Perdenti 37. Teresio Olivelli, ribelle per Amore

Don Mario Bandera “intervista” Teresio Olivelli |


Teresio Olivelli nasce a Bellagio (Co) il 7 gennaio 1916. Dopo le scuole elementari e medie, frequenta il ginnasio a Mortara (Pv) e il liceo a Vigevano.

Nel tempo degli studi ginnasiali e liceali si mostra studente modello, ardente di carità verso i compagni, specie i più bisognosi. Partecipa intensamente anche alle attività dell’Azione Cattolica e della San Vincenzo, poiché avverte l’impellente richiamo di portare i valori evangelici nei diversi ambienti sociali che frequenta. Una volta conseguita la maturità si iscrive alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Pavia e viene accolto nel prestigioso ed esclusivo Collegio Ghislieri.
Nel periodo universitario, pur accettando il fascismo dominante, lavora soprattutto a costruire e rafforzare la sua vita spirituale. Convinto che «il cristianesimo vuole ascetica, che è esigenza d’ordine e di organizzazione delle proprie azioni», si impegna intensamente su due dimensioni: il crescere nella fede in Dio e il rafforzare la sua volontà di bene e di impegno concreto. Con il supporto di una fede intensamente vissuta, egli opera là dove il bisogno dei più poveri lo chiama per lenire sofferenze materiali e spirituali. È questo il periodo in cui diventa più concreta la sua vocazione alla carità, che egli testimonia con crescente ardore.
Dopo la laurea viene chiamato a Roma a lavorare come segretario dell’Istituto nazionale di cultura fascista, dove può intrattenere rapporti con personaggi autorevoli del panorama culturale e politico italiano, e compiere dei viaggi in Germania che lo aiutano ad aprire gli occhi sul nazismo. A Roma, dal maggio 1940 a febbraio 1941, vive intensamente la sua vita di fede, con messa e meditazione quotidiana, ed espletando il suo lavoro con fedeltà alla sua coscienza cristiana.
Allo scoppio la II Guerra mondiale, non accetta il vantaggio dell’esonero dal servizio militare che la sua posizione comporta ma vuole condividere la condizione dei suoi coetanei arruolati in massa e mandati poi a migliaia a morire nella Campagna di Russia.

Teresio, nel 1941 ti arruolano nominandoti sottotenente della Divisione tridentina degli alpini. Potresti avere l’esonero grazie alla tua posizione, ma chiedi di partire volontario per il fronte russo.

Voglio stare accanto ai giovani militari e condividere la loro stessa sorte. Non ho eroici furori. Solo desidero fondermi nella massa, in solidarietà col popolo che, senza averlo deciso, combatte e soffre. Sono pervaso da un’idea fissa: essere presente fra quanti sono gettati nella folle avventura della sofferenza, del dolore e della morte. Ed è proprio in quel periodo che si frantuma dentro di me l’idea che mi ero fatta del fascismo. In cuor mio divento sempre più critico nei confronti del sistema, vedendo e costatando con i miei occhi le violenze e le aberrazioni attuate dalla brutale logica della guerra.

Dopo la sconfitta sul fronte russo partecipi alla disastrosa ritirata con la sua scia di morte. Sei attento ai tuoi soldati e molti dei tuoi alpini ti devono la vita.

Durante la campagna cerco di sostenere i miei compagni, non solo condividendo il mio cibo con loro, ma anche aiutandoli spiritualmente. Tutte le sere ci raduniamo a dire il rosario. Poi, durante la ritirata, in condizioni di freddo polare, sto attento ai più deboli. Una sera, vedo che mancano due dei miei uomini che erano feriti. Torno indietro a cercarli pur sapendo di correre il rischio del congelamento restando fuori a quasi -30°, ma in coscienza non me la sento di lasciare indietro nessuno.

Rientrato a Pavia nella primavera del 1943, trovi una piacevole sorpresa.

Sì. Con mia grande sorpresa scopro di aver vinto il concorso al quale mi ero presentato prima di partire per il fronte russo: diventare rettore del Collegio Ghisleri, dove avevo studiato. Ho solo 27 anni, e in quel momento sono formalmente il più giovane rettore di un collegio universitario in Italia.

Un bel sogno che dura poco. Con l’armistizio dell’8 settembre 1943 la tua vita cambia di nuovo radicalmente.

L’8 settembre mi trova ancora nella caserma di Vipiteno, con i miei Alpini. Non accetto di schierarmi con la Repubblica di Salò. I soldati tedeschi mi arrestano e mi mandano in un campo di prigionia vicino a Innsbruck, in Austria, e poi in un altro. Da lì riesco a fuggire il 10 ottobre e a raggiungere fortunosamente Udine e da lì Brescia, dove collaboro alla nascita delle «Fiamme Verdi», le formazioni partigiane di orientamento cattolico. La mia è una scelta fatta seguendo la mia coscienza, secondo i principi della fede e della carità cristiana.

La tua scelta di unirti alla Resistenza è dovuta a motivi politici?

Ovviamente la mia presa di posizione avrà conseguenze politiche, perché devo decidere se stare con il Re d’Italia o con la Repubblica di Salò. Ma la ragione di fondo è la mia coscienza illuminata dal Vangelo. Non posso accettare la logica della violenza nazifascista e sogno un mondo nuovo più cristiano, basato sulla logica dell’amore. Divento un ribelle per amore.
Partecipo attivamente alla Resistenza, ma il mio contributo fondamentale è la fondazione, nel febbraio 1944, del giornale clandestino «Il Ribelle», un foglio di collegamento e di sensibilizzazione per diffondere gli ideali della Resistenza di ispirazione cattolica.

In quei fogli esprimi il tuo concetto di Resistenza intesa come una «rivolta dello spirito» alla tirannide, alla violenza, all’odio.

Per me resistere è una rivolta morale, diretta a suscitare nelle coscienze il senso della dignità umana e il gusto della libertà personale e a promuovere un ordine di valori sui quali primeggia la carità cristiana, volta a costruire la civiltà dell’amore contrapposta a quella dell’odio propugnata dai nazifascisti.

Sulle pagine del «Ribelle» pubblichi quello che può essere considerato il tuo «manifesto», la «preghiera del ribelle». In quel testo definisci te stesso e i tuoi compagni «ribelli per amore».

Pubblichiamo «Il Ribelle» a Milano e riusciamo a diffonderne ben 26 numeri, ognuno in almeno 15mila copie. La diffusione è possibile soprattutto grazie all’impegno di tante donne che lo distribuiscono a loro rischio e pericolo. Il giornale, con questa preghiera e tutte le nostre prese di posizione ricche di umanità e fedeli al Vangelo, è visto come una pubblicazione sovversiva. Per questo sia i nazisti che i fascisti danno la caccia a me, ai miei collaboratori e al tipografo, fino al mio arresto che avviene a Milano il 27 aprile 1944.

Teresio Olivelli viene dapprima torturato a San Vittore e poi deportato al campo di Fossoli, dove riesce a salvarsi dalla fucilazione nascondendosi. Riesce anche a fuggire, come aveva già fatto dall’Austria, ma lo catturano dopo pochi giorni e lo mandano prima a Bolzano-Gries e poi a Flossenbœrg in Baviera, e da ultimo al campo di Hersbrœck, dove non solo è marchiato col triangolo rosso dei politici ma anche col disco rosso dei sorvegliati speciali perché tentano la fuga.
Teresio comprende che è giunto il momento del dono totale e irrevocabile della propria vita per la salvezza degli altri. In questi luoghi aberranti il senso del dovere della carità cristiana portato fino all’eroismo, diventa per lui norma di vita. Infatti, interviene sempre in difesa dei compagni percossi, rinuncia spesso alla sua razione di cibo in favore dei più deboli e malati.
Resiste con fede, fortezza e carità alla repressione nazista, difendendo la dignità e la libertà di tanti fratelli sventurati come lui. Questo atteggiamento suscita nei suoi confronti l’odio dei capi baracca, i cosiddetti kapò, che di conseguenza gli infliggono dure e continue percosse. Tutto ciò non ferma il suo slancio di carità, a motivo del quale è consapevole di poter morire. Ormai deperito, si protende in un estremo gesto d’amore verso un giovane prigioniero ucraino brutalmente pestato, facendo da scudo con il proprio corpo. Viene colpito con un violento calcio al ventre, in conseguenza del quale muore il 17 gennaio 1945, a soli 29 anni.
La definizione più efficace di Teresio Olivelli l’ha data don Primo Mazzolari, qualificandolo come «lo spirito più cristiano del nostro secondo Risorgimento».
Il 4 febbraio 2018, nella Cattedrale di Vigevano, il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle cause dei santi, alla presenza di una nutrita partecipazione del Corpo degli alpini, lo ha proclamato Beato, definendolo un autentico «combattente» della carità.

Don Mario Bandera


PREGHIERA DEL RIBELLE

Signore
che fra gli uomini drizzasti la Tua croce,
segno di contraddizione,
che predicasti e soffristi la rivolta dello spirito contro
le perfidie e gli interessi dominanti,
la sordità inerte della massa, a noi oppressi
da un giogo oneroso e crudele che in noi
e prima di noi ha calpestato Te fonte di libere vite,
dà la forza della ribellione.

DIO
che sei Verità e Libertà, facci liberi e intensi,
alita nel nostro proposito, tendi la nostra volontà,
moltiplica le nostre forze, vestici della Tua
armatura, noi ti preghiamo, Signore.

TU
che fosti respinto, vituperato, tradito, perseguitato, crocefisso,
nell’ora delle tenebre ci sostenti la Tua vittoria;
sii nell’indulgenza viatico, nel pericolo sostegno,
conforto nell’amarezza.
Quanto più si addensa e incupisce l’avversario,
facci limpidi e diritti.
Nella tortura, serra le nostre labbra.
Spezzaci, non lasciarci piegare.
Se cadremo fa che il nostro sangue si unisca
al Tuo innocente e a quello dei nostri Morti,
a crescere al mondo giustizia e carità.

TU
che dicesti: «Io sono la Resurrezione e la Vita»,
rendi nel dolore all’Italia una vita generosa e severa.
Liberaci dalla tentazione degli affetti:
veglia Tu sulle nostre famiglie.
Sui monti ventosi e nelle catacombe della città,
dal fondo delle prigioni, noi Ti preghiamo:
sia in noi la pace che Tu solo sai dare.

DIO
della pace e degli eserciti,
Signore che porti la spada e la gioia,
ascolta la preghiera di noi,
ribelli per amore.

Teresio Olivelli




I Perdenti 36: Annalena Tonelli

Testo «intervista» di Mario Bandera a Annalena Tonelli |


Annalena Tonelli nasce a Forlì il 2 aprile 1943, terza di cinque figli. Sin dall’infanzia si sente chiamata a donarsi per gli altri, come racconta nel dicembre 2001, durante un convegno al quale è stata invitata, svolto presso l’Aula Nervi in Vaticano: «Scelsi che ero una bambina di essere per gli altri, i poveri, i sofferenti, gli abbandonati, i non amati, e così sono stata e confido di continuare fino alla fine della mia vita. Volevo seguire solo Gesù Cristo, null’altro mi interessava così fortemente: Lui e i poveri attraverso Lui».

Dopo aver frequentato il liceo classico e un anno di stage a Boston in America, si iscrive alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Bologna. Si forma nell’Azione Cattolica forlivese, nella sua parrocchia e nella Fuci (Federazione Universitaria Cattolica Italiana), della cui sezione femminile locale diviene presidente. Nel tempo libero dagli studi, organizza convegni e incontri. Grande trascinatrice, porta le amiche al brefotrofio, trasformandole in mamme di tanti bambini. Nel 1963 contribuisce in modo determinante a far nascere a Forlì il «Comitato contro la fame nel mondo». Dopo la laurea, conseguita nel 1969, desidera partire per l’India, che ha imparato a conoscere attraverso la lettura dei libri di Gandhi.
I familiari non vogliono che parta né per l’India né per altri paesi, ma lei coglie la prima occasione possibile e, dietro consiglio di un’amica, parte per Nairobi, capitale del Kenya. Proprio in terra d’Africa comincia così la sua straordinaria avventura come missionaria laica, da cui scaturisce il nostro colloquio.

Primo piano di Annalena Tonelli scattato a Boston (1961) – © Erebfan

Annalena come è stato il tuo primo impatto con la realtà africana?

Padre Giovanni De Marchi, missionario della Consolata nella diocesi di Nyeri, mi accoglie a Nairobi e con lui vado come insegnante di inglese nella Chinga Boys, una scuola secondaria fondata nel 1964 vicino a Othaya nella missione di Karema. Lì comincio a farmi le ossa, a conoscere l’ambiente e ad allargare il mio interesse verso il Nord desertico del Kenya. Più passano i mesi, più mi convinco che il mio futuro è in Africa. A un amico sacerdote scrivo: «Sono certa che alla fine scoprirò che anche la vita qui è grazia, perché tutto è grazia, se io dovunque mi trovo, vivo semplicemente, nello sforzo umile ma potente e continuamente rinnovato di imitare il Cristo».

Come si caratterizza la tua permanenza in Africa?

Nel 1970 mi faccio trasferire nella scuola governativa di Wajir, nel Nord Est del Kenya, dove padre Salvatore Baldazzi, sempre missionario della Consolata e romagnolo come me, ha appena aperto una Girls’ Town. Lì mi raggiunge la mia amica Maria Teresa Battistini e poi altre compagne. Insieme diamo vita a una piccola comunità di laiche missionarie. Ci dedichiamo in particolare ai nomadi – prevalentemente somali – del deserto, dei quali ammiro la fede semplice e l’abbandono totale in Dio.

La vostra presenza in quell’ambiente non è certamente priva di rischi.

Siamo ostacolate in diversi modi. Ci prendono a sassate e una notte i ladri non solo ci derubano ma anche ci malmenano pesantemente. Non molliamo però. Con gli aiuti che riceviamo da Forlì, fondiamo un centro di riabilitazione per disabili – non esisteva niente del genere in quel vasto territorio – e inizio anche a occuparmi dei malati di tubercolosi, tanto che riesco a mettere a punto un nuovo metodo efficace di cura (la TB manyatta) che si adatta perfettamente alla vita dei nomadi.

La situazione nel Nord del Kenya è tesa a causa della guerriglia degli Shifta e voi vi trovate coinvolte in un fatto molto grave.

Nel febbraio 1984 miliziani filogovernativi bruciano alcuni quartieri di Wajir accusando i residenti di essere sostenitori dei guerriglieri Shifta. Radunano poi migliaia di uomini nell’aeroporto di Wagalla, picchiano e torturano e il giorno 10 li cospargono di benzina e danno loro fuoco. È un massacro, anche se la maggioranza si salva togliendosi i vestiti. Alla notizia, dipingo una croce rossa sulla nostra Toyota e vado a curare i feriti, recuperare i morti e dare loro sepoltura. Per questo sono minacciata e anche picchiata. Mi salvo perché un vecchio capo musulmano locale mi difende.

Con l’aiuto di amici, mandi alle ambasciate a Nairobi le fotografie di mucchi di cadaveri e feriti per fermare l’eccidio che rischiava di estendersi.

Per tutti questi motivi veniamo espulse dal paese come «persone non gradite» e la nostra comunità di laiche missionarie deve sciogliersi.

Di fronte alla nuova situazione venutasi a creare, come reagisci?

Decido di trasferirmi in Somalia, prima a Merca e poi, nel 1996, a Borama. Lì fondo un ospedale con 250 letti, per i tubercolotici e gli ammalati di Aids, e una scuola per bambini sordi e disabili. Sono più che mai convinta che con l’istruzione si possa far evolvere la situazione economica e sociale di quella che ormai considero la mia gente.

Un bel progetto non c’è che dire.

Mi oppongo anche alla pratica delle mutilazioni genitali femminili, in questo molto appoggiata dalle donne somale. Aggiornandomi continuamente, riesco a ottenere dei diplomi a Londra e in Spagna per la cura delle malattie tropicali e della lebbra. Pur non essendo laureata in medicina, investo tutti i miei sforzi in favore dei malati e perfeziono anche la profilassi per la tubercolosi già sperimentata con la TB manyatta a Wajir. Il metodo verrà utilizzato in seguito su larga scala dall’Organizzazione mondiale della sanità.

Da dove ricavi la forza per andare avanti?

Se devo proprio essere sincera la radice che sostiene tutta la mia attività sta nella preghiera contemplativa, nella meditazione del Vangelo e nell’adorazione eucaristica, quando questa è possibile. Nei miei ritorni in Italia frequento l’eremo di Cerbaiolo, tra Toscana e Romagna, o quello di Spello, o ancora a Campello sul Clitunno. In tutta la mia vita ho sentito costantemente la tensione verso una vita più contemplativa, ma il pensiero dei miei amati somali mi spinge sempre a tornare da loro.

Con questa forza interiore impari a far fronte alle difficoltà dell’ambiente e ai rischi e pericoli quotidiani.

Anche se sono continuamente minacciata, perché bianca, donna, cristiana e non sposata, non ho mai avuto paura, e anche questa è una cosa che ho imparato giorno dopo giorno vivendo con fede la mia situazione.

Alcune volte sono stata in pericolo di vita, mi hanno sparato, picchiata, sono stata anche imprigionata, ma non ho mai avuto paura. Quando poi quel vecchio e rispettabile capo di Wajir decretò che sarei andata ugualmente in Paradiso, anche se ero un’infedele, tutti hanno accettato che io fossi l’unica cristiana residente in quel luogo.

Nella condizione singolarissima come quella da te vissuta in terra d’Africa, avrai messo a fuoco una visione più approfondita del messaggio di Gesù di Nazareth.

L’esperienza maturata vivendo in mezzo ai poveri mi ha dato la convinzione incrollabile che ciò che conta nella vita è amare, solo amare! Quando si ama, la nostra vita diventa degna di essere vissuta. Io perdo la testa per i brandelli di una umanità ferita; più gli esseri umani sono feriti, più sono maltrattati, disprezzati, senza voce, di nessun conto agli occhi del mondo, più io sento di amarli. E questo amore è tenerezza, comprensione, tolleranza, assenza di paura, audacia.

Praticamente sei sempre vissuta con i somali, in un mondo rigidamente musulmano.

Foto di Annalena Tonelli durante l’incontro tenutosi a Forlì dopo aver ricevuto a Ginevra il Nansen Refugee Award. PASQUALE BOVE/ANSA/DEF 2003

Dove ho lavorato in Africa non c’era nessun cristiano con cui poter condividere un cammino di fede. All’inizio tutto mi era contro. Ero giovane, dunque non degna né di ascolto né di rispetto. Ero bianca, dunque disprezzata da quella gente che si considerano superiori a tutti. Ero cristiana, dunque oltraggiata, rifiutata, temuta. E poi non ero sposata, un assurdo in quel mondo in cui il celibato non esiste e non è un valore, anzi è un disvalore. Solo chi mi conosce bene dice e ripete senza stancarsi che io sono somala come loro. Io mi sento madre autentica di tutti quelli che ho salvato.

Questa è certamente un’esigenza fondamentale della tua natura.

Certo io in loro vedo Lui, Gesù il Cristo, l’agnello di Dio che patisce nella sua carne i peccati del mondo. Ma il dono più straordinario, il dono per cui ringrazierò Dio e loro per sempre, è il dono dei miei nomadi del deserto. Loro musulmani mi hanno insegnato la fede, l’abbandono incondizionato, la resa a Dio, una resa che non ha nulla di fatalistico, una resa rocciosa e arroccata in Dio, una resa che è fiducia e amore. I miei nomadi del deserto mi hanno insegnato che devo fare tutto, tutto incominciare, tutto operare, tutto sperare, sempre nel nome di Dio.

Sei mai stata aiutata da altri volontari nel tuo lavoro?

Dall’Italia e da altri paesi europei arrivavano in periodi diversi dei volontari per aiutarmi: c’era chi rimaneva qualche mese, chi trascorreva un determinato periodo, come le ferie estive, ma nessuno ha mai deciso di fermarsi per qualche anno. Economicamente le opere che avevamo avviate erano sostenute da un Comitato di aiuto sorto nella mia città a Forlì, e da altre organizzazioni internazionali. Del resto, io non appartenevo a nessuna congregazione od organismo religioso o laico, mi bastava la scelta fatta nella gioia della mia gioventù, di dedicarmi a Dio e al prossimo senza etichette o simboli esteriori.

Si può dire che tu donna di poche parole, eri impegnata più ad agire che a parlare, tanto meno di te stessa.

In compenso se in Italia, al di fuori della mia città, potevo essere poco conosciuta, le somale emigrate nel nostro paese, i nomadi del Kenya, i tubercolotici della manyatta, i malati di Aids di Borama e i rifugiati del Nord Somalia, cioè gli ultimi e più sconsolati della Terra, mi facevano buona pubblicità parlando delle nostre attività non appena se ne presentava l’occasione.

Inoltre, tu credevi fermamente nel dialogo: tra le persone, le culture, tra fedi diverse.

Si, ma senza indietreggiare di un millimetro, senza dimenticare l’assoluta originalità del Vangelo. Ogni giorno noi ci adoperavamo per la pace, per la comprensione reciproca, per imparare insieme a perdonare. Sapessi come è difficile il perdono! I miei musulmani facevano tanta fatica ad apprezzarlo, ma lo chiedevano per la loro vita, riconoscevano in questo l’originalità della nostra presenza in mezzo a loro.

Il 25 giugno del 2003 Annalena Tonelli riceve dall’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati, il prestigioso premio «Nansen Refugee Award», per la sua opera a favore dei rifugiati e dei perseguitati. La sua tenace dimostrazione di amore gratuito – capace di perdonare anche chi tenta di ammazzarla – fa breccia in tante delle innumerevoli persone che Annalena accosta durante la sua avventura africana. Solo alla luce di questo si capisce come mai donne musulmane accettino che una straniera (per di più cristiana) insegni loro – ben prima che la lotta alle mutilazioni genitali diventi una bandiera delle femministe occidentali – come liberarsi da una pratica tanto antica quanto devastante per le donne. Il paradosso è che a capire in profondità il segreto di quella donna umile e tenace è proprio il vecchio capo musulmano di Wajir: «Noi musulmani abbiamo la fede – confidò una volta alla missionaria italiana -, voi l’amore».

Il 5 ottobre 2003, mentre compie l’ultimo giro tra gli ammalati del suo ospedale a Borama, Annalena viene uccisa con un colpo alla nuca, sparato da un fanatico. Ha 60 anni, dei quali 34 trascorsi in Africa tra i poveri più poveri. Per suo espresso desiderio, è sepolta a Wajir, in Kenya, dove c’è il suo primo ospedale.

Don Mario Bandera

Documentario dall’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati su Annalena in inglese.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=TgTVdj1WXKQ?feature=oembed&w=500&h=281]

Versione italiana dello stesso documentario.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=SpTCSEzDuk4?feature=oembed&w=500&h=281]

«L’UNHCR Somalia ha girato un documentario di 26 minuti, prodotto e diretto da Matt Erickson della Poet Nation Media, per celebrare il suo incredibile lavoro. É stato girato a Nairobi, Borama e Wajir. Il filmato è stato doppiato in italiano dalle ragazze e dai ragazzi della A.C.R. di Vecchiazzano Forlì».




I Perdenti 35. Ernesto Che Guevara

più mito che mai

Testo su il Che Guevara di Mario Bandera |


Ernesto Che Guevara de la Serna nasce a Rosario, città situata sul fiume Paraná in Argentina, il 14 giugno 1928, da una famiglia della media borghesia latinoamericana. Il soprannome «Che» gli viene dato negli anni trascorsi a Cuba per la sua abitudine, tipica di tutti gli abitanti nati su quel fiume e in modo particolare di quelli della baia del Rio de la Plata dove c’è Buenos Aires in Argentina e Montevideo in Uruguay, di parlare intercalando l’espressione «che» (pron. cé), paragonabile al nostro diffuso «cioè» o al tipico «né» piemontese.

Il padre, Ernesto Rafael Guevara Lynch, è un ingegnere civile, mentre la madre, Celia de la Serna, è una donna intelligente e colta, grande lettrice, appassionata soprattutto alla letteratura francese. Poiché il piccolo è sofferente d’asma, i genitori, su consiglio dei medici, si trasferiscono nei pressi di Cordoba, dove c’è un clima più mite, più adatto alla sua salute. Dopo gli studi liceali, si iscrive alla facoltà di Medicina di Buenos Aires, dove nel frattempo la sua famiglia si è trasferita. Durante il periodo universitario, con l’amico Alberto Granado compie un lungo viaggio con la moto (da lui orgogliosamente chiamata «la Poderosa») in diversi paesi dell’America Latina. Nel 1953 si laurea e due anni dopo sposa la peruviana Hilda Gadea.

Nel 1955 mentre si trova in Messico incontra una persona decisiva per il suo futuro: Fidel Castro. Dopo una notte passata a discutere animatamente della situazione sociopolitica del subcontinente latinoamericano, Castro gli propone di unirsi a lui per liberare Cuba dal dittatore Fulgencio Batista. Guevara accetta e nel novembre del 1956 organizza con Fidel e altri compagni uno sbarco a Cuba, dove negli scontri con l’esercito di Batista si rivela un coraggioso combattente e un abile stratega.

Nell’impenetrabile Sierra Maestra, grazie alla sua sapiente tattica di guerriglia, Guevara si guadagna sul campo i galloni di «Comandante». Nel 1959 una volta liberata l’isola caraibica dal regime di Batista, entra a far parte del nuovo Governo rivoluzionario, presieduto da Fidel Castro, assumendo l’incarico della ricostruzione economica di Cuba in qualità di direttore del Banco Nacional e di ministro dell’Industria.

Con molta titubanza di fronte a un personaggio così illustre e controverso, iniziamo il nostro colloquio.

Preferisci che ti chiami Ernesto, tuo nome di battesimo, oppure devo usare Che, l’appellativo con cui sei diventato famoso?

Ormai mi conoscono tutti come il Che. Pertanto, anche per me è più congeniale rispondere a questo soprannome, piuttosto che ad altri, nome personale compreso.

Allora Che, parlaci un poco della tua infanzia e della tua famiglia.

Mio papà, uomo retto e tutto di un pezzo, era completamente preso dal suo lavoro che lo teneva parecchio tempo occupato fuori casa, lontano dalla famiglia. Il suo atteggiamento mi spianò la strada affinché fin da piccolo mi affezionassi sempre più a mia mamma, la quale, ne convengo, ebbe un ruolo fondamentale nella mia formazione.

Parlaci un po’ dell’influenza che ebbe tua mamma nella tua vita.

Nel periodo che va dal 1936 al 1939, anni in cui si consumava la guerra civile di Spagna, con gli inevitabili strascichi di dolore e sofferenza sulla popolazione, mia mamma, un’attivista politica e femminista militante, atea e anticlericale, con molta pazienza mi aiutò a capire quale era la posta in gioco e quali erano le forze autoritarie che usavano le armi per negare al popolo spagnolo democrazia e libertà.

È vero che eri un lettore accanito, praticamente «onnivoro»?

Sì, è vero, leggevo di tutto. In modo particolare i saggi relativi alle problematiche dell’America Latina, di quella «Patria grande» sognata da tutti i padri della patria del sub continente latinoamericano, come Simon Bolivar, José de San Martin, Bernardo O’Higgins, Gervasio Artigas e da tutti i libertadores dei nostri popoli.

Tu sei famoso anche per un mitico viaggio che hai fatto in moto, risalendo dall’Argentina attraverso tutti i paesi dell’America Latina fino ad arrivare in Messico.

In realtà ho fatto diversi viaggi attraverso il continente. Il primo, nel 1950, insieme al mio amico Alberto Granados, visitammo il Cile, il Perù, l’Ecuador, la Colombia e il Venezuela. Ero ancora studente. Nel viaggio fummo colpiti dalla situazione di povertà degli indigeni e dei minatori in molti paesi. Venimmo anche a contatto con la realtà della lebbra e questo stimolò la nostra volontà di terminare gli studi e diventare medici. Così tornai a casa e mi laureai nel 1953 specializzandomi in allergologia.

E cominciasti a lavorare come medico.

No. Mi rimisi in viaggio e nella mia irrequieta ricerca, mentre maturavo un’avversione sempre più grande verso l’ingerenza nordamericana nell’America Latina, visitai Bolivia e Perù, e poi su, verso i paesi dell’America Centale, fino in Guatemala dove venni a contatto con diversi esuli cubani e con colei che anni dopo divenne mia moglie, Hilda Gadea. Fu anche grazie a lei che fui stimolato a leggere e studiare molto per approfondire le mie idee filo marxiste. Abbandonato il Guatemala dopo il colpo di stato militare del giugno 1954, mi recai in Messico, dove sopravvissi facendo il cronista per i Giochi panamericani del 1955. A Città del Messico tornai a frequentare i molti esuli cubani che là avevano trovato rifugio.

Se non vado errato fu proprio in quella città che conoscesti Fidel Castro.

Fu una notte memorabile quella che passai con lui. Ovviamente ne avevo sentito molto parlare. Però non avevo una grande opinione di lui. Ma quella notte mi conquistò. E decisi di entrare a far parte del suo movimento, anche solo come medico.

Quale movimento?

L’M-26-7. Ma lascia che ti spieghi. Castro era un giovane avvocato cubano, diventato uno dei leader dell’opposizione nel suo paese. Dopo che, nel marzo del 1952, Fulgenzio Batista aveva assunto il potere con un colpo di stato, Fidel aveva cercato dapprima le vie legali per farlo condannare e ritornare alla democrazia, poi, fallite quelle, aveva fondato con diversi dissidenti un movimento per farlo cadere usando tutti i mezzi, anche la violenza.

Avevano ottenuto risultati?

Nessuno. Con gli amici del movimento aveva quindi organizzato un’azione dimostrativa cercando di coinvolgere gli universitari nell’assalto di una delle caserme simbolo del potere di Batista, la Caserma Moncada. L’attacco avvenne il 26 luglio 1953. Quello fu l’evento che segnò l’inizio della rivoluzione cubana, tanto che la data dell’episodio fu poi adottata da Castro come nome del movimento che prese il potere nel 1959, M-26-7 o Movimento 26 de Julio. Ma sul piano militare fu un fallimento totale per l’improvvisazione, la faciloneria e la mancanza di armi adeguate. Il risultato fu la morte di oltre sessanta compagni, l’imprigionamento di molti altri e l’arresto dello stesso Fidel Castro.

Ma Fidel non restò in prigione a lungo.

Fidel fu condannato a morte, nonostante la sua brillante arringa nella quale disse la famosa frase: «La storia mi assolverà». Nel frattempo il dittatore Batista, su richiesta della Chiesa, aveva abolito la pena di morte, e la condanna fu commutata in 15 anni di reclusione nel penitenziario dell’Isola dei Pini.

Nel 1955, su pressione di madri di prigionieri politici e di politici, editori e intellettuali, il Congresso cubano approvò un provvedimento di amnistia. I ribelli e il loro leader furono rilasciati.

Visto però che rischiava di essere di nuovo arrestato, andò in esilio volontario in Messico, dove l’ho incontrato e mi sono appassionato alla sua causa.

Qual era il vostro piano per liberare Cuba?

Con Fidel prendemmo la decisione di sbarcare sulle spiagge di Cuba usando una vecchia nave, la Granma (la nonna). Era il 2 dicembre 1956 e noi, 82 guerriglieri ben addestrati, ci inoltrammo nel territorio montagnoso della Sierra Maestra, difficile da attraversare ma molto adatto per la lotta di guerriglia che volevamo fare contro il dittatore Batista.

La liberazione di Cuba vi tenne impegnati su diversi fronti.

Il movimento rivoluzionario messo in piedi da Fidel Castro si diffuse sempre più all’interno dell’isola coinvolgendo in maniera massiccia la popolazione rurale anche grazie all’impiego di una campagna radiofonica da me diretta. Guadagnammo sempre più consenso, sia nel contesto latinoamericano che sul piano internazionale.

Nel 1958, Batista scatenò la sua offesiva, ma il terreno montagnoso non favoriva l’esercito regolare, minato da disorganizzazione e basso morale.

Dopo molte battaglie, nell’agosto la colonna da me comandata sbaragliò gli attaccanti. Da lì in avanti, fu tutta una serie di successi, fino a quando il 2 gennaio 1959 entrai all’Avana, seguito da Castro l’8.

Liberata Cuba, nel governo che si costituì sotto la presidenza di Fidel Castro, ti furono poi assegnate responsabilità molto importanti.

Il primo incarico fu «sporco»: responsabile della prigione dove erano tenuti i fedelissimi di Batista, quelli che si erano macchiati delle colpe più gravi. Poi, dopo essere stato direttore dell’Istituto Nazionale per la Riforma Agraria e della Banca Nazionale di Cuba, fui nominato ministro dell’Industria.

Nella mia posizione girai mezzo mondo e cercai di aiutare movimenti rivoluzionari in diversi paesi. Poi, nel marzo 1965, di ritorno da un congresso ad Algeri, mi ritirai completamente, rinunciando a tutti i miei incarichi. Mandai una lettera a Castro per spiegare la mia decisione.


Il motivo di questo suo allontanarsi da Cuba rimane misterioso. Si parla di pressioni dei sovietici per liberarsi di uno che ha troppe simpatie per i Cinesi, del fatto che Castro sia geloso della sua rampante popolarità, di irrequietezza insita nel Che e tanto altro. Nel 1965 lo troviamo nell’ex Congo Belga con una spedizione cubana fallimentare a sostegno dei ribelli Simba. Dopo quella, vaga in diversi paesi e scrive libri. Nel 1967, coerente con i suoi ideali, il Che riparte per un’altra rivoluzione, quella boliviana, dove, in quell’impossibile terreno, viene tratto in agguato e ucciso dalle forze governative. Si è speculato sulla data esatta della sua morte, ma sembra certo che il Che fu assassinato l’otto ottobre di quell’anno.

Diventato in seguito un vero e proprio mito laico, un martire dei «giusti ideali», Guevara ha indubbiamente rappresentato per i giovani di tutto il mondo, un simbolo dell’impegno politico rivoluzionario, purtroppo oggi sovente svilito a semplice gadget o icona da stampare sulle magliette.

Cosa resta del mito del «Che» cinquant’anni dopo la sua morte? Perché questa icona del secolo Novecento resiste ancora?

Forse perché il «Che» rappresentò ideali di coerenza, di purezza e di coraggio disinteressato, un eroe senza macchia per l’Olimpo dei «Miti», quelli che seppero offrire la loro vita per un ideale di giustizia e di uguaglianza. E poi perché gli eroi nel nostro immaginario restano sempre giovani e belli, perché gli anni passano ma i sogni di coloro che lottano per un mondo più fraterno sono senza tempo e non tramontano mai.

Don Mario Bandera




I Perdenti, 34. Dorando Pietri: il perdente più celebre del ‘900

Testo di Mario Bandera |


Nella galleria dei personaggi che – a torto o a ragione – sono passati alla storia come dei «perdenti eccellenti» e che MC da qualche tempo sta cercando di presentare sotto una luce positiva, trova il suo posto anche Dorando Pietri, l’atleta di Reggio Emilia che alle Olimpiadi di Londra del 1908 percorse, allo stremo delle forze, l’ultimo tratto della maratona nello stadio di Wembley sostenuto da uno dei giudici di gara. L’impresa sportiva di quel giorno, che l’aveva visto come un brillante protagonista per tutto il percorso, si concluse amaramente con la squalifica del corridore emiliano per l’aiuto ricevuto nell’ultimo tratto del percorso. Nella memoria collettiva di tutti gli sportivi – non solo italiani – Dorando Pietri, è l’atleta che seppe incarnare in maniera esemplare gli ideali del marchese Pierre De Coubertin, ideatore delle moderne Olimpiadi.

Dorando Pietri – CC

Nato il 16 ottobre 1885 in una famiglia contadina della provincia di Reggio Emilia, a Correggio nella frazione di Mandrio, Dorando Pietri (morto a Sanremo il 7 febbraio 1942) per i nostri standard era «un piccoletto», essendo alto solo un metro e sessanta centimetri, come la maggior parte degli italiani di quel tempo. Fin da bambino si divertiva un mondo a correre nei campi della sua terra, come tutti i ragazzi nati nei grandi spazi della campagna. Iniziò a lavorare molto presto, probabilmente prima dei dieci anni, nella bottega di un pasticciere a Carpi, cittadina dove il padre aveva portato la famiglia e aperto un’attività commerciale, per emanciparsi – o almeno provarci – dal lavoro della terra.

Nel 1903 entrò a far parte della società sportiva di ginnastica «La Patria», i cui dirigenti, intuendone le qualità del vero campione, lo iscrissero a diverse gare podistiche regionali e nazionali.

Dorando, a distanza di oltre un secolo resti un esempio di atleta serio e meticoloso, da dove nasce questo tuo amore per la corsa?

Fin da ragazzo mi è sempre piaciuto correre, qualcuno disse che avevo un talento naturale per questa disciplina sportiva, forse per il mio fisico, forse per la storia della mia famiglia, in ogni caso tutto convergeva nel fare emergere le caratteristiche dell’atleta corridore insite nel mio animo.

È vera la storia che si racconta, che la tua voglia di correre era tanta che a una gara podistica organizzata a Carpi nel 1904, a cui partecipava Pericle Pagliani, il più celebre corridore dell’epoca, quando questi passò vicino alla tua bottega tu ti mettesti a seguirlo in abiti da lavoro fino al traguardo?

Proprio così! A quel tempo avevo 19 anni e avevo tanta voglia di correre che quando Pagliani passò vicino alla bottega dove lavoravo, mi misi a correre dietro a lui senza nemmeno togliermi il grembiule da pasticciere e riuscendo, nonostante ciò, a stargli incollato fino alla fine della gara.

I dirigenti della società sportiva «La Patria» constatando le tue qualità atletiche, ti spinsero a iscriverti a diverse gare podistiche regionali e nazionali contribuendo così a farti conoscere da un numero sempre più ampio di sportivi…

Dicevano che «avevo talento». A furia di ripeterlo a ogni manifestazione sportiva facendomi un sacco di pubblicità, in pochi anni divenne chiaro a tutti che in Italia se c’era qualcuno da battere nella corsa sulle distanze dai 5 ai 40 chilometri, quello ero io.

A quel punto si aprì anche il palcoscenico internazionale.

Infatti non ci fu molto da aspettare. Nel 1905 vinsi la 30 km di Parigi con un distacco di sei minuti sul secondo classificato; nel 1906 vinsi la maratona che mi qualificò ai giochi olimpici intermedi di Atene; nel 1907 stabilii il primato nazionale italiano dei cinquemila metri e vinsi il titolo nazionale anche sulla distanza dei venti chilometri.

La tua carriera come atleta podista continuò con una serie impressionante di vittorie che lasciò sbalordita l’Italia intera.

Quello fu un momento molto fruttuoso nella mia vita sportiva, oltre alle vittorie già ricordate, nel 1908, mi qualificai per le Olimpiadi di Londra in una gara che si tenne proprio a Carpi. Davanti alla mia gente corsi la maratona in 2 ore e 38 minuti. In Italia un tempo simile su quella distanza non l’aveva mai fatto nessuno.

Adesso parliamo delle Olimpiadi di Londra, di quella fatidica giornata del 24 luglio 1908.

Quel giorno a Londra faceva molto caldo, anche per un italiano. La corsa partì alle due e mezza del pomeriggio. Io avevo la pettorina numero 19, maglietta bianca e calzoncini rossi, all’inizio restai con il gruppo dei corridori in quanto non volevo forzare inutilmente. Seguivo una mia strategia di corsa che mi ero preparato meticolosamente nei giorni precedenti.

Sì, ma appena passasti il segnale di metà gara le cose cambiarono.

Superati i 20 chilometri, applicai un ritmo sempre più spinto alla mia andatura che mi portò a superare tutti quelli che mi stavano davanti e giunsi a riprendere l’atleta che era in testa, il sudafricano Charles Hefferon, quando mancavano meno di tre chilometri all’arrivo.

Ma pagasti a caro prezzo questo tuo sforzo.

A quel punto mi sentivo stanchissimo, ero quasi disidratato. Entrai allo stadio che quasi non riuscivo a correre dritto, barcollavo, sbagliai persino strada. Il pubblico nello stadio mi incitava a continuare, ma i giudici di gara mi fecero notare l’errore e mi fecero tornare indietro.

Non reggevi più lo sforzo e sei persino caduto sulla pista.

È vero, però con l’aiuto dei giudici di gara mi rialzai sempre. Caddi quattro volte in duecento metri prima di arrivare al traguardo, e ogni volta i giudici mi diedero una mano per rimettermi in piedi. Tagliai il traguardo in 2 ore e 54 secondi. Svenni per la quinta volta e mi portarono via in barella. Nello stesso momento entrò nello stadio l’atleta americano Johnny Hayes, che si piazzò secondo.

Eri riuscito a tagliare il traguardo per primo, quindi la maratona l’avevi vinta tu.

Si, ma la delegazione degli Stati Uniti, non appena venne a sapere quello che era successo all’interno dello stadio, con i giudici che mi avevano aiutato a terminare la gara, fece appello alla giuria per chiedere la mia eliminazione, in quanto colpevole di essere stato aiutato dai giudici di gara.

E come andò a finire?

Il reclamo venne accolto: fui squalificato e cancellato dall’ordine di arrivo della gara. La medaglia d’oro fu assegnata allo statunitense Johnny Hayes.

E nei tuoi confronti come si comportarono gli inglesi?

Il mio dramma umano commosse tutti gli spettatori dello stadio: per compensarmi della mancata medaglia olimpica, la regina Alessandra mi diede in premio una coppa d’argento dorato.

È vero che a proporre il riconoscimento reale fu lo scrittore Arthur Conan Doyle, il «papà» di Sherlock Holmes?

Doyle era presente a bordo campo per redigere la cronaca della gara per il Daily Mail. Il resoconto del giornalista-scrittore terminava con queste parole: «La grande impresa dell’italiano non potrà mai essere cancellata dagli archivi dello sport, qualunque possa essere la decisione dei giudici».

Pietri premiato dalal regina alla fine della maratona – CC

Il racconto della sfortunata impresa di Pietri fa immediatamente il giro del mondo. Dorando Pietri diviene una celebrità, in Italia e all’estero, per non avere vinto. La mancata vittoria olimpica è la chiave del successo dell’atleta emiliano: Pietri riceve presto un buon ingaggio per una serie di gare ed esibizioni negli Stati Uniti.

Il 25 novembre 1908, al Madison Square Garden di New York, va in scena la rivincita tra Pietri e Hayes. Gli spettatori sono ventimila, mentre altre diecimila persone rimangono fuori a causa dell’esaurimento dei posti. I due atleti si sfidano in pista sulla distanza della maratona, e dopo aver corso spalla a spalla per quasi tutta la gara, alla fine Pietri riesce a vincere staccando Hayes negli ultimi 500 metri, per l’immensa gioia degli immigrati italiani presenti. Anche la seconda sfida, disputata il 15 marzo 1909, viene vinta da Pietri. Durante la trasferta in America partecipa a 22 gare, vincendone 17. Rientrato in Italia nel maggio 1909 prosegue l’attività agonistica per altri due anni.

La sua ultima maratona è quella di Buenos Aires, corsa il 24 maggio 1910, nella quale Pietri chiude con il suo primato personale di 2 ore, 38 minuti, 48 secondi e 2 decimi. La gara d’addio in Italia si svolge il 3 settembre 1911 a Parma: una 15 chilometri, vinta agevolmente. Corre la sua ultima gara all’estero il 15 ottobre dello stesso anno (il giorno prima del suo 26° compleanno), a Göteborg in Svezia, concludendola con l’ennesima vittoria. Nel 1911 si ritira dall’attività agonistica e si trasferisce a Sanremo dove apre un’autorimessa e dove muore il 7 febbraio 1942, stroncato da un improvviso infarto.

Don Mario Bandera




I Perdenti 33.

Lebensborn: la fabbrica dei superuomini

Testo di Mario Bandera |


Il progetto Lebensborn (sorgente di vita) fu l’aberrante strumento della politica razziale nazista che aveva lo scopo di favorire la nascita di bambini ariani ed elevare il grado di «purezza» del popolo tedesco: esso fornì alle mamme e ai bambini «razzialmente di valore» l’assistenza necessaria per ottenere individui scientificamente selezionati dal punto di vista razziale.

L’organizzazione Lebensborn è dunque l’altra faccia della medaglia del razzismo nazista: se con il «progetto eutanasia» e con la «soluzione finale» si volevano eliminare le persone «indegne di vivere», nei Lebensborn doveva crescere la perfetta razza ariana: questa era l’idea fissa di Heinrich Himmler, il braccio destro di Hitler. Nei centri Lebensborn – diverse decine in tutto il territorio del Reich – venivano fatti nascere e crescere i figli illegittimi di soldati tedeschi. Ma in quei luoghi venivano anche portati i ragazzi, ritenuti razzialmente «adeguati», strappati alle famiglie delle zone occupate dalle truppe di Hitler per essere germanizzati e poi dati in adozione a famiglie di provata fede nazista. Il 1° gennaio del 1938 il progetto Lebensborn passa sotto la tutela dello Stato Maggiore delle SS, quindi sotto la diretta autorità di Himmler: la sede centrale fu ubicata a Monaco di Baviera, nella cui sede sarà anche conservato l’archivio anagrafico del Lebensborn, così da avere dati sempre precisi, in quanto i bambini allontanati dalle madri diventavano di «proprietà» dell’istituzione.

Di questo progetto criminale parliamo con Ingrid (personaggio di fantasia), donna del popolo norvegese passata attraverso questo calvario.

(CC BY-SA 3.0 Bundesarchiv) 1 gennaio 1943

Com’è potuta accadere una cosa simile?

Dal punto di vista dei nazisti che avevano invaso la Norvegia, il mio paese, noi ragazze eravamo prede ambite per le SS: il nostro «tasso di nordicità e purezza razziale» era ritenuto perfino superiore rispetto a quello di molte zone della Germania. Pensarono perciò che ci fossero condizioni molto favorevoli per far nascere piccoli ariani germanici del Nord.

Come si comportarono con voi le truppe di occupazione tedesche?

Essi cercarono subito di instaurare rapporti cordiali con la popolazione norvegese, specialmente con le ragazze. Già nell’aprile 1940, fra i soldati occupanti fu lanciata un’enorme campagna a favore della procreazione della pura razza ariana. Si aprirono nove cliniche di maternità per bambini i cui padri erano tedeschi e in cinque anni ne nacquero almeno 8mila (di cui 6mila nei centri Lebensborn).

E quale era il destino riservato a quelle creature?

Dopo il parto erano per lo più abbandonati dalle madri (molte volte queste erano costrette a cederli) e dati in adozione a famiglie tedesche. Quelli che rimasero nei Lebensborn divennero invece, alla fine della Seconda guerra mondiale, con la sconfitta della Germania, capri espiatori a cui far pagare i crimini e le angherie dei tedeschi.

Che vuoi dire, spiegati meglio…

Il popolo norvegese vide nei bimbi Lebensborn soltanto caratteristiche ereditarie e li indicò come i figli delle SS, quindi potenzialmente pericolosi e disumani. Molte donne che vissero il mio stesso dramma raccontarono poi storie di trattamenti crudeli subiti senza capire le motivazioni di tanto odio.

Questo dramma non è molto conosciuto in Europa, come mai?

La Norvegia insabbiò il problema per tanti anni, costringendo i figli della guerra a sopportare una serie di ingiustizie e di maltrattamenti. Alcuni di essi furono rinchiusi in orfanotrofi e in istituti psichiatrici. Altri, pur essendo stati affidati alle madri o a parenti, furono ugualmente discriminati in vario modo a scuola o sul posto di lavoro e subirono violenze fisiche e psicologiche di ogni genere, tanto che di recente un gruppo di essi ha citato in giudizio il governo norvegese per la politica discriminatoria da esso attuata nel dopoguerra verso di loro.

Neanche al processo di Norimberga si sollevò la tragedia dei bambini Lebensborn.

È vero, a Norimberga non si tenne un processo distinto per il progetto Lebensborn. Invece il 10 ottobre 1947 si aprì un processo (che durò fino al marzo del 1948) contro il «RuSHA» (Rasse und Siedlungshauptamt –  Ufficio centrale della razza e del popolamento/colonizzazione), ma la stampa vi diede scarso rilievo e il Lebensborn non fu condannato in quanto istituzione. Solo i dirigenti finirono sul banco degli imputati, ma furono condannati a pene detentive abbastanza ridotte, esclusivamente perché appartenevano a un’organizzazione criminale, ovvero le SS, non per le attività che svolsero nel Lebensborn.

Ma dopo la guerra, il «clima» nei confronti di chi aveva in un certo modo collaborato con le truppe d’invasione nazista, mutò radicalmente.

Le guerre hanno effetti contraddittori sui rapporti tra le persone. Da una parte ci sono pregiudizi tradizionali che vengono ribaltati: le donne ad esempio, occupano posti di lavoro lasciati vacanti dagli uomini impegnati al fronte. Dall’altra si inaspriscono le differenze e ci si irrigidisce nei confronti della morale sessuale femminile: dalle donne ci si aspetta che si prendano cura del focolare domestico e che rimangano fedeli ai mariti e ai fidanzati assenti. Il corpo femminile diventa suo malgrado un altro «fronte di guerra», in quanto la sessualità femminile assume un significato prioritario: essa non è più solo una questione di decenza e virtù, ma anche di onore nazionale e di sopravvivenza.

Si può dire che in queste circostanze l’intera visione della sessualità femminile viene stravolta.

La possibilità di essere madre è considerata una risorsa nazionale e dunque le relazioni tra donne del luogo e soldati nemici costituiscono una minaccia per l’intera popolazione e la donna che intrattiene tali relazioni è ritenuta colpevole non solo verso il codice tradizionale di comportamento sessuale, ma anche nei confronti della nazione.

E questo l’avete vissuto in maniera acuta proprio in Norvegia, nella vostra terra, durante l’occupazione nazista.

Dalle relazioni fra donne norvegesi e militari tedeschi vennero al mondo i così detti «figli della guerra» i quali furono immediatamente stigmatizzati due volte: non solo in quanto «bastardi», ma anche e soprattutto perché «bastardi tedeschi». La dubbia reputazione delle madri si proiettò sui figli e in maniera aberrante sulle figlie, considerate fin dall’adolescenza «disponibili», tanto che a volte esse stesse finirono per essere vittime di abusi sessuali.

Purtroppo, le cose non andarono in maniera molto diversa nel resto dell’Europa.

Se le stime dei bambini nati nelle cliniche Lebensborn si aggirano intorno ai 10mila, molti di più furono i «figli della guerra», ossia i figli illegittimi di padri tedeschi e madri autoctone, tanto che – ad esempio – per la Francia si ipotizzano oltre centomila bambini figli di tedeschi, in Danimarca oltre 5.500, in Norvegia oltre 10mila, in Olanda almeno 8mila.

Finita la guerra, tramontata l’ideologia del Lebensborn, rimase solo l’onta subita dai più deboli, a cui seguirono la negazione e la rimozione del loro dramma in tutta Europa. I bambini nati da relazioni con soldati tedeschi furono dunque circondati da silenzio, imbarazzo, vergogna, senso di colpa e condanna sociale. Considerati «gli orfani del disonore», spesso subirono abusi, rifiuti, abbandono. Molti di loro ignorarono la propria origine e così furono per sempre privati della loro vera identità.

Tutti d’altronde avevano interesse a stendere un velo di omertà: le autorità dei vari paesi per escludere ogni forma di relazione con i nemici di un tempo, proteggere i bambini da vessazioni, nascondere una vergogna nazionale e così difendere la stabilità delle famiglie che cominciavano a riunirsi. Ma anche le madri stesse che avevano bisogno di tenere nascosta la vera «disonorevole» origine dei propri figli di fronte alla società. Solo nel 1985 il ministero della Giustizia tedesco ha affermato i diritti dei bambini che vogliono conoscere i genitori biologici e ha aperto l’accesso ai documenti rimasti negli archivi statali.

Ultimamente i bambini di Lebensborn (ormai persone di una certa età) hanno trovato la forza di parlare e di rivelare le loro origini e hanno fondato un’associazione con lo scopo di fare emergere la verità storica e tutelarli di fronte alla legge. Nell’ottobre 2001, oltre 150 «figli della guerra» hanno intentato una causa contro lo stato norvegese per discriminazione, tortura, trattamento inumano e degradante. Benché la loro istanza sia stata respinta, hanno comunque ottenuto che lo stato finanzi un progetto di ricerca per fare luce, dopo decenni di silenzio, sui traumi vissuti dai «bambini tedeschi». Hanno fatto anche ricorso contro il governo norvegese alla Corte europea per i diritti dell’uomo per violazione dei diritti dei bambini.

Don Mario Bandera

 




I Perdenti 32. Carlos Paez: scelte estreme per la vita

Cile | Testo di Don Mario Bandera |


Era il 13 ottobre 1972. L’aereo sul quale viaggiava la squadra di rugby uruguayana degli Old Christians Club si schiantò sulle Ande argentine. A bordo, oltre alla squadra che si recava in Cile per una partita amichevole, c’erano anche allenatori, parenti e amici, 45 persone in tutto. Diciotto morirono subito, altre undici persero la vita pochi giorni dopo a causa delle ferite e del freddo. Sedici sopravvissero, ma furono ritrovati solo il 22 dicembre dopo una lunga sospensione delle ricerche. Il 23 ottobre infatti le autorità le interruppero dando per sicura, dopo 10 giorni in condizioni estreme, la morte degli eventuali scampati all’incidente.

La salvezza per i sopravvissuti arrivò grazie alla tenacia di alcuni di loro che si avventurarono nel freddo giù per il pendio fino all’incontro con un uomo che poi diede l’allarme per far ripartire i soccorsi, e anche grazie a una scelta estrema che dovettero fare per non morire di fame. Ce ne parla quello che allora era il più giovane tra i giocatori della squadra, Carlos Paez.


(Avvertenza: come sempre in questa rubrica, il dialogo con Carlos Paez, che oggi ha 64 anni, è immaginario, compilato sulla base delle conoscenze che si hanno degli eventi)


Carlitos, se non sbaglio, l’aereo sul quale tu viaggiavi con la tua squadra e alcuni famigliari e amici era un aereo militare, come mai?

«Negli anni Settanta l’aeronautica militare uruguayana per incrementare i propri introiti, dava in affitto alcuni dei propri aeroplani ed equipaggi per operare voli charter su diverse rotte nel Sudamerica. Il nostro era il numero 571, decollato la mattina del 12 ottobre 1972 dall’aeroporto «Carrasco» di Montevideo, in Uruguay, diretto all’aeroporto «Arturo Merino Benitez» di Santiago del Cile. A bordo si trovava l’intera squadra di rugby degli Old Christians Club del Collegio Universitario «Stella Maris» di Montevideo. Stavamo andando in Cile con allenatori, parenti e amici a disputare un incontro amichevole. L’aereo era un Fokker Fairchild FH-227D, pilotato dal tenente colonnello Dante Héctor Lagurara, sotto la supervisione del colonnello Julio César Ferradas».

Il tempo però non era dei migliori per volare.

«La nebbia fitta e le perturbazioni di quelle ore costrinsero l’aereo ad atterrare in serata all’aeroporto «El Plumerillo» di Mendoza, città argentina in cui pernottammo.

I regolamenti aeronautici argentini vietavano agli aerei militari stranieri di rimanere più di 24 ore sul territorio nazionale, sicché il giorno dopo ripartimmo. Di tornare a Montevideo non se ne parlava. Primo perché, in caso di ritorno, l’aviazione avrebbe dovuto rimborsare i biglietti, secondo perché gli stessi passeggeri non volevano annullare la tournée della squadra in Cile. Per questi motivi, ed essendo le condizioni del tempo cattive ma non tempestose, dopo aver consultato altri piloti provenienti dal Cile, fu presa la decisione di proseguire verso la destinazione».

Come avvenne l’incidente?

«La rotta di volo del Fokker era stabilita a 8.540 metri, un’altezza che non permetteva di attraversare con sufficiente sicurezza la catena delle Ande, che in quel tratto raggiungono altezze superiori ai 6.000 metri. L’aereo doveva quindi necessariamente attraversare un passaggio più basso tra i monti.

Alle 15.24 il pilota chiamò inspiegabilmente la torre di controllo di Santiago, comunicando di essere entrato nello spazio aereo cileno e di aver iniziato l’avvicinamento all’aeroporto. Fu autorizzata la discesa e a quel punto ci fù la virata fatidica che fece dirigere il velivolo dritto nel bel mezzo della Cordigliera.

Forse il pilota fu indotto in errore da un malfunzionamento degli strumenti di bordo (originato da interferenze magnetiche dovute alle perturbazioni), ma non si potrà mai sapere cosa sia realmente successo perché le apparecchiature del Fokker, che non erano state danneggiate dall’incidente, le rendemmo inutilizzabili noi superstiti nel tentativo infruttuoso di usare la radio di bordo per chiamare i soccorsi.

L’aereo iniziò la manovra di discesa mentre si trovava tra il Cerro Sosneado e il vulcano Tinguiririca. Dopo qualche minuto, incontrò una fortissima turbolenza che gli fece perdere quota. A quel punto le nuvole si erano diradate e, sia il pilota che i passeggeri si accorsero che stavano volando a pochi metri dai crinali rocciosi delle Ande.

Alle 15.31, a circa 4.200 metri di altitudine, l’aereo colpì la cima di una montagna con l’ala destra che, nell’urto, si staccò e ruotando tagliò la coda del velivolo. La coda quindi precipitò, portando con sé alcuni passeggeri. Priva di un’ala e della coda, la fusoliera precipitò. Colpì un altro spuntone roccioso perdendo anche l’ala sinistra e toccò infine terra su una ripida spianata nevosa. L’aereo scivolò lungo il pendio per circa due chilometri, perdendo gradualmente velocità fino a fermarsi».

Quel giorno era il 13 ottobre. Siete stati raggiunti dai soccorritori solo il 22 dicembre. Come vi hanno trovati?

«A bordo eravamo in 45. Diciotto morirono subito nell’impatto che spezzò in due la fusoliera. Altri undici persero la vita pochi giorni dopo per le ferite e per il freddo. Sopravvivemmo in sedici e venimmo salvati il 22 dicembre perché due di noi, Roberto Canessa e Fernando Parrado, intrapresero una marcia che durò due settimane per raggiungere il fondo valle. Dopo tanto camminare un pomeriggio essi videro un «gaucho» a cavallo dall’altra parte di un fiume e riuscirono a lanciargli un pezzo di carta avvolto intorno a un sasso nel quale spiegavano chi erano. Le ricerche che erano state interrotte due mesi prima, in quanto era escluso che in quelle condizioni qualcuno potesse sopravvivere più di qualche giorno, furono subito riprese e venimmo recuperati nei giorni seguenti».

A questo punto, Carlos, arriviamo a uno degli elementi più delicati della vostra vicenda: come riusciste a sopravvivere per 72 giorni a quasi 4000 metri sulle Ande?

«Man mano che passavano i giorni la situazione diventava sempre più disperata e ci sentivamo più debilitati. Fu in quel momento che cominciò a farsi strada un pensiero fra noi superstiti: se volevamo continuare a vivere, non avendo cibo a disposizione, dovevamo nutrirci con i corpi delle vittime del disastro. Quella era la nostra unica possibilità di sopravvivenza e, credimi, tutto ciò che noi volevamo in quei giorni era sopravvivere, sopravvivere a qualsiasi costo!».

Come prendeste la decisione?

«Avevamo una radio, quella dell’aereo, che funzionava solo in ricezione. Potevamo ascoltare ma non chiamare. La sera del 23 ottobre sentimmo che le autorità avevano deciso di interrompere le ricerche. Per loro eravamo ufficialmente morti! Ricordo che stavamo sdraiati in quel che restava della fusoliera per proteggerci dal freddo e che Fernando si alzò e disse: “Ok, allora vado a mangiarmi il pilota”. In realtà ci stavamo pensando tutti da giorni, ma nessuno aveva avuto il coraggio di rompere il tabù, di dirlo. Fernando e Roberto, che studiavano medicina, uscirono e dopo qualche minuto tornarono con dei pezzetti finissimi di carne. All’inizio fu orribile, qualcuno si rifiutò di inghiottirli».

Tra i morti c’erano i vostri amici, gli altri giocatori della squadra degli «Old Christians», e anche alcuni famigliari.

«Da quasi cinquant’anni c’è un patto che nessuno di noi ha mai violato. Non riveleremo mai con quali corpi ci nutrimmo e con quali no».

Avete mai ripensato alla vostra scelta?

«Ho ripassato nella mia mente molte volte ciò che successe in quei giorni, non faccio altro. Mi convinco sempre più che non avevamo altra scelta. Noi eravamo morti per tutti e per uscire da quella situazione dovevamo resistere a qualsiasi costo».

Che cosa avete detto ai familiari dei vostri amici che non ce l’hanno fatta?

«Niente. A volte ci vediamo, parliamo. Ma c’è un tabù che anche loro rispettano. Sapere sarebbe inutile. Posso raccontare un particolare che può aiutare a capire la nostra determinazione: tra le vittime lassù c’erano la mamma e la sorella di Fernando Parrado. Quando Fernando partì insieme a Roberto Canessa per andare a cercare qualcuno che potesse aiutarci, si avvicinò a me e mi disse: “Carlitos, se non torno a salvarti devi nutrirti anche con il corpo di mia madre e con quello di mia sorella. È il tuo compito, Carlito, almeno tu devi sopravvivere”. Ecco che cosa mi disse».

Quando siete tornati a Montevideo, vi accolsero come degli eroi. Poi, quando rivelaste la vicenda più spinosa e delicata – quella di essere sopravvissuti cibandovi di carne umana – ci fu un momento di smarrimento nell’opinione pubblica sia uruguayana che internazionale, sbaglio?

«No, non sbagli. I giornalisti ci assillavano. Era terribile. Non puoi immaginare le domande insulse che ci fecero e la morbosità che alcuni di loro avevano. Una rivista brasiliana arrivò a scrivere: “Adesso possiamo perdonare i nostri calciatori che nel 1950 allo stadio Maracanà di Rio de Janeiro, perdettero la finale mondiale contro l’Uruguay, perché ora sappiamo chi sono gli uruguayani: dei cannibali!”».

Non sarebbe stato più umano lasciarsi morire?

«Assolutamente no. Noi eravamo vivi, i nostri amici erano morti! Facendo una valutazione strettamente religiosa, papa Paolo VI al nostro ritorno ci inviò un telegramma di sostegno, mentre un editoriale dell’Osservatore Romano, l’autorevole quotidiano della Santa Sede, dava una lettura positiva del nostro comportamento, vissuto – non dimentichiamolo – in una situazione terribile e del tutto eccezionale».

Come avete fatto per l’acqua?

«Facevamo sciogliere la neve al sole sui pezzi di lamiera. In quelle settimane abbiamo inventato molti oggetti impossibili riciclando quel poco che avevamo. Siamo persino riusciti a costruire degli occhiali per proteggerci dai raggi solari con la plastica dei finestrini dell’aereo».

Grazie a che cosa vi siete salvati?

«Un miracolo? Forse, ma non solo. Penso che riuscimmo a sopravvivere perché eravamo un gruppo affiatato, una vera squadra, non solo sportiva ma anche cristiana. Pregavamo insieme ogni giorno. Il rosario era un appuntamento fisso. Eravamo tutti giovani benestanti e un po’ viziati, ma costretti a sopravvivere in una situazione estrema diventammo tutti dei veri uomini».

Nonostante siano passati tanti anni continuate a raccontare la vostra storia, non vi pesa il ricordo?

«La nostra è una vicenda esemplare e unica. Ciò che abbiamo vissuto sta a dimostrare che gli esseri umani pur di sopravvivere sono capaci di superare qualsiasi tabù. Quando ci invitarono a raccontare la nostra esperienza in diverse occasioni la gente alla fine applaudiva. Tutti si complimentavano per la nostra determinazione e la nostra voglia di vivere, che in fondo alberga nell’animo di tutti».

Carlos Paez con il suo lavoro da pubblicitario ha passato la vita a insegnare ai manager delle multinazionali che cosa vuol dire trovare motivazioni per raggiungere obiettivi impossibili in situazioni estreme. Su questi temi qualche anno fa ha partecipato negli Stati Uniti a una serie di conferenze insieme ai pompieri di New York sopravvissuti al crollo delle Torri Gemelle l’11 settembre 2001.

Il gruppo dei superstiti della tragedia delle Ande è ritornato più volte sul luogo dove si consumò il loro dramma, che nel frattempo è diventato meta di escursioni da parte di chi, attratto e affascinato da un’avventura unica e irripetibile, vuole ripercorrere quei sentieri.

Don Mario Bandera




I Perdenti 31:

Umberto Nobile, l’uomo del Polo


Testo di Mario Bandera |


Nel mese di marzo 1928 il generale della Regia Aviazione Italiana, Umberto Nobile, al comando del dirigibile Italia, ritornò sull’Artico diretto al Polo Nord con una spedizione tutta italiana due anni dopo averlo trasvolato a bordo del dirigibile Norge, in una precedente spedizione guidata dal grande esploratore norvegese Roald Amundsen. Entrambi i dirigibili erano stati progettati da Nobile e costruiti in Italia. Purtroppo la seconda impresa fu funestata da un terribile incidente, le cui cause – a parte le condizioni meternorologiche estreme – non sono mai state chiarite.

Dopo aver raggiunto il Polo Nord, il 25 maggio, nel viaggio di ritorno il dirigibile Italia perse quota e urtò con la cabina di comando la superficie ghiacciata dell’Artico: dieci uomini, tra i quali lo stesso Nobile vennero sbalzati a terra, gli altri sei rimasero prigionieri dell’involucro del dirigibile che riprese quota e scomparve nell’immensità dei ghiacciai. Non appena si diffuse la notizia, per salvare i sopravvissuti ci fu uno straordinario impegno da parte di numerosi paesi europei. Si mobilitarono piloti, marinai ed esploratori di diverse nazioni: alcuni, come lo stesso Amundsen, morirono durante le ricerche. I naufraghi resistettero con mezzi di fortuna sul pack artico per 49 giorni (solo il meternorologo svedese Finn Malmgren, perse la vita per assideramento). Il dramma di questa tragedia, testimoniato dai superstiti, ci riportano ad un’epoca storica in cui la conquista di terre sconosciute era ancora una pagina meravigliosa da scrivere sul grande libro delle esplorazioni mondiali. Nella chiacchierata che segue con il generale Umberto Nobile, comandante della spedizione, cerchiamo di capire come si svolsero i fatti.

Generale, come prima cosa, ci parli un po’ di lei…

Venni al mondo a Lauro (Avellino) il 21 gennaio 1885. Dopo gli studi classici frequentai l’Università e la Scuola d’Ingegneria di Napoli, laureandomi come ingegnere industriale meccanico, a pieni voti e con lode nel 1908. Quando scoppiò la prima Guerra Mondiale venni nominato capo delle Officine dello Stabilimento Aeronautico a Roma. In questa sede iniziai la mia sperimentazione sui dirigibili.

Allora i dirigibili avevano una maggior considerazione rispetto agli aeroplani, perché risultavano più sicuri e più capienti…

Infatti, anch’io la pensavo così, pertanto mi dedicai anima e corpo al loro studio e costruzione. Al termine della Grande Guerra, nel 1923, entrai nei ranghi della Regia Aeronautica nel Corpo Ingegneri con il grado di Tenente Colonnello e in breve tempo diventai un buon progettista, portando i dirigibili italiani all’avanguardia nella loro funzionalità.

Onore al merito, c’è da dire che la sua fama nel campo dei dirigibili si diffuse rapidamente in tutta Europa…

Infatti, fummo molto sorpresi quando il famoso esploratore norvegese Roald Amundsen, che per primo esplorò i ghiacci dell’Artico, ci contattò affinché progettassimo un dirigibile per una spedizione polare che gli stati scandinavi intendevano realizzare.

Per realizzare questo importante progetto ci fu un contatto fra voi per mettere a punto i dettagli dell’impresa?

Si certo, esso avvenne con un incontro fra noi due in Norvegia. Amundsen voleva che progettassi un dirigibile il cui involucro avesse una capienza di 19.000 metri cubi, molto leggero e compatto, adatto per una spedizione polare. Fortuna volle che da poco fosse iniziata la costruzione di un dirigibile con quelle caratteristiche, così accettai la proposta di Amundsen e mi assunsi l’incarico di fare le debite correzioni per adattarlo ad una trasvolata polare.

Dal punto di vista economico chi si accollò tutte le spese del progetto e della spedizione?

L’organizzazione finanziaria fu assunta in toto dall’Aeroclub di Norvegia, che stipulò una convenzione con il governo italiano che a sua volta metteva a disposizione i tecnici, gli operai e tutte le attrezzature necessarie per la spedizione.

In più io godevo la fama di essere un abile progettista e le Aeronavi italiane avevano una tecnologia e sicurezza tali da non temere concorrenti. L’idea di un fallimento non ci sfiorava proprio.

Quali erano gli scopi della spedizione?

Lo scopo non era solo quello di realizzare una serie di voli di esplorazione tornando alla base di partenza di volta in volta, ma quello di vagliare la possibilità di realizzare un collegamento dalle isole Svalbard allo stretto di Bering passando per il Polo. Il problema da risolvere a quei tempi era quello di capire se, nella grande regione sconosciuta tra il Polo e le coste dell’Alaska, esistesse un continente o ci fosse solo ghiaccio.

Conscio quindi delle grandi potenzialità dell’aereonautica italiana e norvegese, spinti dall’ottimo risultato ottenuto con il Norge, decideste di realizzare una spedizione tutta italiana, per arrivare dritti al Polo Nord.

Verissimo. Come sempre però le grandi imprese trovano degli oppositori tenaci. Nel nostro caso Italo Balbo, eccellente aviatore e membro di spicco del Governo fascista di Mussolini, che fin dall’inizio fu molto avverso alla spedizione. In realtà egli era molto invidioso della nostra iniziativa specialmente nell’eventualità di un successo, soprattutto perché credeva che il futuro fosse quello dell’aviazione e non dei dirigibili che considerava tecnologia sorpassata. Comunque la decisione fu presa e sia pur in mezzo a mille difficoltà demmo il via ai preparativi.

La partenza quando avvenne?

Con il dirigibile Italia salpammo dal cielo di Milano il 19 marzo 1928 con destinazione le isole Svalbard che sono la parte più settentrionale della Norvegia e le terre abitate più a Nord del pianeta dove arrivammo il 6 maggio. Dopo qualche settimana di sosta per ambientarci, il 23 maggio 1928 alle ore 4.28 con il dirigibile Italia ci dirigemmo verso il Polo Nord che sorvolammo il 24 maggio alle 00.20 circa. Vi fu subito grande festa, aprimmo il portellone e lanciammo sul Polo Nord una croce donata da Pio XI e la bandiera italiana.

Ma subito dopo avvenne l’imprevedibile…

Eravamo quasi arrivati al sicuro e ormai in vista delle Isole Svalbard quando il tempo peggiorò. Qualcuno suggerì di atterrare, ma il meternorologo svedese Malmgren ci avvertì che la tempesta sarebbe passata da lì a poche ore. Questo suo fatale errore purtroppo decreterà la tragica fine del viaggio.

Cosa successe dopo?

A causa del perdurare del cattivo tempo l’aeronave si appesantì di ghiaccio, i timoni si bloccarono e le valvole di scarico dell’idrogeno non funzionarono più. Intuita la gravità della situazione, feci subito i motori. Erano le 10.30 del 25 maggio del 1928. Dopo tre minuti il dirigibile Italia urtò la banchisa polare. Dieci dei membri dell’equipaggio furono sbalzati fuori sul ghiaccio, uno di essi morì sul colpo. Io riportai delle gravi ferite. Nello schianto la parte superiore dell’aeronave si staccò dalla cabina di comando e volò via portando con sé la maggior parte dei rifornimenti e sei membri dell’equipaggio, mai più ritrovati.

Una vera tragedia…

Fortunatamente, con l’impatto al suolo molte delle cose che erano nella navetta furono catapultate a terra. Tra queste c’erano casse di viveri, materiali vari e soprattutto la «tenda rossa», che ci servì da rifugio nelle seguenti sette settimane, e la radio da campo (dono di Guglielmo Marconi per la nostra trasvolata). All’inizio non riuscimmo a farla funzionare ma il nostro radiotelegrafista Biagi insieme al collega Troiani la ripararono egregiamente, rimettendola in funzione.

Da quel momento cominciaste a lanciare messaggi radio nell’etere nella speranza che qualcuno vi ascoltasse.

Ogni ora mandavamo un messaggio alla nave appoggio «Città di Milano» che era il nostro punto di riferimento durante la traversata artica. Ogni messaggio radio alternava in noi momenti di disperazione a momenti di euforia! 

La costanza con cui inviaste i vostri Sos alla fine fu premiata…

Nella città di Arcangelo, in Russia, ovvero a duemila Km dalla nostra tenda, un giovane radioamatore, Nicholaj Schmidt, intercettò i nostri appelli. Però, nel frattempo, era sorto un altro problema: la deriva del pack artico ci stava allontanando dalla terraferma e le nuvole non permettevano di individuare dal cielo la nostra tenda, anche se rossa.

Avevate però la percezione che il vostro dramma stesse per giungere alla fine…

Alla sera di mercoledì 6 giugno 1928, il Biagi intercettò un messaggio in cui si diceva che l’ambasciata dell’Unione Sovietica aveva consegnato al governo italiano il nostro Sos. Festeggiammo la notizia con un brindisi in onore del radioamatore russo. Inoltre captammo che il rompighiaccio russo Krassin stava partendo da Leningrado verso la zona del disastro, con a bordo un trimotore Junkers e un pilota per i voli di ricognizione.

Per venirvi a salvare ci fu una vera gara internazionale di solidarietà…

Si è vero ma non sempre con esito felice. Due aeroplani svedesi, guidati da Riiser Larsen e Lützow-Holm e partiti dalla baleniera Hobby domenica 17 giugno, vennero a cercarci. Quando li sentimmo, noi accendemmo subito un fuoco e sparammo dei razzi di segnalazione, ma fu tutto inutile, non riuscirono a vederci.

Lunedì 18 giugno 1928, alle ore 16.00 partì dalla città di Tromsö in Norvegia un aereo messo a disposizione del governo francese per i soccorsi: il Latham 47 condotto dal pilota René Guilbaud. A bordo c’era anche Roald Amundsen. Il grande esploratore norvegese, 55 anni, primo a raggiungere il Polo Sud (nel 1911-12), nonostante i contrasti avuti con me sulla spedizione del Norge, si era offerto fin da subito di partecipare alle ricerche. Purtroppo del suo volo, perso ogni contatto radio, non si è saputo più niente e con ogni probabilità si è inabissato nel grande mare del Nord.

Alla fine chi vi avvistò fu un idrovolante italiano…

Il capitano Umberto Maddalena il 20 giugno 1928 di mattino presto decollò dalla Baia dei Re, dove su ordine di Roma era ancorata la nave appoggio Città di Milano. Alle 7.35 il radiotelegrafista Biagi riuscì a stabilire un contatto radio con l’idrovolante. Le difficili condizioni atmosferiche non permettevano ai soccorritori di avvistare i naufraghi, ma Biagi riuscì a guidarli via radio fino alla posizione della tenda. Alle 8.15 percepimmo il rombo dei motori. Ma subito dopo Maddalena perse il contatto visivo. Solo dopo mezz’ora di disperata ricerca l’idrovolante riuscì di nuovo a sorvolare la nostra «tenda rossa». Vennero lanciati i primi aiuti: sei paia di scarpe, dei viveri, due barche pneumatiche, due sacchi a pelo. Alle ore 20.00 dalla «tenda rossa» inviammo un messaggio di ringraziamento: «Grazie per l’emozione che questa mattina ci avete procurata mandando su di noi i colori della Patria».

La vostra avventura stava per concludersi…

Si, sabato 23 giugno 1928 verso le ore 21.00 due aerei si avvicinarono alla «tenda rossa». Erano svedesi e avevano i pattini per atterrare sul ghiaccio. Dopo alcune prove per sondare il terreno, l’aereo al comando del capitano Lundborg finalmente atterrò. Fin dal giorno precedente avevo stabilito la lista di evacuazione in cui io ero ovviamente all’ultimo posto. Ma Lundborg fu irremovibile: «I have order to take you first» (ho l’ordine di prendere te per primo). La faccenda non mi piaceva per niente ma anche i miei compagni mi pregarono di partire subito. Mi fanno notare che a bordo della nave Città di Milano la mia collaborazione potrebbe essere di grande aiuto per organizzare i soccorsi.

E fu proprio così…

Non proprio. Una volta sulla nave appoggio fui molto limitato nei miei movimenti sia per le mie condizioni che per ordini da Roma. Fu soprattutto il capitano della nave a coordinare i soccorritori di varie nazioni. Determinante fu l’intervento della Marina Sovietica che inviò la nave rompighiaccio Krassin a recuperare i superstiti e il 12 luglio raggiunge finalmente il lastrone di ghiaccio ove i marinai russi tirarono in salvo i rimanenti uomini dell’equipaggio del dirigibile Italia, ormai allo stremo delle forze.

Martedì 31 luglio 1928, il generale Nobile e quello che restava dell’equipaggio del dirigibile arrivarono in Italia. Grandi folle si riversavano nelle stazioni dove il loro treno passava, gridando la loro ammirazione nei confronti dei membri della sfortunata spedizione al Polo Nord. Duecentomila persone li accolsero alla stazione di Roma. Nobile scoprì però che l’entusiasmo popolare non era gradito al governo fascista, verso il quale lui non aveva mai nascosto un certo scetticismo. Per volere dello stesso Mussolini venne istituita una commissione d’inchiesta tutta composta da accaniti avversari di Umberto Nobile, tra i quali – manco a dirlo – spiccava il gerarca Italo Balbo. Pochi mesi dopo la Commissione rese pubblici i suoi risultati, addossando tutta la responsabilità del disastro al Generale. La sera stessa Nobile rassegnò le proprie dimissioni all’Aeronautica rifiutando il congedo dal servizio attivo e la pensione che gli sarebbe spettata. E dopo qualche tempo andò a lavorare prima in Russia e poi negli Stati Uniti.

Con la pubblicazione di diversi libri sulla tragedia vissuta in prima persona, Nobile cercò di spiegare all’opinione pubblica italiana come fossero veramente andate le cose. Ma fu solo dopo il periodo fascista, nel 1945, che il presidente del Consiglio Ivanoe Bonomi ordinò di riesaminare il caso affidando l’incarico alla commissione superiore di avanzamento del ministero dell’Aeronautica, la quale espresse parere favorevole alla reintegrazione di Nobile col grado di maggiore-generale. Il 2 giugno 1946 Umberto Nobile venne eletto deputato all’Assemblea Costituente come indipendente del Partito Comunista Italiano. Morì a Roma
il 30 luglio 1978.

Don Mario Bandera

 




I Perdenti 30:

Ezechiele Ramin, martire della carità

Conosciuto familiarmente come «Lele» in Italia ed «Ezequiel» in Brasile, fu definito «martire della carità» da papa Giovanni Paolo II, dopo essere stato assassinato in Brasile a causa del suo impegno in favore dei piccoli agricoltori e degli indios Surui, comunità indigene situate nello stato di Rondônia (territorio parte della vasta area amazzonica brasiliana), e della loro lotta contro i latifondisti locali.

Ezechiele nasce a Padova nel 1953, in una famiglia di modeste condizioni economiche. È il quarto di sei figli. Dopo le scuole dell’obbligo, frequenta il liceo classico presso il Collegio Vescovile Barbarigo. In quel periodo incomincia a prendere coscienza degli squilibri e delle disuguaglianze presenti nel mondo. Ciò lo spinge fin dai primi anni della giovinezza ad aderire e collaborare con Mani Tese, associazione per la quale organizza diversi campi di lavoro per raccogliere fondi in sostegno di progetti di sviluppo e promozione umana.
Nel 1972 entra nell’Istituto dei missionari Comboniani, studia teologia prima allo studio teologico fiorentino di Firenze, poi a Venegono Inferiore (Va) al seminario arcivescovile di Milano e, infine, a Chicago negli Stati Uniti, dove si laurea alla Catholic Theological Union. Dopo aver fatto esperienze missionarie dapprima con un gruppo emarginato di nativi americani nel Sud Dakota e poi, per un anno, nella Bassa California in Messico, viene ordinato sacerdote il 28 settembre 1980 nella sua città natale.
Dopo l’ordinazione sacerdotale, è assegnato ad una parrocchia gestita dai comboniani a Napoli. Negli anni trascorsi in Campania partecipa in prima persona ai tragici avvenimenti del terremoto dell’Irpinia del 1980. In quei giorni si prodiga in maniera encomiabile a San Mango sul Calore in provincia di Avellino per assistere le vittime del sisma.
Nel 1981 ritorna a Napoli, dove organizza una delle prime manifestazioni non violente contro la Camorra. L’anno successivo è trasferito a Troia in provincia di Foggia dove ricopre il ruolo di animatore vocazionale per le Puglie. Nel gennaio 1984 i superiori lo inviano in Brasile, dove raggiunge la comunità dei padri Comboniani che operano in Rondônia. Dopo alcuni mesi di studio della lingua portoghese viene inviato a Cacoal, sperduta cittadina dell’Amazzonia. Preoccupato della situazione che incontrerà accetta il nuovo incarico con le parole: «Se Cristo ha bisogno di me, come posso rifiutare?».

Per la nostra chiacchierata partiamo proprio da qui: la pastorale della Chiesa brasiliana aveva bisogno di una stabile presenza missionaria nel vivo della foresta amazzonica e tu – pur essendo l’ultimo arrivato – non ti tirasti indietro…

A dire il vero un po’ di paura l’avevo, ma già che ero in ballo… e fidandomi completamente del Signore, accettai di essere inviato a Cacoal dove tra l’altro operavano da tempo altri missionari comboniani.

Che situazione incontrasti in quella realtà?

Incontrai una situazione complessa e difficile. I molti piccoli agricoltori presenti sul territorio erano oppressi, con mezzi sia legali che illegali, dai latifondisti locali. Inoltre la tribù indigena dei Surui era stata da poco costretta a diventare sedentaria dal governo brasiliano che aveva forzatamente assegnato loro della terra da coltivare, e questo nuovo modo di vivere, al quale gli indios non erano stati preparati, stava iniziando a creare dei problemi.

Tra le tue letture giovanili – se non sbaglio – un autore ti aveva particolarmente attratto: Dietrich Bonhoeffer, il teologo protestante che aveva militato nella resistenza antihitleriana. La sua testimonianza divenne un punto fermo della tua vita spirituale e di conseguenza nelle tue scelte pastorali…

Infatti le sue lettere dalla prigione, raccolte nel libro autobiografico «Resistenza e resa», erano state a lungo sul mio tavolino quando ero studente di teologia a Firenze. La categoria bonhoefferiana dell’«esistere-per-gli-altri» aveva orientato fin da allora tutte le mie scelte e quindi la prospettiva di una morte violenta era ben presente tra le possibilità del mio percorso esistenziale.

Ispirato quindi dagli insegnamenti del tuo amato maestro ti esponesti in prima persona nella lotta per la giustizia di quelle genti, tentando di persuaderli a intraprendere la strada della protesta pacifica piuttosto che quella della lotta armata, o sbaglio?

Dirò di più, ero fiero di servire una Chiesa che aveva fatto la scelta preferenziale per i poveri, che promuoveva le comunità di base e si riconosceva nella Teologia della Liberazione. Il mondo latinoamericano che mi affascinava da sempre, mi aveva completamente conquistato. Mi sentivo in sintonia con le sue angustie e le sue grandi speranze.

Dì la verità. Più ti inserivi in quella realtà, più capivi che dovevi schierarti apertamente a fianco di quelle comunità che caratterizzavano la Chiesa brasiliana di quegli anni…

Il cammino me lo avevano indicato le Comunità Ecclesiali di Base, che promuovevano la crescita integrale della persona, i senza terra che lottavano per il riconoscimento dei propri diritti e gli indios che resistevano all’invasione del loro habitat indispensabile per sopravvivere secondo la loro cultura.

Si può dire che avevi fatto tue le parole di Bonhoeffer: «Solo chi grida per salvare la vita agli ebrei può cantare il gregoriano». Solo chi alza la sua voce contro l’ingiustizia, può annunciare il Vangelo.

Denunciando le ingiustizie che si consumavano a ripetizione sulle popolazioni indigene ero consapevole di mettere a rischio la mia vita: sapevo bene che non si può difendere i poveri in Amazzonia senza avere problemi, ma capivo anche che non potevo non difenderli, avrei tradito la mia vocazione sacerdotale e missionaria.

Il 24 luglio 1985 padre Ramin, insieme a un sindacalista locale, partecipò a un incontro nella Fazenda Catuva ad Aripuanã nel vicino Mato Grosso con l’intenzione di persuadere i piccoli agricoltori lì impiegati a non prendere le armi contro i latifondisti. Al ritorno, fu vittima di un’imboscata da parte di sette sicari armati di pistola, che lo colpirono con oltre 50 proiettili. Prima di morire, riuscì a sussurrare le parole «Vi perdono». Poiché la salma di padre Ramin non poté essere recuperata dai suoi confratelli prima di 24 ore dopo l’omicidio, un gruppo di indios Surui vegliarono su di essa fino al loro arrivo. Alcuni giorni dopo il suo omicidio, papa Giovanni Paolo II definì padre Ezechiele Ramin un «martire della carità».
I missionari comboniani stanno promuovendo il riconoscimento ufficiale di Padre Ezechiele come martire (e quindi come Beato e, possibilmente, come Santo) da parte della Chiesa cattolica, anche se la comunità comboniana in Brasile sembra riluttante in quanto «per loro e per la gente che lo conosceva, padre Lele Ramin è già un santo».
Nel 1988 due degli uomini che uccisero padre Ramin, Deuzelio Goncalves Fraga e Altamiro Flauzino, furono condannati rispettivamente a 24 e 25 anni di reclusione dal tribunale di Cuiabá. Gli altri sicari non sono stati ancora identificati.
Nell’aprile 2016 è stata aperta la rogatoria presso la diocesi di Padova per la sua beatificazione e canonizzazione.

Don Mario Bandera




I Perdenti 29: Don Giuseppe Rossi, martire della carità e della libertà


Foto da archivio Marco Sonzogni

Martire della carità e della libertà, così è definito don Giuseppe Rossi, parroco della frazione di Castiglione Ossola, facente parte del Comune di Calasca – Castiglione nella provincia di Verbania. La sua figura di sacerdote e martire, s’inquadra nel fosco scenario del declino del regime fascista in Italia, in cui prese a brillare la luce della Resistenza. In quel periodo sia i partigiani, sia i nazifascisti in ritirata, negli scontri armati che ebbero, subirono rilevanti perdite. In mezzo finirono comunità innocenti decimate dalle rappresaglie, alcune di grande efferatezza come a Sant’Anna di Stazzema, Marzabotto, ecc. dove le vittime si contarono a centinaia.

In questo martirologio di donne, bambini, vecchi, bisogna includere tanti sacerdoti e parroci delle zone coinvolte, che perirono insieme ai loro fedeli che non vollero abbandonare. Cercarono anzi di difenderli invitandoli a trovar «asilo» nelle chiese, cosa che però non fermò la ferocia dei nazifascisti.

Fra tanti eroici sacerdoti e parroci, ci è caro ricordare don Giuseppe Rossi.

Egli nacque il 3 novembre 1912 a Varallo Pombia (Novara), studiò nel Seminario diocesano e fu ordinato sacerdote il 29 giugno 1937 a 25 anni. Era un prete alto e magro con occhiali rotondi, all’ordinazione scelse una frase di San Paolo come motto del suo ministero sacerdotale, che si rivelerà profetica: «Darò quanto ho, anzi darò tutto me stesso per le anime vostre».

Dopo qualche incarico come vice parroco, nel 1939 il vescovo lo nominò parroco di Castiglione Ossola. Un anno dopo, il 10 giugno 1940, l’Italia entrò in guerra a fianco della Germania di Hitler. Negli anni che seguirono don Giuseppe Rossi, come pastore e guida di quella comunità, fece quello che poteva per gli angosciati fedeli della sua parrocchia, fino all’offerta totale della sua vita.

Caro don Giuseppe, noi generazione che vive in tempi lontani dalla seconda guerra mondiale, guardando la tua fotografia vediamo un «pretino» magro e asciutto, con tanto di talare, che incarna il modello dei sacerdoti della tua epoca…

Quelli erano tempi difficili, portare la talare era normale, ma in certe circostanze significava assumere degli atteggiamenti che mettevano bene in luce da che parte si stava.

Nominato parroco di un paese di montagna in età abbastanza giovane, che iniziative prendesti quando arrivasti a Castiglione Ossola?

Cominciai a girare in bicicletta tutto il paese, visitando famiglia per famiglia, in questo modo mi accorsi subito che a causa della mancanza di generi alimentari, legata alla guerra in atto, molta gente viveva in povertà. Decisi di comprare il riso alla borsa nera per sfamare la mia gente. Mia sorella Maria cucinava diverse minestre che poi alla sera, approfittando del buio, io stesso distribuivo nelle case dei più bisognosi.

La cappelletta dove avvenne il martirio. Foto da archivio Marco Sonzogni

E a livello di azione pastorale quali furono le attività che mettesti in atto?

Organizzai l’Azione Cattolica per i ragazzi, la Conferenza di San Vincenzo per i più poveri. Con le poche risorse che riuscivo a racimolare cercavo di dare una mano alle missioni e nonostante il triste periodo della guerra mi impegnavo nell’attività catechetica. Attraverso la celebrazione della santa messa quotidiana, per quanto mi era possibile, cercavo di alimentare la speranza fra la mia gente.

Già, la guerra. Chi non l’ha vissuta non riesce a immaginare come essa ti sconvolga la vita, anche se non sei al fronte a combattere…

Infatti i giovani partiti per il servizio militare mi scrivevano lunghe lettere dai diversi fronti e io, parroco della loro comunità, rispondevo a ciascuno, cercando di far sentire la mia presenza accanto a loro assicurando la mia umile preghiera.

Dopo l’8 settembre del 1943, seguì un periodo di generale sbandamento e di grandi eventi politici e purtroppo anche tragici, molti dei giovani della Val d’Ossola, salirono sui monti dell’alta valle e si arruolarono nelle formazioni partigiane.

Il mosaico nella cappelletta. Foto da archivio Marco Sonzogni

Nell’agosto-settembre 1944 nel territorio dell’Ossola fu istituita una Repubblica partigiana. Pur avendo chiaro da che parte stare, pubblicamente non presi posizione per nessuno, anzi cercai di mantenere una condotta il più prudente possibile per non far correre inutili pericoli alla mia popolazione.

L’episcopato piemontese del resto si era espresso molto chiaramente invitando il clero a non schierarsi per nessuna delle parti in causa, ma rimanere al di sopra di esse, proprio per offrire a tutti indistintamente un servizio come «Buoni pastori».

Per questo volli essere un riferimento per tutti quegli uomini di ambo le parti che cercavano testimoni che incarnassero valori morali e religiosi per i quali valesse la pena di vivere e non morire, ma nel contempo soffrivo nel profondo del mio cuore nel vedere i sacrifici che i miei giovani facevano per conquistare la libertà e abbattere la dittatura.

In questo senso è rimasta famosa fra la tua gente una tua frase: «Chiunque bussa alla mia porta perché ha bisogno, io lo aiuto».

Ne avevo coniato un’altra che esprimeva lo stesso concetto: «Io aiuto chiunque si rivolge a me, perché per me tutti sono figli di Dio».

E il 26 febbraio 1945 fu il giorno del dolore. I partigiani furono informati che una colonna di fascisti della brigata «Muti» stava salendo la Valle Anzasca da Pieve Vergone per stabilire un presidio proprio a Calasca-Castiglione. Si appostarono sulle rocce vicino al paese. Erano in pochi, ma una strozzatura della valle dava loro un enorme vantaggio naturale.

Nell’attacco morirono due fascisti e altri 15 rimasero feriti. I partigiani si dileguarono, ma i fascisti organizzano una feroce rappresaglia, bruciando le case delle frazioni più vicine al luogo degli spari e rastrellando quanti trovano in strada per gli interrogatori. Tutti gli abitanti maschi fuggirono dal paese, mentre le donne si chiusero in casa. Alcuni parrocchiani mi invitarono a seguirli nella loro fuga, ma io non mi mossi, preferendo restare al mio posto.

I militi della «Muti», non contenti di aver bruciato case e rastrellato una cinquantina di persone fra vecchi, donne e bambini, presero anche te – il parroco – accusandoti di aver fatto suonare le campane per segnalare ai partigiani il passaggio della colonna militare.

I fermati, o meglio gli ostaggi, furono trattenuti fino a sera dopo un intero giorno di interrogatori. Stando con loro, a tutti raccomandavo di avere fiducia e calma, perché si faceva largo nella mia coscienza il pensiero che se la sarebbero presa solo con il pastore del gregge, ovvero io, loro parroco. Infatti dissi loro: «Prima di voi ci sono io. Sarò solo io a essere ammazzato».

E andò proprio così?

Verso sera fummo tutti liberati e tornammo alle nostre case e io in canonica, dove mia sorella mi scongiurava di scappare in montagna; ma non ci fu il tempo, infatti dopo pochi minuti si presentarono quattro Camicie Nere che mi arrestarono senza darmi nemmeno il tempo di infilare le scarpe e mi portarono via.

 

Don Giuseppe da quella sera sparì, lo trovarono alcune settimane dopo in un vallone sotto il paese, sepolto in una fossa che era stato costretto a scavare con le proprie mani. Il cranio gli era stato spaccato dal calcio di un fucile, aveva ricevuto una pugnalata alla schiena ed era stato finito con un colpo sparato in viso. Non si seppe mai chi lo uccise. Il comandante del presidio fascista di allora fu condannato nel 1946 per crimini di guerra, poi dopo aver chiesto perdono alla mamma di don Giuseppe e al parroco don Severino Cantonetti suo successore, scontò solo qualche anno di carcere.

A cento anni dalla sua nascita, il gesuita novarese Francesco Occhetta, in un articolo su «Civiltà Cattolica» dell’agosto 2014, che illustrava i motivi dell’apertura della sua causa di beatificazione, scrisse chiedendosi se il suo sia stato un vero martirio: la risposta è più che ovvia, in quanto la sua «testimonianza di vita evangelica» – in greco, martyrion – va ben oltre la sua drammatica esecuzione e rimanda a un modo di appartenere a Cristo nascosto nell’anonimato nonostante le crisi. La fedeltà di una promessa è portata al sacrificio di sé per la salvezza degli altri. È quanto la Scrittura riassume in un versetto: «Sii fedele fino alla morte, e ti darò la corona della vita» (Ap 2,10).

La vita di don Giuseppe Rossi, tramanda alle generazioni future la grandezza della missione sacerdotale nel cruento sacrificio del martire.

Don Mario Bandera

L’urna contenente il corpo del martire nella chiesa di Castiglione.

Don Giuseppe Rossi, un sacerdote «per tutto e per tutti»

Mons. Franco Giulio Brambilla (Vescovo di Novara, diocesi che territorialmente comprende anche tutte le Valli dell’Ossola) nella messa di chiusura dell’anno centenario della nascita di don Giuseppe Rossi, celebrata il 22/09/2013 nella sua parrocchia di montagna, con il successore don Severino Cantonetti, sacerdote quasi centenario, decano del clero novarese e intrepido custode della memoria del predecessore, si era chiesto in che cosa e perché il modello di prete incarnato da don Giuseppe Rossi fosse ancora di attualità. Aveva dato tre risposte.

Anzitutto perché «il sacerdote, che don Rossi incarnava, era “per tutto e per tutti”, egli era un prete che ha vissuto, oltre alla vicinanza, la dimensione della prossimità. La parrocchia potrà cambiare le forme, ma non dovrà mai perdere questo elemento decisivo, che caratterizzò il tempo di don Rossi: dovrà sempre essere “per tutto e per tutti”. La porta della chiesa deve avere la soglia più bassa; cioè la porta deve essere la più accessibile a tutti».

Il secondo motivo – disse Mons. Brambilla – è la cura personale verso ogni parrocchiano. Quel sacerdote modello ha fatto sì che la parrocchia tradizionale fosse anche «per ciascuno». Non era, cioè, riferita solo «al quantitativo, ma anche al qualitativo»: sapeva valorizzare la storia, la vocazione, l’intuizione di ciascuno, e curare le persone con uno sguardo personale. Don Giuseppe era un parroco che proprio grazie alla sua grande umanità ha costruito la sua storia, insieme alla storia delle famiglie della piccola porzione di terra che era chiamato a servire, il suo essere prete fu un servizio totale e gratuito alla sua gente fino all’offerta della propria vita.

Infine la terza dimensione – aveva concluso il vescovo – è quella di aver avuto a cuore «il privilegio dei poveri, quelli che hanno la vita che fa fatica ad andare avanti nelle relazioni. Le relazioni sono oggi quelle che vengono più penalizzate».

da www.diocesinovara.it




I Perdenti 28:

Sarajevo: Admira e Bosko

Admira Ismic e Bosko Brkic entrarono per caso nella cronaca di quella sporca guerra che sconvolse l’ex Jugoslavia negli anni Novanta del secolo scorso per divenire i «Giulietta e Romeo di Sarajevo». Essi furono uccisi, mano nella mano, dai cecchini serbi nella «terra di nessuno» che separava la zona musulmana da quella serba nella capitale bosniaca. Era il 19 maggio 1993, la violenza durava già da un anno. Admira era musulmana, Bosko cristiano ortodosso. Entrambi venticinquenni, erano legati da un amore intenso e sincero da quando ne avevano diciassette, nonostante l’odio etnico e confessionale presente in città.

Dopo aver resistito diverso tempo, alla fine Admira e Bosko, che abitavano nella zona musulmana insieme ai genitori di lei, avevano deciso di fuggire trasferendosi provvisoriamente nel sobborgo serbo di Grbavica, per salutare i genitori di Bosko e con l’intento di abbandonare poi la Bosnia.

I loro corpi abbracciati nei pressi del ponte di Vrbanja che unisce le sponde del torrente Miljacka, abbandonati al sole per otto giorni, perché non si riusciva a ottenere l’assenso dei belligeranti a un cessate il fuoco che ne consentisse il recupero, divennero il simbolo della tragedia bosniaca.

Una volta recuperati dai serbi, i loro corpi furono seppelliti sbrigativamente sulle colline. Soltanto tre anni dopo trovarono riposo fianco a fianco nel cimitero di Sarajevo.

Proprio di fronte alle loro tombe, al di là del muro di cinta del camposanto, c’è il caffè dove i due si erano incontrati e avevano trascorso ore sognando un amore lontano dalle bombe e dall’odio.

La loro storia continua a ricordarci come l’amore sia più forte della morte.

Bosko, come mai, mentre tutti scappavano, tu hai deciso di andare a vivere nella parte musulmana di quella città dilaniata dall’odio?

Bosko: lo decisi per stare accanto a lei, la ragazza che amavo più della mia vita. Se me ne fossi andato anche io, non so se l’avrei ritrovata al mio ritorno, e chissà quando sarebbe avvenuto un ritorno.

Tu serbo-bosniaco, tu bosniaca. Tu cristiano ortodosso, tu musulmana. Come vi siete conosciuti?

Bosko e Admira: nella maniera più semplice, comune a tanti giovani del mondo, ovvero incontrandoci in un bar della nostra città. Tra una bibita e una chiacchierata avevano cominciato una relazione d’amore molto bella benché impossibile in un paese che cominciava ad essere percorso dall’odio etnico.

E pensare che Sarajevo, comunità cosmopolita da secoli, era famosa per la sua capacità di integrare le varie componenti etniche creando le condizioni per una tolleranza che era d’esempio a molte altre città…

Bosko e Admira: fino all’inizio dei conflitti che hanno messo una contro l’altra le varie nazionalità che componevano l’ex Jugoslavia, le diverse comunità etniche erano abituate da tempo a vivere una acconto all’altra. Forse la forte personalità, anche in campo internazionale, del maresciallo Tito aveva contribuito a fare da collante in un paese sorto dalle ceneri della guerra, assemblando popoli di lingua, religione e cultura diverse.

Difatti i guai cominciarono dopo la sua morte…

Bosko e Admira: proprio così, la nostra società incubava da tempo i germi del nazionalismo e del razzismo, basati su una presunta superiorità culturale di una sola componente etnica a scapito delle altre. In un paese attraversato da una crisi economica che si trascinava da tempo, con la morte del maresciallo Tito, venuto meno l’uomo che con mano ferma aveva guidato la lotta di resistenza al nazifascismo e garantito il distacco dall’Unione Sovietica, questi germi attecchirono fra la gente, specialmente negli strati più emarginati della popolazione.

E così da modello di convivenza fra popoli diversi, la vostra terra divenne un campo di battaglia.

Bosko e Admira: la cosa che più fece impressione, fu che dall’oggi al domani nessuno più si fidava dell’altro, meno che meno se apparteneva a un gruppo etnico-religioso diverso dal proprio, cominciò a serpeggiare fra la gente una specie di ostilità verso coloro che non appartenevano al proprio «clan», e ben presto gli eserciti dei vari stati cominciarono a spararsi contro per delimitare i «propri» confini e proibire così ad altri di entrare.

Per voi una cosa del genere era inaccettabile, vero?

Bosko: sì, e per uscire da quella situazione avevo preparato tutte le carte necessarie a partire. Insieme ad Admira avevamo deciso di lasciare Sarajevo.

Vivevamo nella casa dei genitori di Admira, nel settore musulmano. Il progetto era di andare dai miei, nel quartiere serbo, stare un po’ con loro e poi finalmente partire. Ma bisognava passare il torrente Miljackail, che divide la città, passando sul ponte Vrbanja, una vera strozzatura e passaggio obbligatorio. Decidemmo di tentare il tutto per tutto, il 18 maggio 1993. Ma un cecchino mi colpì con una pallottola alla testa, ponendo fine alla mia vita. Anche Admira fu colpita, ma non morì subito. Con le ultime forze, Admira si trascinò fino a me e mi abbracciò. Restammo otto lunghi giorni in quel tragico abbraccio d’amore.

Un abbraccio pieno d’amore scambiato sulla soglia dell’eternità…

Bosko e Admira: colpiti dalla violenza cieca dei nostri compatrioti, ce ne andammo da questo mondo pieno di odio e, abbracciati come due semplici innamorati, entrammo insieme nel Regno della Pace.

Ci piace immaginare che gli Angeli e i Santi vi abbiano accolto in Paradiso con le parole conclusive del Cantico dei Cantici, dove l’amata dice all’amato: «Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio, perché forte come la morte è l’amore».

Bosko e Admira: proprio così, il Dio della tenerezza e dell’amore ci accolse fra le sue braccia e ci coprì con il mantello della sua misericordia.

 I corpi esanimi dei due moderni Giulietta e Romeo rimasero sotto il sole di maggio per otto lunghi giorni prima che una tregua concordata tra le parti belligeranti ne potesse consentire il recupero e dare loro una degna sepoltura. Alla cerimonia funebre di tre anni dopo erano presenti i membri delle due comunità, musulmani e serbo-bosniaci uniti dalla testimonianza d’amore dei loro figli.

«Se avessero avuto una visione fanatica della religione, non si sarebbero mai messi insieme», disse in quell’occasione il padre di Admira. Il loro resta un prezioso messaggio della religione dell’amore che quando è vissuta coerentemente fino in fondo sconfigge l’odio e fa trionfare sempre la pace. L’immagine dei due corpi abbracciati a terra fece il giro del mondo, e ancora oggi rappresenta un’icona dell’amore che va oltre alle differenze di razza e di religione. Un insegnamento per tutte le nazioni del mondo sempre più vittime di nazionalismi emergenti ed egoismi locali, che poi sono le stesse ragioni che hanno disintegrato lo stato jugoslavo.

La guerra è terminata da tempo e l’autodeterminazione dei popoli balcanici ha favorito la nascita di ben sei nuovi stati sovrani sul territorio della ex Jugoslavia. L’insegnamento e la testimonianza dei due giovani innamorati di Sarajevo appare oggi più significativa ed attuale che mai.

Don Mario Bandera