invasione dei minatori illegali. L’attività mineraria provoca la deforestazione e distrugge i corsi d’acqua inquinandoli con il mercurio. La selvaggina diventa più scarsa perché gli animali fuggono. Gli indigeni hanno bisogno di trascorrere molto più tempo nella foresta a cacciare e la quantità di cibo portata a casa non arriva più ai livelli di prima.

«La situazione di insicurezza alimentare – spiegano nel loro rapporto le organizzazioni degli Yanomami – non è diffusa nel territorio yanomami, ma è aumentata enormemente negli ultimi anni a causa di una combinazione di fattori, che vanno dalla distruzione delle risorse naturali attraverso lo sfruttamento illegale dei minerali alla disorganizzazione della produzione derivante dalla crisi sanitaria e agli impatti sociali dell’attività mineraria. Nel 2021 e nel 2022, a ciò si sono aggiunti gli effetti del prolungamento della stagione delle piogge, dovuto al fenomeno climatico La Niña, che ha impedito a molte comunità di curare i propri appezzamenti agricoli».

Se questo non bastasse, è possibile trovare notizie che complicano ancora di più il quadro complessivo. Come racconta Repórter Brasil parlando della diffusione dei narcogarimpos. Secondo i dati raccolti dal sito investigativo brasiliano, in sei anni (dal 2017 al 2022) c’è stato un raddoppio delle esportazioni di oro (da 11 a 32 tonnellate) e – dato ancora più inquietante – una triplicazione dei sequestri di cocaina (da 10 a 32 tonnellate).

Indigeni sfilano a Brasilia nella manifestazione che attende la decisione del Stf sul marco temporal (30 agosto). Foto Tiago Miotto – CIMI.

Semplificazioni veritiere

Secondo i dati Inpe (Instituto nacional de pesquisas espaciais), a luglio 2023 la deforestazione dell’Amazzonia brasiliana è scesa del 66% rispetto allo stesso mese del 2022. Merito, ha sottolineato la ministra dell’Ambiente Marina Silva, delle nuove politiche del governo Lula. Tuttavia, il dato non può indurre a uno sciocco ottimismo.  Riduzione non significa salvaguardia.

Secondo una ricerca della Agenzia spaziale europea (Esa, marzo 2023), tra il 2017 e il 2021 la perdita forestale è stata di 5,2 milioni di ettari, una superficie più o meno equivalente alle dimensioni del Costa Rica.

Identicamente a «polmone del mondo» per l’Amazzonia, anche «guardiani della foresta» per i popoli indigeni può apparire come una di quelle affermazioni semplificatorie utilizzate per descrivere situazioni complesse. Tuttavia, almeno in questo caso, non si è lontani dalla verità.

Esiste una relazione tra presenza indigena e preservazione ambientale? L’osservazione ma anche la scienza rispondono che la relazione esiste ed è positiva. Uno degli ultimi studi in proposito – pubblicato da Nature sustainability (3 gennaio 2023) – certifica che, nelle aree indigene, la perdita di foreste è molto più contenuta, a patto che esse vengano rispettate. «Le popolazioni indigene – conclude lo studio – potrebbero impedire il superamento del punto di svolta (tipping point) per la trasformazione degli ecosistemi della foresta amazzonica in ecosistemi di savana».

Una maloca, la casa comune degli Yanomami, nell’Alto Catrimani, nella Terra indigena Yanomami (Tiy). Secondo il governo Lula, l’80 per cento dei garimpeiros sono stati cacciati nelle operazioni iniziate a gennaio 2023. Foto Bruno Kelly – ISA.

Intanto, i Guarani

Anche per merito del carisma e della notorietà internazionale di Davi Kopenawa, negli ultimi due anni si è parlato soprattutto dell’emergenza riguardante gli Yanomami.

In realtà, la situazione è molto difficile per tutti i popoli indigeni e la soluzione pare lontana, nonostante la buona volontà del governo Lula, visto che il parlamento brasiliano è dominato da una maggioranza di politici bolsonaristi (per i quali i popoli indigeni sono semplicemente una palla al piede per lo sviluppo del Brasile).

«La sconfitta di Bolsonaro – scrivono Lucia Helena Rangel e Roberto Antonio Liebgott nell’ultimo rapporto del Cimi – alle elezioni presidenziali è stata fondamentale per rompere con il progetto di morte e distruzione in corso. Tuttavia, non basta affrontare le sfide della causa indigena. La negazione dei diritti, il pregiudizio e il razzismo costituiscono lo scenario di un brutale aggravamento della violenza, che viene alimentata o incoraggiata negli uffici e nei corridoi degli organi statali».

Si consideri che il più consistente gruppo indigeno del paese, quello dei Kaiowá Guarani (che occupa gli stati del Sud, ai confini con Paraguay e Argentina), vive in condizioni estreme. Da anni essi sono costretti ai margini delle loro terre tradizionali dalle quali sono stati espulsi con la forza dai fazendeiros e dalle multinazionali agroalimentari che le hanno occupate per farne piantagioni di soia o di canna da zucchero e pascoli per il bestiame.

Un garimpo sul rio Couto Magalhães, Kayanau, Terra indigena Yanomami (in alto, a sinistra, una pista aerea clandestina). Foto Bruno Kelly – ISA.

L’arma dell’intolleranza religiosa

Proprio negli stessi giorni del giudizio del Supremo tribunale federale (Stf), il Consiglio indigenista missionario (Cimi) pubblicava, sul proprio sito, un durissimo atto d’accusa per l’en-

nesima violenza contro esponenti Kaiowá Guarani del Mato Grosso do Sul, stato in cui l’intolleranza e la violenza verso gli indigeni sono consolidate.

Il fatto risale al 18 settembre scorso quando Sebastiana Galton (di 92 anni) e il suo compagno Rufino Velasquez sono morti in un incendio doloso che ha bruciato la loro casa e i loro corpi. Sebastiana era una nota leader religiosa tradizionale che lottava a fianco della propria popolazione. Questa – spiega il Cimi – vive una tragica situazione di disgregazione sociale «la cui causa continua a essere il risultato dello sfollamento forzato, del processo di confinamento e della mancanza di accesso effettivo di questa popolazione ai propri territori tradizionali». Alla lotta per la terra in questo caso si aggiunge – continua la nota – «una complessa situazione di intolleranza religiosa che ha deriso, diffamato e ucciso – spiritualmente e fisicamente – i Ñanderu e i Ñandesy (rappresentanti religiosi tradizionali, ndr) in tutto il territorio Kaiowá Guarani».

Corrutela de garimpo no rio Uraricoera, Terra IndÌgena Yanomami

«In tutte le società umane il fenomeno religioso consiste nella mobilitazione delle forze spirituali, siano esse considerate buone o meno (benedizione e maledizione), secondo i bisogni, i desideri e le speranze di un popolo, come strategia per vincere sfide, pericoli e crisi. […] Così, nel caso delle pratiche religiose tradizionali dei Kaiowá Guarani, si può osservare un atto di resistenza di fronte ai molteplici processi di sterminio perpetrati contro le loro comunità».

Senza usare mezzi termini, il Consiglio indigenista missionario accusa le Chiese neopentecostali e i loro metodi.

«Da decenni il Cimi denuncia la presenza e gli effetti distruttivi che queste sette fondamentaliste rappresentano e promuovono tra i Kaiowá Guarani, soppiantando un intero sistema di credenze, screditando leader religiosamente costituiti e, favorendo, penalmente, la distruzione di ambienti e oggetti considerati sacri da questi popoli».

È cosa nota che, da sempre, le potenti Chiese neoevangeliche brasiliane hanno un approccio alla questione indigena completamente diverso da quello della Chiesa cattolica. Per loro i popoli indigeni debbono adeguarsi alla «visione bianca» dell’esistenza.

Riparare il male

Dom Roque Paloschi, arcivescovo di Porto Velho e, fino a poche settimane fa, presidente del Cimi, conclude la sua introduzione all’ultimo rapporto Violência contra os povos indígenas do Brasil con parole che sanno di preghiera e speranza: «Possano i nuovi governanti cercare di riparare il male, garantendo ai popoli indigeni il loro diritto fondamentale alla terra e ai loro modi di essere e vivere nelle differenze».

Paolo Moiola

Nel fotogramma pubblicato sui social un gruppo di garimpeiros mostra orgogliosamente armi pesanti e una tavola imbandita con pizze e birra.


Il Congresso contro il Supremo tribunale federale

«Marco temporal»: bocciato ma promosso

La vittoria giuridica presso il massimo organo giudiziario del Brasile non pare dare certezze ai popoli indigeni. In parlamento e nel paese, l’offensiva anti-indigena della «bancada ruralista» non si ferma. Che farà il presidente Lula?

Il 21 di settembre il Supremo tribunale federale (Stf) vota contro il marco temporal (in sostanza, è incostituzionale considerare terre indigene soltanto quelle occupate al 5 ottobre 1988, data di entrata in vigore della nuova Costituzione). L’entusiasmo per la decisione – sicuramente prematuro, spesso esagerato – dura però lo spazio di qualche giorno. Forse meno. Non è un «indietro tutta», ma quasi. Dopo l’approvazione alla Camera (30 maggio), la proposta sul marco temporal passa – infatti – anche al Senato (27 settembre). A questo punto, la domanda diventa: chi vince in caso di contrasto tra Stf e Congresso?

Carlo Zacquini, missionario della Consolata e grande esperto di Yanomami e popoli indigeni, è caustico: «Le leggi sono una cosa, i legislatori un’altra. Può anche darsi che sia impossibile approvare una legge, ma i politici non smetteranno mai di tentare nuovi o vecchi metodi per fare quello che “è conveniente per loro”. Sono ormai più di cinque secoli che si ammazzano indigeni, non sarà per una decisione del Stf che smetteranno di farlo o di tentare nuove forme per farlo. In fin dei conti la maggioranza dei brasiliani non è Indigena. Nella minestra ci puoi mettere molti prodotti, ma c’è ne sta sempre ancora uno. Se una legge stenta a trovare consenso o trova qualche ostacolo per essere approvata, si fa un’altra proposta, assieme ad altri richiami per le allodole. Tante volte quante necessario perché, alla fine passi, magari per la disattenzione di qualcuno. Se si vuole che i popoli indigeni abbiano una chance di sopravvivere, in Brasile non ci si può permettere alcuna distrazione. La spinta dell’industria agricola e mineraria è fortissima».

Il clima di contrapposizione tra poteri dello stato è palese. Per esempio, un deputato bolsonarista ha presentato una proposta di emendamento alla Costituzione (Pec 50/2023) che conferirebbe al Congresso il potere di sospendere le decisioni del Supremo tribunale federale che «superano i limiti costituzionali».

In base alle proprie prerogative, il presidente Lula potrebbe (e dovrebbe) mettere il veto sulla legge del marco temporal emanata dal Congresso. Tuttavia, come appare evidente, il clima per i diritti dei popoli indigeni rimane pessimo*.

Paolo Moiola

* Per gli aggiornamenti sul tema, seguiteci sul sito: www.rivistamissioniconsolata.it.

Brasilia, una seduta del Supremo tribunale federale (Stf) per decidere sul «marco temporal». Foto: Antônio Cruz – Agência Brasil.

 

 




Messico. Di tutti, ma non dei Maya


Un percorso di oltre 1.500 chilometri, cinque stati attraversati, costi giganteschi: sono i dati salienti del «Tren Maya», un’opera che sta avendo impatti enormi sulla penisola dello Yucatán, cuore della civiltà maya. Proprio le comunità indigene e gli ambientalisti si sono (inutilmente) opposti al progetto, fortemente voluto dal presidente messicano Manuel Obrador (Amlo).

Secondo il presidente Amlo (Andrés Manuel López Obrador), il Tren Maya sarà un volano di crescita economica. A fine opera, saranno 1.525 chilometri di rotaie che collegheranno Palenque a Cancún, attraverso cinque stati messicani (Chiapas, Quintana Roo, Yucatán, Campeche e Tabasco).

La ferrovia servirà al trasporto di merci (legname, minerali, materiali da costruzione) e al turismo, riducendo da qualche settimana a pochi giorni gli spostamenti tra le piramidi maya e le spiagge sull’oceano.

Il costo del progetto, presentato nel Piano di sviluppo nazionale 2019-2024 come ricetta anti povertà, è di 20 miliardi di pesos (circa un miliardo e mezzo di euro) per un totale di 42 treni e 34 stazioni, con accesso a sette aeroporti e ventisei aree archeologiche.

Obiettivo dichiarato del governo Amlo è portare lavoro e reddito, migliorando le comunicazioni interne in un paese dove quasi non esistono ferrovie e la popolazione si sposta su autobus lenti e poco capienti.

L’opera si sta realizzando in tempi record: circa l’80 per cento dei lavori sono già conclusi e, mentre scriviamo, ci sono già stati viaggi su alcune tratte del percorso. L’intervento sta riscuotendo un vasto consenso popolare, soprattutto tra le classi medio basse.

Il prezzo da pagare, però, potrebbe essere molto alto, come denunciano scienziati, ambientalisti, rappresentanti delle comunità indigene e Ong locali, suffragati anche da una recente sentenza del Tribunale internazionale per i diritti della natura (Vedi sotto: Comunità indigene inascoltate).

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Silenzio sugli svantaggi

«Il cosiddetto Tren Maya non è un treno e non è maya», ha spiegato Miguel Angel del Congresso nazionale indigeno (Congreso nacional indígena, Cni).

«Non si tratta di una semplice posa di binari, ma di un’opera mastodontica, inclusiva di più progetti che stanno trasformando il territorio sul piano logistico, energetico, agricolo».

La ferrovia si porta dietro resort, centri commerciali, lotti residenziali, alberghi. In corrispondenza di almeno diciotto stazioni sorgeranno polos de desarrollo (poli di sviluppo) destinati a ospitare ognuno 50mila persone, con allevamenti di maiali e polli per il circuito turistico e l’esportazione in Cina che – insieme a nuove colture di palma e soia – aumenteranno inquinamento e consumi idrici.

Inoltre, «il treno non è maya perché non è pensato per la popolazione ma per gli interessi del governo, delle potenze straniere come Cina, Canada e Usa, e delle imprese che sfruttano le risorse locali».

«Anche la criminalità organizzata avrà maggiori opportunità di investire i proventi illeciti nel settore turistico e immobiliare», ha osservato Miguel Angel.

È già in atto un fenomeno di gentrificazione (trasformazione di un’area da popolare a esclusiva, ndr) per cui, nelle zone di passaggio del treno, i prezzi stanno lievitando, rendendo proibitivi i costi dei beni essenziali e delle case.

«Per la gente comune ci sono solo svantaggi. Le stazioni, costruite vicino alle città e ai siti turistici, sono difficilmente raggiungibili da chi vive nei villaggi. Gli scavi e l’estrazione di pietre rovinano il territorio, i bambini devono andare a scuola in mezzo alla polvere e al rumore, con problemi per la salute. Nella zona di Palenque stanno colando cemento armato a pochi metri dalle piramidi, al solo fine di ampliare e rendere più sontuosi il museo, la biglietteria e le strutture ricettive».

I lavori del Tren Maya sono spesso accompagnati da sfratti ed espropri illegali. Gli ejidos (le terre comunitarie) – denuncia l’Ong messicana Prodesc – vengono fatti passare come proprietà private grazie al sostegno di notai compiacenti. Per lasciare spazio ai cantieri si sono demolite centinaia di abitazioni, e non sempre le famiglie hanno ricevuto indennizzi o sistemazioni alternative.

Anche i posti di lavoro e i vantaggi economici sarebbero uno specchietto per le allodole, «temporanei e destinati a concludersi insieme ai cantieri», ha sostenuto l’esponente del Cni.

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Neocolonialismo

Secondo le comunità in resistenza, il Tren Maya «è una delle grandi opere che proseguono nel solco del neocolonialismo estrattivista, danneggiando l’ambiente, la società e l’economia». Esso costituisce «un tutt’uno con un altro mega progetto voluto da Amlo, il Corridoio interoceanico, una linea ferroviaria che collegherà i porti dell’Atlantico con quelli del Pacifico. Ciò allo scopo di riconfigurare il territorio con la creazione di interi hub logistici (autostrade, ferrovie, aeroporti) e manifatturieri (gasdotti, oleodotti, raffinerie, miniere, parchi industriali).

«Il presidente del Messico, che si presenta come un innovatore vicino al popolo, sta facendo più danni dei precedenti governi conservatori. Riscuote consensi tra la gente perché fa cose utili nell’immediato, ma provoca danni irreparabili nel medio e lungo periodo», dicono al Cni.

Amlo è stato il primo presidente di sinistra dell’ultimo secolo, il più votato nella storia messicana recente con oltre il 53 per cento dei voti.

A diffidare di lui (che, nelle elezioni del giugno 2024, non potrà ricandidarsi, ndr), sono stati per primi gli zapatisti: nel 2012 il subcomandante Marcos lo definì «l’uovo del serpente», per indicare che sotto il guscio progressista covava un neoliberista.

Voto al referendum sul Tren Maya (15 dicembre 2019); le modalità della consultazione sono state criticate da più parti. Foto Lexie Harrison-Cripss – AFP.

Devastazione ambientale

Per fare posto alla ferrovia Palenque-Cancún si sta abbattendo il 70 per cento degli alberi che fanno parte della Selva Maya, la più grande nel continente americano dopo quella amazzonica. Quel che appare dall’alto è un’enorme cicatrice grigiastra, fatta di terra e cemento, che spacca in due il verde folto della copertura boschiva per centinaia di chilometri.

«Stanno disboscando ettari di foresta originaria, fonte di sostentamento per le comunità maya che vivono di un’agricoltura di piccolo impatto e che le attribuiscono carattere sacro. Così si distrugge una preziosa riserva della biosfera, un habitat di specie animali che necessitano di ampi spazi: giaguari, ocelot, tapiri, scimmie, coccodrilli, pappagalli».

Ma i danni ambientali non si fermano qui, come spiega il biologo Roberto Rojo. «La foresta pluviale è ricca di specie viventi, di siti archeologici non ancora del tutto scoperti e di formazioni geologiche uniche, i cenotes: grotte calcaree sotterranee o a cielo aperto, caratterizzate da stalattiti, stalagmiti e laghetti d’acqua dolce dal limpido colore verde o blu». Oltre alla loro bellezza che attrae turisti da tutto il mondo, queste oasi naturalistiche costituiscono una fonte di approvvigionamento idrico che rischia di scomparire. «Ormai solo il trenta per cento delle fonti è incontaminato, e la carenza d’acqua pulita danneggia i piccoli coltivatori favorendo l’abbandono o la cessione delle terre ai latifondisti». Nel 2018 Roberto Rojo ha fondato i Cenotes urbanos, gruppo di speleologi impegnato a mappare i cenotes non documentati di Playa del Carmen, dove si sta costruendo il tratto cinque (da Tulum a Playa del Carmen) del Tren Maya. Dal 2019 la loro è diventata una corsa contro il tempo per censire il maggior numero di grotte, nel tentativo di impedirne la distruzione.

«La rotta ferroviaria attraversa almeno un centinaio di cenotes. Qui il terreno calcareo si sbriciola, perciò i binari non poggiano direttamente a terra ma vengono sopraelevati a 17,5 metri d’altezza, su centinaia di pali del diametro di oltre un metro conficcati a 25 metri di profondità, è come costruire su gusci d’uovo», dice Elias Siebenborn, membro dei Cenotes urbanos. «Gli scavi distruggono alghe e batteri essenziali per la sopravvivenza dell’ecosistema e inquinano l’acqua. A volte, per procedere più in fretta, le ruspe tappano i cenotes con la terra. È un danno incalcolabile, irreversibile».

Donne indigene; le comunità non sono state coinvolte nel progetto ferroviario del Tren Maya. Foto Robin Canfield – Unsplash.

Senza autorizzazioni

Lo scorso marzo il Tribunale internazionale per i diritti della natura ha chiesto al governo di sospendere i lavori del Tren Maya che «provoca devastazioni a lungo termine e viola la stessa legge messicana».

La costruzione della ferrovia, si legge nella sentenza, è avvenuta «senza la Manifestación de impacto ambiental integral (relazione preliminare sugli impatti ecologici prevista dalla legge, nda), senza autorizzazioni per il cambio di destinazione d’uso dei terreni, e senza attenersi alle sospensioni giudiziali richieste in questi anni dagli Amparos» (tribunali costituzionali cui i cittadini possono adire direttamente, un po’ come i Tar italiani, nda).

«Il Tren Maya è un ecocidio e un etnocidio che viola i diritti ambientali, umani e culturali delle comunità indigene, in nome di una visione puramente commerciale e finanziaria», dice Raúl Vera López, uno dei giudici del Tribunale. Esponente della teologia della liberazione e strenuo difensore dei diritti umani, monsignor Vera López è tra le voci che, fin dai tempi del presidente conservatore Felipe Calderón (2006-2012), hanno denunciato i pericoli della militarizzazione del Messico, un tema «caldo» anche sotto il governo Amlo.

Il vescovo messicano Raúl Vera López, conosciuto per le sue battaglie per i diritti umani, si è schierato contro il Tren Maya. Foto Especial – desdelafe.mx.

«Oggi predomina una politica della paura che rafforza il clima di violenza, già molto forte nel Paese a causa del narcotraffico e dei paramilitari», spiega il vescovo Vera López. «Anche i lavori del Tribunale ne hanno risentito: noi giudici siamo stati seguiti da gente armata. Dopo aver subito minacce e intimidazioni, diverse persone hanno disertato le udienze o si sono limitate a mandare biglietti di denuncia anonimi. Nello Stato di Quintana Roo, a Señor, i militari sono andati di casa in casa a minacciare gli abitanti; a Tihosuco, durante un’udienza si sono presentati tipi sospetti che hanno fotografato i partecipanti e preso le targhe delle automobili».

Sono anche in aumento le sparizioni forzate e gli assassinii, in un paese tra i primi al mondo per numero di defensores e defensoras ambientales uccisi. Nel 2021, su 200 omicidi, oltre un quarto si sono verificati in Messico (dati Global Witness).

Il Tren Maya comporta «una militarizzazione massiccia e capillare, i lavori avanzano preceduti dalle camionette blindate dell’esercito», sostiene monsignor Vera López.

«Le forze armate hanno anche la gestione diretta di diversi cantieri, perché a loro è riconosciuta la facoltà di fare impresa, assumere personale edile e appaltare i lavori a ditte esterne», ha spiegato Miguel Angel del Cni.

La Guardia nazionale controlla le attività del Tren Maya, mentre la Marina gestisce il Corridoio interoceanico. «Parte dei proventi dei cantieri sono destinati a pagare le pensioni dei militari, che quindi hanno tutto l’interesse a reprimere il dissenso», ha detto Miguel Angel.

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Una resistenza lunga 500 anni

Per fronteggiare l’apparato militare e di potere che sostiene le grandi opere, le comunità indigene ricorrono a vie legali, manifestazioni di piazza e blocchi dei cantieri. Una lotta impari, Davide contro Golia. Dove trovano la forza per non arrendersi?

«Ciò che da sempre ci dà coraggio, ci mantiene uniti e solidali, e sostiene la resistenza dei nostri popoli, è la spiritualità», ha spiegato Raul Zibechi, scrittore e giornalista uruguayano esperto di movimenti sociali latinoamericani, relatore all’incontro El Sur resiste, promosso dal Cni.

«Nella vita quotidiana, come nelle iniziative di contrapposizione, i rituali e la cosmovisione maya sono onnipresenti, ad esempio attraverso le cerimonie in onore della terra, dell’acqua, della foresta.

La spiritualità ci proietta in una dimensione non materiale ma profondamente umana, l’essere umano è un essere spirituale che può andare oltre le contraddizioni materiali», ha continuato Zibechi. «Ci sta piombando addosso un’enorme tempesta, contro cui non possiamo costruire barriere materiali; ma possiamo unirci, abbracciarci, affidarci alla Pachamama, la Madre Terra».

Qualunque sia l’esito dello scontro, «questa è la nostra vittoria: aver continuato a esistere e resistere, essere ancora qui dopo la lunga notte di 500 anni (dall’arrivo di Cristoforo Colombo, nda). E forse, come popolo, r-esisteremo per altri 500 anni».

Stefania Garini

Mappa del percorso, delle tratte e delle stazioni principali del Tren Maya.


Le imprese straniere in Messico

«El tren alemán»

Negli ultimi anni un numero crescente di imprese, soprattutto statunitensi, ha trasferito le proprie produzioni in Messico, raggiungendo nel 2022 un volume di investimenti diretti pari a 35,3 miliardi di dollari, il 12% in più rispetto all’anno precedente (dati Banco de México).

Ad attirare capitali sono le politiche commerciali, come l’accordo di libero scambio Nafta 2 con Usa e Canada entrato in vigore nel 2020, ma anche le scarse tutele ambientali e la possibilità di impiegare manodopera a basso costo.

Tra le aziende europee interessate dalle grandi opere vi sono le spagnole Renfe (compagnia ferroviaria) e Ineco (ingegneria dei trasporti), la lussemburghese Arcelor Mittal (piastre in acciaio per la raffineria di Dos Bocas), la francese Alstom (costruzioni ferroviarie). Tra i soggetti impegnati in Messico nelle vecchie e nuove opere di estrattivismo energetico vi sono anche alcune aziende italiane, come Enel Green Power (parchi eolici di Oaxaca) ed Eni (raffineria di Tabasco).

La tedesca Deutsche Bahn è presente nella progettazione del Tren Maya (qualcuno, sarcasticamente, lo chiama Tren Aleman) attraverso la controllata DB Engineering & Consulting. Pur avendo firmato una Convenzione con l’impegno di garantire i diritti delle comunità, secondo il Congresso nazionale indigeno la Deutsche Bahn (tristemente nota per aver gestito i «treni della morte» sotto il nazismo) avrebbe ignorato il primo e basilare diritto: quello delle persone a essere informate e consultate. Per parte sua, la Deutsche Bahn sostiene che il progetto sta creando lavoro e che il treno è un mezzo di trasporto ecologico, che ben si sposa con l’emergenza climatica.

S.Ga.

Scorcio del sito archeologico maya di Palenque, nello stato del Chiapas. Foto Dassel – Pixabay.


Il Tribunale internazionale per i diritti della natura

Comunità indigene inascoltate

Il Tribunale internazionale per i diritti della natura, fondato nel 2014 dalla Global alliance of the rights of nature, ha lo scopo di far valere la soggettività giuridica della Natura – che non può difendersi da sé -, denunciando i crimini perpetrati contro di essa e dando voce ai popoli indigeni in merito alle violazioni subite dalla loro terra, dalle loro acque e dalla loro cultura. Pur essendo un tribunale d’opinione, le cui sentenze non hanno potere vincolante, i suoi pronunciamenti costituiscono importanti precedenti per le rivendicazioni legali di comunità e attivisti.

A deliberare sul Tren Maya, dopo aver raccolto le testimonianze di una ventina di comunità negli stati di Chiapas, Campeche, Quintana Roo e Yucatán, sono stati i giudici Francesco Martone, già presidente di Greenpeace Italia, Raúl Vera López, vescovo emerito di San Cristobal de Las Casas e di Saltillo, la sociologa argentina Maristella Svampa, l’avvocato ecuadoriano Yaku Pérez e il capo delegazione zapoteco dell’Indigenous environmental network, Alberto Saldamando.

La sentenza del Tribunale è stata notificata al presidente Amlo, alla Commissione nazionale per i diritti umani, ai relatori Onu per i diritti umani e per i diritti dei popoli indigeni, al rappresentante dell’Unesco in Messico, e tradotta in lingua maya per renderla accessibile alle comunità.

È da escludere però che Amlo faccia dietrofront, visto che nel 2021, in risposta ai mandati giudiziali degli Amparos che chiedevano la sospensione dei lavori, aveva dichiarato il Tren Maya opera di sicurezza nazionale. D’altra parte, la linea ferroviaria è ormai quasi completata.

S.Ga.

Una piramide di Chichén Itza, uno dei più noti siti archeologici maya nella penisola dello Yucatan. Foto Mario La Pergola – Unsplash.

 




Brasile. «Marco temporal»: il pericolo incombe

I sostenitori della legge anti indigena non si fermano né davanti alla bocciatura del massimo organo giudiziario del Brasile né davanti al veto (parziale) del presidente Lula.

Ammettiamolo: quella dello scorso 21 di settembre è stata una vittoria di Pirro. La decisione del Supremo tribunale federale (Stf) contro il marco temporal (è incostituzionale considerare terre indigene soltanto quelle occupate al 5 ottobre 1988, data di entrata in vigore della nuova Costituzione brasiliana) non è stata né storica né decisiva.

Dopo la Camera, il 27 settembre anche il Senato ha approvato il progetto di legge n. 2903 che rivede l’articolo 231 della Costituzione in merito a riconoscimento, delimitazione, uso e gestione delle terre indigene. Insomma, il marco temporal è più vivo che mai.

Il 20 ottobre il presidente Lula ha posto il veto sulla legge. In particolare, sugli articoli 4 (tempistica), 9 (indennizzo degli occupanti), 28 (popoli indigeni isolati) e 30 (coltivazioni Ogm). Tuttavia, non si è trattato di un veto integrale, ma parziale. Sono rimasti in essere gli articoli 20 e 26 che lasciano aperta la possibilità di uno sfruttamento economico delle terre indigene. Inoltre, il Fronte parlamentare agrario (Fpa, noto anche come «bancada ruralista»), che afferma di essere composto da 303 deputati federali (su 513) e 50 senatori (su 81), ha immediatamente rilasciato un comunicato ufficiale di aperta sfida al presidente e al Tribunale supremo. In esso si afferma che il Fronte non rimarrà con le braccia incrociate e farà di tutto per sovvertire i veti presidenziali. Il Fronte sostiene di agire per garantire la sicurezza giuridica, la pace nelle campagne e la dignità delle migliaia di famiglie responsabili della produzione alimentare per il Brasile e per il mondo. Non una parola viene detta sul rispetto dei diritti dei popoli indigeni e dell’ambiente.

Il sogno dei «fazendeiros» è un Brasile di vacche e soia. (Immagine da globalskybusiness.com)

Il giorno seguente (21 ottobre), l’agenzia dello stesso Fronte parlamentare ha lamentato «la mancanza di rispetto per il Congresso nazionale e per la volontà popolare» e ribadito, con toni da battaglia, la propria volontà di «garantire il diritto di proprietà» (purché – aggiungiamo noi – esso non sia in capo ai popoli indigeni).

Lapidario è il commento di fratel Carlo Zacquini, grande conoscitore della tematica indigena brasiliana: «La questione è che il veto, in ogni modo, sarà analizzato ancora dai parlamentari e ciò potrà portare a situazioni anche più pericolose. In Brasile chi comanda è il capitale, e questo non è alleato degli indigeni».

Paolo Moiola




Profumo di banane

T-shirt bianca, capelli corti, faccia pulita. Dice: «Oggi abbiamo fatto la storia, le famiglie ecuadoriane hanno scelto il nuovo Ecuador, hanno scelto un paese con sicurezza e lavoro. […] Andiamo verso un paese di realtà dove le promesse non rimangono nella campagna elettorale e la corruzione viene punita». Un discorso per nulla sorprendente: più o meno, le parole sono quelle che dicono tutti i candidati subito dopo aver saputo della loro vittoria. Sorprendente è invece l’oratore, vincitore non previsto alla vigilia delle elezioni.

Luisa González, candidata dell’ex presidente Rafael Correa, è la grande sconfitta delle elezioni del 15 ottobre. (Immagine tratta da luisapresidenta.com)

Con i suoi 35 anni, Daniel Noboa, imprenditore e politico di centrodestra, sarà il più giovane presidente dell’America latina, battendo anche il cileno Gabriel Boric (37). È figlio di Álvaro Noboa, l’uomo più ricco dell’Ecuador, a capo di un impero di banane e cioccolato (marchio «Bonita») e di oltre cento imprese, per cinque volte candidato alla presidenza del paese. Daniel è sposato con Lavinia Valbonesi, giovane influencer di padre italiano. Al secondo turno delle elezioni (domenica 15 ottobre), Daniel Noboa ha sconfitto Luisa González, candidata di centrosinistra sponsorizzata da Rafael Correa, presidente dal 2007 al 2017, oggi esiliato in Belgio. Il neoeletto, che succede al banchiere Guillermo Lasso, si troverà a governare un paese in gravi difficoltà.

Sotto il marchio «Bonita», il gruppo Noboa produce anche tavolette di cioccolato.

Fino a poco tempo fa, l’Ecuador – 17 milioni di abitanti (con il 7,7% di indigeni) – era una regione (relativamente) tranquilla dell’America Latina, continente noto per ospitare i paesi con i più alti tassi di omicidio al mondo (El Salvador, Venezuela, Guatemala, Haiti). Da cinque anni la situazione è radicalmente mutata. Stretto tra Perù e Colombia, i due maggiori produttori mondiali di coca, l’Ecuador è diventato crocevia del narcotraffico, affare gigantesco gestito da gruppi internazionali e bande locali.

Secondo l’ultimo censimento, gli indigeni dell’Ecuador sono il 7,7% della popolazione totale. (Foto Azzedine Rouichi – Unsplash)

L’esplosione di violenza è stata di tale portata da spingere decine di migliaia di ecuadoriani a lasciare il paese e tentare di emigrare negli Stati Uniti, formando parte di un’ondata migratoria che sta mettendo in gravi difficoltà l’amministrazione Biden. Alla criminalità organizzata si deve, tra l’altro, l’assassinio – avvenuto a Quito lo scorso 9 agosto – di Fernando Villavicencio, giornalista investigativo e autorevole candidato alla presidenza.

Fernando Villavicencio, giornalista investigativo e candidato presidente, è stato assassinato il 9 agosto in piena campagna elettorale. (Foto da Facebook)

Due giorni prima delle elezioni avevamo chiamato Quito per raccogliere un commento di José Ignacio López Vigil, fondatore e responsabile di Radialistas Apasionadas y Apasionados, associazione senza scopo di lucro che produce programmi radiofonici per molte emittenti popolari dell’America Latina. E il nostro interlocutore era stato esplicito e molto duro. «Entrambi i candidati – ci aveva spiegato – sono pessimi. L’unico per il quale valeva la pena votare, Fernando Villavicencio, è stato assassinato dalla mafia e dai narcotrafficanti. Luisa González è un’evangelica pro-vita, un burattino di Correa. Il suo progetto è l’amnistia per l’ex presidente e la ricandidatura di questo farabutto nel 2026. Daniel Noboa è il figlio di un papà miliardario. Neoliberista. Non serve al paese. Detto questo, tra i due preferisco quest’ultimo».

Paolo Moiola




Argentina, contro le diseguaglianze

 


Il Paese, al voto per l’elezione del presidente della Repubblica il 22 di questo mese, conta diverse realtà di missione fra le più vivaci dell’America Latina. I progetti, in corso o in via di formulazione, dei Missionari della Consolata hanno tutti un tratto in comune: la lotta alle diseguaglianze.

Il 22 ottobre gli argentini andranno a votare per eleggere il nuovo presidente della Repubblica. È probabile che ci sarà un secondo turno, il 19 novembre, se nessuno dei candidati avrà ottenuto il 45% dei voti oppure almeno il 40% e dieci punti di scarto rispetto alla forza politica che arriverà seconda@.

A queste elezioni, l’Argentina è arrivata con un risultato a sorpresa dalle primarie del 13 agosto scorso che hanno visto affermarsi il candidato di Libertad Avanza, Javier Milei, con il 30% dei voti, pari a oltre 7 milioni di preferenze sui 34,4 milioni di aventi diritto. Milei è un politico ed economista che sostiene ricette economiche ispirate al liberismo radicale: ha dichiarato di voler eliminare la banca centrale argentina e abbandonare il peso per introdurre il dollaro americano. È contrario all’aborto, favorevole alla vendita di organi e alla diffusione delle armi, dice che sopprimerebbe l’istruzione obbligatoria e gran parte della sanità pubblica e definisce il riscaldamento globale «un’altra menzogna del socialismo».

Secondo il giornalista e scrittore Martín Caparrós@ c’è una lezione da trarre dalla vittoria di Milei, e cioè che milioni di argentini si sentono esclusi dal sistema democratico instaurato nel paese 40 anni fa e cercano disperatamente qualcuno che dia loro uno spazio. Gli elettori di Milei, continua Caparrós, «non cercano una critica razionale, un tentativo di cambiamento, un progetto; vogliono qualcuno che gridi che sta per saltare in aria tutto».

Lo scrittore azzarda una previsione: le elezioni porteranno a un ballottaggio tra una candidata di destra, Patricia Bullrich, ex ministra della Sicurezza del governo di Mauricio Macri (in carica dal 2015 al 2019), e un candidato di estrema destra, Milei, appunto. «Uniti dal rifiuto verso la falsa sinistra che governa, dall’intenzione di usare il “pugno di ferro” con criminali e manifestanti e, soprattutto, dal loro antistatalismo. Qui sta il nocciolo della questione», secondo Caparrós.

Dopo il risultato delle primarie, il peso si era svalutato di 18,3 punti percentuali rispetto al dollaro americano, passando da 298,5 pesos per un dollaro del venerdì 11 agosto ai 365,5 del lunedì successivo. Secondo diversi economisti, la ricaduta sui prezzi di questa svalutazione è stata praticamente immediata e, riportava ad agosto il quotidiano Clarín, le banche e le società di consulenza hanno corretto al rialzo le stime dell’inflazione su base annua, collocandola in un intervallo compreso tra il 180 e il 190%@.

La presenza Imc

«In questo momento i missionari sono preoccupati per la crisi economica del Paese», scriveva lo scorso agosto padre Marcos Sang Hun Im, sacerdote di origine coreana e superiore dei Missionari della Consolata in Argentina. «Poiché le nostre presenze sono nelle periferie urbane, succede spesso di incontrare situazioni estreme, che offendono l’umanità. Attraverso la Caritas o altri gruppi parrocchiali aiutiamo chi ha bisogno, ma non riusciamo a raggiungere tutti».

La presenza della Consolata in Argentina, racconta padre Marcos, comincia nell’Ottocento con i migranti piemontesi che arrivavano qui portando con loro la propria cultura e la devozione alla loro Madonna, la Consolata. Secondo gli archivi dell’istituto, il fondatore Giuseppe Allamano inviava la rivista Missioni Consolata ai suoi compaesani in Argentina. Fu poi negli anni Quaranta del Novecento che la presenza dei missionari divenne stabile con lo scopo di accompagnare i piemontesi nella loro fede e raccogliere donazioni per le altre missioni.

«Essere presenti e accompagnare è ancora oggi il carattere principale della nostra missione qui, soprattutto nelle periferie urbane e nelle situazioni di emarginazione. In qualche parrocchia i missionari hanno cominciato a seguire persone affette da dipendenze, un problema che tutte le presenze rilevano.

Negli ultimi anni, inoltre, c’è stato un aumento dei suicidi, soprattutto tra i giovani, e le comunità parrocchiali stanno cominciando a organizzare attività di contrasto coordinandosi con professionisti della prevenzione».

Tre poli di presenza

Le presenze in Argentina, spiega il superiore, si dividono in tre nuclei collocati nella capitale Buenos Aires, nella regione di Cuyo e nel Nord.

A Buenos Aires ci sono due comunità: la casa regionale, che si trova in città, e la parrocchia di Santo Cura Brochero, nell’area metropolitana della capitale e già sul territorio della diocesi di Merlo-Moreno.

Mentre la prima comunità ha funzioni organizzative e di accoglienza, compresa l’assistenza ai missionari anziani, la seconda si trova in una periferia con una forte presenza di migranti boliviani e paraguaiani e ospita il Caf, cioè la comunità di formazione per nuovi missionari, affinché il percorso formativo «non si limiti agli studi teologici ma si estenda all’esperienza vissuta con la gente del quartiere» che affronta ogni giorno le difficoltà tipiche di una periferia come la violenza, le dipendenze, la povertà.

Al Nord si trovano due comunità, quella di Alto Comedero, «zona molto popolata e dalla cultura e religiosità andina», e quella di Yuto, zona rurale e con popolazione di creoli e indigeni. In quest’ultima zona, Missioni Consolata onlus, grazie all’aiuto di diversi donatori, nel quinquennio scorso ha sostenuto  una serie di interventi: la risposta all’emergenza abitativa di nove famiglie, per le quali è stato possibile costruire altrettante case in legno, e il sostegno a giovani madri del popolo Guaraní a El Bananal@. Infine, il nucleo nella regione del Cuyo, nella parte centro occidentale del Paese, conta due comunità, una a Mendoza – nella zona di Las Heras, nota per l’insicurezza e la violenza – e una a La Bebida@, ultima cittadina suburbana di San Juan, circa 170 chilometri più a nord di Mendoza.

Terra e acqua pulita per gli Huarpe

Proprio a Mendoza, che con oltre un milione di abitanti è la provincia più popolosa della regione del Cuyo, lavora oggi padre Giuseppe Auletta, originario della provincia di Matera, uno dei missionari più impegnati ed esperti nella difesa dei diritti dei popoli indigeni@. Padre José ha passato 17 anni di lavoro con il popolo Tobas, nella regione nordorientale del Chaco, 13 anni a Oran a fianco dei popoli Tupí Guaraní, Kolla, Wichi, Tapiete, Chorote e altri, a nord ovest. Oggi sta ora lavorando con undici comunità del popolo Huarpe nel territorio del cosiddetto Secano lavallino, un’area di 780 chilometri quadrati nella zona delle lagune di Huanacache.

Padre José con leader indigeno con il cappello con la banda rosso: un rappresentante indigeno di Mendoza per una manifestazione contro una decisione del governo provinciale che non riconosce la preesistenza del popolo Mapuche in Argentina.

La prima delle lotte portate avanti dagli Huarpe riguarda il diritto alla terra: dall’agosto del 2001, la legge provinciale 6.920 riconosce la preesistenza@ etnica e culturale del popolo Huarpe, che viveva nel territorio di Huanacache già molti secoli prima dell’arrivo dei colonizzatori europei nelle Americhe, e sancisce il suo diritto a ottenere il titolo di proprietà comunitaria su quella terra. Ma la legge non è mai stata davvero applicata.

Vi è poi una lotta che riguarda l’ambiente e in particolare la disponibilità di acqua pulita: «Un tempo», racconta padre Auletta, «quello di Huanacache era un sistema idrologico composto da 25 lagune ed estensioni lacustri comunicanti, con molte isole, circondate da terra fertile su un’area di circa 2.500 chilometri quadrati. Dalla fine del XIX secolo, l’uso esagerato delle acque dei fiumi Mendoza e San Juan, la costruzione di dighe e le politiche discriminatorie hanno gradualmente prosciugato le lagune, che riappaiono solo in epoche di grandi disgeli che aumentano la portata dei fiumi».

L’irrigazione destinata alle grandi coltivazioni (vigneti, orticoltura e frutteti) e lo sfruttamento minerario, sottolinea il rappresentante di una delle comunità, Ramón Tello, contaminano le falde acquifere.

Esiste un acquedotto che serve 5.500 persone, ma la sua acqua non è adatta per il consumo umano. Le percentuali di arsenico, boro, manganese e altri metalli pesanti rilevate nell’acqua, infatti, espongono chi la consuma a gravi rischi per la salute. Ecco perché, spiega padre Giuseppe, si sta lavorando alla formulazione di un progetto per l’installazione di un depuratore a osmosi inversa@ che permetta a queste comunità di disporre di acqua pulita.

Anche la narrazione dei luoghi, e gli sforzi per correggerla, fanno parte del lavoro di difesa dei diritti dei popoli indigeni: «Per molti, a cominciare dai decisori che determinano le politiche pubbliche, questa terra è solo “deserto”: luogo senza vita, dove non c’è nessuno, privo di risorse e di utilità, dotato di valore solo per chi si occupa di speculazioni finanziarie legate alla compravendita di terreni. Ma per il popolo Huarpe questa è la terra ancestrale, il luogo dove si svolge la vita quotidiana, la sorgente della sua cosmogonia, e si chiama il “campo”», scrive padre Auletta.

La Bebida, periferia da nutrire e curare

San Juan è la seconda città della regione del Cuyo per numero di abitanti: circa 818mila secondo il censimento 2022. Qui, Javier Milei ha ottenuto il 34,17% dei voti alle primarie, quattro punti in più del suo dato nazionale.

I Missionari della Consolata sono presenti a La Bebida, un quartiere nella zona occidentale della città, nella parrocchia di Nuestra Señora del Rosario di Andacollo.

«È una parrocchia di periferia», spiega padre Daniel Bertea, missionario della Consolata originario della provincia di Córdoba, nella parte centro settentrionale dell’Argentina. «Una parte della popolazione vive lì da tanti anni, ma molte persone sono arrivate da altre zone periferiche di San Juan. All’inizio, chi arrivava si costruiva case di mattoni in argilla, poi il governo ha iniziato a costruire case popolari, in parte per eliminare gli insediamenti spontanei, in parte per risolvere le emergenze abitative, anche in risposta agli effetti dei terremoti, dal momento che questa è zona sismica».

La popolazione totale è di circa 30mila abitanti, per la maggior parte bambini e adolescenti, giovani coppie. Le attività economiche prevalenti sono stagionali, legate alla raccolta dell’uva, delle olive, dei pomodori. Molte persone lavorano nelle fornaci di mattoni, nell’edilizia, alcuni trovano impieghi nel settore minerario e altri hanno piccole attività in proprio, come forni o piccoli ristoranti.

«Con una popolazione proveniente da luoghi diversi e arrivate nella zona nel corso di molti anni è più difficile creare un senso di appartenenza, dove tutti si sentano parte di una stessa comunità che si interessa di loro».

A La Bebida il problema dei suicidi è particolarmente grave: nel 2022, 15 giovani si sono tolti la vita. Sono numeri elevati, se si considera che il più recente dato nazionale ufficiale disponibile@ era di 8,7 suicidi per 100mila abitanti nel 2021 e che il dato complessivo per San Juan arrivava a 10 ogni 100mila.

«Quello della salute mentale è certamente uno degli ambiti su cui vorremmo concentrarci nei prossimi mesi, collaborando con esperti del settore – psicologi, psichiatri, istituzioni sanitarie – che possano aiutarci a formulare interventi adeguati».

Altre iniziative che padre Daniel ha in mente per rispondere ai bisogni dei giovani di La Bebida riguardano il sostegno economico e l’orientamento per una decina di studenti, universitari o frequentanti scuole professionali, e l’aiuto a circa trenta giovani donne o adolescenti, incinte o già madri, spesso sole, che hanno difficoltà sia economiche che psicologiche nell’affrontare la gravidanza o la maternità.

Quanto ai bambini, l’idea sarebbe quella di portare avanti il lavoro dei cosiddetti merenderos, cioè gli spazi che forniscono assistenza alimentare gratuita a persone vulnerabili. «Spesso questi bambini hanno una dieta inadeguata, che non genera malnutrizione vera e propria ma comunque pregiudica il loro sviluppo. Per questo vorremmo continuare a sostenere i merenderos che già aiutiamo presso altre strutture e, in prospettiva, valutare l’avvio di uno nostro».

Chiara Giovetti

Immagini da La Bebida

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