Noi e Voi, lettori e missionari in dialogo

Racconto delle nozze di Cana

Carissimo padre Gigi, direttore di MC,
ho terminato ora la lettura/meditazione del commento al brano evangelico del «racconto delle nozze di Cana» meravigliosamente spiegato dal sacerdote biblista Paolo Farinella, che voi con grande lungimiranza avete pubblicato sulla rivista Missioni Consolata in 38 puntate dal febbraio 2009 al febbraio 2013. Una lettura impegnativa, ma molto interessate e coinvolgente.

La meticolosa indagine mi ha «costretto» a calarmi nell’analisi fin nel profondo, sviscerando tutte le sfaccettature mai nemmeno ipotizzate e intuite, a scoprire i significati più nascosti e reconditi di un racconto di «soli» undici versetti. Una passeggiata che da tempo volevo intraprendere, ma avrei voluto effettuare solo dopo aver raccolto e messo assieme tutte le puntate pubblicate così d’avere un testo uniforme e scorrevole senza interruzioni lunghe un mese che avrebbero potuto fiaccare sia la mia memoria che la mia costanza. Grazie alla tua grande disponibilità ad aiutarmi a raccogliere e comporre tutto questo materiale, ho avuto la spinta necessaria per continuare in questo tuo grande lavoro e così ho potuto immergermi, naturalmente un po’ al giorno, nella lettura delle stupende pagine che don Farinella ci aveva gentilmente concesso.

Un grazie a Missioni Consolata per questo grande regalo e a te che essendo il direttore ne hai reso possibile la realizzazione. Il Vangelo raccontato da Giovanni rimane per noi, poveri tapini, un cibo difficile da digerire se non a piccoli bocconi, magari premasticati, come in natura fanno le madri per nutrire i propri piccoli ancora implumi e inconsciamente incapaci di cibarsi. L’importante in tutto questo è trovare la persona giusta che ti serva un piatto con il cibo sminuzzato, digeribile e allettante per te. Impresa non facile, ma in questo caso, e per me, di sicuro riuscita. Grazie ancora e speriamo di poter presto intraprendere un’altra «avventura» alla scoperta di un libro, il Vangelo e la Bibbia in generale, spesso letto e interpretato «alla nostra maniera» in modo superficiale e tradizionale senza riuscire a coglierne il profondo significato e il singolare messaggio nascosto ai più.

Giacomo Fanetti, 27/02/2024

Grazie a te per lo stimolo e l’aiuto che mi hai dato nel raccogliere tutte le 38 puntate di quel lungo cammino. Ora il testo è disponibile per tutti sul nostro sito in pdf, ben 240 pagine da leggere online o scaricare sul proprio computer. Voglio anche ringraziare di cuore don Paolo Farinella che ha dato il suo consenso all’operazione. Una fruttuosa lettura a tutti.

Un milione di firme per fermare la violenza alle frontiere dell’Europa

Stop border violence: entro il 10 luglio occorre raggiungere un milione di firme dai cittadini di almeno sette paesi dell’unione per chiedere alla Commissione Ue una nuova legislazione per un trattamento più giusto e umano dei migranti e rifugiati sia in Europa che alle sue frontiere. Questo è il senso di una proposta lanciata dal basso.

«L’Unione europea si fonda sui valori indivisibili e universali della dignità umana, della libertà, dell’uguaglianza e della solidarietà», così il preambolo della Carta dei diritti fondamentali.

L’Iniziativa dei cittadini europei (Ice) denominata «Art. 4: Stop tortura e trattamenti disumani alle frontiere d’Europa», prende il via dall’assunto enunciato nell’articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali, in cui si afferma che nessuna persona «può essere sottoposta a tortura, né a trattamenti disumani e degradanti», quotidianamente violato lungo le frontiere di tutto il continente e non solo.

L’obiettivo della campagna Stop border violence, che ha avuto inizio lo scorso 10 luglio e si concluderà allo scadere dell’anno il 10 luglio 2024, è quello di arrivare a un milione di firme per chiedere alla Commissione Ue una nuova legislazione che preveda misure concrete per contrastare e prevenire violenze e torture contro migranti e rifugiati in Europa e alle frontiere.

Per raggiungere l’obiettivo è però indispensabile che ci sia non solo un milione di firme, ma che questo milione sia l’espressione della volontà dei cittadini di almeno sette paesi europei differenti. Un obiettivo non facile per una campagna che non ha finanziamenti, né una organizzazione di riferimento, essendo portata avanti da attivisti che da tutta Italia e da alcuni paesi Ue, si sono messi in rete coordinandosi spontaneamente. L’iniziativa rischia di non arrivare alla meta se le realtà della società civile e religiosa, del grande associazionismo, dei sindacati, della politica e della stampa, non ne supporteranno attivamente la diffusione e la promozione.

Cosa si chiede in particolare al Parlamento europeo?

La tutela delle persone igranti o richiedenti asilo:

  • all’ingresso dello spazio comune europeo attraverso la regolamentazione dell’attività di controllo delle frontiere con la previsione di sanzioni specifiche per i paesi che violino apertamente il divieto dell’uso della violenza;
  • all’interno di paesi terzi, fuori dalla Ue, nell’ambito di operazioni volte alla cosiddetta «esternalizzazione delle frontiere» europee, attraverso la previsione di sanzioni specifiche per i paesi membri che concludano accordi che non prevedano il controllo del rispetto dell’articolo 4;
  • nella definizione degli standard di accoglienza all’interno dello spazio dei paesi europei per tutto il periodo di permanenza sul territorio attraverso la previsione di sanzioni specifiche per i Paesi che si rendano protagonisti con i propri organismi e/o le proprie forze dell’ordine di violazioni dei diritti delle persone migranti o richiedenti asilo.

Durante i prossimi mesi, a poca distanza dalla chiusura della campagna, in tutta Italia saranno allestiti banchetti per la raccolta delle firme in numerose città ed organizzati eventi e dibattiti.

È importante la partecipazione quanto più ampia possibile di tutti i cittadini e le cittadine che credono nella possibilità di un cambiamento attraverso il loro attivo coinvolgimento divenendo protagonisti di un processo di pace tanto necessario e invocato ma che può concretizzarsi solo a partire dal riconoscimento pieno dei diritti di tutti, piuttosto che dei privilegi di pochi.

L’interesse incontrato fino a ora ci conferma che il momento sia maturo per utilizzare questo strumento democratico.

di Anna Bellamacina, 14/03/2024 su Citta Nuova

Questa rivista fa sua la campagna in coerenza con il mondo missionario di cui è portavoce, un mondo che è a diretto contatto con le sofferenze di chi è vittima di guerre, ingiustizie, dittature, sopraffazioni, invasioni di terre, disastri climatici e scontri tribali (spesso alimentati ad arte per permettere lo sfruttamento incontrollato di risorse minerarie o energetiche).

Link diretto per firmare: https://eci.ec.europa.eu/032/public/#/screen/home
Per adesione e informazioni: stopborderviolence@gmail.com


Il Papa a Verona

La giornata di sabato 18 maggio sarà una grande festa della Chiesa di Verona nella vigilia di Pentecoste e un incontro tra papa Francesco e la città scaligera sul tema «Giustizia e pace si baceranno».

Il programma

Come anticipato, la giornata inizierà con la festa in piazza san Zeno, rivolta a bambini e ragazzi fino alla terza media, alle scuole e all’associazionismo dei ragazzi: sarà anche il momento dell’accoglienza di papa Francesco. In particolare, per i ragazzi di terza media questo incontro sarà l’inizio della «Festa del passaggio» che durerà tutto il giorno.

Il secondo appuntamento per il Pontefice sarà all’interno della basilica di san Zeno con un momento di dialogo e preghiera, nei pressi delle spoglie del patrono, riservato a preti, diaconi, consacrati e consacrate.

Di lì è poi previsto il trasferiento in Arena per partecipare ad una parte dell’evento «Arena di pace 2024» che si svolgerà nell’anfiteatro cittadino dalle 9 alle 13.

Successivamente, il Pontefice si sposterà alla casa circondariale di Montorio, per l’incontro con i detenuti, la polizia penitenziaria, i familiari, la cappellania, i volontari e tutti coloro che compongono questo mondo in cui, come ha sottolineato il vescovo Domenico, «sembra che regni il silenzio», mentre in realtà spesso salgono grida, speranze e lacrime, rispetto alle quali la società tace e si dimostra indifferente.

Culmine della giornata sarà la messa di Pentecoste allo Stadio Bentegodi che papa Francesco presiederà alle 16; sarà anticipata dalla festa dei giovani con musica, riflessioni, testimonianze, a partire dalle 14.

Ufficio stampa diocesi
 di Verona, 04/02/2024

Sessantesimo di sacerdozio

Padre Giovanni Marconcini celebra il 60° di messa a Milano, casa IMC

Mi presento. Mi chiamo John (Giovanni) e da 65 anni sono missionario della Consolata. L’avventura missionaria che il Signore ha scelto per me è stata molto variopinta. Dopo tre anni in un seminario minore a Bevera di Castello Brianza (Lc) come vicerettore, ho cominciato a viaggiare per il mondo: cinque anni come animatore missionario in Andalusia (Spagna); tredici anni in Kenya, prima in una missione con una superficie di 850 km2 a Siakago (Embu), poi come professore e formatore in un nostro seminario a Langata (Nairobi); sette anni a Pittsburgh negli Stati Uniti e due a Toronto in Canada, come animatore missionario; undici anni a Roma, prima in aiuto alla direzione generale e poi in un ambiente accademico, e dieci anni, ancora a Roma, come padre spirituale in una residenza di sacerdoti provenienti da oltre sessanta paesi per ottenere i gradi accademici di licenza e dottorato in diverse discipline nelle università romane. Alla bella età di 80 anni, sono approdato a Milano, in un centro dei Missionari della Consolata, nel territorio parrocchiale di San Benedetto (in aprile è tornato a vivere a Bevera, dove ha cominciato il suo servizio, ndr).

Il 21 dicembre scorso ho celebrato 60 anni di sacerdozio. La sensazione che il tempo sia volato è normale. Affiora però nel cuore un vivo ringraziamento e un proposito di usare bene il tempo che ancora mi sarà dato. Certamente il ringraziamento va al Signore, che mi è stato vicino in tutti questi anni, ma non posso non riconoscere la sua premurosa presenza in tutti coloro che hanno condiviso il mio cammino e mi hanno sostenuto, confortato, incoraggiato con la loro amicizia sincera. […]

I miei spostamenti non sono stati sempre facili. Alcune volte ho fatto ciò che i miei superiori volevano – sapevo che in loro lo voleva anche il Signore – in maniera pulita, cioè accettando subito di buon grado. Altre volte invece con qualche resistenza […]. Così anch’io ho finito sempre di fare ciò che mi è stato chiesto.

Tante sono state le «idee forza» che mi hanno guidato in questi 60 anni di servizio missionario, ma ne scelgo solo due, quelle, forse, che sono state più incisive e direi anche più efficaci. […]

La prima idea forza è stata il «momento presente»: come tutti i santi hanno insegnato con convinzione, il passato è nella misericordia di Dio, il futuro è nella sua provvidenza. Solo il presente mi è dato per viverlo con impegno. Il nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano, lo riassumeva nel «hic et nunc» e nel «nunc coepi» (qui e ora e ora ricomincio). L’attimo presente mi ha salvato tantissime volte dal sostare nella delusione di un fallimento, dal cadere nell’ansia per ciò che sarebbe accaduto, dal prendere decisioni avventate e rimanere nella calma, da reazioni esagerate in momenti di tensione, nel vivere con solennità ogni parte della mia giornata, senza dare importanza più a una che all’altra. Tutto è importante, se volontà di Dio: la preghiera, prendere cibo, la passeggiata, un incarico anche di poco conto a servizio degli altri.

La seconda idea forza è stata considerare il mio sacerdozio non uno stato di privilegio o un tantino superiore ad altri, ma un servizio. Mi ha fatto tanto bene un articolo di don Tonino Bello, intitolato «Stola e grembiule» (che invito tutti a leggere), in cui egli dice tra l’altro che Gesù, nella messa solenne celebrata nel Giovedì Santo, non indossò né casule né stole, ma si cinse ai fianchi un panno rozzo, con un gesto squisitamente sacerdotale.  Ho visto sempre il mio Sacerdozio come «ministeriale», come lo è effettivamente, in confronto a quello «regale», ricevuto da tutti i cristiani nel giorno del loro battesimo. Quante volte ho ripetuto a me stesso e poi agli altri: «Con voi sono cristiano, per voi sono sacerdote», (riferendomi a ciò che dice ancora Sant’Agostino: «Con voi sono cristiano, per voi sono vescovo»), per partecipare a incontri di preghiera, per esempio, senza la pretesa di prendere la parola o avvicinare anche chi ha altre convinzioni religiose, senza la smania di convincere nessuno.

Che brutto, fino a sentirmi addolorato, al tempo del mio servizio come padre spirituale, sentire da sacerdoti una espressione come questa: «Siamo sacerdoti, dovremmo essere trattati meglio», quando c’era qualche disservizio involontario. Allora prendevo la prima occasione per ricordare loro che tutti gli studi che avevano fatto per diventare sacerdoti erano per prendere il diploma in «schiavitù», cioè per essere completamene al servizio della gente a loro affidata. Cercare di usare il mio sacerdozio come scusa per ottenere qualcosa mi è parso sempre sbagliato.

Vi chiedo una preghiera.

padre John Marconcini, Imc
Milano, 16/01/2024

 




Giustizia e pace si baceranno


Si vis pacem, para bellum! (se vuoi la pace, prepara la guerra).
L’antico adagio, a guardare alle decine di conflitti ad alta o bassa intensità che si combattono nei diversi continenti, sembra tornato di moda. Una guerra non solo di scontri armati ma che paventa una rapida distruzione del pianeta e di quanto lo abita, se dovesse verificarsi lo scenario di un conflitto nucleare, minacciato da chi di pace non intende sentir parlare.

In risposta a questa tentazione, esattamente dieci anni dopo l’ultima imponente manifestazione pubblica per la pace svoltasi nell’aprile 2014 nell’Arena di Verona, torna lo stesso appuntamento, rinnovato, sia per i temi trattati che per le modalità di attuazione, che vede coinvolti a livello nazionale e sovranazionale dozzine di entità ecclesiali e laiche, gruppi ecumenici e interreligiosi, movimenti popolari e organizzazioni non governative, rappresentanti sindacali e società civile.

L’intento è di richiamare con forza il nostro governo a rispettare e applicare l’articolo 11 della Costituzione che recita: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Un auspicio e un progetto tuttora disattesi, visto il coinvolgimento diretto o indiretto dell’Italia nelle situazioni di conflitto cui assistiamo nel mondo.

Arena 2024, come le precedenti, nasce dal mondo missionario, ecclesiale e laico, che contrappone la logica della pace a quella della guerra, al fine di spingere le istituzioni politiche a dare una risposta concreta, unitaria e ispirata ai principi di giustizia e di pace, per evitare di cadere nel baratro di un conflitto globale.

Giustizia e pace si baceranno! Queste parole di Isaia – poste a titolo dell’assemblea popolare in Arena – raccolgono l’aspirazione di milioni di persone che sognano un mondo in cui finalmente siano le vie del dialogo, dell’accoglienza reciproca e della pace alla base della convivenza planetaria. A testimoni di pace di oggi dai vari continenti, si unirà la memoria dei grandi profeti, laici o religiosi, da proporre e far conoscere ai giovani: Romano Guardini, Aldo Capitini, Giorgio La Pira, Ernesto Balducci, Tonino Bello, Davide Maria Turoldo, Primo Mazzolari, Arturo Paoli e tanti altri protagonisti delle Arene precedenti.

L’impegno per la giustizia e la pace non intende limitarsi all’incontro in Arena del 17-18 maggio; vuole essere invece l’avvio di un processo di costruzione della pace che prosegua dopo l’evento, scuota la coscienza di tutti e coinvolga l’intera società, non solo gli strati più attivi, nella promozione della pace.

È questo il sogno di chi per lunghi mesi ha organizzato l’evento e dei suoi maggiori protagonisti: papa Francesco, che sarà presente e ribadirà il suo chiaro dissenso a guerra e violenza; il vescovo di Verona, monsignor Domenico Pompili, che da mesi anima la preparazione di Arena 2024; l’amministrazione comunale di Verona che in tanti modi ha facilitato e accompagnato l’organizzazione della manifestazione e i componenti dei cinque tavoli di lavoro che per mesi hanno discusso su cinque temi critici: pace e disarmo; ecologia integrale e stili di vita; migrazioni; lavoro; democrazia e diritti.

Parafrasando papa Francesco, Arena 2024 mira «a creare seminatori di cambiamento, promotori di un vero processo virtuoso di cultura della pace; compiti imprescindibili per camminare verso un’alternativa umana di fronte alla globalizzazione dell’indifferenza».

In questo rinnovato impegno che parte dall’appuntamento di Verona le riviste missionarie della Fesmi continueranno a esserci con il loro compito: raccontare i tanti cantieri dove questa strada della pace è un’alternativa concreta che prova ogni giorno a costruire un’umanità nuova. Insieme e adesso.

Fesmi
(Federazione stampa missionaria italiana)




Vaticano. Salvare l’Amazzonia per salvare il Pianeta

Davi Kopenawa, lo sciamano e portavoce del popolo Yanomami, ha lasciato la grande casa collettiva nell’Amazzonia brasiliana con una missione importante: portare l’appello dei popoli della foresta agli abitanti della foresta di pietra. «L’uomo bianco delle merci non ci ascolta. Abbiamo bisogno di lanciare le parole come una freccia per toccare il cuore della società non indigena», dice Kopenawa, sapendo bene che chi comanda non ascolta.

Nella sua agenda in Italia, mercoledì 10 aprile, a Roma, il leader indigeno noto a livello internazionale per il suo impegno nella protezione dell’Amazzonia si è incontrato in privato con Papa Francesco, un alleato importante. «Ho chiesto al Papa di aiutare il presidente Lula a rimuovere tutti gli invasori, i cercatori d’oro (garimpeiros) e gli sfruttatori delle terre indigene», spiega Davi ai giornalisti rivelando di aver scritto una lettera a Francisco nel 2020 e che da tempo desiderava parlare con lui.

A questo incontro – avvenuto grazie alla collaborazione con il vaticanista Raffaele Luise  -, Kopenawa è stato accompagnato da fratel Carlo Zacquini, missionario della Consolata a Roraima, in Brasile, suo amico e braccio destro da 50 anni, responsabile assieme alla fotografa e attivista Claudia Andujar della campagna per il riconoscimento del territorio Yanomami nel lontano 1979.

Carlo Zacquini, Davi Kopenawa Yanomami e Raffaele Luise.

David ha già dimostrato in diverse occasioni la sua profonda conoscenza delle minacce per l’intera umanità: salvaguardare la foresta e i suoi abitanti è fondamentale per garantire l’esistenza stessa della nostra Casa comune. Tra le maggiori minacce per i territori indigeni, Kopenawa elenca la contaminazione dell’acqua per l’uso criminale del mercurio (per separare l’oro dal resto, ndr) da parte dei minatori; l’ingresso di allevatori di bestiame con l’appoggio dei governi di tutto il mondo che comprano carne, così come l’espansione della coltivazione della soia sotto la pressione della Cina che ne richiede sempre di più. «La foresta brucia, la terra si esaurisce, gli uccelli, gli animali, i pesci muoiono e il nostro popolo si ammala. Forse qui voi siete protetti da questo, ma ci sono altre malattie», avverte lo sciamano.

Davi Kopenawa ritiene che il nuovo ministero dei Popoli indigeni e la Fondazione nazionale dei popoli indigeni (Funai), entrambi diretti per la prima volta da due donne indigene, Sonia Guajajara e Joenia Wapichana, «hanno bisogno di risorse per proteggere il popolo Yanomami, costruire posti di sorveglianza e per delimitare e riconoscere le terre indigene». Negli ultimi anni, soprattutto sotto la presidenza di Jair Bolsonaro, le risorse sono state tagliate, rendendo impossibile il lavoro.

Il popolo Yanomami conta circa 42mila persone, tra Brasile e Venezuela. Si stima che nel 2023 fossero oltre 20mila i garimpeiros nelle loro terre. Entrano illegalmente nella foresta, tagliano alberi, scavano buche enormi, usano pompe idrauliche, avvelenano i fiumi.

All’inizio dell’anno 2024, sono state diffuse immagini dove si vedevano bambini yanomami malnutriti, uguali o addirittura peggiori di quelle del 2023. Poco più di un anno dopo l’azione delle forze federali brasiliane la Terra yanomami affronta ancora la crisi dell’estrazione mineraria illegale, della fame e della salute. Finora tutto è stato vano. «Molte volte abbiamo richiesto di rimuovere gli invasori dalle nostre terre, di prevenire la deforestazione e l’inquinamento dei fiumi, ma non ci ascoltano perché non sono nostri “parenti” (indigeni come noi, ndr). Abbiamo pochi amici. I politici ascoltano solo la voce del denaro, del mercato. Papa Francesco è diverso. Lui è figlio di Dio e non può mentire. Come leader, non può promettere e non fare», dichiara Davi mostrandosi fiducioso.

Nella lotta per la protezione del Pianeta, la sintonia tra Davi Kopenawa e il Papa Francesco è grande. Ricordando che il Pontefice nel 2015, nell’enciclica Laudato si’ affermava: «La molteplice distruzione della vita umana e ambientale, le malattie e l’inquinamento di fiumi e terre, l’abbattimento e l’incendio di alberi, la massiccia perdita della biodiversità, la scomparsa delle specie, costituiscono una cruda realtà che chiama in causa tutti. La violenza, il caos e la corruzione dilagano. Il territorio è diventato uno spazio di scontri e di sterminio di popoli, culture e generazioni» (LS 23). La preoccupazione con la cura del Creato da parte di Francesco è stata anche dimostrata con la realizzazione del Sinodo per l’Amazzonia nel 2019 e nei suoi vari interventi e documenti.

Il leader Yanomani apprezza lo sforzo di Francesco, ma osserva che «molte persone sono contro la protezione dell’ambiente perché i grandi imprenditori non vogliono sentire quello che lui dice sulla foresta amazzonica, che è in grave pericolo. Loro cercano le ricchezze. Noi siamo per l’ambiente. Se non fosse per gli indigeni, la foresta non ci sarebbe più. Noi Yanomami ci prendiamo cura del polmone del pianeta. Ma questo ai politici, ai fazendeiros, ai garimpeiros non interessa. E l’esercito li sostiene. Dicono che la Terra indigena yanomami (Tiy) sia troppo grande per pochi indigeni, ma non si rendono conto che noi stiamo proteggendo l’intero pianeta».

La Tiy include un’area estesa oltre 9 milioni di ettari nel Nord del Brasile. In questa regione, i fiumi sono preziosi canali di comunicazione che uniscono le diverse comunità. Fu a monte del fiume che i missionari della Consolata italiani, Giovanni Calleri e Bindo Meldolesi fondarono, nel 1965, la Missione Catrimani, a 250 chilometri da Boa Vista, capitale di Roraima. Nel corso degli anni, la coesistenza di Yanomami con i missionari ha contribuito a rafforzare un modello di missione basata sul rispetto e il dialogo, nella difesa della vita, della cultura, del territorio e della foresta. Tre missionari e quattro missionarie della Consolata sono attualmente impegnati nella Missione Catrimani. Mentre, da Boa Vista, all’età di 87 anni, fratel Carlo Zacquini, instancabile, continua a sostenere la causa di Davi Kopenawa, degli Yanomami e della foresta amazzonica.

Jaime Carlos Patias




Argentina. «El maligno es santo»

«Il maligno è santo», «Javier Milei, ai piedi di papa Francesco», «Da maligno a benigno»: sono alcuni dei titoli con cui il sito di «Página|12» apriva i servizi sull’incontro tra il presidente Javier Milei e papa Francesco, avvenuto in Vaticano domenica 11 (durante la canonizzazione di Mama Antula, la prima santa argentina) e lunedì 12 febbraio (in forma privata). L’ironia del quotidiano argentino era giustificata, forse addirittura doverosa.

Nei mesi precedenti la sua elezione, il presidente argentino era stato, infatti, prodigo di insulti verso l’illustre connazionale. Papa Francesco era stato definito da Milei, tra l’altro, «il rappresentante del diavolo sulla Terra», mentre ora è diventato «l’argentino più importante del mondo».

Pur non avendo (ancora) visitato il suo Paese, papa Francesco ha sempre ricevuto i vari presidenti argentini: da Cristina Kirchner a Mauricio Macri fino ad Alberto Fernández. L’incontro di lunedì con Milei – senza la presenza di altri – si è protratto per 70 minuti, ben più del previsto. È stato definito cordiale, ma non è chiaro come le loro (opposte) visioni sull’economia e sul capitalismo abbiano trovato punti in comune.

Javier Milei – libertario e anarcocapitalista come lui ama autodefinirsi – è arrivato a Roma dopo una visita in Israele e proprio nei giorni in cui la sua (ambiziosissima) Ley ómnibus veniva affossata. La legge omnibus era la legge d’esordio del suo governo, un unico progetto di 664 articoli che includeva varie riforme in materia economica, fiscale, amministrativa, con una base ideologica fondata su liberalizzazioni e privatizzazioni. Si prevedeva, per esempio, di togliere le limitazioni attualmente in vigore sull’acquisto delle (preziosissime) terre agricole argentine da parte degli stranieri.

La «legge omnibus» del governo Milei prevedeva (tra l’altro) di eliminare i limiti alla vendita delle (preziosissime) terre argentine a soggetti stranieri. (Foto visiondailleurs1 – Pixabay)

Ospite più che apprezzato a una trasmissione di «Retequattro» (Nicola Porro) e sul quotidiano «Libero» (Mario Sechi), Milei ha rilasciato interviste che dipingono il personaggio. «Milei – ha scritto un entusiasta Sechi – ha l’aria di chi sta tessendo una tela, non solo per dare corpo e sostegno al suo piano per l’Argentina. La sua rivoluzione è quella di un uomo di pensiero che conduce una battaglia delle idee […]». Una di esse riguarda la concezione dello Stato: «Filosoficamente – ha spiegato il presidente – sono un anarcocapitalista e quindi nutro un profondo disprezzo per lo Stato. Credo che il nemico sia lo Stato, un’associazione per delinquere».

Sarebbe bello sapere se Milei abbia fatto le stesse osservazioni al cospetto del papa. Più personale ma comunque sorprendente un’altra affermazione fatta davanti alle telecamere di Retequattro: «Sono cattolico e pratico anche un po’ di ebraismo».

L’Argentina, potenzialmente molto ricca, è abbonata alle crisi economiche, che si ripresentano con la stessa puntualità con cui il paese sforna campioni di calcio, che poi costituisce la vera religione del paese. Peccato che il calcio non basti a risollevare le sorti dei 46 milioni di argentini. Vedremo se ci riuscirà Javier Milei, nuovo pifferaio magico del paese latinoamericano.

Paolo Moiola

 




Contro la tratta di persone

Si è tenuta ieri, 8 febbraio, la Giornata mondiale di preghiera e riflessione contro la tratta di persone, alla sua decima edizione dopo essere stata indetta da Papa Francesco nel 2015.

«Aleksandr proveniva da una città dell’Europa orientale – viene raccontato nel Global Report on Trafficking in Persons 2022, pubblicato dall’Unodc (United Nations Office on Drugs and Crime, l’ufficio Onu per il controllo della droga e la prevenzione del crimine) -. La morte della moglie, il suo recente rilascio dal carcere e la disoccupazione lo avevano spinto a recarsi nella capitale in cerca di lavoro. È stato avvicinato da un uomo in una stazione ferroviaria, dopo che gli erano stati rubati i documenti e il denaro. L’uomo gli ha offerto un pasto e ha ascoltato la sua storia. Dopo aver mangiato, Aleksandr si è sentito disorientato, e si è accorto che nel suo cibo erano stati messi dei sedativi. È stato trasportato, privo di sensi, in auto in una regione lontana con altri tre cui era stato promesso un lavoro. I trafficanti ricevono per ogni persona trafficata circa 200-250 dollari Usa.
All’arrivo, ad Aleksandr è stato detto che doveva pagare il reclutatore per il trasporto e, non avendo soldi, la sua unica opzione era lavorare. Dopo un mese senza paga, gli è stato detto che aveva accumulato altro debito per il cibo e le sigarette.
Aleksandr non è mai riuscito a saldare il suo debito ed è stato sfruttato per cinque anni durante i quali ha tentato di scappare diverse volte senza successo ed è stato rivenduto diverse volte per svolgere varie forme di lavoro forzato, dalla produzione di mattoni alla cura del bestiame. Ha lavorato per turni di 16 ore, vivendo in pessime condizioni, subendo violenze, privazione del sonno e malnutrizione.
Durante la sua ultima fuga, ha evitato le strade grandi e si è spostato di notte. Una notte è scivolato in uno stagno procurandosi un grave infortunio alle gambe. È strisciato fino a una stazione, dove alcuni sconosciuti hanno chiamato un’ambulanza. Entrambe le sue gambe gli sono state amputate. Una Ong lo ha aiutato a tornare a casa, ma non è sopravvissuto alle complicazioni post-operatorie ed è morto poco dopo».

I dati della tratta

Secondo gli ultimi dati disponibili, le vittime accertate di traffico di esseri umani a livello mondiale nel 2020 sono state 53.800 in 141 paesi. Un dato che mostra solo la punta di un iceberg che coinvolge diversi milioni di persone: il Global Report on Trafficking in Persons 2022 conta, infatti, solo i casi accertati e registrati di un fenomeno difficile da quantificare (le stime dell’Organizzazione mondiale del lavoro, ad esempio, contano circa 50 milioni le persone ridotte in stato di schiavitù nel mondo).

Per quanto possano essere limitati, i dati diffusi dall’Unodc offrono comunque un quadro che aiuta a capire il fenomeno: delle vittime registrate, il 42% erano donne, il 23% uomini, il 18% ragazze e bambine, il 17% ragazzi e bambini. I motivi del loro essere trafficati sono stati soprattutto il lavoro forzato (38,8%), lo sfruttamento sessuale (il 38,7%) e le attività criminali forzate (il 10,2%). Tra le altre forme di sfruttamento, anche i matrimoni forzati (0,9%), l’accattonaggio (0,7%), le adozioni illegali (0,3%) e la rimozione di organi (0,2%).
I trafficanti prendono di mira i più vulnerabili: donne, bambini e uomini privi di opportunità, protezione sociale e altro sostegno, coloro che, in ogni parte del mondo, fuggono da conflitti o disastri ambientali. Lo sfruttamento può avvenire nel paese d’origine della vittima, durante la migrazione o in un paese straniero.
Secondo il report, le ragazze e le donne hanno una probabilità di subire violenze, anche estreme, tre volte superiore rispetto ai ragazzi e agli uomini; i bambini in generale hanno il doppio delle probabilità di subire violenza rispetto agli adulti.

Le giornate internazionali

La tratta di esseri umani è stata definita nel 2000 nell’ambito della Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine transnazionale organizzato, nel Protocollo addizionale sulla tratta: «La “tratta di persone” indica il reclutamento, il trasporto, il trasferimento, l’ospitare o l’accogliere persone, tramite l’impiego o la minaccia di impiego della forza o di altre forme di coercizione, di rapimento, frode, inganno, abuso di potere o di una posizione di vulnerabilità, dando oppure ricevendo somme di denaro o benefici al fine di ottenere il consenso di un soggetto che ha il controllo su un’altra persona, per fini di sfruttamento. Per sfruttamento si intende, come minimo, lo sfruttamento della prostituzione o altre forme di sfruttamento sessuale, lavoro o servizi forzati, la schiavitù o pratiche analoghe alla schiavitù, l’asservimento o l’espianto di organi».
Mentre la giornata internazionale contro la tratta, istituita dall’Onu nel 2013, si celebra il 30 luglio, la Giornata mondiale di preghiera e riflessione contro la tratta di persone è stata istituita da papa Francesco nel 2015, e si celebra l’8 febbraio, memoria liturgica di santa Giuseppina Bakhita, la suora, nata in Sudan nel 1869 e morta in provincia di Vicenza nel 1947, che aveva vissuto da vittima l’esperienza della tratta.
Nell’ultimo Angelus del 4 febbraio scorso, papa Francesco ha detto: «Anche oggi tanti fratelli e sorelle vengono ingannati con false promesse e poi sottoposti a sfruttamenti e abusi. Uniamoci tutti per contrastare il drammatico fenomeno globale della tratta di persone umane».

Luca Lorusso

Sul tema Tratta, rimandiamo anche a:




Svizzera. A Davos, guerre ed economia

Davos è una località turistica situata nelle Alpi svizzere. È conosciuta per le montagne innevate e le piste da sci, ma la sua notorietà è nata perché, dal 1971, ospita il Forum economico mondiale (World economic forum) durante il quale politici, uomini d’affari, esperti e rappresentanti della società civile s’incontrano per confrontarsi sulle tematiche di un mondo sempre più complesso. A questa 54esima edizione (dal 15 al 19 gennaio) si sono presentati sessanta capi di stato e trecento ministri per trattare di geopolitica, crescita economica, politiche sanitarie, questione climatica, scienza, tecnologia, intelligenza artificiale.

In tempi di «terza guerra mondiale a pezzi», come ripete di continuo papa Francesco, anche un incontro internazionale come quello di Davos è il benvenuto, nonostante la scarsità di risultati concreti, confermata anche nell’edizione di quest’anno.

Nel proprio messaggio ai partecipanti, Francesco ha parlato di «un mondo sempre più lacerato, dove milioni di persone – uomini, donne, padri, madri, bambini -, i cui volti in gran parte non conosciamo, continuano a soffrire, non ultimo per gli effetti di conflitti prolungati e guerre presenti. […] In un contesto in cui sembra non essere osservato più il discernimento tra obiettivi militari e civili». Il riferimento alle guerre in Ucraina e Palestina è parso evidente.

Aerei militari. Da tempo, papa Francesco parla di «terza guerra mondiale a pezzi». Foto UxGun – Unsplash.

Il pontefice si è poi soffermato sulla ricerca della pace che non può esserci se non si affrontano «le ingiustizie che sono le cause alla radice del conflitto». E ha ricordato lo scandalo delle «persone che muoiono di fame, sfruttate, condannate all’analfabetismo, prive di assistenza sanitaria di base e lasciate senza un riparo».

Entrando più nell’ambito economico, Francesco ha chiesto alle imprese che «siano sempre più guidate non semplicemente dalla ricerca di un giusto profitto, ma anche da standard etici elevati». Rispetto alle entità pubbliche il papa ha invece chiesto che «le strutture intergovernative possano svolgere con efficacia le loro funzioni di controllo e guida nel settore economico, poiché il conseguimento del bene comune è un obiettivo al di là della portata dei singoli Stati».

Il papa ha concluso il proprio messaggio ricordando un passaggio della sua Laudate Deum: «Il bene, come anche l’amore, la giustizia e la solidarietà, non si raggiungono una volta per sempre; vanno conquistati ogni giorno».

Molti dei temi di Davos 2024 torneranno a essere discussi nel Summit del Gruppo dei sette (G7) che si terrà il prossimo giugno in Puglia. Dal primo gennaio, l’Italia è il presidente di turno.

Paolo Moiola




Canada. Acero di fuoco


Sommario

La sommità della torre di Calgary, simbolo della ricca città dell’Alberta che, nel 1988, ospitò le Olimpiadi invernali. Foto Paolo Moiola.

L’ambiente. Anche in «paradiso» fa troppo caldo

Nel paese nordamericano, abitato da 37 milioni di persone, ci sono ottomila alberi per abitante. Tuttavia, i problemi ambientali non mancano. Dal rapido innalzamento delle temperature allo scioglimento dei ghiacciai, dagli incendi (oltre 18 milioni di ettari di foreste distrutti nel 2023) fino all’invadenza delle compagnie minerarie nazionali, che spesso non godono di una buona reputazione.

Calgary (Alberta). Dalla sommità della torre il panorama lascia senza fiato. Le incredibili vetrate consentono una visione a 360 gradi della città dell’Alberta, nata come centro di allevatori (ancora oggi è soprannominata «Cowtown», città delle vacche) ma poi arricchitasi con il petrolio. Davanti e sotto di noi (ci sono vetrate anche a terra, formando un suggestivo pavimento trasparente) l’avveniristica Downtown, il fiume Bow, la rete ferroviaria e anche lo Saddledome, l’arena con tetto a forma di sella inaugurata pochi anni prima che Calgary ospitasse le Olimpiadi invernali del 1988. In lontananza, il panorama è meno chiaro: la catena delle Montagne Rocciose non si vede, nonostante la giornata sia favorevole.

Accanto a noi c’è un visitatore con un elegante turbante (essendo – con molta probabilità – uno dei tanti sikh residenti nel paese). «Nelle scorse settimane – ci dice – tutta l’area qui attorno era oscurata dal fumo degli incendi».

Purtroppo, dobbiamo credergli. Da maggio 2023 (cioè molto presto) e fino all’autunno (cioè molto tardi), il paese è stato devastato da un numero impressionante di incendi: 6.517. Alla fine di ottobre, avevano bruciato 18,5 milioni di ettari (185mila chilometri quadrati, cioè più della metà della superficie dell’Italia), circa il 5% dell’intera area forestale del paese e più di dieci volte la quantità dell’anno scorso. A parte all’estremo nord (dove non ci sono alberi), tutto il Canada è stato colpito e, in particolare, la British Columbia, i Northwest Territories, lo Yukon, l’Alberta e l’Ontario. Decine di migliaia di persone sono state costrette a evacuare (come anche noi avremo modo di constatare nel corso del viaggio).

Doug Prentice, ambientalista di «Extinction rebellion», in una strada di Victoria.. Foto Paolo Moiola.

Incendi e indigeni sfollati

In Canada, il problema degli incendi pare aggravarsi di anno in anno. L’innalzarsi delle temperature e i lunghi periodi siccitosi aumentano i rischi. Secondo gli esperti, la maggior parte degli incendi (77 per cento) sono stati provocati da fulmini1. A loro volta, gli incendi immettono nell’atmosfera grandi quantità di gas serra2 che aggravano il cambiamento climatico.

I boschi devastati sono cimiteri di alberi scheletriti e anneriti: vederli produce una fitta al cuore. Ma anche le conseguenze a livello umano sono tangibili. In varie piccole cittadine lungo il nostro tragitto automobilistico notiamo molte persone dai tratti indigeni riunite attorno a (piccole) strutture alberghiere. «Non abbiamo stanze perché sono arrivate famiglie indigene evacuate dai loro villaggi a causa degli incendi», ci spiega la gerente di un piccolo motel di Hay River, cittadina nei Territori del Nordovest (Northwest Territories).

Veniamo così a scoprire che, tra le migliaia di persone che hanno dovuto abbandonare le loro case, ci sono molti indigeni che abitano in zone remote dove un eventuale incendio viene subito dichiarato fuori controllo dalle autorità nazionali.

Chiediamo i nomi delle etnie ospitate, ma la donna non è sicura e va a informarsi. Torna poco dopo con la risposta. Si chiamano: K’atl’Odeeche e West Point. Si tratta di due delle 634 popolazioni appartenenti al grande gruppo indigeno noto come First nations.

Mappa con le dieci province e i tre territori che compongono il Canada; questo dossier si concentra su British Columbia, Alberta, Northwest Territories e Yukon.

A Victoria qualcuno si ribella

Molto critico verso le politiche del proprio governo è Doug Prentice, un ambientalista (noto con il nome di battaglia di Captain Painfully Obvius) che conosciamo a Victoria, città posta sull’isola di Vancouver e capitale della provincia della Columbia Britannica. Alto, baffi bianchi legati a treccia, bombetta nera in testa, lo incontriamo mentre è seduto nel suo «ufficio» in una via a traffico ridotto del centro cittadino. È circondato da cartelloni ecologisti homemade. A lato è parcheggiata la sua auto elettrica con appiccicati, in bella vista, alcuni adesivi con il logo di Extinction rebellion, il combattivo movimento ambientalista di cui Doug fa parte.

Lui è un fiume in piena. Due sono i progetti più contestati, ma ormai in dirittura d’arrivo: il gasdotto noto come Coastal gaslink pipeline che attraversa vari territori indigeni e i tagli di alberi secolari nella foresta pluviale di Fairy Creek nel territorio indigeno della Pacheedaht first nation, sull’isola di Vancouver. Per il gasdotto la compagnia TC Energy afferma di essersi ormai accordata con quasi tutte le comunità indigene coinvolte.

Quanto alle proteste di Fairy Creek, esse sono iniziate nell’agosto 2020 dopo il permesso di disboscamento concesso alla Teal cedar products. Gli ambientalisti hanno allestito i loro campi nella foresta iniziando un logorante confronto con le forze dell’ordine. A giudicare dal numero di persone arrestate in due anni di lotte (oltre mille), la protesta di Fairy Creek – oggi molto debilitata – è stato il più grande atto di disobbedienza civile nella storia del Canada.

Il paese è il secondo per estensione al mondo, poco abitato e ricco di risorse. Ospita il 9 per cento delle foreste mondiali e ci sono ottomila alberi per ogni suo cittadino (contro una media mondiale di 422)3. Probabilmente questa condizione privilegiata ha condizionato le sue scelte in campo ambientale.

Su questo punto nuove conferme ci arriveranno addentrandoci nello Yukon e in British Columbia, verso il confine con l’Alaska. Tra metà Ottocento e inizio Novecento, queste regioni furono protagoniste della cosiddetta «corsa all’oro». A suo modo epica e – volendo – anche romantica.

Canalone del Salmon Glacier, ghiacciaio canadese sul confine di Hyder, Alaska. Foto Paolo Moiola.

Meno ghiacciai, più miniere

Watson Lake è una cittadina dello Yukon, situata al miglio 635 dell’Alaska Highway, vicino al confine con la Columbia Britannica. È stata un centro di servizi per l’industria mineraria, in particolare per l’amianto e il tungsteno. Vi pernottiamo prima di dirigerci a Stewart, a Sud ovest di Watson Lake.

Seicentocinquanta chilometri dopo, ecco Stewart. Se non fosse per l’asfaltatura la sua via centrale sembrerebbe la strada di un villaggio western. Le case ai lati – semplici costruzioni in legno colorato (molte delle quali chiuse) – danno quest’impressione. Stewart è stata una città mineraria, mentre oggi i suoi cinquecento abitanti ruotano soprattutto attorno al turismo.

Il suo periodo di auge fu tra il 1902 e il 1910. Le cronache dell’epoca raccontano che diecimila persone vivevano e lavoravano qui e nel vicino Triangolo dell’oro (Golden triangle). Stewart era essenziale per le comunicazioni visto che è cresciuta al culmine inferiore del Portland Canal, un fiordo lungo circa 114 chilometri che s’incunea tra l’Alaska (Stati Uniti) e la Columbia Britannica (Canada).

A pochi chilometri da Stewart, appena superato il confine statunitense (privo di controlli), c’è Hyder (già Portland City), per lungo tempo legata allo stesso destino minerario. Oggi è un villaggio fantasma dove quasi tutto pare abbandonato. Per questo, viaggiatori e turisti che non abbiano un camper o una tenda di solito si fermano a Stewart dove sopravvivono alcuni piccoli alberghi e servizi (posto di salute, ufficio postale, chiesa, anche un museo). Ultimamente, nella zona sono riprese le attività minerarie4, ma questa non è una buona notizia. Il ritiro dei ghiacciai come effetto del cambiamento climatico offre l’opportunità di estrarre dalla terra minerali che, per migliaia di anni, sono rimasti protetti sotto uno scudo impenetrabile di ghiaccio e neve.

L’industria mineraria è un settore importante dell’economia canadese. Secondo la Mining association of Canada (Mac), contribuisce con il 7,9% al Prodotto interno lordo nazionale ed è responsabile del 22% delle esportazioni nazionali totali del Canada. Il settore minerario canadese impiega – direttamente e indirettamente – 665mila persone in tutto il paese. L’industria – secondo la Mac – è in proporzione il più grande datore di lavoro del settore privato per le popolazioni indigene canadesi e uno dei principali clienti delle imprese di proprietà degli indigeni. È dato confermato che oltre mille compagnie minerarie canadesi operino in circa cento paesi, costituendo il 60-75 per cento delle società minerarie del mondo. È altrettanto confermato che circa il 34 per cento di esse siano accusate di violare i diritti ambientali e quelli umani, soprattutto in America Latina. Varie organizzazioni civili, tra cui Mining watch Canada e il Jcap (The justice and corporate accountability project), segnalano – ad esempio – gli abusi della Barrick gold corporation, la più grande società di estrazione dell’oro al mondo, della Nevsun resources, della Hudbay minerals, tanto per citarne alcune.

Risalendo la strada sterrata che da Hyder si snoda a lato del canyon del Salmon glacier (ghiacciaio del salmone), proprio a cavallo del confine, iniziamo a incontrare camion ed escavatori di enormi dimensioni. Sono i mezzi che lavorano all’apertura di una nuova miniera. Un’attività che ha già prodotto migliaia di alberi abbattuti e montagne sventrate: un ambiente e un panorama completamente stravolti. Come praticamente tutti i ghiacciai, in questi ultimi decenni anche il Salmon si è progressivamente ristretto perdendo lunghezza e volume. È certo che una nuova miniera non potrà che portare altre conseguenze negative. E i primi a risentirne saranno i salmoni che popolano il Salmon river (il fiume formato dalle acque di fusione dello stesso ghiacciaio) e gli orsi dei boschi.

Sbancamento per l’apertura di una miniera a fianco del ghiacciaio Salmon, come gli altri da tempo in ritirata. Foto Paolo Moiola.

La questione dell’estrattivismo

Nulla di nuovo – dunque – anche nel paese nordamericano: salvaguardia dell’ambiente ed estrattivismo rimangono in contrasto inconciliabile. Lo sta raccontando da anni Naomi Klein, probabilmente la più nota scrittrice canadese contemporanea e militante del movimento globale per il clima, oggi condirettore del Centro per la giustizia climatica dell’Università della Columbia britannica (Ubc), a Vancouver.

Intervistata sulla giustizia climatica per Ubc Faculty of Arts nel marzo scorso, con riferimento al proprio paese la Klein ha affermato: «La giustizia climatica è inseparabile dalle richieste degli indigeni per la restituzione della terra e per il risarcimento dei danni arrecati. Perché il motivo principale per cui la terra è stata occupata è l’estra-  zione, compresa l’estrazione di combustibili fossili. Un’estrazione e un furto che continuano ancora oggi».

Paolo Moiola

Note

  • (1) In «Nature», Extratropical forests increasingly at risk due to lightning fires, 9 novembre 2023.
  • (2) Gli incendi possono immettere nell’aria circa 200 composti (tra essi metano, idrocarburi, monossido e biossido di carbonio, ossidi di azoto e particolato). Queste sostanze derivano dai processi di combustione della cellulosa, della lignina, ma anche delle resine e olii presenti nella vegetazione e nel suolo.
  • (3) In «Nature», Mapping tree density at global scale, 2 settembre 2015.
  • (4) Attualmente, sono operative due compagnie minerarie, entrambe canadesi: la «Blackwolf copper and gold Ltd» e la «Ascot resources company».

Mosaico canadese: un’opera dell’artista Tim Van Hom, nell’ambito del «The Canadian Mosaic Project».

L’immigrazione

Il multiculturalismo e il mosaico canadese

Nel corso della sua storia, il Canada è passato dall’etnocentrismo europeo attuato ai danni delle popolazioni native a un multiculturalismo spinto e codificato dalla legge. I dati dell’ultimo censimento (del 2021) suggeriscono molte considerazioni. Con riferimento a una popolazione complessiva di 37 milioni di persone ci sono 8,3 milioni di immigrati, pari a quasi un quarto del totale (23 per cento, la percentuale più alta tra i paesi del G7). Per fare un raffronto, in Italia ci sono attualmente oltre cinque milioni di migranti (di cui 3,6 non comunitari), pari all’8,6 per cento della popolazione totale, ai quali vanno sommati poco più di 500mila migranti senza permesso (dati Istat, 2023). Fino agli anni Settanta la maggior parte dei migranti verso il Canada proveniva dai paesi europei. Da allora in poi, l’immigrazione è diventata asiatica (con gli indiani in testa). A differenza degli stati nazionali europei o dei confinanti Stati Uniti, la filosofia del Canada su come incorporare gli immigrati non è il melting pot (crogiolo) ma il mosaico: tessere diverse per etnia, cultura, religione e lingua inserite fianco a fianco nel tessuto nazionale.

Il multiculturalismo come fondamento giuridico del Canada si è affermato negli ultimi cinquant’anni. Nel 1971, il governo di Pierre Trudeau – padre di Justin, attuale primo ministro del paese – adottò una politica multiculturale (sicuramente anche per frenare il crescente nazionalismo francofono del Québec). Nel 1982, il multiculturalismo fu confermato nella sezione 27 della Charter of rights and freedoms (Carta dei diritti e delle libertà) in cui si afferma: «La presente Carta dovrà essere interpretata in modo coerente con la preservazione e la valorizzazione del patrimonio multiculturale dei canadesi». Infine, nel 1988, fu approvato il Canadian multiculturalism act, una legge unica al mondo con la quale veniva sancito l’impegno del governo federale a promuovere e mantenere una società diversificata e multiculturale. «Si dichiara – recita il primo comma dell’articolo 3 – che la politica del governo del Canada è quella di riconoscere e promuovere la consapevolezza che il multiculturalismo riflette la diversità culturale e razziale della società canadese e riconosce la libertà di tutti i membri della società canadese di preservare, valorizzare e condividere il proprio patrimonio culturale».

Pa.Mo.

Un orso nel Salmon river, corso d’acqua formato dalle acque di fusione del ghiacciaio Salmon, posto sul confine con l’Alaska. Foto Paolo Moiola.

I popoli indigeni
Una storia di totem e bufali

Particolari di un totem indigeno a Kitwanga, nella British Columbia. Foto Paolo Moiola.

Gli indigeni sono 1,8 milioni, pari al 5 per cento della popolazione. La Costituzione canadese del 1982 li distingue in tre gruppi: First nations, Métis e Inuit. Tra i simboli indigeni più noti ci sono i totem e i bufali. Entrambi sono testimonianza del difficile incontro tra gli abitanti originari e i colonizzatori europei.

Kitwanga – Gitwangak (British Columbia). A voler essere sinceri, il luogo lascia un po’ delusi. I totem – una decina – sono allineati lungo una stradina secondaria poco fuori il villaggio di Kitwanga. Tutt’attorno è un prato con poche casette in legno, alcune in stato di apparente abbandono. C’è posto anche per un solitario campanile, anch’esso in legno (che – scopriremo poi – essere appartenuto a una chiesa anglicana bruciata nel 2021). Smaltita la sorpresa per il luogo, ci avviciniamo ai pali totemici e veniamo subito rincuorati nello scoprire che essi sono finemente intagliati, vere miniere di arte e storia.

Vi si riconoscono grandi mani, occhi e bocche giganti, animali (rane, orsi, aquile). I totem sono sculture in legno (di cedro rosso, di solito) a forma di pali (alti fino a dieci metri), create dai popoli indigeni della costa nordoccidentale. Sono scolpite per raccontare storie: di una nazione, di una famiglia, di un individuo. All’epoca della conquista non piacquero ai colonizzatori europei. Nel loro progetto di assimilazione i totem non erano contemplati. Anche i missionari cristiani incoraggiarono l’eliminazione dei totem, che consideravano ostacoli alla conversione delle popolazioni indigene.

Kitwanga è sulla terra dei Gitxsan, popolo indigeno delle First nations che vive lungo il fiume Skeena. Mentre siamo intenti a fotografare il luogo nella luce incerta della giornata, notiamo un giovane che ci osserva dalla veranda di una modesta abitazione a lato della stradina. Ci avviciniamo e lui ci accoglie con un ampio sorriso.

«Il luogo verrà sistemato», ci spiega senza attendere domande. Dice di chiamarsi Justice Moore e di avere 27 anni. È un agricoltore. «No, io non parlo la lingua indigena. Come nemmeno la parlano i miei genitori, visto che hanno frequentato le scuole residenziali nelle quali l’idioma nativo era bandito».

Lo sterminio dei bufali

Se i totem sono simbolo delle popolazioni indigene delle coste nordoccidentali, i bufali (termine improprio ma popolare rispetto a quello corretto di bisonti) sono il simbolo degli indiani delle praterie, quelli stanziati ai piedi delle Montagne Rocciose.

Prima dell’arrivo degli europei, questi grandi mammiferi (appartenenti alla famiglia dei bovidi) fornivano ai popoli delle pianure ogni tipo di risorsa: carne per cibarsi, pelli per vestirsi e coprire le tende, corna e ossa per costruire strumenti di ogni sorta.

Banff, cittadina dell’Alberta che dà il nome al famoso parco nazionale, ospita il Buffalo nations museum, una piccola gemma multimediale che celebra l’animale e i nativi (Blackfoot, Tsuut’ina, Nakoda, Nëhiyaw-Cree) che regolavano le loro esistenze su quelle mandrie. Su una parete del museo, è esposta una pelle dipinta con figure di bufali e indiani. Sotto di essa una targa offre al visitatore una lunga spiegazione in cui, tra l’altro, si legge: «Per generazioni il bufalo è stato un nostro parente, il bufalo è parte di noi e noi siamo parte del bufalo culturalmente, materialmente e spiritualmente».

Con l’arrivo dei colonizzatori questi animali furono sterminati (soprattutto per le loro pelli), passando da milioni (trenta, secondo alcune stime) alla quasi estinzione di fine Ottocento. Oggi sono tornati a circa 350-400mila esemplari, divisi tra Canada e Stati Uniti.

Una mandria di bufali (bisonti) pascola liberamente ai bordi di una strada. Foto Paolo Moiolla.

Il peso della storia e della legge

Sia i totem che i bufali testimoniano quanto difficile e denso di conseguenze sia stato l’incontro tra gli abitanti originari e i colonizzatori venuti dall’Europa.

Prima dell’arrivo dei norvegesi (alla fine del X secolo) e, soprattutto, degli esploratori francesi e britannici (dal 1534 in poi), le popolazioni indigene erano le sole ad abitare il territorio che forma l’attuale Canada. Invasione e persecuzioni coloniali, malattie importate (vaiolo, tubercolosi, influenza), fame, confisca delle terre, genocidio culturale, ne ridussero grandemente il numero (le stime al riguardo non sono però univoche)1.

Dopo i danni prodotti dall’Indian act del 1876 (in seguito emendato nelle parti più discriminatorie), la Costituzione canadese del 1982, nella sezione 35, riconosce l’esistenza dei diritti indigeni (e dei relativi trattati)2 ma senza entrare nei dettagli: non si parla né di autodeterminazione (self determination) né di autogoverno (self government). Nella stessa sezione 35 si distinguono i popoli indigeni in Inuit e First nations (Prime nazioni), più un terzo gruppo rappresentato dai Métis (meticci, in francese), nati dall’incontro tra coloni europei e membri delle Prime nazioni.

Nel settembre del 2007, l’assemblea delle Nazioni Unite adotta la «Dichiarazione sui diritti dei popoli indigeni». I suoi 46 articoli parlano di autodeterminazione e autogoverno (art.3 e art.4), uguaglianza e non discriminazione, cultura, lingua e identità, terre (art.10), territori e risorse, istituzioni e sistemi giuridici indigeni. Il Canada la recepisce 14 anni dopo: il 21 giugno 2021. Dopo altri due anni, il 21 giugno 2023, viene pubblicato il Piano d’azione della stessa, dopo una consultazione con le First nations, gli Inuit e i Métis.

«L’attuazione del Piano d’azione e della Dichiarazione delle Nazioni Unite contribuirà – si legge sui siti governativi – ai continui sforzi del governo canadese per abbattere le barriere, combattere il razzismo e la discriminazione sistemici, colmare i divari socioeconomici e promuovere una maggiore uguaglianza e prosperità per le popolazioni indigene».

«L’indiano scomodo»

Bufalo Nations Museum: una donna indigena con il proprio piccolo in una foto esposta al «Buffalo Nations Luxton Museum» a Banff, Alberta.

In Canada, il numero dei nativi è, da tempo, in costante crescita, come confermano anche i numeri (tabella).

Stando all’ultimo censimento, la popolazione indigena è cresciuta dell’8 per cento tra il 2016 e il 2021, arrivando a oltre 1,8 milioni di persone. Le province con i numeri più alti sono, nell’ordine, Ontario, British Columbia e Alberta. Smentendo fantasie e luoghi comuni, la maggioranza degli indiani oggi vive in aree urbane, fuori cioè delle riserve, dove ne rimane soltanto circa un terzo.

Per esempio, a Calgary – secondo le cifre fornite dal governo cittadino – ci sono 35.195 indigeni (2,9 per cento della popolazione nel 2016), la gran parte appartenenti alle First nations.

Proprio in una libreria di questa città andiamo a cercare qualche testo sul tema indigeno. Una commessa ci accompagna al reparto dedicato. «Questo è il più venduto», ci dice prendendo da un ripiano The inconvenient indian, titolo traducibile – più o meno – con «L’indiano scomodo».

L’autore, Thomas King – un bianco californiano -, scrive un saggio dai toni ironici ma senza sconti sul trattamento riservato fin dal primo contatto dai bianchi ai nativi del Nord America (Canada e Stati Uniti). Scomodità e inconvenienti che – nota lo scrittore – iniziano dalla stessa definizione. I conquistatori (di ieri e di oggi) hanno – infatti – sempre faticato a trovare un termine collettivo per definire i conquistati. Dall’eterno «indiani» (legato all’errore di Colombo) ad aborigeni, nativi, prime popolazioni, prime nazioni, insistendo sempre su un termine collettivo invece che sul nome proprio del singolo gruppo: Cree, Blackfoot, Navajo, Lakota e centinaia di altri.

L’entrata del piccolo ma interessante museo di Banff. Foto Paolo Moiola.

Ultimi della classe

In Canada, le popolazioni indigene godono di una teorica autonomia ma, in generale, la strada da percorrere per una effettiva parità con le popolazioni non indigene è ancora molto lunga. Il divario esistente si può misurare. Infatti, tutti i parametri sociali ed economici dei popoli indigeni risultano deficitari: alimentazione, situazione abitativa, condizioni di salute e aspettativa di vita, situazione lavorativa, livello d’istruzione.

Inoltre, come spiega anche The canadian encyclopedia, «i tassi di suicidio tra i giovani delle Prime nazioni sono circa 5-6 volte superiori alla media nazionale, mentre i tassi tra i giovani Inuit sono circa 10 volte superiori alla media nazionale». Sempre secondo la stessa fonte, «nel sistema giudiziario penale le popolazioni indigene sono sovra rappresentate come delinquenti e detenuti, e sottorappresentate come funzionari, operatori giudiziari o avvocati», mentre «tra la popolazione indigena i tassi di incarcerazione continuano ad aumentare».

Tutte conferme che, anche nella possibile presenza di volontà politica e consenso sociale, riparare i danni della colonizzazione è un’impresa che richiede tempo, molto tempo, probabilmente generazioni. E tuttavia, la storica e vittoriosa ribellione sul tema delle scuole residenziali indigene (di cui parliamo nelle pagine successive) ci fa concordare con un’affermazione che si legge nelle pagine conclusive de The inconvenient indian: «In cinquecento anni di occupazione europea, le culture native hanno già dimostrato a se stesse di essere tenaci e resilienti».

Paolo Moiola

Note

  • (1) Le stime vanno da un minimo di 350mila a un massimo di 2 milioni di indigeni. Si veda: «International Journal of Environmental Research and Public Health», Canada’s Colonial Genocide of Indigenous Peoples: A Review of the Psychosocial and Neurobiological Processes Linking Trauma and Intergenerational Outcomes, giugno 2022.
  • (2) Sono vigenti 11 trattati numerati (The numbered treaties). Sono stati sottoscritti tra il 1871 e il 1921 da governo federale (formalmente Corona britannica) e alcuni popoli nativi per la cessione di terre indigene in cambio di benefici (spesso più teorici che reali).

La fila dei totem a Kitwanga, terra dei Gitxsan. Foto Paolo Moiola.

La Chiesa e i popoli indigeni.
Il lungo cammino verso il perdono

Tra Chiesa cattolica e popoli indigeni canadesi c’è una tappa storica dolorosa: quella delle cosiddette «scuole residenziali». Una ferita profonda che ha segnato le re- lazioni tra l’istituzione e gli indigeni. Ai popoli originari si rivolse papa Giovanni Paolo II in occasione delle sue due prime visite al paese nordamericano (nel 1984 e nel 1987). Tuttavia, è stato papa Francesco – nel suo viaggio del 2022 – a chiedere perdono per quel grave passo falso.

Fort Simpson (Northwest Territories). Sulla spianata verde spira un vento fresco. Pochi metri più in là ci sono un’ampia spiaggia di terriccio grigio e, da ultimo, il corso del fiume Mackenzie. Un cartello di colore giallo, in inglese e francese, avverte: «Attenzione. Orso in zona». Mentre stiamo scattando una foto alla segnalazione, un uomo (probabilmente uno dei 1.291 membri della comunità) ci passa accanto con un cane al guinzaglio e ci avvisa: «C’è un orso che si aggira. È un tipo tranquillo, abitudinario della zona, ma state comunque attenti».

Il luogo è il fulcro storico (conosciuto come Ehdaa) di Fort Simpson (Łíídlıı Kųę, in lingua indigena), piccolo villaggio posto su un’isoletta, porta d’ingresso al parco nazionale Nahanni, che ospita le famose cascate Virginia. Sulla spianata di Ehdaa ci sono una grande struttura a forma di tenda indigena (teepee) costruita con tronchi d’albero e, soprattutto, un piccolo anfiteatro circolare, tutto in legno, dove si tengono cerimonie, assemblee e manifestazioni dei Dene, il principale gruppo indigeno della zona.

Una stele spiega, in tre lingue, cosa sia Ehdaa. Nelle righe finali si legge che, in questo luogo, i Dene diedero il benvenuto a papa Giovanni Paolo II in occasione della sua visita del 1987, una visita da lui fortemente voluta.

Fort Simpson 1987: si prepara la spianata per la visita di Giovanni Paolo II. Foto NWT Archives:Rene Fumoleau:N-1995-002-7619.

La cecità dei nuovi arrivati

Il pontefice sarebbe dovuto arrivare nel settembre del 1984, ma fu fermato dal maltempo. Allora, dall’aeroporto di Yellowknife, capoluogo dei Territori del Nordovest (Northwest Territories), mandò via radio un messaggio alle popolazioni autoctone, promettendo nel contempo che sarebbe tornato.

«La storia – disse nel corso del suo messaggio – ci documenta con chiarezza come nei secoli la vostra gente sia stata ripetutamente vittima dell’ingiustizia ad opera dei nuovi arrivati i quali, nella loro cecità, spesso considerarono inferiore la vostra cultura. Oggi, fortunatamente, questa situazione si è ampiamente ribaltata, e la gente sta imparando ad apprezzare la grande ricchezza che c’è nella vostra cultura, e a dimostrare nei vostri riguardi un grande rispetto. […] Voi siete chiamati a porre tutti i vostri talenti al servizio degli altri e a contribuire all’edificazione, per il bene comune del Canada, di una sempre più autentica civiltà della giustizia e dell’amore. Siete chiamati a un compito di grande responsabilità e ad essere un dinamico esempio dell’uso appropriato della natura, specialmente in un tempo in cui l’inquinamento e il deterioramento ambientale minacciano la terra».

Il papa tenne fede alla promessa fatta visitando Fort Simpson tre anni dopo, il 20 settembre del 1987. «Ancora una volta – disse sulla spianata di Fort Simpson – affermo il diritto a una giusta ed equa misura di autogoverno, assieme a un terreno proprio, e a risorse adeguate e necessarie per lo sviluppo di un’economia vitale, adeguata alle necessità della generazione presente e di quelle future».

In entrambe le occasioni, il papa parlò molto dei missionari. Nel 1984, disse: «Per quante colpe e per quante imperfezioni essi [i missionari] abbiano avuto, per quanti errori essi abbiano commesso, per quanti danni involontariamente abbiano provocato, si danno ora pena di riparare. […] I missionari rimangono tra i vostri migliori amici, dedicano la loro vita al vostro servizio […]. La meravigliosa rinascita della vostra cultura e delle vostre tradizioni che voi state sperimentando oggi deve molto agli sforzi continui e pionieristici dei missionari in campo linguistico, etnografico e antropologico». Nel 1987, nel corso della seconda visita, aggiunse: «[I missionari] hanno imparato ad amare voi e i tesori spirituali e culturali del vostro modo di vivere. Hanno mostrato rispetto per il vostro patrimonio, le vostre lingue e i vostri costumi».

In quelle due occasioni Giovanni Paolo II non toccò il tema più controverso, quello delle cosiddette «scuole residenziali» per i bambini dei popoli indigeni (Indian residential schools), anche perché la questione non era ancora deflagrata.

Scuole indigene residenziali: alunni indigeni della «Port Harrison School», Quebec. Foto H.J. Woodside – Library and Archives Canada.

Le scuole «per civilizzare»

Secondo The canadian encyclopedia, le scuole residenziali «erano scuole religiose, sponsorizzate dal governo, istituite per assimilare i bambini indigeni nella cultura euro canadese». Le Chiese coinvolte nella loro gestione furono soprattutto la Chiesa cattolica e, in misura più contenuta, quelle anglicana, presbiteriana e metodista.

Il sistema scolastico residenziale aveva il dichiarato obiettivo di «civilizzare» gli alunni indiani per assimilarli alla società dominante. «[Se] vogliamo fare qualcosa con l’indiano – si legge in un documento del 1879 -, dobbiamo prenderlo molto giovane. I bambini devono essere mantenuti costantemente nell’ambito delle condizioni civili». Gli alunni erano costretti ad abbandonare la loro lingua, le loro convinzioni culturali, il loro stile di vita e dovevano adottare le lingue europee (inglese o francese) e aderire al cristianesimo.

Le scuole residenziali sono state 139. Sono state attive dal 1884 (introdotte dall’Indian act) al 1996, ma i primi esempi risalgono al 1831. In totale, circa 150mila bambini dei popoli indigeni – Prime nazioni, Inuit e Métis – le hanno frequentate in un’età compresa tra i 4 e i 16 anni. Gli studenti risiedevano nelle scuole per almeno dieci mesi all’anno. Si stima che in esse siano morti – per svariate cause – tra i quattro e i seimila bambini. I ritrovamenti dei loro corpi sono aumentati in questi ultimi anni anche grazie all’utilizzo di moderne attrezzature di ricerca.

Uno dei casi più recenti e clamorosi è datato 25 giugno 2021. Quel giorno la Cowessess First nation ha annunciato il ritrovamento di 751 tombe senza nome in un cimitero vicino all’ex Marieval indian residential school. La scuola Marieval operò dal 1899 al 1997 e fu amministrata dalla Chiesa cattolica fino al 1968. Si trovava in un’area indigena a circa 140 chilometri a est di Regina, capoluogo della provincia del Saskatchewan.

Venuti alla luce gli abusi del sistema delle scuole residenziali, nei primi anni Duemila sono iniziate le azioni per arrivare alla verità, alla riconciliazione e alla compensazione delle vittime dei popoli indigeni. Nel 2001 è stato creato un ufficio per raccogliere e risolvere le denunce degli ex studenti, nel 2006 è stato approvato l’Accordo transattivo per le scuole residenziali indiane (Indian residential schools settlement agreement, Irssa), nel giugno del 2008 è stata lanciata la Commissione per la verità e la riconciliazione (Truth and Reconciliation commission, Trc), nel dicembre del 2015 la Trc ha rilasciato il suo rapporto finale (sei volumi).

Nel rapporto – molto pesante – si legge, tra l’altro: «[I bambini] hanno subito abusi, fisicamente e sessualmente, e sono morti nelle scuole in un numero che non sarebbe stato tollerato in nessun sistema scolastico […]». Le scuole residenziali non erano state progettate per educare i bambini indigeni, «ma soprattutto – è scritto – per spezzare il loro legame con la loro cultura e identità».

A fine giugno 2021, subito dopo il ritrovamento dei resti delle 751 sepolture anonime presso la Marieval school, il primo ministro Justin Trudeau ha dichiarato che i canadesi erano «inorriditi e pieni di vergogna».

Giovanni Paolo II stringe le mani a un capo indigeno durante la sua visita del 1987 a Fort Simpson. Foto Vatican News.

Le scuse di Francesco

Nel luglio del 2022, è toccato a papa Francesco affrontare il tema delle scuole residenziali nel corso del suo viaggio in Canada, da lui definito «pellegrinaggio penitenziale».

A Maskawacis, Alberta, nel territorio delle popolazioni Cree, non lontano dal luogo che, dal 1895 al 1975, ospitò la Ermineskin indian residential school,

la foto più significativa del papa non è stata quella in cui egli indossa un copricapo di piume. No. È stata quella che lo vede da solo, assorto in preghiera, davanti alle tombe del cimitero.

Il pontefice si è rivolto alle popolazioni indigene e ha chiesto scusa: «I am deeply sorry». «Ripenso al dramma subito da tanti di voi, dalle vostre famiglie, dalle vostre comunità – ha detto Francesco -; a ciò che avete condiviso con me sulle sofferenze patite nelle scuole residenziali. […] Fare memoria delle esperienze devastanti avvenute nelle scuole residenziali ci colpisce, ci indigna, ci addolora, ma è necessario. È necessario ricordare come le politiche di assimilazione e di affrancamento, che comprendevano anche il sistema delle scuole residenziali, siano state devastanti per la gente di queste terre. Quando i coloni europei vi arrivarono per la prima volta, c’era la grande opportunità di sviluppare un fecondo incontro tra culture, tradizioni e spiritualità. Ma in gran parte ciò non è avvenuto. E mi tornano alla mente i vostri racconti: di come le politiche di assimilazione hanno finito per emarginare sistematicamente i popoli indigeni; di come, anche attraverso il sistema delle scuole residenziali, le vostre lingue, le vostre culture sono state denigrate e soppresse; e di come i bambini hanno subito abusi fisici e verbali, psicologici e spirituali; di come sono stati portati via dalle loro case quando erano piccini e di come ciò abbia segnato in modo indelebile il rapporto tra i genitori e i figli, i nonni e i nipoti».

Le scuse e la richiesta di perdono di papa Francesco sono state apprezzate dai più. Tuttavia, non sono mancate alcune critiche sia dal lato indigeno che da quello governativo. In particolare, è stato criticato il mancato riferimento agli abusi sessuali e l’assunzione di responsabilità da parte della Chiesa cattolica intesa come istituzione.

Scuole indigene residenziali: alunni della «Red Deer School», Alberta. Foto United Church of Canada Archives.

Ricordando

Percorrendo la Mackenzie Highway (Waterfalls Route), all’incrocio stradale che porta alla cascate Lady Evelyn sul fiume Kakisa, notiamo sul prato un’installazione particolare.

È un cartellone con la scritta «Remembering the children» (Ricordando i bambini) e, accanto, la riproduzione di un cuore trafitto da una freccia con segnato un numero: 215. Tutt’attorno, appesi o posti a terra, decine di orsetti e bambolotti. Non è difficile trovare una spiegazione.

Quel numero indica i resti dei bambini indigeni trovati nell’ex Kamloops indian residential school, la più grande scuola residenziale del Canada, aperta nel 1890 e amministrata dalla Chiesa cattolica fino al 1969. La comunità indigena del luogo – Tk’emlúps te Secwépemc First nation, questo il suo nome – li ha portati alla luce nel maggio del 2021 e li ha voluti ricordare anche in questo modo.

Paolo Moiola

Un assorto papa Francesco davanti alle tombe senza nome del cimitero Ermineskin del popolo Cree a Maskwacis (già Hobbema), nell’Alberta, il 25 giugno del 2022, durante il suo viaggio «penitenziale» in Canada. Foto Vatican Media – AFP.

 




La missione è annuncio di pace


Una riflessione delle riviste missionarie italiane (Fesmi) in occasione della Giornata mondiale della pace (1 gennaio 2024).

Mai quanto quest’anno che sta iniziando la Giornata mondiale della pace che la Chiesa celebra nel primo giorno dell’anno ci interpella. Il vento di morte, violenza e distruzione che in queste settimane drammatiche ci ha raggiunto da Gaza, non ha fatto altro che aggiungersi alle ferite della guerra in Ucraina (combattuta tra cristiani, che arrivano addirittura a benedire le proprie armi), al conflitto violentissimo che da quasi tre anni ormai sfigura il Myanmar, a quello tornato a insanguinare il Sudan, alle tante altre guerre dimenticate che sempre più raramente entrano nelle scalette dei notiziari. Secondo l’organizzazione Acled (Armed conflict location and event data project), che raccoglie dati per monitorare i conflitti, al momento ci sono 59 guerre nel mondo.

Con sguardo profetico papa Francesco ci parla da tempo della «terza guerra mondiale a pezzi». In un contesto come questo, quale volto può assumere l’impegno del mondo missionario in favore della pace? Ci rendiamo conto che le parole di circostanza e i richiami generici a un destino comune non bastano più. C’è bisogno di gesti e scelte concrete, capaci di ridare corpo all’impegno per la pace.

Un primo passo è chiedere perdono. Perché le tante guerre tornate a riesplodere tutte insieme hanno un triste denominatore comune: sono il frutto imputridito di ingiustizie che durano da troppo tempo. Diritti negati, interessi predatori, ferite mai rimarginate. Molte volte ne abbiamo parlato sulle nostre riviste, ma senza riuscire a comunicare davvero quanto la sorte di questi fratelli e sorelle ci chiami in causa. Sono il dividendo degli affari che l’industria delle armi continua a mietere nascondendo dietro il paravento di presunte «opportunità» per il made in Italy il loro prezzo di sangue. Lo sappiamo tutti! Eppure abbiamo smesso di ricordarcelo quando questi conflitti falciavano vittime innocenti in terre lontane dai nostri occhi e dal nostro cuore (ad esempio nello Yemen).

Questo 1° gennaio 2024, allora, è davvero un’occasione per ricominciare a dire a tutti che «Pace a voi» è una parola irrinunciabile del Vangelo di Gesù. Che riconoscersi fratelli non è una vaga aspirazione del cuore, ma una precisa scelta di campo nei rapporti tra le nazioni. Che la riconciliazione tra i popoli non è un orizzonte buonista, ma un futuro che si costruisce anch’esso «a pezzi», cominciando dai gesti quotidiani di incontro tra chi dice basta alla logica del nemico.

È la pace che abbiamo visto rinascere in tanti angoli del mondo, in tante nostre missioni sfregiate dalla guerra. La pace di chi ha avuto il coraggio di voltare pagina, aprendo il proprio cuore al perdono. La pace di chi non si è rassegnato alla vendetta per il torto subito, ma ha saputo guardare avanti.
Ed è la strada per accogliere anche nuove grandi sfide globali, come quella dell’uso dell’intelligenza artificiale che papa Francesco ci indica nel suo messaggio di quest’anno: strappiamola a chi è già al lavoro per applicarla ad armi ancora più devastanti, per farne invece realmente un’opportunità di sviluppo al servizio di tutti.

La missione è annuncio di pace: torniamo a ripeterlo all’Italia di oggi.

Disegno di Don Giovanni Berti per Missionari Saveriani 2024

 




Da Oriente a Occidente


Per ricordare il viaggio di papa Francesco in Mongolia, il polo culturale (Cam) dei Missionari della Consolata ha allestito a Torino una mostra multimediale. In una piazza della città è stata anche montata una tenda tradizionale mongola. Nei prossimi mesi la mostra sarà ospitata in diverse altre località.

Vent’anni fa, alcuni missionari e missionarie della Consolata partivano per un’avventura di cui conoscevano poco o nulla. Sul volo verso Ulaanbaatar, sentendo parlare le hostess in mongolo, si chiedevano l’un l’altra: «Chissà se un giorno riusciremo a capirci qualcosa». Oggi, dopo vent’anni, la visita del papa (dal 31 agosto al 4 settembre) è venuta a suggellare il lavoro fatto e a dare nuovo slancio ai tanti missionari e missionarie, non solo della Consolata, che si prendono cura del piccolo gregge dei cristiani mongoli. Fin dagli inizi l’impegno profuso nel raccontare la fatica e la bellezza della scoperta delle steppe sconfinate, della caotica capitale, dell’incontro con donne e uomini forti e accoglienti, della gioia provata di fronte alla freschezza di chi sceglie di diventare cristiano, hanno appassionato molti altri all’annuncio del Vangelo in terra asiatica.

Il papa in Mongolia

Il viaggio, fortemente voluto da papa Francesco, è stato un’occasione per far conoscere la Mongolia a molti che ne erano digiuni. Quando ha visto atterrare l’aereo papale sulla pista di Ulaanbaatar, il cardinale Giorgio Marengo ha gioito profondamente: un sogno si stava realizzando. Negli ambienti governativi c’erano molti interrogativi riguardo alla venuta del papa che il presidente e i suoi consiglieri avevano voluto e richiesto: «Come verrà accolta questa presenza? Gli altri leader vedranno di buon occhio la visita del responsabile ultimo della Chiesa cattolica?». Dopo il primo discorso in diretta streaming, i social media mongoli registravano approvazione: la semplicità di papa Francesco, il suo accostarsi in punta di piedi apprezzando la cultura e la forza del popolo mongolo avevano colto nel segno.

Visita di papa Francesco in Mongolia (foto Apostolic Prefecture of Ulaanbaatar)

La mostra e la «gher»

Come Cam, Cultures and mission, abbiamo così pensato di realizzare una mostra sulla Mongolia che potesse fare da cassa di risonanza per il viaggio del papa e i vent’anni della nostra presenza in quel Paese. Pensavamo a come avvicinarci in qualche modo allo spirito e alla bellezza dei popoli delle steppe e abbiamo cercato una gher, la tenda caratteristica dei nomadi mongoli. Ci è venuta in aiuto Paola Giacomini che nel 2018 aveva compiuto un viaggio di pace a cavallo dall’antica capitale mongola Karakorum, fino a Cracovia e poi a Torino. Abbiamo montato la gher il 30 settembre in piazza Bernini, vicino al Cam, e in essa sono avvenuti incontri toccanti e inaspettati. Molte persone si fermavano per guardare, entrare, chiedere, confidarsi, o per scoprire un pezzo di oriente tra i palazzi di Torino. Suor Lucia Bortolomasi, superiora delle missionarie della Consolata, Paola Giacomini e Raima, una giovane mongola che abita in città, ci hanno aiutati a volare con la fantasia e a scoprire come la gher sia un luogo accogliente, sempre aperto a chi si trova di passaggio nella steppa.

La tenda è stata smontata il giorno dopo, ma la mostra, è rimasta aperta fino al 10 novembre. È poi stata esposta in altri luoghi e sarà ancora visitabile anche nei prossimi mesi.
Ascoltare i movimenti profondi di un popolo allarga il respiro e ci fa sentire cittadini del mondo, desiderosi di amicizia e di pace.

Piero Demaria

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Francesco: «Il 2024 segni la svolta»

Per motivi di salute, Francesco – il papa ambientalista, il papa della casa comune – non ha presenziato alla Conferenza delle parti (Cop28) in corso a Dubai fino al 12 dicembre. Tuttavia, non ha fatto mancare il suo messaggio, letto davanti all’assemblea sabato 2 dicembre dal cardinale Pietro Parolin. In esso il pontefice ha usato un tono accorato, ma non ha rinunciato al suo pensiero critico rispetto alla questione climatica.

In primo luogo, ha ribadito le cause del cambiamento climatico: «È acclarato che i cambiamenti climatici in atto derivano dal surriscaldamento del pianeta, causato principalmente dall’aumento dei gas serra nell’atmosfera, provocato a sua volta dall’attività umana, che negli ultimi decenni è diventata insostenibile per l’ecosistema». Poi, ha scagionato i paesi del Sud dall’accusa di essere inquinatori: «Non è colpa dei poveri, perché la quasi metà del mondo, più indigente, è responsabile di appena il 10% delle emissioni inquinanti».

È il concetto di «debito ecologico» confermato anche a livello scientifico (The Lancet, settembre 2020): in quanto responsabili di gran parte dell’inquinamento, le nazioni ricche – Stati Uniti, paesi dell’Unione europea, Cina, Russia e Giappone – dovrebbero risarcire e aiutare quelle povere per una transizione ecologica che non li penalizzi ulteriormente.

Quindi, Francesco ha fatto la sua proposta mettendo insieme i due temi a lui più cari: la cura della casa comune e la pace. «Sono le tematiche più urgenti e sono collegate – ha scritto nel suo messaggio -. Quante energie sta disperdendo l’umanità nelle tante guerre in corso, come in Israele e in Palestina, in Ucraina e in molte regioni del mondo: conflitti che non risolveranno i problemi, ma li aumenteranno! Quante risorse sprecate negli armamenti, che distruggono vite e rovinano la casa comune! Rilancio una proposta: con il denaro che si impiega nelle armi e in altre spese militari costituiamo un Fondo mondiale per eliminare finalmente la fame […] e realizzare attività che promuovano lo sviluppo sostenibile dei Paesi più poveri, contrastando il cambiamento climatico».

Lo scioglimento dei ghiaccai è una delle conseguenze dell’innalzamento delle temperature. (Foto Noaa – Unsplash)

Il messaggio papale ha poi toccato il tema del multilateralismo: «Perché non iniziare proprio dalla casa comune? I cambiamenti climatici segnalano la necessità di un cambiamento politico. Usciamo dalle strettoie dei particolarismi e dei nazionalismi, sono schemi del passato. Abbracciamo una visione alternativa, comune: essa permetterà una conversione ecologica».

Infine, Francesco ha assicurato l’impegno della Chiesa cattolica «nell’educazione e nel sensibilizzare alla partecipazione comune, così come nella promozione degli stili di vita, perché la responsabilità è di tutti e quella di ciascuno è fondamentale».

«Qui si tratta di non rimandare più, di attuare, non solo di auspicare. […] Il 2024 segni la svolta» ha chiosato Francesco nella parte finale del messaggio. Poche ore dopo la lettura dell’intervento papale, Sultan Al Jaber, presidente della Cop28 e amministratore delegato della compagnia petrolifera Abu Dhabi National Oil Company (Adnoc), ha detto che nessun responso della scienza indica che sia necessaria l’eliminazione graduale dei combustibili fossili per limitare il riscaldamento globale a 1,5°C. A dimostrazione che la speranza del papa non sarà di facile realizzazione.

Paolo Moiola