Un passo dopo l’altro


È uno dei cammini più conosciuti al mondo. Nel 2019, è stato percorso da 350mila pellegrini. In queste pagine, il racconto della sua nascita, tra fede e storia.

La geografia del mondo religioso, cattolico in particolare, è attraversata da una ragnatela di sentieri che uniscono luoghi significativi dal punto di vista devozionale. Nei culti asiatici, caratterizzati dal ciclo delle rinascite, questi itinerari sono circolari, non hanno inizio né fine e possono essere percorsi all’infinito. Nelle fedi monoteiste, invece, sono linee che si dirigono verso singoli punti, simboli di un cammino di fede personale che ha come obiettivo l’incontro con Dio.

Chi percorre queste strade sono i pellegrini. Nell’antica Roma, peregrinus era lo straniero, colui che non aveva cittadinanza romana. In seguito, il termine passò a identificare chi arrivava a Roma compiendo un viaggio religioso. Spesso si trattava di povera gente, senza arte né parte, ignorante e poco avvezza alle convenzioni sociali. Nel suo romanzo Il Signore degli anelli, Tolkien forgia il personaggio ideale del pellegrino: Peregrino Tuc, o Pipino. Stolto, poco perspicace (tanto da rischiare più volte di far naufragare la missione affidata a lui e alla «compagnia dell’anello»), è sempre di buon umore e pronto a sorseggiare un buon boccale di birra. L’ingenuità di Peregrino sarà l’ingrediente essenziale per superare le avversità che demoralizzano il gruppo dei protagonisti, proprio come l’ingenuità, sorretta dalla fede, era necessaria al pellegrino medievale per intraprendere un viaggio di centinaia, se non migliaia, di chilometri tra le incognite di un mondo irto di pericoli. Alla fine del suo avventuroso viaggio,
Peregrino Tuc si riscoprirà un uomo nuovo: saggio e rispettato, marito e padre di famiglia.

Questo è il senso ultimo del pellegrinaggio: l’uomo che concluderà il suo percorso non sarà mai più lo stesso uomo che lo ha iniziato.

Giacomo (Tiago) e la Spagna romana

Il mondo cristiano è percorso da fasci di sentieri che si intrecciano, si sovrappongono e si diramano e che, come capillari sanguigni, alimentano il corpo della fede. Tra questi percorsi uno dei più noti è sicuramente il Cammino di Santiago. Anzi, i Cammini di Santiago. Infatti, anche in questo caso, non è possibile parlare di un unico sentiero in termini di pellegrinaggio: il solo elemento comune è la meta finale, il locus sanctus che, nel caso di Santiago, è dedicato all’apostolo san Giacomo (Tiago, appunto), fratello di Giovanni, figlio di Zebedeo. Ambizioso e di temperamento non proprio pacato, l’apostolo è descritto dal Codex Calixtinus come «santo di mirabile forza, benedetto nel suo modo di vivere, stupefacente per le sue virtù, di grande ingegno, di brillante eloquenza».

Il Vangelo di Marco (10, 35-40) ricorda che sia lui che il fratello Giovanni chiesero al Maestro di sedere nella sua gloria alla sua destra e alla sua sinistra.

La tradizione sul santo vuole che Giacomo, dopo la Pentecoste, iniziò a predicare arrivando fino a Saragozza, in Spagna. Qui, demoralizzato per lo scarso entusiasmo con cui le genti accoglievano la Parola del Signore, si raccolse in preghiera fino a che, il 2 gennaio del 40 d.C., dall’alto di una colonna romana fatta di quarzo gli apparve la Madonna la quale, esortandolo nel continuare la sua opera evangelizzatrice, gli chiese di costruire lì un luogo di culto, oggi conosciuto come la Chiesa di Nuestra Señora del Pilar (Nostra Signora della colonna). Giacomo, rinfrancato dall’incontro miracoloso, si imbarcò a Valencia – tra il 42 e il 44 d.C. – per tornare in Giudea (l’attuale Palestina) dove, contravvenendo all’editto di Erode Agrippa I che proibiva ogni predicazione cristiana, trovò la morte per decapitazione divenendo il primo apostolo martire, come attestato anche dagli Atti degli Apostoli (12, 1-2).

Secondo la leggenda, due discepoli di Giacomo, Teodosio e
Atanasio, riuscirono a trasportare il corpo e la testa di Giacomo a Iria Flavia (oggi Padrón, in Galizia), città della provincia imperiale romana Hispania Terraconensis dove ancora oggi si trova il pedrón, la bitta alla quale ormeggiò la nave dei transfughi. Per fuggire alla persecuzione del pretore locale, Teodosio e Atanasio nascosero i resti di Giacomo a una trentina di chilometri dalla costa. Qui le reliquie furono oggetto di devozione e pellegrinaggio fino al IV secolo, quando la caduta dell’Impero romano, l’invasione dei Visigoti e gli sconvolgimenti sociali e politici che ne seguirono, fecero perdere traccia e testimonianza della tomba. Di essa rimase solo un flebile ricordo tramandato oralmente.

La Spagna sotto gli arabi

La conquista araba della Spagna dell’VIII secolo portò, soprattutto nel regno delle Asturie, a enfatizzare i valori cristiani in contrapposizione con l’avanzata musulmana. Fu in questo contesto che si elevò sopra tutti il Beato di Liébana (730-798), autore dei Commentari all’Apocalisse. I Commentari avevano una funzione apologetica, di «rivalsa» nei confronti non solo dell’islam, ma anche di quelle scuole cristiane vicine al nestorianesimo, i cui rappresentanti, dopo essere stati dichiarati eretici, avevano trovato rifugio presso la dinastia omayyade. Una di queste eresie era l’adozionismo1, a cui apparteneva anche il vescovo di Toledo, di cui Beato era il più spietato critico anche per i rapporti amichevoli da lui instaurati con i musulmani.

Nella sua crociata contro l’islam, Beato cambiò anche i paradigmi interpretativi dell’Apocalisse di Giovanni: la Bestia (in origine l’impero romano) divenne il califfato, Babilonia (in origine identificata con Roma) fu assimilata a Cordova, capitale della regione occupata dagli islamici e l’Apocalisse stessa, che annunciava la fine delle persecuzioni romane, si trasformò nell’annuncio della Reconquista.

E fu proprio nell’ottica della vittoria finale contro gli infedeli che venne rispolverato il lavoro di Isidoro di Siviglia, a sua volta mutuato dai Breviarius de Hyerosolima, in cui si testimoniava l’arrivo di Giacomo il Maggiore in Spagna. L’apostolo divenne, quindi, il santo trainante della lotta contro gli invasori arabi, tanto da essere trasformato, proprio da Beato, nel patrono della Spagna cristiana. Mancava solo una prova tangibile, che non tardò ad arrivare.

Re Alfonso II, primo pellegrino

Nell’813, Pelagio, un monaco di Solovio, seguì delle luci notturne che, come stelle cadenti, si concentravano su un luogo ben preciso nel bosco di Libredón. Seguendone la scia, assieme al suo vescovo Teodomiro, Pelagio ritrovò il sepolcro di San Giacomo e dei suoi discepoli Atanasio e Teodoro. Il Campo di stelle (campus stellae) di San Tiago divenne la Compostela di Santiago2.

Intuendo l’importanza religiosa e politica che il ritrovamento offriva al suo regno, il re delle Asturie Alfonso II lasciò la corte di Oviedo per recarsi sul Locus Sancti Jacobi e diventando così il primo pellegrino del Cammino di Santiago3.

Al tempo stesso, San Tiago si trasformò nel Matamoros, l’Ammazzamori («uccisore di Mori»). Egli, in groppa al suo destriero bianco e con la spada sguainata, guidava gli eserciti cristiani contro quelli islamici che, a loro volta, confidavano nell’Arcangelo Gabriele. L’origine di Matamoros affonda le radici nella leggendaria battaglia dell’844 combattuta a Clavijo (nella Spagna settentrionale) la cui storicità è ancora in discussione tra gli accademici. Secondo la tradizione, in quello scontro tra le truppe di Ramiro I e quelle soverchianti dell’emiro Abd al-Rahmãn II, l’apparizione di san Tiago avrebbe portato alla vittoria delle truppe cristiane su quelle musulmane.

In breve tempo, Santiago venne elevata a sede arcivescovile. Lì fu costruita la magnifica cattedrale che ancora possiamo ammirare e divenne una delle città sante del cristianesimo come Gerusalemme e Roma.

A partire dall’XI secolo, con lo sviluppo del pellegrinaggio a Compostela promosso soprattutto dai monaci cluniacensi, si vennero a creare nuovi sentieri. Nel XII secolo, Aymeric Picaud, un prete che fece il pellegrinaggio fino a Santiago, svelò il Codex Calixtinus, un volume diviso in cinque libri la cui ultima parte era una vera e propria guida per il pellegrino con i quattro itinerari «ufficiali»: la via Tolosana, quella Podense, la Lemovicense e la Turonense4.

I quattro cammini si congiungevano a Puente la Reina per proseguire verso Santiago e poi a Padrón lungo quello che verrà chiamato il Cammino francese.

L’arrivo alla cattedrale

Una volta giunti nella cattedrale di Santiago, i pellegrini ripetevano gesti che ancora oggi rimangono fissati nei rituali dei viaggiatori: entrando dal portico della Gloria appoggiano la mano sui solchi impressi nella colonna dell’Albero di Jesse per ricevere la benedizione di San Giacomo, abbracciano il suo busto posto nell’altare maggiore per salutare il compagno di cammino, rendono omaggio al sepolcro dove sono contenute le spoglie dell’apostolo assieme a quelle di Teodoro e Atanasio.

Risale al XIII secolo la nascita di un altro rito: il «botafumeiro», cioè l’uso di un incensiere che oscilla in modo spettacolare lungo la navata centrale. Il fumo prodotto dall’incenso è simbolo delle preghiere dei penitenti che si innalzano al cielo. Invece, secondo una spiegazione più prosaica, il profumo d’incenso sprigionato dal botafumeiro sarebbe servito a mitigare la puzza proveniente da pellegrini non propriamente puliti.

Il Cammino continuava fino a Padrón perché, come diceva un detto medievale, Quien va a Santiago e non a Padrón, o faz romería o non («Chi va a Santiago e non a Padrón, o fa il pellegrinaggio o non lo fa»). Al Cammino tradizionale si aggiunsero in seguito le tappe di Finisterre e di Muxia. Nella prima, è uso bruciare un capo di vestiario e farsi un bagno nelle gelide acque dell’oceano come simbolo di rinascita. Nella seconda, sorge il santuario della Virxe da Barca che ricorda la leggenda dell’apparizione della Vergine Maria su una barca di pietra che esortava San Giacomo a proseguire la sua missione in terra ispanica.

Decadenza e rinascita

Il pellegrinaggio a Compostela non era però un fatto legato alla sola spiritualità: un editto del re Ordoño il Grande (873-924) garantiva l’affrancamento dal proprio feudatario a chi dimostrava di aver compiuto il Cammino soggiornando almeno 40 giorni a Santiago. Nel XV secolo sarebbe nato l’Hospital de los Reyes Catolicos, oggi albergo di lusso, la cui funzione originaria era quella di ospitare gratuitamente i pellegrini offrendo loro cure sanitarie in caso di malanni.

In seguito, a causa della peste nera e delle guerre, nel basso medioevo il pellegrinaggio ebbe un declino che si accentuò nel XVI secolo con la Riforma protestante, la quale proibiva ogni devozione verso i santi. A fine Settecento, poi, la Rivoluzione francese diede un ulteriore colpo al culto compostelliano, già minato dal fatto che, a causa del trasferimento del sepolcro di San Giacomo a Ourense compiuto da Don Juan de Sanclemente nel XVI secolo per proteggerlo dalle incursioni dei pirati inglesi, non si aveva più la certezza che le spoglie del santo fossero ancora a Santiago o, come affermavano in molti, fossero invece andate perdute.

Solo nel 1884, con la bolla Deus Omnipotens, papa Leone XIII suffragò l’autenticità delle reliquie a seguito di una serie di studi effettuati dalla Commissione pontificia. Si doveva, però, aspettare ancora un secolo prima che il Cammino di Santiago riprendesse la sua funzione di riscoperta spirituale di massa come lo era stato nel Medioevo. Tra i tanti promotori e (ri)organizzatori del Cammino, ci fu Elías Valiña, parroco della minuscola chiesa di Santa Maria la Real nella cittadina di O Cebreiro, ricordato per lo più per aver inventato la «freccia gialla» che indica ai viandanti il percorso del sentiero. Nella chiesetta si conserva anche il calice in cui si sarebbe compiuta la conversione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo. Accanto all’altare vi è ancora la statua della Madonna con bambino che avrebbero assistito al miracolo della transustanziazione. La peculiarità di tale statua, chiamata Santa Maria la Real, è che sarebbe la raffigurazione dell’apparizione: la Madonna è scolpita mentre s’inchina in equilibrio precario verso il calice.

Ultreya

Il Cammino di Santiago, come tutti i pellegrinaggi, non darà delle risposte definitive alla propria ricerca interiore, ma sicuramente è uno sprone a cercare oltre. E «Ultreya», il saluto che i pellegrini si scambiano (oltre al più comune «Buen camino») vuole dire proprio questo: non fermarti, vai oltre. Oltre la prima curva, oltre le apparenze.

Piergiorgio Pescali

Note al testo:

  • (1) L’«adozionismo» afferma che Gesù venne adottato dal Padre dopo il battesimo nel Giordano conferendogli la natura divina.
  • (2) L’etimologia del termine «compostela» è ancora dibattuta. Oltre alla sua forma poetica più in voga («campo di stelle», in spagnolo), gli studiosi hanno ipotizzato la sua derivazione da compostum, «luogo di sepoltura» o composita «terra fertile».
  • (3) Il tragitto seguito da Alfonso II è il Cammino primitivo che congiunge Oviedo a Santiago, che oggi è possibile includere nel Cammino francese.
  • (4) Il Codex Calixtinus si chiama così in onore a papa Callisto II (ca 1060-1124), a cui si attribuiva, per un errore forse voluto, la sua stesura.




Cari Missionari


Preghiera per l’Ottobre Missionario 2018

Insieme ai giovani, portiamo il Vangelo a tutti

O Dio Padre che sei nei cieli,

con gioia e stupore ti ringraziamo perché per un’iniziativa del tuo amore preveniente ci troviamo in questo mondo. Per mezzo del Cristo, tuo dilettissimo Figlio, ci hai creati a tua immagine e ci hai rigenerati a vita nuova, rendendoci tuoi figli adottivi in virtù del dono del tuo Santo Spirito, che ci fa vivere l’entusiasmante avventura di chiamarti Papà nella Chiesa, tua famiglia. Nella fede riconosciamo che la nostra vita è una missione: attratti da te ed inviati nel mondo, ci percepiamo interiormente animati dal tuo Spirito d’amore che custodisce in noi la speranza. Ti supplichiamo umilmente: fa’ che nessuno rifiuti il tuo amore, in modo tale che cessi la povertà materiale e morale e ogni discriminazione di fratelli e sorelle.

O Cristo Gesù crocifisso e risorto,

aprendoci alla missione che tu ci affidi dicendoci: «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi», la nostra fede rimane sempre giovane. Tu dai senso alla nostra vita, tu sei la verità che ci rende liberi, il tesoro che riempie di gioia la vita, il fondamento dei nostri sogni e la forza per realizzarli. Stando con te prendiamo coscienza che il male è provocazione ad amare sempre di più. Dalla tua croce gloriosa impariamo la tua logica amorosa, l’offerta di noi stessi come annuncio del tuo Vangelo per la vita del mondo. Tu per la fede abiti nei nostri cuori e vuoi parlare e agire in noi.

Spirito Santo, anima della Chiesa,

dal battesimo dimori in noi come in un tempio.
Illumina e infiamma la mente e il cuore di ciascuno di noi, rendendoci missionari del Vangelo nel mondo
intero. Ti ringraziamo per il dono di coloro
che ci hanno trasmesso la fede con la vita e la parola, testimoniando la perenne vitalità del Vangelo.

O Maria, Regina degli Apostoli e madre e modello della Chiesa,

prega per noi perché in fretta raggiungiamo gli ambienti umani, culturali e religiosi ancora estranei al Vangelo di Gesù vivente nella Chiesa. Aiutaci a donarci nella vocazione che ci è stata regalata dal Creatore, seguendo il tuo Figlio Gesù. Insegnaci a metterci il grembiule per servire i più piccoli, promuovendo la dignità umana e testimoniando la gioia di amare e di essere cristiani. Ricordaci che molta gente ha bisogno di noi, che Cristo conta su di noi, chiamandoci incessantemente ad essere suoi discepoli missionari, sempre più appassionati per il suo Regno.
San Francesco Saverio, Santa Teresa del Gesù
Bambino, Beato Paolo Manna, intercedete per noi e accompagnateci sempre.
Amen. Alleluia!

don Francesco Dell’Orco
di Bisceglie (BT), 02/08/2018

Ha ragione Salvini?

Cari Missionari,
ve la prendete se dico che, almeno in una cosa, Salvini ha ragione? Non è meglio se i coniugati che hanno figli vengano chiamati padre e madre, anziché genitore uno e genitore due?

Mario Zumpanesi
12/08/2018

Caro Mario,
dal mio povero punto di vista non credo ci sia bisogno di scomodare Salvini per dire che un bambino/a ha un padre (maschio) e una madre (femmina) e non genitore 1 e/o 2. Lo dice la natura stessa, la nostra specie. Tanto più che essa è una realtà con paladini più credibili di un ministro che governa (o fa campagna elettorale perenne) twittando.

Primo, c’è una tradizione dell’umanità che va avanti da qualche migliaio di anni ed è condivisa dalle culture più disparate. E questo è «civiltà», come avrebbe scritto Giovannino Guareschi che definiva «progresso» la «tornilette vicino alla stanza dove mangi e dormi», e «civiltà» il «cesso fuori da dove vivi» (come era un tempo nella sua Bassa).

Poi c’è una solida tradizione biblica e cristiana. È vero, il Vangelo non ha norme su come devono essere scritti e formulati i documenti dello stato, e quindi è legittimo che questo usi le diciture che preferisce. Ma se si vuole essere davvero inclusivi e rispettare tutti i credi e le opinioni, perché imporre a tutti quel «genitore 1 e 2» che, se rispetta una minoranza, insulta invece una grande maggioranza?

Da ultimo. Uno stato può e deve legiferare su aborto, divorzio, unioni omosessuali, gender, utero in affitto e via dicendo, ma per un credente l’aborto rimane un omicidio, il matrimonio è per la vita, l’unione tra due persone dello stesso sesso non è matrimonio, l’utero in affitto non è accettabile (vedi a pag. 62) così come la sperimentazione genetica sui feti, un bambino/a nasce dall’incontro tra uno spermatozoo di un maschio e l’ovulo di una femmina, eccetera. Benvenga la modifica dei documenti twittata da Salvini, purché mantenga uno spazio di rispetto per chi la pensa in modo diverso e non sia un’imposizione ideologica.

Dissentire da Gesualdi

Gent.mo padre Gigi,
seguo da anni la rivista e apprezzo molti articoli, devo però dissentire su molte cose scritte negli articoli di Francesco Gesualdi.

Ad esempio, nell’articolo di giugno appare che tanti problemi siano dovuti alla mancanza di sovranità monetaria degli stati. Quando si afferma che «la moneta unica ha prodotto risultati disastrosi», forse sarà pur vero in qualche caso (ha tolto terreno agli speculatori), ma è innegabile che i risultati positivi sono stati di gran lunga maggiori. Ma se la Grecia o l’Italia non avessero avuto una stabilità monetaria cosa sarebbe successo?

Come sarebbero stati gli interessi che si sarebbero dovuti pagare, senza l’euro, a chi ha prestato capitali (usati per politiche demagogiche come mandare in pensione statali con soli 15 anni di lavoro o dare invalidità a tanti che non ne avevano diritto)? Ma si è certi che bastava stampare altra lira per azzerare il debito? Il default dell’Italia sarebbe stato meglio?

Il vero problema è la mancanza di una politica comune (fiscale, economica, estera) e l’esistenza di tanti egoismi locali e nazionali. Ripeto: il problema non è la mancanza di sovranità monetaria.

Quando si fa riferimento a Keynes, come esempio da seguire si dimentica che sono passati 90 anni, che il mondo è cambiato, le distanze si sono enormemente accorciate; alcuni stati (europei e non solo) hanno bilanci inferiori a quelli di alcune multinazionali. Non si può tornare indietro … «Piccolo è bello», slogan in voga negli anni ‘80-’90 ha dimostrato che è un’illusione chiudersi nel proprio piccolo, nazione o gruppo.

Comunque, continuerò a leggere Missioni Consolata e quando leggerò gli articoli di Gesualdi scuoterò sconsolato la testa.

Antonio Borello
20/07/2018

Caro signor Antonio,
quanto Francesco Gesualdi scrive con competenza e passione, non è Vangelo. È un contributo alla comprensione di una realtà – come quella economica – estremamente complessa e sempre più fuori dal controllo non solo di noi gente comune, ma a volte anche dei governi.

È vero che ci fa più piacere leggere cose che confermano quello che già pensiamo, ma confrontarci con chi la pensa diversamente da noi ci arricchisce e ci può invogliare ad approfondire di più e conoscere meglio.

La logica di questa rivista non è quella dei social: riscuotere il più alto numero di «mi piace». Non cerchiamo il consenso, ma crediamo nel cuore e nell’intelligenza dei nostri lettori di cui rispettiamo fino in fondo la libertà di pensiero e di opinione.

Spezzare la catena

La rete che fa partire i migranti africani, cioè quelli che si fermano in Libia, ce l’hanno descritta più volte: ci sono quelli che girano nei paesi per convincere le persone a partire e poi le vendono a una lunga catena di intermediari in tutti i paesi attraversati. Vengono bloccate e torturate fin quando non arrivano altri soldi, e poi l’ultima sanguinosa estorsione avviene in Libia, che magari prende soldi italiani per rubarci su costruendo lager, e altri ancora li estorce dai poveretti per lasciarli imbarcare.

Non potrebbero giornalisti coraggiosi, magari assumendo informazioni dai missionari, descrivere bene questa catena (in cui, a occhio, c’entrano molti stati ex francesi e ora comunque collegati con la Francia che tanto strilla per non riceverli) e l’Italia occuparsi di diffondere queste informazioni su tutte le reti possibili, in modo che arrivino nei paesi d’origine dei migranti?

Claudio Bellavita
04/07/2018

Il problema è grande. Ci sono Ong, associazioni e chiese che si impegnano in questo campo. Pensi solo alla rete «Talitha Kum» creata da tante suore nel mondo che stanno lottando contro la tratta di persone. Oppure alle attività di cui abbiamo scritto a proposito del Niger (MC 3 e 4/2018) o del soccorso in mare (dossier MC 1-2/2018). Quanto alle responsabilità, quella francese è fuori discussione, visto la politica colonialista passata e recente. Ma neanche noi italiani possiamo ritenerci del tutto innocenti: Libia, Eritrea, Somalia ed Etiopia sono nostre ex colonie e il nostro colonialismo non è stato «più buono» di quello inglese, francese o tedesco.

Crollo di una diga in Laos

Spero che la tragedia del 24 luglio, quando il crollo di una colossale diga ha provocato la morte di oltre cento persone e la scomparsa di decine di villaggi nel Sud del Laos, convinca i governanti che il Mekong, più che un gigante pericoloso da imbrigliare con costosissime operazioni di ingegneria idraulica, è un fiume che dovrebbe essere amato, capito e valorizzato per quello che è, ovvero un patrimonio di eccezionale valore biologico, naturalistico e paesaggistico.

Spero che i professionisti dell’informazione facciano del loro meglio per ricordare a tutti che la tutela del Laos e della sua natura è di cruciale importanza per la conservazione degli equilibri ecologici e climatici nella regione del Sudest Asiatico e non solo.

Ave Baldassarretti
12/08/2018

I disastri non risparmiano alcun angolo del mondo. Ma non dovremmo aver bisogno di terremoti, inondazioni, incendi, tsunami ed eruzioni per «custodire il creato». Papa Francesco, nell’enciclica «Laudato si’», ci ha ricordato con forza e chiarezza la nostra responsabilità. Ma come è difficile per tutti cambiare e smettere di comportarci da «padroni» e diventare invece «custodi» e «giardinieri» del mondo.

Cammino verso Czestochowa

«Se vogliamo conoscere il cuore dei polacchi, occorre venire qui a Czestochowa al santuario della Madonna Nera. Bisogna ascoltare in questo luogo l’eco della vita dell’intero popolo vicino al cuore della sua Madre e Regina».

Pellegrinaggio 2018 alla Madonna di Czestochowa con i giovani dei Missionari della Consolata

Queste parole pronunciate da Giovanni Paolo II esprimono bene quel rapporto tra il santuario di Czestochowa e la vita di milioni di fedeli. La prospettiva migliore per capire tutto questo è di partecipare a uno dei numerosi pellegrinaggi che a piedi da ogni parte del paese d’estate si dirigono qui. Si contano ogni anno circa 250mila pellegrini provenienti da tutte le 41 diocesi polacche.

La tradizione dei pellegrinaggi al santuario della Madonna Nera è antica. I primi gruppi documentati risalgono al
XVII sec. Nel settembre del 1626 un gruppo di 80 fedeli partì da Gliwice diretto a Czestochowa per onorare un voto di ringraziamento alla Madonna per aver salvato la città dall’assedio dell’esercito danese. Il voto impegnava i cittadini a recarsi lì ogni anno per ringraziare e far memoria dell’evento.

Pochi anni dopo nel 1637 anche i fedeli della città di Kalisz iniziarono a recarsi a piedi al santuario e, cosa singolare, a fare a piedi anche il ritorno. Nel 1771, il 6 agosto, anche i varsaviani come voto di ringraziamento alla Madonna per aver salvato la città dalla peste inziarono a pellegrinare verso il santuario. Questi primi gruppi iniziarono una tradizione ininterrotta che si è sviluppata grandemente e ancora oggi dopo diversi secoli resiste nel tempo.

Dalla sola città di Varsavia partono ogni estate almeno cinque pellegrinaggi a piedi, tra questi quello organizzato dalla Pastorale universitaria dell’Arcidiocesi che ha sede nell’antica chiesa di sant’Anna, nel centro della città. Vi partecipano mediamente 4mila giovani e famiglie divisi in 19 gruppi. Uno di questi gruppi, quello argento, lo guidiamo noi missionari della Consolata. Infatti, fin dal nostro arrivo in Polonia nel 2008 ogni anno partecipiamo al pellegrinaggio con questo gruppo.

Il percorso è di circa 300 km diviso in 10 giorni dal 5 al 14 agosto. La giornata inizia con la sveglia all’alba. Dopo essersi preparati, aver ripiegato la tenda o aver sistemato il sacco a pelo usato nel fienile di qualche contadino, i pellegrini sono pronti ad affrontare la lunga giornata. Ogni due ore circa si fa una sosta nei pressi di una parrocchia che organizza l’accoglienza. Il parroco benedice con l’acqua santa i gruppi che arrivano, mentre i parrocchiani ristorano gli affaticati pellegrini con panini e bevande. In cambio ricevono riconoscenza e tante preghiere. Il programma spirituale è intenso. Ogni giorno, in una cornice di canti gioiosi, vengono fatte conferenze dai sacerdoti, preghiere tradizionali, il rosario, la Corona alla divina misericordia e, come momento culminante, la S. Messa. Alla sera ci si saluta con un momento di ringraziamento in gruppo e un canto mariano. Ogni giorno si fa esperienza dell’ospitalità presso famiglie semplici di villaggi che condividono quello che hanno. Forniscono un po’ di acqua per lavarsi dopo la calda giornata, rendono accessibile il fienile per sistemare i sacchi a pelo e trascorrere la notte oppure i propri giardini su cui montare le tende e passare qualche ora di riposo notturno indispensabile per riprendere un po’ di forza e ripartire il giorno dopo.

Il clima che si crea tra i pellegrini è di grande fraternità e di gioia. Una gioia che umanamente è difficile scorgere in una esperienza obiettivamente faticosa. Eppure, ogni partecipante vive una forza interiore che lo sorregge e incoraggia. Questa forza, lo crediamo, ci è data da Colei verso cui e per cui camminiamo offrendole le fatiche e tantissime intenzioni di preghiera.

Il nostro gruppo in mezzo agli altri si distingue per la caratteristica missionaria. La nostra presenza internazionale vuole essere un segno della universalità della nostra fede vissuta nella fraternità. Spesso invitiamo confratelli e amici da altri paesi che arricchiscono le giornate con i loro racconti e testimonianze.

In una cultura occidentale che propone all’uomo moderno una tecnologizzazione globale, spesso anonima, che esclude le distanze e gli incontri reali così come ogni forma di sacro, il pellegrinare a piedi ha ancora un suo significato prezioso: ridare all’uomo il giusto orientamento per il quale è nato, quello del camminare con altri condividendo una forte esperienza di fede. Per questo andare a piedi percorrendo centinaia di chilometri ha un suo senso e le persone che vi partecipano lo testimoniano con convinzione.

padre Luca Bovio
Czestochowa, 17/08/2018

Grazie, Asante sana

Ringrazio Dio per avermi aiutata a concludere gli studi e a diventare una maestra. Lo ringrazio perché l’aiuto di tante persone che neppure conosco mi ha permesso di arrivare a questo punto e superare tutte le difficoltà. Grazie per esserci stati per me quando avevo più bisogno di voi.

Catherine Smaila
Maralal, Kenya

Con queste parole Smaila [o Smiler) ha voluto ringraziare tutte le persone che hanno contribuito alla  sua educazione dalla scuola elementare fino al completamento dei suoi studi al Teacher’s College.

Vi avevo raccontato la storia di Colei-che-ride tanti anni fa, era il dicembre 2009, proprio sulle pagine di questa rivista. «Colei-che-ride non ride più» avevo scritto.

Ma oggi Smaila è tornata a sorridere grazie all’aiuto di tanti amici che mi hanno permesso di aiutarla nei lunghi anni di scuola. Con lei e con tanti altri bambini e bambine che hanno concluso il loro ciclo di studi o stanno ancora studiando, vi ringarzio anch’io di cuore. Il «sostegno a distanza» è un’avventura lunga e impegnativa, ma la gioia che dà è grande. Che il Signore ricompensi ciascuno di voi per la pazienza e l’affetto con cui aiutate noi missionari a restituire il sorriso e la speranza a tante persone in situazione di grande povertà e sofferenza.