Operatori di perdono


Nata in Colombia venti anni fa, in un contesto di guerra civile, la scuola di perdono e riconciliazione «Espere» oggi è diffusa in 20 paesi nel mondo. Anche in Portogallo, grazie a padre Albino Brás che l’ha sperimentata nei suoi anni di favela a Rio de Janeiro. In un tempo di conflitti a ogni livello, il perdono e la riconciliazione sono una strada di evangelizzazione.

I conflitti e la violenza sono all’ordine del giorno nella favela della parrocchia Nossa Senhora da Consolata a Rio de Janeiro. Per questo nel 2003, dopo sei anni di presenza sul territorio, padre Albino Brás decide di partecipare a un corso di «Espere» (Escuelas de perdón y reconciliación), la scuola di perdono e riconciliazione fondata in Colombia e poi diffusa in diversi paesi nel mondo dal confratello padre Leonel Narváez Gómez.

Il corso offre a padre Albino quegli strumenti che gli mancavano per dare corpo al desiderio di promuovere il perdono e la riconciliazione tra la sua gente. S’innamora a tal punto del metodo di Espere che, quando lascia il Brasile per il Portogallo, decide di farsene promotore anche nel suo paese di origine e in Europa.

Oggi afferma con convinzione che quella della risoluzione dei conflitti e della giustizia riparativa è una strada prioritaria di umanizzazione e missione.

In favela per la pace

«La mia prima destinazione è stata in Brasile. Sono arrivato lì il 17 maggio 1997», racconta padre Albino, nato il 15 agosto 1965 a Loureira, distretto di Leiria, regione centrale del Portogallo.

Ultimo di sei fratelli cresciuti in campagna in una famiglia umile,  padre Albino è entrato in seminario a soli 13 anni, nel 1979, ed è stato ordinato nel 1996.

«Il lavoro pastorale in un contesto di favela è stato impegnativo. Come sacerdote appena ordinato, ho imparato lì il meglio del mio ministero e della mia vita missionaria. Ho lavorato molto in quegli anni nella pastorale delle favelas, nella dimensione socio caritativa, con i minori abbandonati, nella Commissione diocesana per i diritti umani, ma anche e soprattutto nell’ambito della spiritualità, della catechesi e dell’evangelizzazione.

Le sfide sono state molte. Ho vissuto momenti difficili, di persecuzione e violenza. Ma credo che sia proprio nelle situazioni di tensione che la Chiesa deve essere presente, anche correndo dei rischi, per promuovere la pace e il rispetto reciproco».

Una cultura del perdono

Padre Albino conosce il progetto Espere, nel 2003. «Padre Leonel ha tenuto una conferenza a Rio de Janeiro su violenza, conflitti, perdono e riconciliazione. Ero sensibile a questi temi, anche per la difficile realtà di Rio, e sono andato a seguirla. Poche settimane dopo ho fatto il corso.

Sebbene il progetto si chiami “scuola”, non è qualcosa di teorico: Espere offre un’esperienza di perdono e riconciliazione partendo dalla vita di ogni persona. Investendo nella creazione di una cultura del perdono, le Espere riparano la vittima e, allo stesso tempo, cercano il recupero dell’autore della violenza, a scapito di una giustizia meramente punitiva molto presente nelle società di oggi, anche in Europa.

Espere nasce dalla prospettiva non solo di sognare un mondo di pace, ma di lavorare concretamente per realizzarlo.

Mi è sempre stato detto che dovevo perdonare, ma mi mancava il “come”, e con Espere ho trovato gli strumenti, il processo, il metodo, per renderlo possibile.

Inoltre, Espere è in linea con il carisma dell’Imc e con il Vangelo della consolazione: perdono e riconciliazione, compassione e misericordia, amore e pace che derivano dall’esercizio della giustizia riparativa».

Subito dopo aver seguito il corso, padre Albino lo replica nella sua parrocchia. Le valutazioni dei partecipanti sono buone e il missionario si rende conto che produce trasformazione a livello personale, comunitario e sociale.

La missione in Portogallo

Il 14 gennaio 2005, padre Albino lascia il Brasile per il Portogallo.

Tra il 2005 e il 2012 sta nella comunità Imc di Fatima dove lavora nell’animazione missionaria e nella pastorale giovanile. È direttore nazionale del Segretariato Imc per la missione, coordina per sette anni il Corso di missiologia promosso dagli Istituti missionari ad gentes (Imag) e dalle Pontificie opere missionarie portoghesi. Fonda il gruppo Jmc (Giovani missionari della Consolata) che cresce negli anni.

«Sono stato poi in missione per quattro anni al Bairro do Zambujal, nel comune di Amadora, un sobborgo dell’area metropolitana di Lisbona – prosegue padre Albino -. Zambujal è un quartiere abitato principalmente da due gruppi etnici: africani e zingari. È stato molto impegnativo.

Nel 2016, poi, ho assunto la direzione di Fatima Missionária, la rivista fondata dai Missionari della Consolata in Portogallo quasi 70 anni fa. Dopo aver lasciato la direzione della rivista, oggi continuo a contribuire come collaboratore e lavoro anche nell’area della comunicazione dell’Imc in Portogallo, soprattutto nei media digitali.

Dalla fine del 2016 sono nella comunità Imc di Olivais, a Lisbona come superiore. Nell’aprile di quest’anno sono stato nominato Segretario dell’Imc Europa».

Espere a Zambujal

Domandiamo a padre Albino quando e perché ha ripreso in mano il programma di Espere nella sua terra di origine: «Ho sentito il bisogno di riprendere il progetto Espere quando mi trovavo nel Bairro do Zambujal, un quartiere periferico con molte tensioni tra le varie etnie.

Ho riunito un’équipe, abbiamo fatto formazione, tradotto materiali e programmato corsi.

Fino allo scoppio della pandemia da Covid-19 che ci ha costretti a fermarci, ne abbiamo tenuti nove. Il team nazionale era composto da undici facilitatori organizzati in due nuclei: Lisbona e Porto. Espere consiste in due moduli di alcuni incontri ciascuno: un modulo sul perdono e uno sulla riconciliazione».

Padre Albino è il primo a promuovere il progetto Espere in Portogallo, ampliando così la crescente Rete internazionale già presente in diciannove paesi.

Liberazione e guarigione

I destinatari dei corsi sono i più vari: gruppi parrocchiali, comunità religiose, «abbiamo ricevuto richieste anche dalla Spagna – prosegue padre Albino -. C’è un grande desiderio di applicare i corsi anche nelle carceri.

Nell’ultimo organizzato, quasi tutti i partecipanti erano coordinatori e volontari del Servizio dei Gesuiti per i rifugiati (Jrs) la cui missione è “accompagnare, servire e difendere” i rifugiati, gli sfollati e tutti i migranti in situazioni di vulnerabilità.

È stato bello sapere che stavamo aiutando il processo di perdono e riconciliazione di tanti migranti. Spesso sono persone con ferite aperte, a volte rancori e risentimenti. Molti sono dovuti fuggire da guerre, persecuzioni religiose e politiche, tante situazioni avverse, tanto odio, ferite nel corpo e nell’anima che hanno bisogno di liberazione e di guarigione».

Spezzare la violenza

Oltre ai corsi, il missionario tiene diverse conferenze e interviste ai media nazionali. «Le persone mi confidano che l’approccio al tema del perdono e della riconciliazione porta molta novità nella loro vita. Si rendono conto che è la chiave per spezzare i circoli viziosi della violenza.

Sebbene questa metodologia sia nata in Colombia, in un contesto di “frontiera della violenza”, credo che essa sia necessaria anche per un paese come il Portogallo, e in un continente come l’Europa che, pur non avendo la guerriglia, vive altre forme di violenza: in famiglia, nella coppia, nelle scuole, al lavoro.

La via della convivenza, della fraternità e della comunione è una via che tutti dovremmo seguire, perché, quando perdoniamo, portiamo benefici a noi stessi prima ancora che alla persona che ci ha offesi.

I benefici del perdono non rimangono confinati nell’interiorità, ma hanno ripercussioni dirette anche sullo stato fisico di ciascuno. Papa Francesco dice che “il perdono è fonte di gioia, di salute, e chi non perdona si ammala fisicamente e mentalmente”. Oggi è noto che chi non perdona ha una maggiore tendenza ad ammalarsi.

Quando lo facciamo, interrompiamo questo ciclo. È un processo di guarigione personale e, a poco a poco, della società».

Il perdono evangelizza

Durante la pandemia il gruppo ha dovuto interrompere i corsi, perché la metodologia di Espere richiede la presenza fisica dei partecipanti. Padre Albino progetta di riprendere quest’anno, dopo l’estate.

Lui considera le Espere uno strumento privilegiato di evangelizzazione che l’Imc può utilizzare con frutto anche in Europa.

«Il perdono dei peccati è nel mandato missionario che Gesù dà agli apostoli. Fa parte della missione della Chiesa. E sarebbe una povertà se lo limitassimo al sacramento della Confessione.

Il perdono è un elemento della spiritualità umana. È un tema che sta acquisendo sempre più importanza anche in scienze come la psicologia, la sociologia, l’antropologia, la biomedicina.

In questo momento abbiamo una guerra fratricida in Ucraina, nel mezzo dell’Europa. Ma tutto il mondo è assetato di processi di perdono e riconciliazione.

Tutti i conflitti, tutte le guerre esistono perché le persone, i gruppi, i capi delle nazioni, i Paesi, si lasciano intossicare dal veleno di rancori e risentimenti storici che li fanno degenerare nella violenza. Questo è ciò che sta accadendo oggi nella Russia di Putin: in questo momento la capitale mondiale del risentimento e dell’odio.

Mi chiedo: quale futuro sarà possibile, dopo questa guerra, in quei paesi? Saranno nemici per sempre, in una sorta di guerra fredda perenne e di pace marcia?

In Europa, con tutti i problemi che ho già sottolineato, abbiamo più che mai bisogno di mediatori, di operatori di pace. E i missionari dovrebbero essere specialisti in questo. Mediatori di conflitti, facilitatori di comunione.

Quali altre vie di missione può percorrere l’Imc in Europa?».

Missionari sulla soglia

Padre Albino, durante la nostra intervista ci ricorda il Progetto missionario che l’Imc ha scritto nel 2021 durante la Conferenza della Regione Europa: «È un progetto che ci invita ad approfondire il “cosa”, il “come” e il “dove” della nostra missione in questo continente. Il tutto, ovviamente, tenendo conto di chi sono i missionari delle nostre quasi 40 presenze europee. Le nostre comunità, colorate con le tonalità dell’interculturalità, rappresentano un valore aggiunto in un’Europa dove i temi dell’accoglienza, dell’unità nella diversità e, più in generale, della fraternità vengono minacciati ogni giorno di più.

Mi piace quando il Progetto missionario chiede a noi missionari in Europa di essere persone che stanno “sulla soglia”, capaci di leggere la complessità della realtà, disponibili ad abitare le periferie esistenziali e antropologiche, ad andare dove altri non vogliono o non possono, chiamati a “prenderci cura” del creato, della giustizia, della pace e della riconciliazione, consapevoli che è questo che ci rende missionari».

Europa, luogo di missione

«Non è una novità che l’Europa sia oggi un innegabile campo di missione – aggiunge ancora padre Albino -. Il nostro istituto ha fatto scelte teoriche e missionarie molto attraenti: lavorare nelle periferie esistenziali, con gli immigrati e i rifugiati, dentro una società edonistica, individualista e consumistica.

Ma ho l’impressione che ci manchino alcuni strumenti per lavorare in una prospettiva veramente missionaria. La società cambia velocemente, e i missionari non sempre si preparano per accompagnare il cambiamento.

È necessario sintonizzarsi con un mondo segnato dalla massificazione delle tecnologie, dalla pluralità di voci e pensieri potenziati dalle reti sociali, dalle fake news, dall’intelligenza artificiale.

Di fronte a queste realtà, la reazione più immediata di molti di noi può essere quella di chiudersi e dire: “Se la realtà è così, peggio per la realtà!”. E allora, rimanendo fuori, il Vangelo cessa di avere la possibilità di essere lievito nella pasta, nella società.

Per questo, penso e sostengo che dobbiamo migliorare i nostri metodi. Sì, perché molte volte individuiamo le cause missionarie ma poi non definiamo il metodo: il come, con quali strumenti, definendo il processo.

Posso dire che il successo di Espere nel mondo deriva proprio da questo: aver trovato una metodologia efficace, un processo con dei passi da seguire e un risultato da presentare.

E questo dovrebbe essere trasversale a tutte le cause, i progetti e gli impegni missionari in una realtà e in un continente missionariamente impegnativo come l’Europa.

L’evangelizzazione qui non sembra facile, ma credo che, nella fede in Cristo e nella potenza del nostro carisma allamaniano e consolatino, è possibile».

Luca Lorusso


Le scuole di perdono e riconciliazione

Le Scuole del perdono e della riconciliazione (Espere, Escuelas de Perdón y Reconciliación) sono un percorso pensato per aiutare persone offese da diversi tipi di violenza a guarire le ferite, trasformare la memoria, generare pratiche riparatrici e ritrovare la fiducia. Sono improntate a una metodologia pedagogica esperienziale e ludica che attiva nei partecipanti un processo personale di perdono e riconciliazione che permette loro di identificare e alleviare le conseguenze delle violenze subite nella vita e di ristabilire dei legami sani con se stessi e con la comunità, generando coesione sociale.

Il programma Espere ha una durata di 96 ore suddivise in dodici moduli, e si sviluppa in due fasi: quella dedicata al perdono e quella dedicata alla riconciliazione. I gruppi sono composti normalmente da 15-21 persone.

Le Espere, ideate da padre Leonel Narváez Gómez, missionario della Consolata colombiano, attuale presidente della Fundación para la Reconciliación nata il 13 marzo 2003, si sono diffuse in 19 paesi e hanno lavorato con più di 2 milioni di persone.

Negli anni, hanno ricevuto diversi riconoscimenti nazionali e internazionali, tra cui il Premio Unesco per l’educazione alla pace nel 2006.

L.L.

fundacionparalareconciliacion.org


ARCHIVIO MC SU ESPERE:

– Paolo Moiola, Contro l’odio la scommessa del perdono, MC agosto 2018, pag 51.
– G. Testa, P. Farinella, L. Narváez, M. Nosengo, Ricordare con occhi differenti, Dossier MC, gennaio 2008.

SU ZAMBUJAL:

– Domenic Cusmano, C’era una volta il campo degli ulivi, MC giugno 2017, p. 63.
– Mário Linhares, Insieme a Zambujal, MC giugno 2009, p. 42




Ricostruire persone e comunità


Ricostruire è un altro modo per dire consolare. E oggi c’è bisogno di farlo per persone e comunità in tutto il mondo e, in modo concreto, in Europa. Laddove ci sono situazioni infrante, consolare è favorire il perdono che libera e la riconciliazione che ricuce.

Ero a Bogotá. Il superiore mi aveva chiesto, con una certa insistenza, di partecipare a un incontro di teologia organizzato dall’Università dei Gesuiti. Poteva essere una specie di penitenza o, forse, il fatto che non trovasse nessun altro.

Vi andai e rimasi contento.

Il linguaggio, anche se esatto e raffinato, era accessibile.

Mi interessò soprattutto quanto detto da un anziano gesuita, professore molto rispettato, ormai in pensione, che iniziò parlando del capitolo 40 di Isaia, il famoso passo che dice: «Consolate, consolate il mio popolo…».

«Israele si trova in una situazione disastrosa. Il tempio è distrutto, le mura della città abbattute, il sacerdozio, non esistendo più il tempio, non ha ragione di essere, la popolazione è stata dispersa, le persone con qualche capacità di lavoro sono deportate a Babilonia. Non servono parole o gesti consolatori. Qui c’è bisogno di una ricostruzione dalla radice».

Giunto a questo punto del suo intervento, il professore diede sfoggio delle sue conoscenze della lingua ebraica: «Le parole “consolare” e “ricostruire” hanno, in ebraico, la stessa radice», disse. «Quindi consolare sta per ricostruire».

Come missionario della consolazione sentii che il teologo gesuita parlava del mio carisma: l’impegno di ricostruire le persone, le situazioni, le relazioni.

Da allora, l’affermazione dell’antico professore, che non ho mai potuto verificare, l’ho sempre venduta, così come l’ho ricevuta.

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Persone e comunità distrutte

Oggi incontriamo molte persone che si sentono distrutte, non trovano ragioni per andare avanti. A volte si tratta di situazioni non particolarmente disastrate, ma senza soluzione, per l’incomprensione e il rifiuto continuo all’interno delle relazioni più intime e familiari.

La maggior parte delle persone che si avvicinano al sacramento della penitenza, più che altro cercano ascolto, consolazione, indicazioni per ricostruire se stesse o le relazioni con chi si è allontanato.

C’è, quindi, un estremo bisogno di ricostruire persone e comunità. Questo è il nome della consolazione, necessaria oggi in tutto il mondo e, in modo concreto, in Europa.

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Il perdono è liberazione

Come possono ricomporre la propria vita persone distrutte perché offese, violentate, calunniate, diffamate?

C’è una parola fondamentale: il perdono.

Se ne parla spesso, ma forse è importante sottolinearne alcuni aspetti.

C’è chi lo vede come un dovere morale: «Devi perdonare». Ma, a chi è stato ferito, si può chiedere di aggiungere al dolore subìto anche il peso di guardare con rispetto il proprio offensore?

Forse non è questo il perdono utile per ricostruire la persona.

Allo stesso tempo, però, se al male rispondiamo con il male, allunghiamo una catena che ci tiene schiavi.

Il perdono è spezzare quella catena.

Mi fanno del male? Rispondo in un altro modo. Non voglio che chi mi ha fatto soffrire continui a dominare su di me.

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Il perdono è liberazione, è costruire la propria vita con tutta la libertà possibile. Se è vero che il perdono non cambia il passato, può liberare però il futuro.

Ho diritto a provare rabbia di fronte a un fatto ingiusto, ma trasformare la rabbia in rancore, vivere di rabbia, è una disgrazia.

Se, invece, riesco a liberare la mia vita dal desiderio della vendetta, se non conservo il male dentro di me verso chi mi ha fatto del male, allora curo la ferita che mi è stata inferta e mi sento capace di affrontare il futuro con libertà.

Certamente perdonare non è dimenticare, ma è ricordare in modo nuovo e diverso.

Questo non vuol dire che mi sia riconciliato con chi mi ha offeso, ma almeno ho preso il largo, sento che non sono più alle dipendenze di chi mi vuole o mi ha voluto male.

È facile perdonare? No. Bisogna lasciare alle spalle l’oscurità della rabbia e del rancore per prendere una decisione che mi fa stare bene. E ciò che mi aiuta in questa decisione è essere convinto che devo cambiare il mio punto di vista, non per giustificare quanto è avvenuto, ma per cercare di comprendere.

La persona che mi ha fatto soffrire è certamente una persona, sotto molti punti di vista, orribile. Ma è pur sempre una persona.

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Non sei ciò che hai fatto

Una chiacchierata fatta qualche tempo fa nel carcere minorile di Torino con un gruppo di interni, mi ha permesso di condividere questo tema.

Un giovane, che aveva commesso un grave delitto, mi ha detto: «Io sono un assassino». «No», gli ho risposto. «Allora che cosa sono?», ha ribattuto. «Sei una persona che ha ucciso». «Ma è lo stesso». «No, non è lo stesso».

Un giovane tunisino è intervenuto con una battuta: «Quando esco di qui voglio andare in Spagna». «Ti piace la Spagna?», gli ho chiesto. «È che là non mi conoscono», mi ha risposto. «È già un bel motivo per andarci. Ma che cosa vai a fare in Spagna?». «Voglio fare una banda». «E tu che cosa suoni?». «Ma non è per suonare. È per rubare». Allora io ho ribattuto: «Ma tu non sei un ladro». «E che cosa sono?». «Sei una persona che ruba». «Ma è lo stesso». «Penso di no. Non è lo stesso».

E così con un marocchino. «Tu non sei uno spacciatore. Sei una persona che spaccia».

Il dialogo è continuato a lungo e si è fatto acceso. Alla fine, ho detto: «Vi faccio un’ultima domanda e la finiamo lì. Chi è nato ladro, assassino o spacciatore?». La risposta è stata unanime: «Nessuno». «Come siamo nati? Come persone. Ecco quello che siamo. Poi non è uguale uccidere e aiutare, rubare o spacciare e servire gli altri. Allora ognuno si prenda le sue responsabilità. Ma tu non sei quello che hai fatto. Sei anche quello che puoi essere. Non sei solo il tuo passato, ma anche il tuo presente e il tuo futuro».

Se questa diventa una nostra convinzione, allora avremo purificato il nostro sguardo su chi ci ha fatto del male. Ma avremo anche purificato il nostro sguardo sul perdono più difficile, che è perdonare se stessi.

Ricostruire se stessi è l’impresa più grande, ma anche la più necessaria e liberatrice.

A volte risulta più facile offrire il nostro perdono agli altri che a noi stessi. Abbiamo in noi il desiderio di sentirci perfetti e invece è importante avere il coraggio di ritenerci limitati, fragili. Il perfezionismo non è utile, perché ci rende infelici, ci impedisce di accettare gli altri e noi stessi nelle nostre limitazioni.

Qualunque cosa sia avvenuta nella nostra vita, noi non siamo il nostro errore. Ci dobbiamo guardare con simpatia e fiducia sapendo che il passato non c’è più, il presente e il futuro sono nelle nostre mani.

Certamente possono rimanere in noi le radici del passato, radici che dobbiamo saper controllare e limitare nei loro sviluppi. È vero che il perdono non cambia il passato, il perdono verso gli altri e verso di noi libera il futuro.

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La riconciliazione

Se, con il perdono abbiamo ripulito e curato la nostra ferita, che, pur lasciando una cicatrice, non brucia più come agli inizi, adesso possiamo passare a curare la ferita con l’altro, con chi ci ha fatto del male.

Questo percorso lo chiamiamo riconciliazione.

Il perdono è sempre totale, senza condizioni. Sempre possiamo perdonare, perché ci fa stare bene, ci libera, ci rende creativi e padroni di noi stessi.

La riconciliazione, invece, non sempre è possibile. Se il nostro avversario si rifiuta, se è morto, se non so dove si trovi… allora posso perdonare, cioè rimuovere da me ogni desiderio di vendetta, di fare del male, ma non mi posso riconciliare.

Inoltre, la riconciliazione richiede la volontà da parte di tutti e due per percorrere un cammino che permetta l’incontro. E questo cammino si sviluppa attraverso varie tappe, che sono condizioni perché la riconciliazione sia reale.

Questo vale quando la riconciliazione è interpersonale o quando avviene tra due gruppi di avversari, o anche quando si tratta di riconciliazioni di tipo storico, ad esempio riconciliazioni nazionali come furono quelle molto interessanti elaborate in Sudafrica, in Perù o in Croazia.

Sono tentativi che non risolvono tutti i problemi, ma cercano di disinnescare conflitti maggiori e violenti.

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Memoria, verità, giustizia per un patto nuovo

Per percorrere in modo positivo il cammino della riconciliazione sono necessarie delle condizioni chiare.

Iniziamo con la memoria.

Non si costruisce la riconciliazione sul nulla. Qualcosa è successo, c’è stato un conflitto. La memoria non è una risorsa per ricordare, ma per ricostruire il passato con una finalità: assumere verso di esso un atteggiamento etico, cioè arrivare ad affermare «mai più, questo non deve succedere più».

Non si sta a esaminare il passato per distribuire colpe o errori: si scaverebbe una fossa che interromperebbe le relazioni. Si cerca, piuttosto, di arrivare insieme alla conclusione che quanto è avvenuto non è utile, non aiuta, non libera, non ci rende più umani.

Si passa poi al tema della verità. Anche qui non è importante la verità oggettiva, che è stata già in parte affrontata con la memoria, ma l’atteggiamento di reciproca sincerità. La verità delle relazioni, la fiducia rinnovata, la comunicazione sono necessarie per guardarsi in faccia e negli occhi affermando, senza il pericolo di inganno, che ci si può fidare, che si è recuperata una base solida su cui costruire o ricostruire la possibilità di una relazione solida.

Il passo successivo ci porta a riflettere sulla giustizia, che richiede due momenti: il primo, assumere la propria responsabilità, il secondo, offrire una riparazione.

Quando si è affermato che nessuno è il suo errore, si è anche detto che ogni atto ha un suo senso: non è lo stesso agire in un modo o in un altro. Ognuno può assumersi le proprie responsabilità.

Anche perdonare se stessi non equivale ad assolversi, ma significa non bloccarsi in una situazione.

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Assumere la propria responsabilità su ciò che è avvenuto può essere fatto nel dialogo o anche nel silenzio interiore. Allora è importante passare al secondo momento: offrire una riparazione, che può consistere in un oggetto donato, un gesto che esprima la volontà di riconciliazione. In questo caso sono importanti i gesti o rituali della pace: un abbraccio, un bacio, una stretta di mano…

Finalmente, l’ultimo passo nel cammino della riconciliazione consiste nel guardare verso il futuro e stringere un patto o accordo.

I patti si costruiscono in base alla necessità o alla convenienza. Se si considera necessario giungere a un accordo, allora bisogna che ognuno guadagni qualcosa e trovi il modo per superare le differenze.

È chiaro che, soprattutto nel momento del patto, è necessaria la presenza di un mediatore che possa facilitare un buon risultato. In un patto ben costruito nessuno perde, ma tutti guadagnano.

I patti, poi, possono avere diversi livelli. Ci sono patti di coesistenza, che potremmo anche chiamare patti di non aggressione. Ognuno vive per proprio conto, senza maggiori interferenze. Ci sono poi i patti di convivenza, dove si condivide, in qualche modo, qualche aspetto della vita. Infine, ci sono i patti di comunione, quelli tramite i quali si pianifica, si realizza, si valuta e si condivide tutto.

Ognuno sceglierà il patto possibile. Non è necessario, e a volte non è bene, per evitarsi inutili frustrazioni, puntare al patto più perfetto.

In ogni caso, anche una buona separazione è già anche una forma di riconciliazione. Quando non è possibile continuare insieme, si arriva alla conclusione che ognuno può prendere la propria strada, ma in modo serio e rispettoso. Ognuno ricupera la sua libertà rispettando la libertà dell’altro.

Ricostruire persone e situazioni infrante

Non sarà questa una strada di consolazione? Quella di ricostruire persone e situazioni infrante, aiutando perché ognuno personalmente, con il perdono, o comunitariamente, con la riconciliazione, ritrovi la propria libertà e armonia?

Qualche anno fa mi trovavo a Scutari, in Albania. Il vescovo mi aveva chiesto di parlare di questi temi a un gruppo di universitari albanesi e kosovari. Alla fine dell’incontro si è avvicinata una ragazza, che parlava bene l’italiano, come quasi tutti loro, e mi ha detto: «Lei ha parlato di me. Quello è il mio caso».

Avevo affermato, alla fine del discorso, che, a volte, io stesso consiglio di perdonare senza cercare la riconciliazione. Il caso più chiaro è quando si tratta di una ragazza violentata da suo padre. «Perdona», dicevo, «cioè, cerca di guarire questa enorme ferita. Tu ti meriti tutto l’amore e il rispetto di questo mondo. Sei una vittima, non sei colpevole. Riprendi nelle tue mani la tua vita, sentiti libera, costruisci il tuo futuro. Il segno di questa violenza rimarrà in te, come una cicatrice, non più come una ferita. Cerca di volerti bene e stai lontana da chi ti ha fatto del male». «E il comandamento che dice di amare i propri genitori?», mi ha domandato. «Sì, onora tuo padre, tua madre, ma anche tua figlia. È l’onore e l’amore per tutta la famiglia. Se tieni lontano tuo padre non gli farai nessun male ed eviterai che lui ne possa fare ancora a te».

Quella ragazza mi è saltata al collo e mi ha detto: «Grazie. Mi sento liberata. Sono felice».

Penso che, quel giorno, la consolazione sia arrivata a quella vita, che l’abbia ricostruita.

Anche in Europa c’è tanto bisogno di consolazione.

Gianfranco Testa


L’Università del Perdono è un’Associazione Onlus, senza fini di lucro, apolitica e aconfessionale, che intende promuovere uno stile di vita improntato al perdono e alla nonviolenza attiva.

L’Università mette in atto qualsiasi intervento o azione che possa essere funzionale alla diffusione dei valori del perdono e della nonviolenza, mettendo al centro l’uomo piuttosto che il conflitto.

www.universitadelperdono.org

desalvia.anto@gmail.com

 

 




Colombia: La pace teorica

testi di  Angelo Casadei, Paolo Moiola e Mauricio A. Montoya Vásquesz |


Parole di pace, fatti di guerra

Colombia.

Perdono, riconciliazione e… indifferenza

«Ricercato, vivo o morto» (l’ultima intervista)

Storia di Isabel, guerrigliera per forza.

 


L’interminabile conflitto colombiano

Parole di pace, fatti di guerra

Dagli accordi di pace siglati nel 2016 sono trascorsi oltre quattro anni. Il lunghissimo conflitto colombiano è mutato, ma non è terminato. E le cause che lo hanno prodotto sono ancora irrisolte.

Le parole sono importanti, ma spesso insufficienti, sopravvalutate o inutili. La Costituzione colombiana, promulgata nel luglio del 1991, parla di pace in tre circostanze: nel preambolo, nell’articolo 22 e nel 95. Nel preambolo si dice che il potere sovrano assicura ai cittadini «la vita, la convivenza, il lavoro, la giustizia, l’eguaglianza, l’istruzione, la libertà e la pace». L’articolo 22 afferma che «la pace è un diritto e un dovere di realizzazione obbligatoria». Infine, secondo l’articolo 95, tra i doveri della persona e del cittadino c’è quello di «promuovere il raggiungimento e il mantenimento della pace». Eppure, nonostante le parole solennemente scritte nella Carta costituzionale, in Colombia la pace è largamente incompiuta. Ancora oggi essa rimane una promessa di molti e una speranza di tanti.

I numeri del conflitto possono cambiare a seconda delle modalità di raccolta dei dati e dei soggetti che li raccolgono. In tutti i casi si tratta di numeri impressionanti. Il Centro nacional de memoria histórica, tramite l’Observatorio de memoria y conflicto, conta le vittime del conflitto distinguendo tra undici modalità di violenza: azioni di guerra, danni a beni civili, uccisioni selettive, attacchi alla popolazione, attacchi terroristici, sparizioni forzate, massacri, mine antiuomo, ordigni esplosivi improvvisati e ordigni inesplosi, reclutamento e utilizzo illeciti di bambine, bambini e adolescenti, sequestri, violenze sessuali.

Le informazioni, raccolte e minuziosamente catalogate dall’istituzione, disegnano un quadro dettagliato di cosa abbia significato e significhi il conflitto interno per i colombiani. Secondo questa fonte, nel periodo 1958-2020 le vittime mortali (víctimas fatales) della guerra sono state 266.988.

Gli attori principali del conflitto sono quelli conosciuti: la guerriglia (politicamente di sinistra), i gruppi paramilitari (politicamente di destra), gli agenti dello stato, banditi, altri gruppi non identificati.

Leggendo i dati dell’Observatorio de memoria y conflicto, non mancano però le sorprese. Per esempio, la vulgata comune, sia in Colombia che all’estero, ha sempre attribuito le maggiori responsabilità del conflitto alla guerriglia (Farc, in primis). Invece, i colpevoli principali pare siano stati i gruppi paramilitari. Questi sarebbero i primi responsabili delle uccisioni mirate, delle sparizioni forzate, delle violenze sessuali e dei massacri. La guerriglia (Farc, Eln, M-19, Epl, Cgsb), invece, sarebbe in testa per i sequestri, gli attacchi a centri abitati, la distruzione di infrastrutture pubbliche e l’arruolamento nelle proprie file di minori. Gli agenti dello stato sarebbero i protagonisti della maggior parte delle azioni belliche. Dopo la firma dell’accordo di pace del 2016 (prima respinto dal referendum, poi modificato e approvato dal Congresso), la situazione sul campo è mutata, ma non i risultati. In alcune zone sono tornate le Farc con gruppi di dissidenti (identificati come Gao-r), mentre vari attori legati al narcotraffico hanno esteso il proprio dominio.  Perché dunque, dopo decenni di lutti e devastazione, la guerra non ha ancora termine? Una delle cause principali è il persistere nel paese di condizioni di povertà e diseguaglianza. Per citare soltanto un dato, nel 2019 la povertà interessava il 35,7% dei colombiani (Departamento administrativo nacional de estadística, Dane). Con percentuali molto più alte in alcune regioni (con un massimo di 68,4% nel dipartimento del Chocó) e nelle zone rurali e amazzoniche.

Queste ultime ospitano anche le zonas cocaleras. Secondo il White House office of national drug control policy (Ondcp, marzo 2020), nel 2019 erano coltivati a coca 212mila ettari per una produzione di 951 tonnellate di cocaina. Invece, secondo lo United Nations office on drugs and crime (Unodc), gli ettari coltivati sono di meno (154mila), ma la produzione maggiore (1.136 tonnellate nel 2019). Quali che siano i dati corretti, la realtà mostra una produzione enorme di cocaina con il coinvolgimento di migliaia di famiglie contadine costrette a coltivare piante di coca non per arricchirsi ma per sopravvivere.

Secondo l’organizzazione non governativa Planeta paz, la pace va costruita e suppone la creazione di condizioni politiche, sociali ed economiche. Essa non significa semplicemente superare il conflitto armato. È necessario «sradicare dalla vita sociale colombiana lo stato di guerra in cui vive la maggior parte dei suoi abitanti a causa dell’incertezza sull’ottenimento dei mezzi necessari per garantire la vita biologica e una vita dignitosa».

In questo quadro, nell’ultimo anno si è anche inserita la pandemia da coronavirus. Una tessera in più da sistemare nel complicato puzzle colombiano.

Paolo Moiola


Colombia

  • Forma di governo:
    Repubblica presidenziale.
  • Presidente: Iván Duque Márquez del
    partito conservatore Centro democratico, guidato dall’ex presidente Álvaro Uribe.
  • Superficie: 1.141.748 km² (quasi quattro volte l’Italia).
  • Abitanti: 49,9 milioni.
  • Etnie: 1.905.614 (4,4%) indigeni; 2.950.072 (6,7%) afrocolombiani (fonte: Dane, 2018).
  • Città principali: Bogotá (capitale), Medellín, Cali, Barranquilla, Cartagena de Indias.
  • Religioni: 79% cattolici, 12% protestanti; in rapida crescita le chiese evangeliche e pentecostali.
  • Economia: agricoltura molto varia, con il caffè e la coca al primo posto; allevamento, in primis di bovini; risorse minerarie come oro, smeraldi e petrolio; il paese ha sostituito il Venezuela come primo esportatore sudamericano di petrolio verso gli Usa.

Vista dal palazzo del Congresso nella Plaza de Bolívar, nel centro storico di Bogotá, la capitale colombiana. Foto Andres Martinez – Pixabay.


Conversazione

Perdono, riconciliazione e… indifferenza

Nel conflitto e nel processo di pace colombiano, le variabili in gioco sono numerose. Proviamo a fare ordine con il professor Mauricio A. Montoya Vásquez, studioso del conflitto.

Per chi ha pagato sulla propria pelle le conseguenze di un conflitto, dimenticare e magari perdonare sono passaggi complicati o forse impossibili. «In primo luogo – ci spiega il professor Mauricio A. Montoya Vásquez, storico e studioso del conflitto -, occorre differenziare tra perdono e riconciliazione. Il perdono è una cosa più personale, che può includere anche caratteristiche religiose. La riconciliazione è una cosa più ampia, che include l’instaurazione di legami di fiducia. È meglio non iniziare un processo di pace con la parola perdono e utilizzare invece la parola riconciliazione».

Chiediamo se la società colombiana sia in grado di dimenticare oltre sessant’anni di conflitto interno. Il nostro interlocutore ha un’opinione particolare. «Non credo – dice – che il problema sia dimenticare, che, a volte, può essere in qualche misura un elemento salvifico. Io credo che, per la maggior parte dei colombiani, il grande problema sia quello dell’indifferenza, come abbiamo visto bene nel plebiscito del 2016. Erano più di 30 milioni le persone aventi diritto, ma solamente 13 milioni hanno partecipato. Inoltre, le persone che hanno votato per il “Sì” (all’accordo di pace) erano quelle che vivevano nei territori più colpiti dalla violenza. È qui che si è deciso di voltare pagina».

Mauricio Montoya ricorda Tzvetan Todorov. «Secondo il filosofo bulgaro – spiega -, ci sono due memorie: una letterale e una esemplare. Ci sono società che vogliono rimanere legate a una memoria letterale, che è quella che ricorda, commemora e – sfortunatamente – mette il dito nella piaga e in ogni occasione cerca vendetta. Con la seconda invece si commemora e si ricorda. Non dimentica, ma è disposta a voltare pagina perché la società del futuro non soffra e non ripeta queste situazioni. Perché la società vecchia sia d’esempio a quella nuova».

Dissidenti e banditi

Una bottiglietta della birra artigianale «La Roja», prodotta da ex combattenti delle Farc. Foto rtve.es.

«Già all’inizio c’erano persone che non erano disponibili ad accettare il processo di pace. In seguito altri – come Iván Márquez, Jesús Santrich, el Paisa y Romaña – si sono ritirati dicendo che non c’erano garanzie sufficienti e che non si stava compiendo quanto stabilito».

«Secondo me, questo è stato un errore. Avrebbero dovuto aspettare visto che il nostro sistema è lento e per questo richiede pazienza. Costoro sono dunque tornati alle armi formando la dissidenza che sta tentando di occupare il territorio che un tempo era dominio delle Farc. In molte zone sono in competizione con bande criminali dedite al narcotraffico. Io penso che i dissidenti abbiano un progetto politico sempre meno visibile e si avvicinino ai Bacrim (acronimo di Bandas criminales come los Urabeños, ndr), ovvero i gruppi paramilitari che non hanno accettato il processo di smobilitazione».

Tuttavia, non c’è soltanto la dissidenza. Ci sono anche notizie incoraggianti: «Un 70 per cento di ex combattenti delle Farc – precisa Mauricio – sta scommettendo sulla pace, anche con vari progetti produttivi: i cento ex guerriglieri e rispettive famiglie che si sono trasferiti su una terra di Mutatà, quelli impegnati nel turismo ecologico, o quelli che hanno aperto fabbriche di abbigliamento (marca “Manifiesta-Hecho en Colombia”) e di birra artigianale (“La Roja”)».

Si tratta di progetti d’inserimento nella società civile da incoraggiare, ma anche da difendere visto che, al 7 gennaio 2021, erano già stati assassinati almeno 252 ex membri delle Farc (un film già visto negli anni Ottanta quando i paramilitari sterminarono gli iscritti al partito Unión patriótica). Ancora più alte sono le cifre riguardanti l’assassinio di líderes sociales (difensori dei diritti umani, ambientalisti, attivisti indigeni e afrocolombiani). Negli ultimi quattro anni sarebbero stati 421, secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani. Mentre la Defensoría del pueblo riporta oltre 700 morti. «Eppure – precisa Mauricio -, secondo alcuni, questi líderes sociales sono stati uccisi a causa di lios de faldas (letterale, “litigi per le gonne”, ndr) come fossero cioè problemi amorosi che non hanno nulla a che vedere con il contesto politico».

Chi vuole il fallimento?

Oltre ai dissidenti delle Farc e ai gruppi paramilitari, ci sono molti altri attori che lavorano per far fallire il processo di pace. Il nostro interlocutore non ha dubbi al riguardo.

«Dagli anni Ottanta – spiega – la pace è un tema elettorale. In questo senso, molti lo hanno manipolato per arrivare alla presidenza. È chiaro che ci sono persone che non vogliono che gli accordi si compiano nei modi sottoscritti a l’Avana e, dopo la sconfitta nel plebiscito, al Congresso. Il problema è quello degli approfittatori, dei mercenari che cercano di portare confusione e di preservare i propri interessi particolari. Costoro lavorano affinché le cose non si sappiano e da qui nascono gli attacchi alle istituzioni che operano per il processo di pace».

Logo del Tribunale speciale per la pace (Jep).

Dall’accordo di pace firmato dall’allora presidente Manuel Santos e dai vertici delle Farc-Ep, è nato il «Sistema integrale di verità, giustizia, riparazione e non ripetizione» (Sistema integral de verdad, justicia, reparación y no repetición, in sigla Sivjrn). Incorporato nella Costituzione attraverso il decreto legislativo 01 del 2017, il Sistema è fondato su tre componenti: la «Commissione di chiarimento della verità, convivenza e non ripetizione» (Comisión de esclarecimiento de la verdad, la convivencia y la no repetición, Cev); l’«Unità per la ricerca delle persone date per scomparse» (Unidad para la búsqueda de personas dadas por desaparecidas, Ubpd) e la «Giurisdizione speciale per la pace» (Jurisdicción especial para la paz, Jep).

Logo dell’Unità per la ricerca delle persone ritenute scomparse .

Tra i maggiori oppositori del processo di pace c’è Álvaro Uribe, l’uomo forte della Colombia, fondatore del partito Centro democrático (Mano firme. Corazón grande, «Mano ferma. Cuore grande») del quale è militante anche l’attuale presidente Iván Duque. «È ovvio – conferma Mauricio Montoya – che l’ex presidente Uribe ha avuto ed ha influenza. Ha guadagnato appoggio e popolarità tra una fetta importante della popolazione per la sua opposizione ai gruppi armati, per la sua volontà di non negoziare con essi. La sua scelta militare ha però portato anche a violazioni ed eccessi come per i “falsi positivi” (civili innocenti assassinati dall’esercito che li faceva passare per guerriglieri per ingigantire i propri successi militari, ndr). Uribe continua ad essere molto influente in ambito politico, cosa che gli permette di far eleggere senatori, governatori, sindaci. Oggi rimane popolare tra la popolazione più anziana, ma non tra i giovani colombiani».

Come fare giustizia?

Dopo gli accordi del 2016, le Farc si sono trasformate in partito politico, mantenendo la denominazione ma con un significato diverso: da «Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia» a «Fuerza alternativa revolucionaria del Común». Lo scorso 24 gennaio i responsabili hanno annunciato di aver cambiato il nome in «Comunes» per non confondere il gruppo firmatario degli accordi di pace con il gruppo dei dissidenti. Il leader Rodrigo Londoño, alias Timochenko, ha ammesso che mantenere il nome di Farc non è stata una buona idea e che il nuovo nome del partito fa riferimento alla gente comune.

Questo non significa però che gli ex guerriglieri non verranno giudicati. Gli accordi di pace non sono infatti una patente d’impunità, una rinuncia a fare giustizia e a punire i responsabili.

«I media e i social – spiega Montoya – hanno creato un ambiente negativo attorno alla Jep. Dicendo che è una giustizia dei guerriglieri e che è contro i militari. Tutti argomenti che a poco a poco sono caduti». Anzi, lo scorso 29 gennaio il tribunale speciale creato con gli accordi di pace (la citata Jep, Jurisdicción especial para la paz) ha accusato l’antica cupola della guerriglia di crimini di guerra e di lesa umanità per i sequestri commessi per decenni. Sono stati incriminati otto membri delle ex Farc, tra cui lo stesso Rodrigo Londoño e due senatori.

«A dimostrazione – chiosa Montoya – che il compito che sta svolgendo la Jep è reale».

Vista della città caraibica di Cartagena de Indias. Foto neufal54-Pixabay.

L’irrisolta questione della terra

In Colombia la diseguaglianza è visibile e confermata da tutti gli indici. Chiediamo al professor Montoya il peso della questione della terra.

«Durante i colloqui e il processo di pace – risponde -, la questione della terra è stata un tema ricorrente. “Perché ancora una volta il tema della terra?”, domandava molta gente. La risposta è semplice: perché in realtà il problema della terra non è stato mai risolto. Sta scritto negli accordi, ma la soluzione ancora non si vede. Un passaggio fondamentale è la trasformazione e attualizzazione del catasto rurale, che significa riuscire a sapere quanti ettari di terra possiedono le persone, quante imposte pagano e se queste sono coerenti con le terre possedute, perché ci sono territori vuoti che non vengono consegnati ai contadini e alle comunità agricole che li richiedono. Molti ritengono che il problema della diseguaglianza e della terra non sia una causa della guerra. Forse non è l’unica, ma è fondamentale».

Il narcotraffico

Legata al tema della terra è la questione delle piantagioni di coca e del commercio della stessa. «Il narcotraffico – spiega il professore – ha attraversato il conflitto dagli anni Settanta. Le coltivazioni di coca continuano sotto il controllo dei gruppi armati, illegali e legali. È infatti comprovato che in questo lucroso business ci sono anche politici. In molti territori ci sono combattimenti tra i vari gruppi armati per controllare le rotte della droga. Un esempio tra i tanti possibili: l’ex paradiso dell’arcipelago di San Andrés, Providencia e Santa Catalina (davanti alle coste del Nicaragua, ndr) ha altissimi livelli di violenza essendosi convertito in un ponte per il traffico con Stati Uniti ed Europa. Accanto a queste rotte c’è poi il microtraffico all’interno delle città colombiane dove le bande si contendono con le armi il traffico non soltanto di droga ma anche di persone».

L’attuale presidente colombiano Iván Duque. Foto Marcel Crozet.

Con il Venezuela e gli Stati Uniti

Lo scorso febbraio il presidente Iván Duque ha annunciato la regolarizzazione (tramite il nuovo Estatuto nacional de protección) per dieci anni di oltre due milioni di immigrati venezuelani, che permetterà loro di accedere ai sistemi pubblici della salute e dell’educazione e di lavorare regolarmente. Il presidente colombiano ha sempre usato (furbescamente) la lotta contro il Venezuela di Maduro come strumento di lotta politica interna e internazionale.

«Duque usa quel paese – spiega Mauricio Montoya – in termini elettorali per spaventare la popolazione su certi candidati o modelli politici o idee per supposte affinità al Venezuela o, come viene spesso detto, al castrochavismo. Credo perciò che le relazioni tra i due paesi si manteranno tese, instabili e polarizzate».

Nel frattempo, negli Stati Uniti, storico alleato del paese, la presidenza è passata da Donald Trump a Joe Biden. «Non cambierà molto – osserva Montoya -. Alcuni media dicono che, avendo il governo colombiano appoggiato Trump, Biden presenterà il conto. Non credo sarà così. La Colombia non perderà l’appoggio statunitense né in termini economici né di lotta al nartraffico. Credo però che gli Usa avranno un ruolo nella competizione per la prossima presidenza la cui campagna inizierà ancora quest’anno».

In effetti, l’ex presidente ed ex senatore Álvaro Uribe ha già iniziato le audizioni per selezionare i propri candidati.

Paolo Moiola

L’ex presidente Álvaro Uribe, l’uomo forte della Colombia. Foto Casa de América.


Incontro con un dissidente Farc

«Ricercato, vivo o morto» (l’ultima intervista)

Abbiamo incontrato Dúver, uno dei leader dissidenti delle Farc. È stata una conversazione unica. Due mesi dopo, Dúver è stato ucciso in un’operazione militare che ha avuto una grande eco sui media locali.

Solano (Caquetá). Ho ricevuto un invito da parte di Dúver Guzmán, nome di battaglia di Marco Tulio Salcedo, importante guerrigliero delle Farc-Ep, a Mononguete, lungo il fiume Caquetá. Il luogo prescelto è presso il distributore galleggiante di benzina, situato nel porticciolo principale del paese. L’appuntamento è per venerdì 18 settembre, alle 10,30.

Con Rito, il motorista della parrocchia, arrivo in anticipo, alle 9,30. Mentre attendo, vedo arrivare dall’altra parte del fiume, in territorio della regione del Putumayo, altri guerriglieri che non fanno però parte di coloro che sto aspettando.

Un disegno di Marulanda, il fondatore delle Farc-Ep. Immagine di Sergio Muñoz – Bernardo Londoy.

La guerriglia vuole sapere tutto

All’ora concordata arriva Dúver. Viene verso me, mi dà la mano e mi offre da bere una gazzosa. Ci accomodiamo uno di fronte all’altro: io su una panca, lui su una sedia. Alla cintura porta una pistola. Indossa una maglietta con la mappa della Colombia e l’immagine di Marulanda: il contadino che fondò le Forze armate rivoluzionarie della Colombia è raffigurato che impugna un fucile, mentre nel mezzo della mappa campeggia la sigla Farc-Ep.

Iniziamo a parlare. Subito mi chiede: «Padre, mi parli del progetto». Non capisco, o meglio, fingo di non capire quello a cui vuole riferirsi Dúver, e così inizio a parlargli del progetto di evangelizzazione che portiamo avanti nel Vicariato apostolico di Puerto Leguizamo-Solano con mons. Joaquin Humberto Pinzón, il nostro vescovo; dell’équipe missionaria in parrocchia, composta da quattro suore, due seminaristi, un laico missionario e me come parroco e coordinatore.

Proseguo la mia descrizione: «Dúver, il territorio della parrocchia è molto vasto, visto che comprende 106 comunità, 90 villaggi di coloni e 16 popoli autoctoni. In esso ci sono la parrocchia San Francisco d’Asis formata nel 2019, il centro di missione Assunzione, il centro di missione San José, la parrocchia Nuestra Señora de las Mercedes. Per la vastità del territorio in futuro sono previste quattro parrocchie».

Dúver ascolta attentamente, anche perché la guerriglia vuole sapere tutto ciò che succede nell’area in cui essa opera. «Come missionari della Consolata – continuo -, siamo presenti in questa regione dal 1951 e a Solano in modo permanente dal 1959, mentre la parrocchia è stata istituita nel 1969. La nostra presenza ha come sua prima finalità l’annuncio di Gesù Cristo, ma abbiamo sempre tenuto presente l’educazione scolastica, e oggi proseguiamo il lavoro appoggiando e proponendo alcuni progetti sociali».

Gli spiego la nostra filosofia: «L’annuncio del Vangelo non è scollegato dall’aspetto sociale: evangelizzazione e promozione umana, che come missionari della Consolata, le abbiamo nel sangue».

Dúver mi interrompe dicendo: «Il Vaticano ha molti soldi!». Gli rispondo: «Non so quanti soldi abbia il Vaticano. Io so solo che il nostro Vicariato e il nostro vescovo di soldi non ne hanno. Viviamo alla giornata, di quello che si riceve dalle offerte delle persone semplici del nostro popolo caqueteño e da aiuti di alcuni benefattori sia colombiani che di altri paesi».

Insiste che gli parli del progetto, però di nuovo chiedo che mi dica a quale progetto si riferisce. Alla fine, gli suggerisco: «Il progetto cambio climatico?». Annuisce. «Il nome completo è “Miglioramento sostenibile della situazione socio-economica e ambientale della popolazione amazzonica nelle regioni del Caquetá e Putumayo”. È appoggiato dalla Cooperazione tedesca e dalla Caritas tedesca, ed è coordinato dalla Pastorale sociale colombiana».

«Sosteniamo 60 famiglie della zona, con supporto tecnico nell’area agroforestale e con un adeguato allevamento del bestiame nei pascoli. Ne deriva quindi un lavoro anche di formazione al lavoro comunitario e impegno politico».

A Dúver però queste informazioni non bastano: vuole sapere l’ammontare in denaro degli aiuti economici che arrivano. Minaccia che, se non gli darò l’informazione, parlerà con il vescovo.

Per evitare di esporre mons. Joaquin gli dico che «più o meno il progetto ha una base di appoggio di 200 milioni di pesos colombiani (50mila euro, ndr) all’anno per un periodo di tre anni». Dúver commenta: «Pensavo molto di più!».

Membri dell’esercito colombiano presentano i corpi (in sacchi) di tre dissidenti delle Farc uccisi durante uno scontro ai confini con l’Ecuador (dicembre 2018). Foto Carlos Ayala / AFP.

Dall’età di 12 anni nella guerriglia

Dopo aver raggiunto il suo obiettivo, la conversazione si apre a vari argomenti. Gli chiedo: «Da quanto tempo si trova nelle Farc?». «Da quando avevo 12 anni. Sono originario del Caguán. Ho vissuto nella regione del Meta. Ora vivo in questo territorio, in una zona tra il fiume Caquetá e il fiume Caguán».

Domando: «Quando finirà questa guerra che dura da più di 60 anni?». «Quando – risponde – il popolo aprirà gli occhi e avrà in mano il potere». «Ma come pensate di arrivare al potere?», insisto io. «L’unica soluzione sono le armi. È il linguaggio più chiaro per farsi capire, sentire, e rispettare anche se noi tuteliamo la giustizia a favore della comunità».

«Le racconto, padre, che, poco tempo fa, un grande proprietario terriero ha venduto una grandissima finca (fattoria). Noi gli abbiamo chiesto una percentuale ma lui ci ha negato il denaro. Lo abbiamo processato davanti al popolo ed abbiamo lasciato decidere alla stessa comunità che lo ha graziato». E continua: «Padre, ha visto quanti líderes delle comunità sono stati assassinati perché hanno aperto gli occhi al popolo?»

Allora gli chiedo: «Dúver dov’era quando si sono fatti gli accordi di pace?». «Nel “monte”, in foresta a continuare la guerra. Non possiamo lasciare scoperti spazi che altri potrebbero occupare».

«Che altri gruppi ci sono oltre le Farc nella zona?», domando. «Il gruppo narcotrafficante messicano di Sinaloa: il loro territorio è un po’ più giù verso Curillo. Ma sono interessati solo ai soldi. Noi paghiamo 2.300 pesos (circa 0,55 euro, ndr) al grammo la pasta di coca, mentre loro la pagano molto meno. Se il contadino non si adegua alle regole da loro imposte, viene ucciso senza chiedere il parere alla comunità».

Dopo quasi due ore di chiacchierata, ci salutiamo. Mi accorgo che, dietro a me, ci sono altre persone in attesa di parlare con il dissidente delle Farc. Li saluto. Poi, con Rito salgo sulla barca e ci dirigiamo dal porto verso il paesino per salutare la gente. Con tutte le precauzioni possibili.

Angelo Casadei

Vista dall’alto di un tratto di Amazzonia colombiana. Foto Mauricio Romero Mendoza.

L’UCCISIONE

Manifesto dei ricercati del gruppo Eln, dei dissidenti Farc (Gao-r) e del Clan del Golfo; sopra ogni nome, è riportata la ricompensa promessa. Foto Autorità colombiane.

Il 24 novembre 2020 le autorità colombiane hanno annunciato la morte di Marco Tulio Salcedo Pinilla alias Dúver, responsabile («cabecilla») delle finanze di un gruppo dissidente delle Farc (ufficialmente, «Grupo armado organizado residual», Gao-r), struttura Míller Perdomo, operante nei dipartimenti di Caquetá, Putumayo e Meta.

L’operazione è stata effettuata dalla Sesta divisione dell’esercito nazionale nella vereda Mononguete, nel municipio di Solano, Caquetá.

Sulla testa di Dúver vigeva una taglia di 150 milioni di pesos (circa 35mila euro) per la sua cattura o morte.

Secondo le autorità competenti, la struttura criminale era incaricata di raccogliere denaro tramite estorsioni e sequestri, traffico di droga, reclutamento forzoso, soprattutto di minori, attacchi a strutture militari.

Pa.Mo.

Una giovane migrante venezuelana al lavoro come raccoglitrice di foglie di coca («raspachina») nella regione di Catatumbo (Norte de Santander). Foto Luis Robaio / AFP.


Il reclutamento forzato

Storia di Isabel, guerrigliera per forza

Reclutata, arrestata, condannata, liberata e ancora reclutata. In questo cammino disperante, Isabel ha trovato l’aiuto della Chiesa. Eppure, oggi è scomparsa di nuovo, persa nel gorgo di un conflitto infinito.

Solano (Caquetá). Siamo in piena novena della festa patronale Nuestra Señora de la Mercedes (Nostra Signora della Misericordia), che ricorre il 24 di settembre. Lunedì 21 settembre arriva in canonica una donna (la chiamerò Isabel) con un bambino di quattro anni, mezz’ora prima dell’eucaristia delle 18,00. «Padre, provengo dal villaggio Yurilla che è lungo il fiume Mecaya – mi dice -. La prego, deve aiutarmi a mettermi in contatto con i militari della Forza aerea».

«Nella finca (fattoria) dove vivo, ci sono 24 ragazzini dai 12 ai 14 anni che le Farc-Ep stanno addestrando alla guerra. Quattro di loro sono gravemente feriti. Vi è stato un violento scontro con il gruppo Sinaloa (potente cartello di narcotrafficanti messicani, ndr) lungo il fiume Putumayo un po’ più in giù della nostra finca».

«Uno dei ragazzi mi ha chiesto di cercare un sacerdote e chiedergli aiuto. Sono qui a Solano perché ho dei seri problemi ginecologici e il medico, dopo la visita, mi ha indirizzata a Florencia per degli accertamenti più approfonditi, ma non posso andarci finché non avrò l’autorizzazione del comandante Danilo. Vivo qui nel Mecaya dall’inizio dell’anno con mia sorella. Lei è la moglie di un comandante delle Farc».

«Un giorno è venuto Danilo e mi ha imposto di essere parte del movimento. Avevo due possibilità: o m’inserivo come guerrigliera militare o collaboravo come guerrigliera “civile”. Vedendomi costretta, ho deciso per questa seconda scelta».

«Mi ha proposto di andare con lui in un loro centro per fare da cuoca a sessanta persone promettendomi che mi avrebbe dato 750mila pesos il mese (circa 170 euro, ndr), e la possibilità di poter uscire dalla finca ogni due mesi».

«Non ho ancora visto un soldo e sono quattro mesi che sono chiusa in quel posto».

«Prima di trasferirmi nel Mecaya sono stata quattordici anni in prigione. Ero stata condannata a trentacinque anni ma, per buona condotta e per i vari corsi a cui ho partecipato, mi hanno condonato gli anni rimanenti».

«Padre, io voglio salvare questi ragazzini: me
l’hanno chiesto e, come le ripeto, quattro sono feriti gravemente e hanno bisogno di cure immediate. Per favore mi metta in contatto con il colonnello della base aerea, e anche con il vescovo. Con lei e con loro, attorno a questo tavolo, posso indicare il luogo preciso dove si trova la finca di addestramento delle Farc. Devo parlare velocemente con la Forza aerea perché intervenga immediatamente, domani potrebbe essere troppo tardi! Nella Farc ho fatto parte dell’équipe di strategia militare, quindi sono in grado di dare le coordinate dove si trovano i ragazzi. Mi aiuti, padre».

«Isabel – le rispondo -, mi lasci pensare questa notte per vedere cosa fare, e domani ci sentiremo». Mi dà il suo numero di cellulare, anche se mi dice che è senza caricabatterie.

Contatto con il «personero»

Non dormo tutta notte con il pensiero di quei ragazzini. Devo e dobbiamo fare qualcosa. Ne parlo con il vescovo Joaquin che mi suggerisce di mettere Isabel in contatto con il «personero» (figura giudiziale dello stato presso la quale chiunque, anonimamente, può fare ricorso per eventuali denunce soprattutto quando sono violati i diritti umani, ndr).

Alle otto contatto la segretaria che mi dà il suo numero. Gli telefono subito e mi dice che sarà libero alle nove. Chiamo Isabel che viene nell’ufficio della parrocchia per continuare il dialogo.

La aggiorno dicendole che ho parlato con il vescovo e che la cosa migliore è metterla in contatto con il personero. Isabel insiste però che vuole parlare con un colonnello della Forza aerea per intervenire immediatamente.

Ha anche delle esigenze pratiche: «Padre, mi può prestare il caricabatterie. Inoltre, sono rimasta senza soldi. Mia sorella mi ha dato 50mila pesos (11 euro, ndr), ma li ho spesi per l’alloggio e la cena per me e il mio bambino. Questa mattina, quando sono uscita dalla casa dove abbiamo dormito, la signora che gestisce il posto aveva una colazione prenotata per una persona che poi non è arrivata. Quando ha visto che il bambino piangeva perché aveva fame, ce l’ha regalata».

Testa bassa e manette ai polsi

Isabel ripercorre gli anni della sua esistenza. «Quando avevo 8 anni, i miei genitori sono stati uccisi a San Vicente del Caguán. Allora il vescovo Luis Augusto Castro mi ha accolta alla Finca del niño (Fattoria del bambino) con mia sorella e mio fratello, e lì sono rimasta quattro anni».

«Terminate le scuole elementari nella Finca del niño, sono tornata a casa dalla nonna. Avevo soltanto 12 anni, ma su di me, allora non lo sapevo, erano puntati gli occhi della Farc che mi ha preso e mi ha introdotta nelle loro fila, per addestrarmi a combattere».

È un’esistenza difficile quella di Isabel. «Mi hanno fatto abortire molte volte, perché i bambini sono un “peso” e un pericolo per i guerriglieri. Noi viviamo nella foresta, ci nascondiamo, combattiamo. Ed è proprio a causa di questi aborti che ora ho questi seri problemi di salute. Ho avuto però un figlio da un compagno guerrigliero, il quale è morto in uno scontro a fuoco e in quel contesto l’esercito mi ha fatto prigioniera. Le dicevo, padre, che sono stata condannata a 35 anni, ma per buona condotta ne ho scontati soltanto 14».

Mi accorgo che Isabel si sta commuovendo mentre continua a raccontare: «Mi trovo in carcere. Ho la testa bassa e le manette ai polsi. So che si stanno svolgendo i colloqui per trovare un accordo di pace. Il vescovo Luis Castro visita i carcerati. Appena lo vedo lo riconosco. Lo vorrei abbracciare, come feci da bambina quando mi uccisero i genitori, ma non posso farlo perché sono custodita da due guardie e devo rimanere seduta. Allora lo saluto alzando le mani e le muovo come se fossero ali di una farfalla, perché, padre Angelo, facevo questo gesto quando il vescovo veniva a trovare me e tutti gli altri bambini alla Finca del niño. Il vescovo mi guarda, mi riconosce, mi chiama per nome. E io piango».

Durante i lunghi dialoghi per trovare un accordo di pace tra la Farc e lo stato colombiano, mons. Luis Castro è il rappresentante della Conferenza episcopale colombiana. Da quel momento tra Isabel e mons. Castro si ristabilisce il contatto e il vescovo la aiuterà per buona parte della sua lunga detenzione. Isabel è molto riconoscente di quel provvidenziale appoggio.

Contadini a Cáceres (Antioquia). Foto Thomas Cristofoletti.

Dubbi (tra fedeltà e tradimento)

Dopo aver ascoltato il suo drammatico racconto, le offro del denaro per comprare vestiti al bambino, per pagare la camera e il cibo. Si convince anche a chiamare il personero.

Chiamo la segretaria che si mette in contatto con lui. Così, finalmente, tutti e tre ci sediamo attorno al tavolo del suo ufficio.

Il personero, Carlo Mario, dice subito che lui è un tramite. Non può coinvolgersi direttamente vivendo in un territorio ad alto rischio. Può «aprire porte» e offrire contatti e propone autorità a livello nazionale come il procuratore. Tuttavia, Isabel insiste che ci deve essere un intervento immediato dell’esercito.

Carlo Mario allora fa un esempio chiarificatore: «Se tu – spiega – dai un pezzo di carne a un cane affamato, lui lo addenta e se lo divora immediatamente senza tenere in conto chi sta attorno e le eventuali conseguenze. In questo territorio, in questo momento, le forze dell’esercito cercano dei risultati. Se vi è un obiettivo preciso e chiaro, loro arrivano con un potente spiegamento di uomini, senza tener conto di chi si trova nel luogo: civili bambini, donne… Così possono andarci di mezzo le stesse persone che la guerriglia obbliga con la forza di stare dalla loro parte. Oppure può accadere che la stessa guerriglia le elimini per non lasciare testimoni».

Isabel mi chiede dei fogli e incomincia a disegnare la posizione della finca, dove si trovano i ragazzi e le postazioni della guerriglia attorno e nel resto del Putumayo e Caquetá.

Carlo Mario allora si mette in contatto con la base aerea di Tres Esquina e parla direttamente con il colonnello, che non può venire, ma invierà il vice che nel pomeriggio arriverà a Solano. Il luogo dell’incontro con l’intelligence della Forza aerea sarà nel salone della catechesi.

A questo punto Isabel mi prende la mano e me la stringe forte. Sente che, in qualche modo, sta tradendo il movimento guerrigliero dopo tanti anni di fedeltà e mi dice: «Lo faccio per i ragazzi che sono stati strappati alle loro famiglie e arruolati contro la loro volontà, per la durezza del comandante Danilo verso loro e verso me».

«Un giorno mi ha colpito violentemente con il calcio della pistola sul viso facendomi cadere per terra e per questo sono svenuta. Mio figlio di quattro anni si è messo in piedi, davanti al comandante, e con autorità l’ha minacciato e gli ha detto di smettere di picchiare la sua mamma».

Sicuramente il tempo trascorso fuori dalle file della guerriglia, quando era in carcere, i corsi di studio e il contatto con altre persone hanno fatto pensare Isabel.

È forte il desiderio di non collaborare più con il movimento guerrigliero. Non può scappare perché il figlio di sedici anni è sequestrato. L’ha dovuto lasciare nella fattoria come garanzia che sarebbe ritornata.

Le chiedo: perché, dopo il carcere, sei tornata in questo territorio? «La mia famiglia è qui, dove potevo andare? Sono uscita di prigione che non avevo assolutamente niente. Sono venuta da mia sorella che vive come guerrigliera civile in un paesino del fiume Mecaya con un guerrigliero che, ogni tanto, la viene a trovare».

Raccolta del frutto del cacao («cabossa»). Foto Elias Shariff Falla Mardini.

I colloqui, il ritorno, la scomparsa

In attesa dei militari andiamo a pranzo. Nel pomeriggio Isabel mi vuole mostrare quello che ha comprato per il figlio e mi ringrazia.

All’ora stabilita inizia l’incontro con i due militari della base aerea. A un certo punto, uno esce per confermarmi che il dialogo è iniziato, ma Isabel non ha voluto dare il suo numero di telefono. Mi domanda se posso fare da intermediario con il mio cellulare, e naturalmente accetto. La conversazione dura sino alle sei del pomeriggio.

Alla fine, i militari mi dicono che vi sarà un nuovo incontro però ancora non sanno quando.

Il giorno dopo, mercoledì, mi chiamano e mi dicono che ci troveremo quello stesso giorno o il successivo ma che, in ogni caso, devo attendere una conferma.

Nel pomeriggio Isabel viene in parrocchia mentre mi trovo in un incontro. Vado a parlarle. È preoccupata perché ancora non la chiamano, e insiste a chiedermi di vedere il vescovo. Tramite il mio cellulare la metto in contatto con i militari. Nel frattempo parlo con il vescovo, che la incontra poco dopo. Isabel gli chiede una benedizione e gli affida i suoi due figli se dovesse succederle qualcosa.

Ha piena fiducia nella Chiesa perché, nella sua vita, è stata aiutata con mons. Castro. Una storia che sembra ripetersi.

Giovedì mi richiamano i militari perché contatti la muchacha per continuare il dialogo. L’appuntamento è per le nove del mattino. Isabel non mi risponde. Nel frattempo arriva il vice colonnello. Isabel chiama. Arriva dopo qualche minuto. La conversazione si protrae sino alle cinque del pomeriggio. In seguito i militari mi chiamano e mi dicono che si è creata una certa fiducia e, quindi, continueranno il contatto.

Venerdì mattina presto Isabel mi chiama e mi avvisa che cercherà di viaggiare in giornata per rientrare alla finca dove ancora si trova il figlio più grande. È lui la ragione per la quale lei fa ritorno in foresta.

Durante il suo viaggio, Isabel mi invia vari messaggi Whatsapp. Dopo quel giorno, non ho più saputo nulla.

Angelo Casadei

Archivio MC

 Paolo Moiola, Colombia: Contro l’odio la scommessa del perdono, agosto 2018;
Paolo Moiola, La pace bussa due volte. Incontro con mons. Luis Augusto Castro, maggio 2017;
Paolo Moiola (a cura di), Colombia. Un paese alla ricerca della pace, dossier, novembre 2016.

Video su YouTube

● Mauricio A. Montoya Vásquez, 100 preguntas y respuestas Para comprender el conflicto colombiano, 2018;
Paolo Moiola, La paz llama dos veces. Incontro con mons. Luis Augusto Castro, 2017.

Deforestazione illegale nel parco La Macarena, dipartimento del Meta, settembre 2020. Foto Raul Arboleda / AFP.




Colombia: Contro l’odio la scommessa del perdono

Tra vendetta e perdono, intervista di Paolo Moiola con padre Leonel Narváez Gómez |


Il prossimo 24 novembre saranno trascorsi due anni dalla firma degli accordi di pace. La Colombia è ancora un paese polarizzato, con politici e popolazione divisi tra vendetta e perdono. A dispetto dei problemi, padre Leonel Narváez Gómez, fondatore e presidente della pluripremiata Fundación para la reconciliación, è ottimista. Secondo il missionario, gli accordi di pace sono tra i migliori mai sottoscritti nel mondo. È però indispensabile passare da una «economia politica dell’odio» a una «cultura del perdono e della riconciliazione». Partendo da questo cambio individuale e collettivo sarà possibile raggiungere una «pace sostenibile».

Bogotá. Quando parla, usa molto le mani come per dare più forza alle sue parole. Parole comunque scelte con cura, mai banali. La storia personale di padre Leonel Narváez Gómez, colombiano e missionario della Consolata, è ricca di tappe ma sempre in un’unica direzione. Sembra infatti che, fin dall’inizio, la sua strada fosse segnata da uno scopo preciso: affrontare e superare le problematiche psicologiche e sociali che la guerra induce nelle persone e nella collettività.

Padre Leonel è originario dello stesso luogo (Genova, Quindio) nel quale nacque Pedro Antonio Marín Marín (alias Manuel Marulanda Vélez detto Tirofijo, 1930-2008), il fondatore delle Farc, le Forze armate rivoluzionarie di Colombia. «La cosa curiosa è che non solo eravamo della stessa cittadina ma compivamo gli anni nello stesso giorno, il 13 maggio. Molti anni dopo queste coincidenze mi daranno l’opportunità di stringere un’amicizia – se così possiamo chiamarla – con il gran capo delle Farc». A parte il luogo e il giorno di nascita, le strade intraprese dai due compaesani sono molto diverse: Leonel – di 19 anni più giovane – studia per diventare sacerdote, Manuel imbocca la strada della lotta armata. I due si troveranno per la prima volta faccia a faccia in circostanze particolari.

Diventato missionario, nel 1977 padre Leonel parte per il Kenya, dove rimarrà per 11 anni. Qui ha modo di toccare con mano le conseguenze dei conflitti in Sudan, Etiopia, Mozambico, Rwanda, Eritrea, Somalia, Sudafrica. Tornato in patria, nel 1989 va in Caquetá e Putumayo (Amazzonia colombiana), dove la guerra civile tra l’esercito (e milizie paramilitari) e le Farc è quotidianità.

Forte della sua conoscenza del compaesano Marulanda e degli altri leader del movimento guerrigliero, il missionario affianca mons. Luis Augusto Castro, mediatore ufficiale per il governo dell’allora presidente Andrés Pastrana, nei negoziati con le Farc. Nel frattempo, è anche assessore del Comitato generale e della sicurezza del municipio di San Vicente del Caguán, centro della cosiddetta zona di distensione durante i tre anni di negoziati (dal 1998 al 2001). All’epoca l’accordo non verrà raggiunto.

Dopo un decennio in Amazzonia, padre Leonel decide di prendersi tre anni sabbatici per approfondire il tema del conflitto nelle Università di Cambridge e Harvard. È nel famoso ateneo statunitense che elabora una proposta metodologica per insegnare il perdono e la riconciliazione in ambiti di guerra. Rientrato in Colombia, per concretizzare la propria idea, nel 2003 crea la Fundación para la reconciliación, istituzione di cui è tuttora presidente. Avendo come obiettivo ultimo la soluzione dei conflitti e la conquista di una pace duratura, in 15 anni di vita la Fondazione elabora modelli pedagogici e di alfabetizzazione emozionale e crea centri e scuole di perdono e riconciliazione (queste ultime note con l’acronimo di EsPeRe). Per il suo operato l’istituzione guidata da padre Leonel ottiene vari riconoscimenti, nazionali e internazionali, tra cui il Premio Unesco di educazione alla pace (2006).

«Oggi siamo presenti in 21 paesi del mondo», precisa con comprensibile orgoglio.

Gli accordi migliori del mondo

Padre Leonel, partiamo dagli accordi di pace tra governo e Farc sottoscritti nel novembre del 2016. Lei come li giudica?

«Voglio essere il più neutrale possibile, ma i negoziati colombiani hanno prodotto i migliori accordi di pace mai sottoscritti nel mondo, almeno fino a questo momento. Non lo sostengo io ma esperti ed accademici. Adesso è il tempo della loro applicazione».

Su quali elementi si basa questo giudizio largamente positivo?

«Sul fatto che i negoziati hanno affrontato sei questioni chiave divenute altrettanti pilastri degli accordi finali.

I sei pilastri sono i seguenti: riforma rurale e terra, inserimento e partecipazione politica degli ex combattenti, fine del conflitto, droga e coltivazioni di coca, questione delle vittime e verifica degli accordi».

Rispetto al primo, quello della terra, si ritiene che esso sia stato elemento scatenante del conflitto.

«In Colombia la distribuzione delle terre è sempre stata molto diseguale. Si calcola che sia uno dei paesi più diseguali in tema di proprietà terriera. La pace passa senz’altro per una riforma agraria che ha avuto molti tentativi di soluzione politica ma che mai sono stati portati a termine. Non so se raggiungeremo l’obiettivo in quest’occasione. Personalmente lo ritengo molto difficile a causa della difficoltà a recuperare le terre perdute e della quantità delle persone allontanate dalle campagne. Il problema è molto grave».

Sull’inserimento e sulla partecipazione politica degli ex guerriglieri il dibattito e le polemiche sono state (e tuttora sono) fortissime.

«Per fortuna, è già stata approvata la partecipazione politica di 10 candidati ex Farc (le persone – 2 donne e 8 uomini – sono già state designate: 5 al Senato e 5 alla Camera, ndr). Ciò ha generato molte discussioni nella popolazione, perché non si riesce a immaginare che alcuni supposti criminali ora possano diventare legislatori del paese.

Il problema è: se debbono essere giudicati prima o possono già entrare in politica. Sono già entrati e ora si dibatte su cosa succederà se fossero giudicati colpevoli».

Cosa s’intende concretamente per fine del conflitto?

«La consegna delle armi, la concentrazione degli ex combattenti in 28 zone rurali del paese, il processo di smobilitazione e di reinserimento nella società. Questo è un processo in stato molto avanzato. La consegna di armi, la smobilitazione sono state un successo.

Debbo segnalare che al loro passaggio i guerriglieri sono stati celebrati e applauditi dalla popolazione. C’era felicità nel vedere queste donne e uomini andare a consegnare le armi».

Il quarto pilastro degli accordi di pace riguarda le coltivazioni illecite.

«Il problema delle droghe è enorme. Si calcola che in Colombia ci siano 400mila famiglie che dipendono dalla coltivazione della coca (e, meno, di oppio e marijuana), che qui trova un terreno molto adatto. La Colombia ha, inoltre, migliaia di chimici esperti nella produzione della pasta basica di cocaina.

Il fatto è che dall’estero c’è una domanda tremenda. E anche la Colombia ha incrementato il proprio consumo. Insomma, c’è più domanda che offerta. Per il campesino l’attrazione non è tanto il denaro, quanto il cash immediato, la commercializzazione assicurata, la facilità di trasporto, i prezzi allettanti, l’assistenza di esperti in loco, la facile reperibilità dei prodotti chimici. Se parliamo di coltivazioni sostitutive, soltanto un prodotto che offra tutto questo potrà avere successo.

Il problema della coca è internazionale perché è una catena produttiva che comporta l’utilizzo di prodotti chimici e varie intermediazioni. Sfortunatamente, quasi sempre si finisce con il colpire l’anello più debole di questa catena: il contadino, colui che ha la colpa minore. Nell’accordo tra governo e guerriglia c’è anche il divieto alla fumigazione (distruzione delle piantagioni attraverso la dispersione di glifosato con aerei o – è cosa recentissima – con droni, ndr). Su questo c’è però un’enorme pressione contraria degli Stati Uniti perché si riveda la decisione e si torni al grande business dei prodotti chimici e della fumigazione».

Il quinto pilastro riguarda le vittime, che si contano in quasi otto milioni.

«Il cuore di tutto, secondo me. I mediatori hanno messo le vittime al centro delle negoziazioni di pace e questa è una novità positiva rispetto alle altre trattative che sono state fatte nel mondo. Ricordo che i rappresentanti delle vittime sono stati portati a L’Avana tra i negoziatori. Qui esse hanno potuto raccontare le loro esperienze e da allora i negoziati sono cambiati».

L’apparato – Sistema integral de Verdad, Justicia, Reparación y no Repetición – concepito per affrontare il tema delle vittime pare piuttosto complesso.

«L’apparato include tre commissioni con compiti specifici. La prima è la “Commissione della verità”, che non è un ente giuridico ma storico. Si tratta di dire al popolo colombiano qual è la verità del conflitto, soprattutto nella prospettiva della riconciliazione. Durerà per tre anni.

La seconda è la “Commissione per la ricerca degli scomparsi”. In questo momento in Colombia si stimano 80mila persone scomparse. Per quanto mi riguarda ci sono tre persone vicine alla mia famiglia che da 18 anni non sappiamo dove siano. Uno dei dolori più profondi è quello provato da una persona che non sa dove sia un suo caro. È un dolore che si tiene dentro per uno, due, dieci, venti anni. È un martirio, una tortura continua. Sono persone che soffrono troppo, affette da quello che gli psicologi chiamano il “trauma complesso” (sintomi prodotti da traumi cumulativi prolungati nel tempo: violenze, guerre, prigionie, migrazioni forzate, ndr).

La terza è la “Commissione per la riparazione”. Come si debbono ripagare le vittime e come fare perché le riparazioni siano integrali: dalle persone scomparse al ritorno nei propri luoghi fino al recupero delle terre, del lavoro, delle case».

La «giustizia riparativa»

Quelli che ha spiegato sono tutti organi extragiudiziali. C’è però anche un organo giudiziale, anche se con caratteristiche particolari.

«Sì, si tratta dell’organo – anch’esso molto dibattuto (infatti il nuovo governo di Iván Duque ha fatto rimandare l’emanazione del regolamento, ndr) – denominato Jurisdicción Especial para la Paz. Essa è una giustizia parallela alla giustizia ordinaria. Questa istituzione ha già 51 magistrati che dovranno affrontare il tema della giustizia cosiddetta “transizionale” (justicia transicional).

Perché è importante? Se gli ex guerriglieri confessano la verità prima di essere giudicati, essi avranno non più di otto e non meno di due anni di condanna in carceri aperte, senza sbarre.

Se invece non confessano la verità o se la dicono dopo o se questa viene scoperta successivamente, gli ex guerriglieri rischiano fino a 20 anni da trascorrere in prigioni tradizionali, con le sbarre.

Si tratta di misure di giustizia transizionale che verranno applicate solamente per i prossimi 10 anni. Questa giustizia è una giustizia restaurativa (riparativa, riconciliativa, di transizione sono tutti sinonimi, ndr) che cerca di “riparare” le vittime e la società.

E soprattutto ha un concetto innovativo di castigo perché non si pensa di mettere le persone in carcere ma in luoghi diversi dove possano rimanere assieme, fare attività in un luogo aperto anche se vigilato. Il contrario del concetto perverso di carcere chiuso».

Padre Leonel, il tema della «giustizia restaurativa» invece della «giustizia punitiva» le è molto caro. Tuttavia, è risaputo che una parte consistente della stessa gerarchia cattolica colombiana non è dello stesso avviso, adottando in toto le posizioni dell’ex presidente Álvaro Uribe.

«Debbo dirlo chiaramente: la Chiesa in Colombia e tanti vescovi sono divisi tra le due istanze: giustizia punitiva o giustizia restaurativa? Ci sono vescovi – io ne sono testimone – che dicono: “No, questi criminali vanno messi in carcere”. Se potessero dirlo chiederebbero la pena di morte che però in Colombia non esiste.

Le carceri sono la soluzione più perversa, sono la negazione dell’immaginazione umana, sono i luoghi peggiori della società, sono le università del crimine. Questi luoghi sono i luoghi dell’inferno che troppi vescovi ancora predicano».

L’«economia politica dell’odio»

Lei utilizza un termine particolare: «economia politica dell’odio». Cosa intende con esso?

«I partiti sono stati venditori perversi di odio. E loro rappresentanti hanno guadagnato sulla base di questo. La stessa guerriglia sa di aver venduto odio. Io non voglio dire chi è di più e chi di meno. Tuttavia, la cultura politica della Colombia si è trasformata in una distillazione di odio che genera una cultura della vendetta.

Concretamente questa si è trasformata in più carceri, più stazioni di vigilanza nelle strade, più uomini nell’esercito, più armi. Tutto questo è cultura della violenza e dell’odio. E la gente, la base umana è ansiosa di ricevere questo tipo di proposte.

Ciò spiega perché quando si è trattato di fare il referendum sull’approvazione o meno delle negoziazioni, più del 50 per cento dei votanti hanno detto “no”. Facendo chiaramente intendere che questi criminali delle Farc avrebbero dovuto essere ammazzati. E che, se si fosse potuto, si sarebbe dovuto non solo mandarli a morte, ma mandarli a morte per tre volte. Ci siamo resi conto che il paese è ancora dominato dall’odio. La parte più animale, più arcaica, più primitiva di noi sta ancora presente nei nostri cuori. In questo momento la grande sfida della Colombia, oltre ai problemi che conosciamo (terra, droga, vittime, reinserimento dei guerriglieri, eccetera), è quella di capire come trasformare la cultura della vendetta insita nella popolazione. E soprattutto come trasformare questa “economia politica dell’odio” che ci hanno venduto e che continuano a venderci».

La scelta del perdono

Padre, dopo 52 anni di guerra civile, 220mila morti, milioni di sfollati, non è difficile parlare di perdono?

«Per prima cosa, intendiamoci bene su cos’è il perdono. Il perdono non è dimenticare, non è negare la giustizia, non è negare il dolore che ho dentro. Il perdono è un esercizio meraviglioso che passa dalla vendetta alla compassione, alla misericordia, che alla fine – e qui parlo da missionario – è il cuore della predicazione di Gesù. Tutto questo necessita di una “tecnologia”, di un filo metodologico che ci conduca dalla memoria ingrata (rabbia e rancore) a quella grata (compassione).

Misericordia, compassione, perdono sono l’espressione massima del regno di Dio. Il perdono elevato alla massima conseguenza. Sempre, fino a perdonare l’imperdonabile».

Il perdono e la riconciliazione si possono insegnare?

«In questi ultimi 15 anni io e i miei collaboratori abbiamo lavorato per generare metodi e pratiche concrete, quotidiane, replicabili, moltiplicabili, di perdono e riconciliazione. Considero la Fondazione per la riconciliazione unica in America Latina e forse nel mondo. Di certo è l’istituzione che più lavora sul tema specifico della “tecnologia del perdono”. O, se vogliamo usare un altro termine, dell’“ecologia dell’anima”, che poi è il tema del perdono, della compassione, della misericordia. Secondo me, questo dovrebbe essere il cuore del lavoro di un missionario».

Dunque, secondo lei la cultura della pace e della riconciliazione si sta diffondendo?

«Voglio essere ottimista. Stando accanto alle vittime io vedo che, a poco a poco, si sta instaurando una cultura di riconciliazione. A poco a poco il paese si sta incamminando su questa strada. Sfortunatamente questo non sta succedendo nelle élites, sia politiche che economiche. Non so – qui debbo usare un punto di domanda – se sta accadendo nelle gerarchie ecclesiali.

L’importante è che la giustizia restaurativa e questo nuovo concetto di pace stiano progredendo. Tutto questo è possibile se noi inculchiamo la cultura e la spiritualità del perdono, l’ecologia dell’anima. Di certo non ci può essere una “pace sostenibile” se non c’è un processo di perdono. E i processi di perdono – ecco il paradosso – sono quelli che proprio i cattolici e i cristiani conoscono meno. Si prova vergogna a ricordarlo, ma il continente latinoamericano è quello più povero, più diseguale, più violento e più cattolico. Che significa questo? Che abbiamo appreso un cattolicesimo e un cristianesimo di molta liturgia ed esteriorità. Ma non abbiamo assunto il mandato di avvicinarci al prossimo. Mi pare che questo ci costi molto. Insomma, la sfida è grande».

Iván Duque e il nuovo governo

Tornando alle questioni meramente pratiche, che problemi sta comportando o comporterà la transizione dalla guerra alla pace?

«Nel processo di transizione verso la pace ci sono due caratteristiche negative che riguardano tutti i paesi impegnati in questo passaggio. La prima è che essi sperimentano 3-5 anni di violenza a volte addirittura maggiore rispetto a quella del conflitto perché è violenza disorganizzata. Girano molte più armi libere perché il business è terribile. Molte persone che erano implicate nella guerra continuano a pensare in quest’ottica. Ci sono un gran numero di vittime – in Colombia sono 8 milioni di persone – che continuano a vivere con molta rabbia e voglia di vendetta. La seconda conseguenza è che, a causa dei costi impliciti in un processo di pace, i paesi possono cadere in depressione economica. Attualmente lo sforzo compiuto della Colombia è molto elevato, soprattutto in un paese dove l’intervento dello stato è stato sempre assai limitato.

C’è infine una variabile politica: il nuovo governo. Nell’ottobre 2017 la Corte costituzionale colombiana ha blindato le negoziazioni per 12 anni. Ovvero nessuno dei tre prossimi presidenti potrà cambiare gli accordi siglati nel 2016. Quello che invece senz’altro farà la destra uribista (legata cioè all’ex presidente Álvaro Uribe e vincitrice delle elezioni di giugno, ndr) sarà di rallentare la loro applicazione e insistere sulla giustizia punitiva».

Paolo Moiola


Le parole in gioco

Ricomporre un tessuto sociale distrutto da decenni di guerra è un’impresa molto complicata. Per questo occorre conoscere le parole che entrano in gioco.

La guerra

  • economia politica dell’odio: strategia promossa dalle élites (politiche, sociali, economiche, religiose) del paese per catturare l’attenzione (e il voto) della massa;
  • cultura della vendetta: è la conseguenza dell’odio non superato;
  • rabbia, rancore, rivalsa: sentimenti generati dal torto subito, dalla violenza e dall’ingiustizia;
  • filosofia del nemico interno: non è un semplice oppositore, ma un soggetto che deve essere eliminato;
  • narcotraffico: elemento moltiplicatore di violenza, barbarie, vendetta;
  • giustizia punitiva: è il sistema che si limita all’applicazione per i responsabili degli abusi dello strumento punitivo-vendicativo (in primis, del carcere).

La pace

  • pace sostenibile: si raggiunge quando si dà risposta a una serie di necessità; trova raffigurazione in un albero (radici, tronco, rami);
  • necessità oggettive di base: sanità, lavoro, istruzione, terra, alimentazione;
  • necessità ecologiche della pace: verità, giustizia, indennizzo, inclusione, rispetto dei diritti umani;
  • necessità soggettive delle vittime e dei sopravvissuti: affrontare e superare rabbia, rancore, rivalsa (vendetta);
  • cultura civile del perdono e della riconciliazione: è la risposta alle necessità soggettive;
  • perdono: è ricordare con altri occhi, è un esercizio attraverso il quale la vittima smette di essere tale; non significa dimenticare o negare il diritto alla giustizia;
  • riconciliazione: passaggio dalla sfiducia alla fiducia;
  • giustizia riparativa: è il sistema che si concentra sulla riparazione del danno subito dalla vittima più che sulla punizione del reo.

Fonte: Leonel Narváez Gómez, Entre economía política del odio y cultura ciudadana de perdón, in «Venganza o perdón? Un camino hacia la reconciliación», Editorial Planeta Colombiana, aprile 2017.


Il successore di Manuel Santos: «Títere» o presidente?

Il nuovo presidente della Colombia è Iván Duque Márquez, delfino dell’ex presidente Álvaro Uribe, fermo oppositore degli accordi di pace del novembre 2016.

AFP PHOTO / RAUL ARBOLEDA

Iván Duque Márquez è stato eletto successore di Manuel Santos alla presidenza della Colombia. Avvocato di 41 anni, Duque è stato allevato nella scuderia dell’ex presidente Álvaro Uribe, padre e padrone della destra colombiana, nonché duro oppositore degli accordi di pace del novembre 2016.
Detto questo, senza esagerare in ottimismo, va segnalato che le presidenziali 2018 sono state caratterizzate da segnali positivi e importanti discontinuità. In primis, sono state elezioni pacifiche. E partecipate (per gli standard colombiani e latinoamericani): l’astensione si è infatti fermata al 47% degli aventi diritto. Al ballottaggio del 17 giugno con la destra uribista non è arrivato alcun esponente dei due partiti storici della Colombia, quello conservatore (fondato nel 1849) e quello liberale (del 1848). Vi è invece giunto – vivo e vegeto – un candidato di sinistra, Gustavo Petro, già membro del movimento guerrigliero M-19 e sindaco di Bogotà, che ha anche ottenuto un risultato importante: 8 milioni di voti pari al 42% (contro il 54% di Duque).
Tra le note positive, è da segnalare che anche Rodrigo Londoño, ex leader del gruppo guerrigliero e attuale presidente del partito Farc (Fuerza Alternativa Revolucionaria del Común), si sia felicitato con il nuovo presidente elogiando nel contempo il cammino intrapreso dal paese con gli accordi di pace.
Per parte sua, nel suo primo discorso da vincitore, Duque ha usato toni molto concilianti, precisando che occorre superare la polarizzazione e le lamentele. «Non conosco nemici in Colombia – ha dichiarato -, non governerò con l’odio, non esistono nella mia mente e nel mio cuore né vendette né rivalse. Si tratta di guardare al futuro per il bene di tutti i colombiani».
Sul tema più controverso, quello degli accordi di pace, ha assicurato che non verranno fatti a brandelli, ma che saranno introdotte delle correzioni.
Già le prime mosse del suo governo ci diranno se Iván Duque è un títere (cioè un burattino di Uribe) o un presidente.

Paolo Moiola

  • Fondazione: Bogotá, 2003.
  • Fondatore e presidente: Leonel Narváez Gómez.
  • Organici: 40 dipendenti e 2.200 animatori volontari.
  • Programmi:
    – alfabetizzazione: si insegna a leggere e scrivere con il metodo della pedagogia di Paulo Freire e, nel contempo, si offrono soluzioni emozionali per i conflitti legati a rabbia, rancore e rivalsa;
    – pedagogia della cura e della riconciliazione: si insegna nelle scuole pubbliche e private;
    – Centri di riconciliazione: si tratta di appartamenti presi in affitto in zone a rischio per svolgere i programmi della Fondazione;
    – Scuole di perdono e riconciliazione (EsPeRe): corsi interattivi e ludici costituiti da 12 moduli, ognuno di 4 ore.
  • Presenza:
    – in 21 paesi del mondo.
  • Riconoscimenti:
    – Orden Civil al Mérito José Acevedo y Gómez del Concejo de Bogotá (2004);
    – Premio Unesco Educación para la Paz (2006);
    – Orden de la Democracia del Congresso de la República de Colombia (2007);
    – Emprender Paz (2011, con Nestlé Colombia);
    – Premio Nacional de Paz (2014, secondo posto).
  • Sito:
    www.fundacionparalareconciliacion.org.

Archivio MC

I più recenti articoli sul processo di pace in Colombia:
• Paolo Moiola (a cura di), Colombia. Un paese alla ricerca della pace, dossier, novembre 2016;
• Paolo Moiola, La pace bussa due volte. Incontro con mons. Luis Augusto Castro, maggio 2017.
Sul tema della giustizia riparativa:
• Luca Lorusso (a cura di), Giustizia riparativa, dossier, dicembre 2013.




Scuse e perdono


Testo di Gigi Anataloni |


«Care Divany e Madina, scusateci».

Leggi tutta la rivista di Gennaio-Febbraio 2018 nello sfogliabile. La puoi anche scaricare tutta o solo le pagine che interessano.

Così cominciava su Vita.it del 12 dicembre scorso l’articolo che Daniele Biella – autore del dossier di questo mese – ha dedicato a Divany e Madina. «Divany, originaria del Camerun, è morta annegata a tre anni nelle acque a 30 miglia dalla Libia nel naufragio del 6 novembre 2017». Il suo corpo non è mai stato ritrovato. «Medina Husein, afgana di sei anni, è stata investita da un treno merci alla frontiera tra Croazia e Serbia lo scorso 21 novembre 2017». Il corpo è stato restituito ai suoi genitori solo dopo diversi giorni. «Nessun pietismo, ma un atto di estrema denuncia sì. Le due piccole hanno trovato la morte alle frontiere europee, che siano di terra o mare: frontiere che chi cerca rifugio da guerre o violenze non può attraversare oggi in modo legale e che quindi mettono a rischio la vita di tutti, bambini e adulti. Con i trafficanti a guadagnarci cifre stellari e con intere famiglie con più nulla da perdere che provano a passare confini in ogni condizione, venendo poi respinti dalle autorità (come accaduto alla famiglia di Madina qualche minuto prima della tragedia)». In copertina abbiamo messo la foto di Madina scattata da Silvia Maraone (dell’Ong Ipsia delle Acli) il 12 luglio scorso nel campo profughi di Bogovadja in Serbia. La storia di Divany, invece, è parte di quanto ci racconta Gennaro Giudetti alle pagine 43 e 44 del dossier. Leggere quelle storie fa venire i brividi. Mentre causano tristezza e sdegno certi commenti che purtroppo spopolano sui social a proposito dei migranti.
La vicenda di Divany e Madina ci obbliga a riflettere, perché è emblematica di un dramma che sta attraversando questi primi decenni di un secolo pieno di promesse ma anche di grandi paure. La morte delle due bambine non è un caso isolato, un’eccezione imbarbarita. I minori sono tra le prime vittime di un esodo che riguarda milioni di persone e di cui noi, in Europa, conosciamo solo le frange marginali e forse addirittura più qualificate. Fossero anche in 200mila quelli che sono arrivati in l’Italia nel 2017 per poi disperdersi in Europa, non sono che briciole di fronte agli oltre 500mila (Rohingya) in Bangladesh, ai 600mila (siriani) in Giordania, ai 700mila in Etiopia, quasi un milione in Iran, oltre un milione in Libano, un milione e mezzo in Pakistan, più di due milioni in Turchia, senza contare le masse di rifugiati interni ed esterni del Sud Sudan (800mila), della Somalia (800mila fuori, 1,5 milioni dentro), e di Eritrea, Yemen, Repubblica Democratica del Congo, Nigeria e paesi del Sahel, Colombia e Venezuela. E l’elenco è incompleto.
«Oggi stiamo assistendo ai più elevati livelli di migrazione mai registrati: 65,6 milioni di persone in tutto il mondo, un numero senza precedenti, sono state costrette a fuggire dal proprio Paese. Di queste, circa 22,5 milioni sono rifugiati, più della metà dei quali di età inferiore ai 18 anni». Questo scrive l’agenzia dell’Onu per i rifugiati (Unchr) sul suo sito. Sono cifre da spavento (i dati forniti dall’Oim, Organizzazione internazionale per i Migranti, sono anche più elevati), mentre prosperano gli affari dei mercanti di armi, dei trafficanti di uomini, dei ladri di risorse naturali e di minerali strategici. E invece di una risposta internazionale coordinata ed efficace che affronti i problemi alle radici e metta l’economia e la finanza sotto il controllo della politica, vediamo i paesi ricchi costruire nuovi muri, aumentare i controlli e fomentare nuove guerre e tensioni in punti nevralgici del mondo.
Per questo è urgente avere il coraggio di dire a tutte le Madina e Divany del mondo non solo «scusateci», ma soprattutto «perdonateci». Perché le scuse rischiano di lasciare le cose così come stanno, senza sentire il bisogno di cambiare. Chiedere scusa è già un bel passo perché è riconoscere di aver sbagliato. Il chiedere perdono però è molto di più: è riconoscere lo sbaglio e assumerne la responsabilità per un impegno a cambiare mentalità e modo di agire. È anche mettere nelle mani dell’altro la propria persona. È stabilire relazioni profonde. Il dramma mondiale dei rifugiati e migranti richiede una rivoluzione nel pensiero e nel modo di agire.
«Offrire a richiedenti asilo, rifugiati, migranti e vittime di tratta una possibilità di trovare quella pace che stanno cercando, richiede una strategia che combini quattro azioni: accogliere, proteggere, promuovere e integrare». Così scrive papa Francesco nel suo messaggio per la giornata della pace. Quattro azioni coordinate di cui la prima, accogliere, è la fondamentale. Accogliere non è solo un fatto logistico. Ricevere i migranti e chiuderli dentro a «simil campi di internamento», non è accoglienza. Accogliere è conoscere e farsi carico della persona del rifugiato, del suo dramma, dei suoi sogni. Accogliere è vedere la persona per quello che è, essere umano come me con un nome e una storia, e non uno stereotipo, un pericolo, una minaccia. Accogliere è creare relazioni nuove, costruire un futuro per tutti insieme, senza isolarsi nella difesa dei propri privilegi o identità. Accogliere è amare. Per questo a Divany e a Madina non basta chiedere «scusa», ma bisogna dire «perdonateci».

Gigi Anataloni

 

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Le tre p: pace, perdono, pazienza


A fine settembre e inizio ottobre in redazione si è vissuto col fiato sospeso nell’attesa del risultato del referendum pro o contro l’accordo di pace tra il governo della Colombia e le Farc, accordo che avrebbe dovuto cambiare la vita di quel paese dilaniato da ben 52 anni di instabilità e guerra che hanno causato danni e dolori inenarrabili. Ma il risultato non è stato quello che si sperava e ci ha lasciati con l’amaro in bocca, nonostante il meritato premio Nobel al presidente della Colombia Juan Manuel Santos, e con l’affanno di revisionare il nostro dossier nato nella speranza di celebrare la vittoria del «sì».

In tale contesto è stato abbastanza naturale pensare ad altre situazioni di non-pace e di guerra aperta che esistono nel mondo, così numerose e gravi da far ripetere con insistenza al nostro papa Francesco che stiamo vivendo la terza guerra mondiale. I fronti sono talmente numerosi che non c’è continente che ne sia risparmiato. Le domande che disturbano, guardando a realtà come quelle della Colombia, del Sud Sudan, della Siria sono tante: perché la pace non è possibile? perché, nonostante i millenari fallimenti della guerra, la si preferisce alla pace per risolvere contese? perché, per assurdo, si pensa che ci sia più giustizia in una guerra che in una scelta di pace? perché si crede non ci sia giustizia nel perdono e nella riconciliazione? E in nome della giustizia, della giusta riparazione, si continua a combattere, illudendosi che solo una delle due parti, ovviamente quella nel torto, soffra, mentre l’altra (naturalmente chi è convinto di aver ragione) celebra (o piange?) i suoi caduti eroi. Intanto produttori e venditori di armi giubilano all’impinguarsi dei loro profitti.

Non sta a me dare la definizione di pace (la prima «p»), ma certo non è solo «assenza di guerra». Pace è un modo di esistere, di relazionarsi, di abitare. Pace non è assenza di «conflitto», è anzi riconoscere il conflitto per risolverlo per il bene di tutti, senza vincitori né vinti, ma tutti vincitori. Pace implica armonia, bellezza, gioia, frateità, sicurezza, rispetto, diversità, libertà, solidarietà, equità. Pace è il bene di tutti ma anche la possibilità per ognuno di essere sé stesso, di realizzare la sua vita, di essere felice. Pace è sogno dell’uomo e dono di Dio, punto di arrivo di tutte le nostre aspirazioni. Nella pace fiorisce l’arte, la musica, la cultura.

Ma non c’è pace senza perdono (seconda «p»). Perdono è far prevalere l’amore su tutto il resto. È far sposare il noi con l’io, la gratuità con la legge, il bene comune col diritto individuale; è far prevalere la fiducia sulla diffidenza, la speranza sul pessimismo, la redenzione sulla condanna. Perdonare è riconoscere che il torto non è mai da una parte sola, come la sofferenza e la distruzione. Perdonare è il rifiuto di pensare l’altro come totalmente malvagio e senza redenzione. È credere che l’amore può vincere nel cuore dell’uomo «come scriveva il grande Nelson Mandela: “Nessuno nasce odiando i propri simili a causa della razza, della religione o della classe alla quale appartengono. Gli uomini imparano a odiare, e se possono imparare a odiare, possono anche imparare ad amare, perché l’amore, per il cuore umano, è più naturale dell’odio.” Dobbiamo solo crederci col cuore e con la mente!» (da post su Facebook di G. Albanese).

La terza «p» è pazienza, come quella che Dio ha con noi uomini. Una pazienza talmente grande da aver sconfessato nei secoli tutti i profeti di sventura, minaccianti fuoco e fiamme sui malvagi, fautori di tribunali di inquisizione, amici dei roghi o del taglio di mani e di teste per purificare il mondo da chi non la pensa come loro. Pazienza è saper ricominciare e perseverare ogni giorno, seminando ostinatamente piccoli semi di pace e di amore là dove uno vive, senza la pretesa di fare grandi rivoluzioni, di finire in prima pagina o di ottenere «tutto e subito». Pazienza è tessere relazioni nuove e «farsi prossimo» di chi ti è vicino a cominciare dalla tua scala, dal tuo palazzo, dalla tua via. Pazienza è essere inermi nelle situazioni in cui l’umanità è più violentata, come i missionari e i volontari che danno tutto sé stessi, anche la vita se necessario, nel cuore del Sud Sudan, nelle terre dilaniate da Boko Haram, nell’inferno di Aleppo, nell’isola di Haiti devastata dal ciclone Matthew, nelle foreste dell’Ituri saccheggiate dai predatori di legname e minerali, nelle periferie delle megalopoli … Un’elenco impossibile da completare.

La pazienza dell’amore costruisce la pace offrendo il perdono che dona ai nemici la possibilità di riscoprirsi fratelli, di prendersi carico delle proprie responsabilità, di reinventare relazioni, di aprirsi alla speranza. La pace è il dono che Gesù stesso ci ha dato, pagandolo con l’offerta della sua vita. Un dono troppo prezioso per essere lasciato solo nelle mani dei politici e dei maneggioni di questo mondo. Continuiamo insieme a «sognare» la pace.