Chi gioca alla guerra, chi crede nella pace


Incontro con uno dei promotori di Stop #Stopthewarnow

Una rete di 175 enti italiani porta in Ucraina aiuti contro fame e freddo, mette in salvo i più fragili, realizza progetti per l’acqua potabile, ma soprattutto stabilisce relazioni con persone e società civile locale per far crescere la pratica della pace. In Ucraina come in Italia ed Europa.

«Le armi non sono mai state la soluzione», recita un post dell’11 ottobre scorso sul profilo Facebook di «#Stopthewarnow» («ferma la guerra ora»), rete di 175 enti italiani impegnati in azioni nonviolente e umanitarie in Ucraina. Il giorno prima c’era stata la rappresaglia russa per l’attentato ucraino al ponte di Crimea, simbolo del potere del Cremlino: «In poche ore, 83 razzi e 17 droni colpiscono 14 regioni ucraine», prosegue il post. Solo una settimana prima, gli attivisti della rete erano stati a Kiev, nei luoghi che poi sarebbero stati bombardati. «Dopo mesi di terrore […] la guerra continua senza sosta […] – conclude il post -. Chiediamo con forza ai governi e a tutti noi cittadini di mobilitarsi, con ogni azione possibile, a favore di un immediato cessate il fuoco. Ora, prima che sia troppo tardi».

Un rete per la pace

La rete #Stopthewarnow, dal marzo scorso, ha organizzato quattro carovane della pace nei territori ucraini coinvolgendo in totale più di 500 volontari. Ha portato decine di tonnellate di beni alla popolazione; aiutato profughi a fuggire, soprattutto poveri che non ne avrebbero avuto i mezzi; ha portato in salvo decine di orfani e persone con disabilità; ha stabilito una presenza permanente a poca distanza dal fronte per dare aiuto, ad esempio con l’attivazione di dissalatori per fornire acqua potabile a Mykolaïv; ha avviato relazioni con realtà locali impegnate nell’assistenza alle vittime, nella resistenza nonviolenta e nel sostegno agli obiettori di coscienza, sia ucraini che russi.

Fin dai primi giorni della guerra, la rete ha proposto una lettura del conflitto diversa rispetto a quella dominante che vede nelle armi (sempre più potenti) l’unica modalità di difesa, e considera la resistenza nonviolenta una resa.

«La rete è nata per lanciare un messaggio di solidarietà e di opposizione al conflitto in Ucraina e per costruire un’alternativa alla follia della guerra – si legge nella home di stopthewarnow.eu -. È coordinata da una cabina di regia composta dalla Comunità Papa Giovanni XXIII, Pro civitate christiana e dalle reti nazionali Focsiv, Aoi, Rete Italiana Pace e Disarmo, Libera contro le mafie, in rappresentanza delle associazioni aderenti».

Sentiamo Gianpiero Cofano, uno dei promotori della rete, per farci dire com’è nata, cosa fa e con quali obiettivi.

In prima persona

StopTheWarNow, carovana Mykolaiv

«Io sono il segretario generale dell’Associazione comunità papa Giovanni XXIII (in sigla, Apg23, ndr.), nata nel 1968 da don Oreste Benzi e presente oggi in cinquanta paesi del mondo», si presenta Cofano, classe 1975.

«Ho iniziato la mia esperienza come obiettore di coscienza 28 anni fa. Ho vissuto per sei anni in zone di guerra: sono stato nei Balcani, in Kosovo, in Chiapas e altrove. L’Apg23, infatti, ha un corpo specializzato, l’Operazione Colomba, che interviene in situazioni di conflitto».

Quando è iniziata la guerra in Ucraina il 24 febbraio, l’Apg23 aveva una sua famiglia in missione a Leopoli. «Mi chiedevano di evacuare. Allora mi sono mosso per aiutarli, e quella è stata l’occasione per decidere di andare direttamente in Ucraina.

Da lì a una settimana, ci siamo messi in macchina per Leopoli. Era uno dei momenti più drammatici: scappavano dal paese in centinaia di migliaia. Tant’è che quando abbiamo tentato di entrare, le autorità polacche non ce lo consentivano: “Dove volete andare? Questa è una guerra”; e noi: “Sì, ma noi lo facciamo per lavoro”, e dopo il primo giorno di trattative, siamo riusciti a passare.

Si può dire che quello è stato il primo atto di #Stopthewarnow. E vedendo tutte quelle persone scappare, ho pensato: “In centomila scappano, sarebbe bello che in centomila venissero qui a implorare la pace”».

Parlamentari in Ucraina

Dopo i primi giorni concitati, Cofano e il gruppo di Apg23 hanno iniziato a prendere contatti e incontrare i vescovi, la Caritas, le Ong locali e, soprattutto, la gente: «Abbiamo passato diverse notti nei rifugi con la popolazione quando scattavano gli allarmi antiaereo – ci dice -, e così abbiamo sentito i primi racconti della gente che scappava dal fronte dove c’erano state già le prime uccisioni e distruzioni».

Nel frattempo, l’idea di portare 100mila persone in Ucraina, accompagnata dal ricordo delle marce per la pace di Sarajevo, si rafforzava. Ma far arrivare anche solo 10mila persone in quel contesto era impossibile: «Allora ho pensato: “Chiamo i rappresentanti dei cittadini, i parlamentari, per invitarli a venire con noi in Ucraina, e al ritorno portiamo alcuni bambini orfani sfollati dal fronte”. Hanno aderito più di quaranta parlamentari di ogni schieramento: un fatto straordinario! Poi, però, il ministero degli Affari esteri, e l’allora ministro Di Maio, ci hanno bloccati. L’unità di crisi mi convoca per dirmi che “no, voi siete matti, rischiate di far esplodere una guerra mondiale. Se qualcuno dovesse bombardare una delegazione di politici, saremmo costretti a entrare in guerra. È troppo pericoloso, non giocate alla guerra”, io ho risposto che, al massimo, noi crediamo nella pace, non giochiamo alla guerra».

«Toccare la carne viva»

#Stopthewarnow è una rete, a oggi, tra le più grandi in Europa. «Sono 175 enti di qualsiasi tipo – precisa Cofano -. Hanno aderito anche aziende, cooperative, sindacati, fino a tanti movimenti, anche della Chiesa cattolica, associazioni, e così via. Il fattore comune è quello di voler fare azioni di pace, di guardare questo conflitto da un altro punto di vista che non sia soltanto quello dell’invio delle armi, e quindi di sognare una pace nella quale siano protagonisti anche i civili».

Dopo un mese dall’inizio della guerra, #Stopthewarnow ha organizzato una prima carovana: «Ci siamo detti: “Ci sono organizzazioni umanitarie molto più strutturate di noi, però in questo momento non se ne vedono, e gli ucraini hanno bisogno».

Trentadue tonnellate di aiuti, 221 volontari, 67 automezzi, sono partiti il primo aprile da Gorizia per raggiungere Leopoli. «C’erano lunghissime code alla frontiera con la Polonia per uscire dall’Ucraina. Quasi nessuno in ingresso. E gli ucraini dicevano: “Ma cosa fate?”. E noi: “Veniamo a capire cosa state vivendo, a portare un messaggio di pace, stringere, abbracciare, toccare la carne viva”, come dice il papa nel suo ultimo libro sulla pace».

Non lasciamoli soli

All’inizio della guerra, chi aveva i mezzi economici è potuto scappare. Chi, invece, non li aveva, è dovuto rimanere sotto le bombe.

#Stopthewarnow, dopo aver consegnato gli aiuti, ha portato in Italia circa 300 tra bambini, anziani, persone con disabilità, poveri evacuati dalle regioni bombardate di Kramators’k e Mariupol. «Nei mesi successivi abbiamo fatto evacuare altre mille persone, sempre andando a scegliere quelli che non avrebbero avuto nessuna chance», continua Cofano. «La popolazione locale si domanda perché rischiamo la nostra vita per loro. Ma io penso che noi non possiamo preoccuparci di questa guerra solo perché si alza la bolletta energetica. Noi abbiamo il dovere di non lasciarli da soli».

Presenza

Tra le iniziative della rete in Ucraina, c’è anche quella di una presenza permanente a Mykolaïv. «La città si trova a cinque chilometri dal fronte. Durante il giorno passi più tempo nei rifugi antiaereo che fuori. Per noi l’obiettivo più grande è non lasciare nessuno da solo in questo momento in cui la sofferenza e la solitudine possono ammazzare più delle bombe».

Nel mondo, le presenze stabili di operatori nonviolenti sono diverse. L’Operazione Colomba, ad esempio, è presente in Palestina (cfr MC, gennaio 2021, p. 21), in Colombia e altrove.

Dall’inizio di questa guerra, #Stopthewarnow ha deciso di crearne una anche in Ucraina, persone che stanno lì per alcuni mesi, alternandosi, in modo da essere sempre almeno 5 o 6. «Sono piccoli gruppi di giovani selezionati e formati. A Mykolaïv, che è una città industriale sul mare, stiamo sviluppando dei progetti per affrontare il problema dell’acqua. Nei mesi scorsi sono scappate 250mila persone e ne sono rimaste 200mila, di cui l’80% anziani che vivono con i pasti offerti dalle mense di piccole organizzazioni locali. E non c’è acqua, perché l’acquedotto che arriva da Cherson è interrotto, e il sistema che filtrava l’acqua del mare è distrutto. L’acqua potabile arriva soltanto con le autobotti. Allora abbiamo iniziato a costruire dei dissalatori. Ce ne vorrebbero trenta per tutta la città. L’ultimo che abbiamo installato soddisfa circa 5mila persone al giorno».

Oltre all’aiuto materiale, lo scopo della presenza del gruppo a Mykolaïv è la vicinanza con la popolazione. «Andiamo anche nelle zone del fronte. Lì incontriamo anziani che non lasciano i villaggi nei quali hanno vissuto magari 70 anni. Quando andiamo, ci dicono: “State con noi, non fateci morire da soli, non dimenticateci. La vostra presenza ci dà speranza, coraggio”».

«Questa è la pace!»

Nei mesi, la rete ha portato in Ucraina più di 500 civili italiani. «Molti sono membri delle associazioni, ma altri no, come, ad esempio, un ex operaio di 74 anni che è già venuto due volte.

Alla prima carovana avevano aderito 1.250 persone. Poi, per ragioni logistiche e di sicurezza, anche perché in Ucraina c’è la legge marziale e sono vietati gli assembramenti, abbiamo scelto di portarne solo 220. Questo per dire che nel popolo, nella gente semplice, c’è una forte volontà di pace. Un altro esempio è quello di una famiglia: sono venuti a Mykolaïv due genitori e le loro due figlie di 18 e 19 anni. Su un pulmino stracarico, un papà e una mamma si sono assunti la responsabilità di portate sotto le bombe le loro figlie. È straordinario. Una famiglia per la pace che, quando è tornata indietro, ha portato con sé diversi ragazzi con disabilità che ora vivono con loro. Questa è la pace».

La carovana «politica»

L’ultima carovana ufficiale di #Stopthewarnow in ordine di tempo, tra il 26 settembre e il 3 ottobre, è stata quella più «politica»: accanto alla consegna di aiuti alla città di Chernivtsi, dove i volontari hanno constatato l’urgenza di far arrivare aiuti dall’estero a causa della riduzione del sostegno alla popolazione da parte del governo centrale, infatti, la carovana aveva lo scopo principale «di tessere rapporti di cooperazione con la locale società civile, a partire da due temi chiave – si legge in un articolo del 6 ottobre sul sito di Focsiv, la Federazione degli organismi di volontariato internazionale di ispirazione cristiana che è tra i promotori della rete -: la necessità di tornare a pensare e costruire la pace in tempo di guerra, ed il diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare, messo in discussione tanto in Russia quanto in Ucraina».

Il programma della carovana si è snodato tra l’università di Chernivtsi e Kiev, tra incontri con studenti universitari, organizzazioni di volontariato, sindacati, resistenti nonviolenti provenienti dai territori occupati, obiettori, pacifisti, istituzioni diplomatiche, la nunziatura apostolica e professionisti del peace building.

Il tema dell’obiezione è stato uno di quelli trasversali. Quando è scattata la legge marziale con l’inizio della guerra, la legge per l’obiezione di coscienza è stata subito sospesa. I 5mila ragazzi che avevano fatto domanda prima del 24 febbraio ed erano in attesa di una risposta per il servizio civile si trovano oggi in una situazione incerta: sono tutti richiamabili, ma chiedono al governo di svolgere il loro servizio alla nazione in ambito civile.

«C’è chi vuole mettere in atto forme di resistenza nonviolenta in Ucraina – prosegue il nostro interlocutore -. Però in questo momento tu sei obbligato ad andare al fronte se non vuoi rischiare una condanna. Noi cerchiamo di aprire vie di dialogo per sostenere, attraverso atti di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, soprattutto europea, coloro che non credono nelle armi, e vogliono percorrere, invece, altre strade. Sia in Ucraina che in Russia gli obiettori sono di più di quelli che si palesano, ma quando c’è la legge marziale da una parte e il controllo totale dell’informazione dall’altra, è difficile capire quanti sono davvero».

Tra le conseguenze concrete della quarta carovana, c’è l’attivazione di «gemellaggi» e supporti a distanza tra realtà affini in Italia e Ucraina. Ad esempio, tra il Movimento nonviolento italiano e il Movimento pacifista ucraino per il pagamento delle spese legali a favore degli obiettori incriminati, o l’avvio di partnership tra università ucraine e i dipartimenti universitari che in Italia ed Europa si occupano dello studio delle strategie della pace.

Operatori di pace

#Stopthewarnow, oltre a operare in Ucraina, cerca di costruire consenso sulla pace e le sue strategie nonviolente in Italia e in Europa. Uno dei segni di questo, sono le manifestazioni per la pace che hanno portato 30mila persone in più di 100 piazze italiane tra il 21 e il 23 ottobre, e la marcia di 100mila del 5 novembre a Roma, promossa dalla rete Pace e Disarmo tramite Europe for Peace, cartello di più di 600 realtà della società civile Europea, a cui anche i missionari italiani e le loro riviste hanno aderito. «Uno degli obiettivi delle carovane in Ucraina è quello di far sì che questa non diventi l’ennesima guerra dimenticata nel mondo – chiosa Cofano -. In uno degli ultimi viaggi fatti a Mykolaïv, ho detto ai volontari: “Voi pensate di essere venuti qui per scaricare i vostri pulmini, come per scaricare le vostre coscienze: ‘Ho portato gli aiuti ai bambini che soffrono e agli anziani’, e quindi di tornare belli leggeri a casa”. Ho detto: “No, mi dispiace, tornerete ancora più pesanti, perché portate a casa l’angoscia, la violenza, il pianto delle persone che avete incontrate. Il nostro vero lavoro comincia adesso, condividendo, testimoniando in Italia quello che abbiamo vissuto”. Io sogno che, quando organizzeremo altre carovane, ci saranno sempre più persone. Allora sì che avremo fatto politica, e che i politici ci terranno in considerazione. Qualcuno mi dice che bisognerebbe parlare con loro, ma io rispondo che dovrebbero venire loro a chiederci cosa abbiamo visto. Perché della guerra non sanno niente, non ci sono mai stati, e hanno votato cose senza conoscere la realtà del paese».

Prossime tappe

Mentre scriviamo queste righe, #Stopthewarnow continua a ideare iniziative per i prossimi tempi: «In questi giorni stiamo valutando una proposta con un’organizzazione americana di andare a fare gli scudi umani a Zaporižžja, attorno alla centrale nucleare. Scudi umani internazionali a protezione della centrale nucleare, in un territorio controllato dai russi, sperando di fare da deterrente al bombardamento. Stiamo cercando un accordo anche con l’Aiea, l’agenzia atomica internazionale, che sta monitorando il sito. Abbiamo poi già deciso di compiere una nuova carovana in Ucraina: vogliamo continuare sulla scia delle precedenti, anche perché creano un effetto moltiplicatore di sensibilizzazione in Italia.

Continuiamo, poi, la nostra presenza a Mykolaïv, nonostante stia diventando sempre più dura anche per noi. Con la campagna per l’acqua in quella città dobbiamo fare presto, perché non si può trivellare con il ghiaccio.

Il comune denominatore delle realtà che compongono #Stopthewarnow è di partire dai bisogni rilevati dal basso nei luoghi della guerra, e poi quello di abitare il conflitto. Quindi vivremo con loro anche questo duro inverno. Staremo con loro: questa è la scelta di fondo. Non faremo tanto? Faremo nulla? Però saremo lì con loro. Sarà utile o non utile? Non dimenticarli sarà già una cosa utile».

Luca Lorusso

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Maralal. Servire con «gioia»


Una storia da uomo tranquillo, ma costantemente in ricerca. Il che lo mette di fronte a scelte importanti. Un passo dopo l’altro diventa missionario, poi, con la forza della mitezza, continua il suo servizio a vari livelli. E non smette mai di formarsi. Fino a quando papa Francesco lo chiama.

La diocesi di Maralal occupa una superficie di 20.800 chilometri quadrati, di territorio in prevalenza desertico. Vi sono alcune montagne, sulle quali le precipitazioni rendono il clima un po’ più umido e la zona più arborata. In questo lembo di terra nel centro Nord del Kenya vivono diversi popoli, in prevalenza allevatori nomadi: Samburu, Turkana, Pokot, Rendille, Gabbra, a cui si sono uniti, specialmente nei centri principali, Somali, Kikuyu, Luo e Akamba.

Una diocesi relativamente giovane, creata nel 2001 scindendo in due quella di Marsabit. Le uniche cittadine sono l’omonima Maralal, Wamba e Baragoi. Il primo vescovo è stato monsignor Virgilio Pante, missionario della Consolata, uomo molto attivo e presente sul territorio. Nel luglio scorso papa Francesco ha nominato padre Hieronymus Joya (pronuncia: gioia), 57 anni, come successore di monsignor Pante. Il 22 ottobre monsignor Joya è stato consacrato.

Pure lui missionario della Consolata, è originario della diocesi di Bongoma, nell’Ovest del Kenya, in particolare di un villaggio, Asinge, a pochi chilometri dalla frontiera con l’Uganda. Ha un parlare pacato e riflessivo il neo vescovo, che raggiungiamo telefonicamente. Si rivela subito molto disponibile.

«Vengo da una famiglia molto cattolica», ci dice, «i miei nonni ebbero difficoltà a essere battezzati, perché durante il periodo coloniale non c’erano missioni nella nostra zona, quindi dovettero andare nella vicina Uganda. Poi i coloni decisero che la gente non poteva più passare la frontiera liberamente. Così il mio villaggio fu unito alla parrocchia di Kakamega, a circa 100 km da casa. I miei genitori furono battezzati lì. In seguito, nel 1926, fu aperta una parrocchia a Nangina, a circa 50 km dal nostro villaggio. Si andava a piedi, e talvolta occorrevano quattro settimane per andare, restare per il catechismo e poi tornare».

Nel 1948 alcuni missionari aprirono la missione di Chakol, a sette km dal villaggio. Una parrocchia ancora attiva oggi.

Monsignor Joya ci racconta che fu lì a Chakol che partecipò al catechismo e poi divenne chierichetto quando frequentava la scuola primaria. Durante l’ultimo anno il parroco chiese a lui e agli altri bambini se fossero interessati a proseguire gli studi nel seminario minore.

«Nel dicembre 1981 feci domanda con altri quattro chierichetti. Passammo un colloquio, così nel 1982 iniziammo il seminario. Avevo passato il test anche in tre scuole pubbliche, ma scelsi il seminario: forse si può dire che è qui che comincia la mia vocazione».

Il neovescovo ci racconta un aneddoto famigliare: «Anche mio padre aveva fatto il seminario, ma non aveva potuto continuare, perché era l’unico maschio di cinque figli, quindi i suoi genitori preferirono che restasse a casa per occuparsi delle questioni di famiglia. Le figlie, nella tradizione, si sposano e lasciano la famiglia di origine. Così mio padre dovette lasciare il seminario. Poi si sposò e nascemmo noi, tre sorelle e cinque fratelli».

E, sospirando, aggiunge: «Penso che sia stata la volontà di Dio, che uno dei suoi figli diventasse prete. E sono stato scelto io».

Dopo la messa con le donne di Azione Cattolica s Maralal.

La chiamata

Poi ci racconta il suo primo incontro con i missionari della Consolata: «Nel 1985 eravamo in seminario, e, con i compagni, andavamo a leggere nella biblioteca. Padre Luigi Bruno della Consolata, portava la rivista The Call, e noi la leggevamo con interesse. Era il direttore vocazionale della Consolata. Noi eravamo curiosi. Gli scrivemmo una lettera per capire meglio chi fossero questi missionari della Consolata. Lui ci rispose, ma la sua lettera fu intercettata dal rettore del seminario che ci chiese perché avevamo scritto alla Consolata e se, quindi, avevamo rinunciato a diventare diocesani».

Alla fine del periodo di studi, la scelta di fronte al giovane Joya era tra continuare per due anni la scuola superiore e diplomarsi, oppure andare in seminario a studiare teologia. Ma i suoi genitori gli dissero che non avevano abbastanza risorse e che avrebbe dovuto trovare un lavoro per aiutare a pagare gli studi alle sorelle e ai fratelli più piccoli. Nel frattempo, padre Bruno lo aveva invitato al seminario di Kisumu per una settimana di conoscenza per aspiranti missionari. Hieronymus riuscì a parteciparvi, ma poi dovette scegliere il lavoro.

Alla St. Theresa Secondary School

La strada in salita

«Andai a Kisumu, da uno zio, e iniziai a lavorare in una stazione di benzina. In questo modo misi da parte dei soldi e mi pagai il college, dove studiai marketing e strategie di vendita. Continuai gli studi anche grazie a un insegnante che mi pagò la metà dei costi d’iscrizione. Una volta finito, nel 1987, trovai subito lavoro come contabile in un hotel».

Il giovane Hieronymus non aveva problemi a trovare lavoro. Ne cambiò parecchi passando dall’ufficio vendite di una assicurazione alla gestione di un progetto che portava l’acqua potabile nella sua zona.

Intanto padre Bruno continuava a scrivergli e nel 1989 lo invitò a visitarlo a Langata, nella periferia di Nairobi, dove gli aspiranti missionari della Consolata studiano. «Andai a visitare padre Bruno, che mi disse che se l’ostacolo era finanziario, non avrebbe chiesto nulla alla famiglia. Lui avrebbe potuto aiutarmi per fare la formazione con la Consolata».

Visita a Baragoi, incontro alal grotta della Madonna.

Il bivio

«Quando tornai a casa, si era creata un’opportunità: la Henkel oil company, cercava un responsabile delle vendite per tutta la regione Ovest del Kenya. Feci il colloquio e lo passai.

A quel punto il bivio era chiaro: andare alla Henkel o entrare dai missionari della Consolata? Andai un po’ in crisi. Ne parlai con mio padre e lui disse: «Sei tu che devi scegliere, ma parla anche con tua madre». Anche lei mi disse che la decisione era solo mia. Così io decisi di andare al corso di orientamento della Consolata, che si teneva nel marzo 1990. Dopo l’orientamento fui invitato al seminario della Consolata per iniziare ad agosto».

Così l’esperto di vendite e marketing affrontò gli studi di filosofia e poi il noviziato tra il ‘93 e il ‘94. Fece la sua professione religiosa ad agosto di quell’anno e completò gli studi di teologia nel 1998. Nel frattempo era diventato diacono e venne ordinato sacerdote il 5 settembre 1998 nella sua parrocchia a Chakol. La sua prima missione fu a Loyangalani, cittadina sul Lago Turkana nel grande Nord, allora nella diocesi di Marsabit.

L’Italia a piedi

Monsignor Joya ricorda con fierezza la prima esperienza in Italia: «Nel 2000 andai in Italia per la celebrazione del Giubileo. Un gruppo di Lamon (Belluno), paese di monsignor Pante, aveva chiesto un sacerdote per essere accompagnato in un pellegrinaggio a piedi da Lamon a Roma. Percorremmo 650 chilometri in tre settimane». Fu durante quel soggiorno in Italia che poi andò a Torino, a visitare i luoghi storici del beato Allamano e il santuario della Consolata. Al ritorno in Kenya, divenne parroco a Loyangalani e fu chiamato da monsignor Ambrogio Ravasi a fare parte del consiglio presbiterale della diocesi di Marsabit.

In seguito, dal 2003, fu superiore del seminario filosofico della Consolata a Nairobi. A fine 2007 lo troviamo responsabile del centro pastorale di Maralal, che lasciò nel 2009 perché eletto vice superiore regionale (lavorando con padre Franco Cellana, superiore) e, dal 2011 al 2016, divenne superiore regionale dei missionari della Consoalta di Kenya e Uganda. Ritornato poi come formatore al seminario filosofico di Langata, ricevette l’incarico dal consiglio generale di valutare e preparare la nuova apertura in Madagascar, avvenuta nel 2018.

Riprese pure gli studi, portando a termine un dottorato di ricerca in pastorale. «La mia missione è stata nel Nord del Kenya, con i nomadi, e a Nairobi, per gli studi. Speravo, dopo il dottorato, di poter andare via da Nairobi e dal Kenya, ma… il santo padre mi ha riportato dai nomadi», dice il monsignore, chiudendo con una risata.

Una diocesi desertica

Oggi la diocesi di Maralal conta 15 parrocchie, alcune con un’estensione molto vasta. Ad esempio, a Wamba ci sono 28 cappelle sul territorio parrocchiale. Ci sono 25 preti diocesani e dieci missionari, di cui quattro della Consolata. Sono presenti anche diverse congregazioni di suore.

Monsignor Joya conosce bene il territorio e ci descrive le sfide principali con le quali dovrà misurarsi.

«Una delle sfide principali è il clima. La zona è desertica, con mancanza cronica di acqua per uomini e animali, a eccezione delle zone di montagna. C’è una stagione delle piogge, ma nella zona arida non piove quasi mai. Una situazione che crea conflitti tra comunità, in particolare tra gruppi di allevatori, che sono la maggioranza. C’è una vera lotta per l’acqua: a volte quella che viene usata è presa da torrenti, e non è pulita. Anche scavare pozzi è impegnativo, perché spesso si trovano falde di acqua salata e allora bisogna scavare a grandi profondità.

Un altro problema sono le strade. La sola strada asfaltata è attualmente quella che porta a Maralal città. Le altre sono pessime, talvolta impossibili da percorrere. A questo si aggiunge la difficoltà di comunicazione. In alcune zone si riesce a telefonare con i cellulari, ma nella maggior parte del territorio non c’è copertura.

E poi la mancanza di elettricità: a parte i centri principali, come Maralal e Wamba, dove arriva la rete nazionale, molte missioni devono usare sistemi solari o generatori.

I conflitti tribali si sommano a quelli per l’acqua e per i pascoli. Sono frequenti i furti di animali tra i gruppi. Questo causa molti problemi tra le comunità, lotte e uccisioni (come quella riferita a p. 5 di questo numero, ndr)».

A Suguta Marmar.

Territorio ad gentes

Nel territorio diocesano, che conta circa 350mila abitanti, i cattolici superano i 100mila, seguiti dai protestanti evangelici. I musulmani sono pochi, circa duemila. La maggioranza della popolazione segue le religioni tradizionali, anche quando sono battezzati. «Per questo motivo, ci spiega mons. Joya, possiamo dire che si tratta ancora di una zona di prima evangelizzazione, ad gentes».

Una delle sfide del vescovo è quella di creare altre parrocchie per servire la gente e ridurre la difficoltà dei preti nel coprire grandi distanze: «Non abbiamo risorse per supportare le parrocchie – ci dice -. E anche le altre istituzioni per l’educazione, la salute, hanno bisogno di fondi.

La diocesi ha due scuole secondarie per ragazze, che funzionano bene, due per ragazzi, il seminario minore, due scuole primarie. La maggioranza delle altre scuole primarie e secondarie sono state iniziate dai nostri missionari, ma sono passate al governo, e molte hanno dei problemi: mancanza di insegnanti, edifici deteriorati, materiali didattici insufficienti. Inoltre, molti insegnanti non vogliono andare a lavorare in aree rurali così sperdute».

La Chiesa ha anche una buona presenza nel settore sanitario: «In ogni parrocchia c’è un dispensario o un centro di salute, e c’è un grande ospedale della diocesi a Wamba, che attualmente ha diversi problemi perché mancano soldi per farlo funzionare, per pagare il personale, comprare le medicine. È il più grande di tutta diocesi. Il secondo, gestito dallo stato, è a Maralal, anch’esso non funziona molto bene per mancanza di risorse».

I progetti del vescovo

Con il vescovo Virgilio Pante a Barsaloi presso la statua della Consolata samburu

Il nuovo vescovo ha entusiasmo e tanti progetti per la diocesi: «Voglio continuare nel solco del cammino aperto dal vescovo Pante. Lui ha lavorato affinché le strutture della diocesi funzionassero bene e fossero organizzate.

Poi vorrei migliorare le strutture di gestione e amministrazione delle istituzioni della diocesi, e fare un piano su come rivitalizzare quelle che non funzionano, che possano iniziare a fornire servizi di qualità, e amministrarli correttamente.

Un altro programma è sviluppare collegamenti con i finanziatori, alcuni dei quali erano presenti sul territorio, ma poi, a causa di alcune difficoltà, hanno interrotto il supporto. Ad esempio, c’erano medici specialisti che venivano ad aiutare nell’ospedale di Wamba, ma ora non vengono più. Vorrei ricontattare le organizzazioni non profit, nazionali e internazionali che avevano programmi nella diocesi, per convincerle a tornare.

È mia intenzione chiamare congregazioni di donne e uomini, per venire a fornire servizi alle persone nelle zone più difficili».

Grazie forse alla sua formazione, il vescovo è molto sensibile alla sostenibilità economica: «Vorrei utilizzare alcune specificità delle istituzioni per produrre reddito che possa servire a tutta la diocesi». Senza dimenticare la formazione per gli agenti di evangelizzazione: i catechisti, i laici, i preti, i membri del consiglio pastorale diocesano, ma anche delle associazioni cattoliche, perché «ce ne sono molte, di donne, di giovani, in favore dei bambini in difficoltà».

Monsignor Joya sottolinea anche l’importanza del programma di animazione vocazionale, per stimolare nuove vocazioni missionarie.

Marco Bello

Nella missione di Lodokejek.




Ogni pace e ogni guerra hanno una storia


Una giornalista racconta alcuni dei molti conflitti dimenticati del mondo, e ci dice che ogni guerra insegna qualcosa su come si può fare la pace. Un diplomatico italiano racconta gli ultimi giorni della Nato in Afghanistan, cercando anzitutto le radici lontane di un fallimento e di una speranza.

La meccanica della pace

Quando La meccanica della pace, firmato da Elena Pasquini, esce a metà luglio con People, è piena estate, e la guerra in Ucraina ha compiuto molte devastazioni. All’orizzonte non c’è alcuna speranza né di un cessate il fuoco, né, tantomeno, di una pace tra le parti. Di fronte a questo scenario che non favorisce l’ottimismo, mi sembra cosa buona e giusta consigliarvene la lettura.

Pasquini è una brava e capace giornalista che, da oltre venti anni, con grande sensibilità, osserva da vicino le crisi internazionali. Soprattutto quelle umanitarie, che sono sempre tante, troppe e molto spesso fuori dal circuito dell’informazione.
Esistono, ma non esistono.

Nel suo La meccanica della pace, non solo ci porta nei luoghi dimenticati dalle cronache di guerra in Africa, Medio Oriente e America Latina, ma ci racconta esperienze che dicono una pace possibile da trovare.

«Ogni guerra è diversa, ogni guerra distrugge qualcosa in maniera definitiva, vite, beni, risorse, storia, radici – scrive l’autrice -, ma ogni guerra insegna qualcosa su come si può fare la pace e che la pace è possibile. La pace non è un cessate il fuoco e neppure un accordo. E non è data per sempre. Una pace possibile è fatica, impegno incessante, vigilanza anche quando sembra raggiunta o scontata. E la risoluzione dei conflitti armati è “il più drenante” e logorante dei lavori».

Esiste quindi un meccanismo che mette in relazione gli opposti. La diatriba tra Caino e Abele non deve avere per forza un finale scontato. A loro è mancato un mediatore, o una mediatrice.

Nelle dieci storie raccolte nel libro, non a caso, molte protagoniste dei processi di pacificazione sono donne.

Per costruire la pace senza usare la guerra serve tanta voglia di sporcarsi le mani, grande determinazione, enorme spirito di adattamento, rispetto per tutti, ma proprio tutti, gli attori in campo. E no, non servono eroi.

«Fare la pace è dolorosa pazienza che una vittoria militare non garantisce – scrive Elena Pasquini -. Pace compiuta o parziale, che inizia quando si accoglie l’esistenza dell’altro, il nemico, e dove “nessuno vince tutto e nessuno perde tutto”. Serve qualcuno che inneschi la scintilla, che accenda la luce, che riconosca la realtà e metta in moto il meccanismo».

Chissà se e quando questa logica lineare, semplice nella sua essenzialità, inizierà a prendere il sopravvento sul linguaggio della violenza.

 

L’ultimo aereo da Kabul

C’è un altro libro, uscito quasi in contemporanea con Piemme, che, invece, racconta la storia di un fallimento diplomatico e porta la firma di Stefano Pontecorvo, già ambasciatore italiano in Pakistan, ma soprattutto rappresentante civile della Nato in Afghanistan.

È lui l’uomo che ha coordinato, nell’aeroporto di Kabul, l’evacuazione dei civili afgani in fuga dal ritorno dei taliban, in un contesto che definire apocalittico pare misurato.

Era la fine del mese di agosto dello scorso anno.

L’ultimo aereo da Kabul. Cronaca di una missione impossibile è un libro fondamentale, soprattutto per un motivo: alla catastrofe finale il suo autore dedica solo due capitoli, il nono e il decimo. Gli altri otto sono una approfondita analisi storica del contesto che ha preceduto tutto quello che abbiamo visto un anno fa, partendo dagli albori della storia afgana, ed entrando nelle dinamiche tribali, religiose, economiche. Tutto quasi completamente ignorato nei vent’anni di presenza militare occidentale in quel paese.

Pontecorvo, che è figlio di diplomatici, già da bambino viveva in quella fetta di Asia e, in quell’aerea sospesa tra cultura araba e persiana, all’ombra di Cina e India, vi ha trascorso più tempo che in Italia.

«Alle 18.21 di venerdì 27 agosto 2021 terminò formalmente l’avventura afgana della Nato – scrive l’ex ambasciatore -. In quel momento il C130 italiano sul quale ero imbarcato, ultimo rappresentante dell’Alleanza atlantica a lasciare il paese, passò il confine tra l’Afghanistan e il Pakistan. Per la prima volta in vent’anni l’Afghanistan era senza presenza Nato. Lasciammo il paese e lo lasciammo male, in mano a quegli stessi talebani che avevamo cacciato dal potere in poche settimane venti anni prima. E lasciammo un paese che aveva creduto in noi e una popolazione condannata ancora una volta, non certo per scelta, a un futuro ben diverso da quello che le avevamo fatto intravedere».

Avere ignorato la storia del contesto, averne ignorato i meccanismi (per recuperare il lessico della Pasquini), ha prodotto una sequela di errori che alla fine si sono sommati alla decisione presa dall’allora presidente Donald Trump di lasciare del tutto e definitivamente l’Afghanistan per motivi di pura politica interna.

L’ultimo aereo da Kabul è una sorta di manuale, un compendio di «cose da non fare se» ti occupi di diplomazia, se devi sanare ferite, se devi chiedere a tribù che si odiano da secoli di fare un governo insieme.

Interessante è, ovviamente, anche il punto di vista di Pontecorvo: uomo occidentale, che ha vissuto l’Oriente, ne è stato contaminato ed è stato chiamato a scrivere una delle pagine più tragiche della sua storia recente.

Traspare spesso nelle sue parole un senso di amarezza che però attenua nelle ultime pagine del libro, quando si chiede: ne è valsa la pena andare laggiù per vent’anni se il risultato è stato questo? La risposta è: sì. «Conosciamo la storia del bambino che mette il dito nel foro di una parete della diga e impedisce all’acqua di […] allargare la falla, salvando il suo villaggio dall’inondazione. […] Quel bambino è la Nato. Fino a che abbiamo tenuto il dito […], il sistema ha retto per gli afgani e per noi. […] Abbiamo lasciato un Afghanistan ben diverso da come lo abbiamo trovato. Vent’anni fa non vi erano praticamente scuole, sanità, educazione, le donne vivevano nel Medioevo. […] Tutto questo è cambiato e lo abbiamo cambiato noi. […] L’età media afgana è di 28 anni, una intera generazione è crescita esposta alla guerra, ai troppi morti causati da essa, ma anche avendo negli occhi un modello alternativo e la consapevolezza di cosa significhi vivere una vita diversa. Per l’Afghanistan vi è ancora una speranza».

Sante Altizio




È tempo per una nuova Colombia


Dallo scorso 7 agosto il paese latinoamericano è guidato da Gustavo Petro e Francia Márquez, un politico di sinistra e un’afrocolombiana. In queste pagine Angelo Casadei, missionario della Consolata, racconta il proprio stupore davanti a un cambio considerato epocale.

Arrivai in Colombia per la prima volta nel 1986, poco dopo l’assalto e la terribile strage (101 morti) al Palazzo di giustizia di Bogotá, compiuta dal gruppo guerrigliero M-19 (novembre 1985).

In quegli anni, il paese era in pieno boom (bonanza, in spagnolo) della coca e le Farc, il principale gruppo guerrigliero, avevano trovato nel traffico della droga un mezzo per finanziare la loro guerra contro lo stato. Era pure il tempo del grande narcotrafficante Pablo Escobar (1949-1993), che con la sua guerra mise in ginocchio l’intero paese.

Il 9 marzo del 1990 l’M-19 depose le armi (pagando l’accordo con l’assassinio di molti suoi leader) e iniziò a partecipare attivamente alla vita politica: all’assemblea costituente e al rinnovo della Carta costituzionale (1991), nella quale le popolazioni indigene e gli afrocolombiani, fino ad allora invisibili, trovarono finalmente spazio con diritti e doveri.

Il neo presidente colombiano Gustavo Petro (a destra) con l’ex presidente Álvaro Uribe in una riunione avvenuta a Bogotà lo scorso 29 giugno, poco dopo la vittoria elettorale. Foto Gustavo Petro’s Press Office – AFP.

Gli anni di Uribe

Nel 2002, le elezioni presidenziali furono vinte da Álvaro Uribe Vélez che aveva creato un suo partito. Una volta salito al potere, Uribe iniziò una guerra sfrenata contro la guerriglia e in modo particolare contro le Farc, definendo queste un gruppo terrorista davanti alla comunità nazionale e internazionale.

Quando – era il 2005 – per la seconda volta tornai in Colombia, trovai una popolazione esausta per tanta violenza e una guerra di cui non vedeva la fine. Nel 2006, Uribe venne riconfermato presidente governando fino al 2010. Suo successore venne eletto Juan Manuel Santos, già ministro della difesa del suo governo. Santos però si allontanò dalla politica uribista facendosi promotore di un accordo di pace.

Nel 2014 venne rieletto proprio per portare a termine questo percorso di pacificazione che, dopo un lungo e travagliato cammino, si chiuse con gli accordi firmati in territorio neutrale, a Cuba, il 26 settembre 2016.

Nel 2018, alla presidenza del paese arrivò Iván Duque, un altro delfino di Uribe, anzi una sua brutta copia che avrebbe alimentato il malcontento tra la popolazione, soprattutto tra i giovani i quali, mossi anche da gruppi di sinistra, nel 2021 avrebbero organizzato i paros nacionales (scioperi nazionali) contro alcune riforme governative che ancora una volta andavano a favorire il sistema politico vigente e le classi più elevate.

Il 19 giugno 2022 (nel secondo turno elettorale), dopo un’intensa campagna con tensioni e conflitti, il popolo colombiano ha eletto presidente della Repubblica Gustavo Francisco Petro Urrego e Francia Elena Márquez Mina come vicepresidente.

Il villaggio di Hericha, sul fiume Orteguaza (Caquetá). Foto Angelo Casadei.

Una svolta storica

Sicuramente l’elezione di Gustavo Petro e Francia Márquez segna un cambio profondo nella storia colombiana, un punto di rottura nella politica nazionale e internazionale. L’elezione di un ex guerrigliero di sinistra e di una donna afro proveniente da una classe povera è qualcosa d’impensabile fino a qualche anno fa.

La Colombia è stata sempre governata da politici della destra e dai ricchi che dominano il paese fin dall’indipendenza dalla Spagna (luglio 1810). Pertanto, quello che è successo il 19 giugno 2022 è una pagina nuova e inaspettata.

È un fatto che queste elezioni abbiano dato un «giro» completo alla politica della Colombia, un paese «dove si vive il classismo, il razzismo, la violenza e la paura dei poveri», come direbbe la giornalista Yolanda Ruiz.

Esse hanno rappresentato l’emergere dell’«altra Colombia», della Colombia emarginata e messa alla periferia della vita. Esse hanno significato l’emergere di gruppi e settori storicamente discriminati ed esclusi, come sono i giovani, le donne, gli afrocolombiani, gli indigeni, i contadini e le minoranze sessuali.

Analizzando il risultato delle votazioni, un’altra impressione è che il paese ha messo in luce una forte polarizzazione politica sia per il numero di candidati presentatisi sia per le poche migliaia di voti che hanno separato Gustavo Petro dal suo rivale Rodolfo Hernández.

Alla fine di tutto nessuno ignora che l’elezione di Gustavo Petro e di Francia Márquez rappresenta una grande sfida per il paese e per il mondo: per la sua novità e per i possibili ostacoli che si potranno incontrare lungo questo nuovo cammino.

È sicuramente vero che sono molti i rischi che aleggiano sulla presidenza di Gustavo Petro. I maggiori sono la frattura sociale, lo scontento diffuso, la violenza. L’opposizione di certo non lo lascerà governare facilmente, come pure gli enti di controllo, gli apparati della giustizia, i gestori della finanza pubblica, e lo stesso esercito. In una parte dei colombiani c’è, inoltre, il timore che la Colombia intraprenda una strada come quella del vicino Venezuela.

La realtà è molto diversa. Ci troviamo davanti a un popolo lavoratore che, in questi anni, ha sostenuto l’economia, anche nei duri momenti della pandemia. Penso che, se la Colombia avesse voluto un cambiamento, in questo momento storico non avrebbe potuto che trovarlo nel presidente eletto.

La scuola elementare – una costruzione in legno e una in cemento – de La Macarena (Solano, Caquetá). Foto Angelo Casadei.

Una coppia unica

Gustavo Petro ha una grande esperienza politica che ha coltivato e sperimentato prima come sindaco di Bogotà, poi facendo parte dell’opposizione.

Petro è stato anche l’unico dei candidati che avesse un progetto di governo chiaro e preciso che punta molto sulla pace, la giustizia, l’educazione, l’ambiente e sull’appoggio alle classi povere. D’altra parte, per prima cosa, il neopresidente ha chiesto collaborazione all’opposizione per governare insieme e fare crescere il paese.

Al suo fianco, Petro si trova Francia Márquez, altra grandissima novità della storia politica colombiana: un evento nell’evento.

È, infatti, la prima volta che una donna afrocolombiana, proveniente dalle classi povere e madre sola, arriva nelle alte sfere del potere. Si tratta di una forma di rivincita storica del popolo afrocolombiano, discriminato ed escluso. Speriamo che sia questo l’inizio di un grande processo di emancipazione e di consolidamento dell’altra Colombia, quella emarginata, ghettizzata e senza dignità.

L’Uribismo di Iván Duque

Qual è il bilancio sul governo uscito di scena? Non è facile esprimere un giudizio sulla presidenza di Iván Duque. La sua elezione aveva significato il ritorno al potere dell’«uribismo». Duque è stato il successore di Juan
Manuel Santos, un altro discepolo di Álvaro Uribe che però, una volta eletto, aveva preso le distanze dal maestro (soprattutto firmando un accordo di pace mai accettato dall’ex presidente).

Iván Duque è stato eletto presidente come il consacrato di  Álvaro Uribe. Grazie a quest’ultimo, egli è passato dall’anonimato a figura di primo piano nella politica nazionale. Anzi, secondo alcuni, Duque è stato una specie di reincarnazione di Álvaro Uribe e il suo progetto si è identificato con l’«uribismo».

La presidenza di Iván Duque può essere classificata come una sorta d’esperimento. L’apparente improvvisazione nella selezione dei membri dell’esecutivo (con continui cambiamenti) e l’attuazione d’iniziative e progetti estemporanei ne sono la prova.

Sul suo bilancio complessivo ci sono pareri differenti: la presidenza Duque ha cioè generato sentimenti contrastanti, alcuni di approvazione, altri di disapprovazione.

Mons. Luis Castro, missionario della Consolata e intermediario nel processo di pace colombiano, morto lo scorso 2 agosto 2022. Foto Paolo Moiola.

Mons. Luis Castro, costruttore di pace

Nel percorso colombiano verso la pace va ricordato mons. Luis Augusto Castro Quiroga, missionario della Consolata, morto a 80 anni lo scorso 3 agosto. Lui è stato coinvolto in prima persona negli accordi di pace: è stato ai colloqui di Cuba, ha parlato a favore delle vittime, ha dialogato con molti ex guerriglieri. È sempre stato in favore dell’accordo di pace, perché – diceva – «un cattivo accordo è sempre meglio che la guerra».

Non è diventato cardinale di Bogotá perché ha sempre parlato chiaro per la pace e contro la politica di guerra dell’allora presidente Uribe.

A parte l’opera di mons. Castro, in questi ultimi anni, la Chiesa cattolica colombiana ha avuto notevoli cambiamenti impegnandosi di più in ambito sociale.

Nell’ultimo processo elettorale, non si è allineata con nessuno dei candidati alla presidenza. Al secondo turno, ha rispettato le proposte dei candidati rimasti in lotta: quella di Gustavo Petro e quella di Rodolfo Hernández. E ha invitato a esercitare il diritto al voto. In occasione delle ultime elezioni la partecipazione è stata, in effetti, molto alta rispetto alle votazioni precedenti. Finalmente molti giovani hanno esercitato il loro diritto di scelta.

All’inizio della mia seconda esperienza missionaria in Colombia, i superiori mi avevano destinato a Remolino del Caguán (Caquetá), terra di narcotraffico e con una forte presenza di guerriglia. All’epoca, quando m’incontravo con alcuni comandanti delle Farc, tutti mi confermavano che, per cambiare la situazione, bisognava arrivare al potere a tutti i costi e, l’unico modo – argomentavano ,- era attraverso le armi perché il sistema politico colombiano – incentrato su 46 famiglie che da oltre 200 anni detengono il potere – si disinteressava delle classi più povere della nazione.

La storia ha invece preso un cammino diverso con gli accordi di pace, lo scioglimento delle Farc e, infine, la vittoria di un ex guerrigliero e di una donna afrocolombiana.

Il popolo colombiano

Vivendo in questo bellissimo paese ormai da anni, sono stato testimone delle sue mille contraddizioni con un popolo che, da decenni, vive in mezzo alla violenza e all’ingiustizia, ma nonostante tutto rimane pieno di speranza e con una voglia di vivere straordinaria; un popolo accogliente, felice e sempre pronto a fare festa; un popolo lavoratore, mal retribuito ma con una grande capacità di superare le avversità per costruire un futuro diverso e migliore.

Angelo Casadei

 


Archivio MC

Articoli e video sulla Colombia:

Il gesuita padre Rengifo, presidente della Cev, mostra un volume della relazione finale della Commissione da lui presieduta.


La relazione finale della Cev

450.664 morti (ma «c’è un futuro se c’è verità»)

«Portiamo un messaggio di speranza e futuro per la nostra nazione violata e spezzata. Verità scomode che sfidano la nostra dignità, un messaggio per tutti come esseri umani, al di là delle opzioni politiche o ideologiche, delle culture e delle credenze religiose, dell’etnia e del genere». E ancora: «Invitiamo a guarire il corpo fisico e simbolico, multiculturale e multietnico che formiamo come cittadini e cittadine di questa nazione».

Sono due passaggi iniziali di Hay futuro si hay verdad, la relazione finale della Commissione della verità (Comisión del esclarecimiento de la verdad, Cev), presentata a Bogotà lo scorso 28 di giugno. Un lavoro di ricostruzione storica presieduto dal sacerdote gesuita Francisco José de Roux Rengifo, durato quattro anni e passato attraverso migliaia di interviste a testimoni, vittime e carnefici.

i numeri della guerra

«C’è un futuro se c’è verità» sarebbe una lettura appassionante se non fosse il «racconto» di una guerra interna che, tra il 1985 e il 2016 (anche se, in realtà, il conflitto colombiano ebbe inizio già negli anni Sessanta), ha prodotto 450.664 omicidi (80% civili, 20% combattenti, 91% uomini, 9% donne).

Secondo i dati raccolti dalla Cev, i responsabili di questi morti sono per il 45% i paramilitari, per il 21% le Farc e per il 12% le forze dello stato.

Gli omicidi, però, sono soltanto uno degli aspetti della guerra civile. Sono stati conteggiati 121.768 casi di scomparsa (desaparición forzada) e 50mila sequestri (opera questi al 40% delle Farc e al 24% dei paramilitari). Senza dimenticare i reclutamenti forzati: sono stati almeno 30mila le bambine e i bambini reclutati attorno ai 15 anni per entrare nelle Farc o nei gruppi paramilitari.

Infine, un altro numero drammatico: 7.752.964 persone sfollate (più del 10% della popolazione colombiana), con il 51% di adulti e il 49% di minori, 52% di donne e 48% di uomini. Una «moltitudine errante» che ha dovuto abbandonare case, terreni, animali, amicizie. Oltre che per i contadini (campesinos y campesinas, dice la relazione), il conflitto armato è stato particolarmente distruttivo per le comunità etniche, indigene e afrocolombiane.

La sfida odierna

Il primo volume (su 10 totali) della relazione finale si chiude parlando di riconciliazione. «Riconciliazione significa accettare la verità come condizione per la costruzione collettiva e superare il negazionismo e l’impunità. Significa prendere la decisione di non uccidersi mai più e togliere le armi dalla politica. Significa accettare che siamo molti – in varia misura, per azione o omissione – i responsabili della tragedia. Significa rispettare l’altro, al di là dei retaggi culturali e della rabbia accumulata. Che non ci sia più impunità. Che quelli che continuano la guerra lo capiscano che non hanno il diritto di continuare a farlo […]. Che dobbiamo costruire dalle differenze con speranza e fiducia collettiva».

Il lavoro della Cev è stato straordinario ed encomiabile. Ora, però, arriva il difficile: passare dalle parole ai fatti, dalla guerra alla costruzione della pace. Vedremo se i colombiani ne saranno capaci. Vedremo se Gustavo Petro e Francia Márquez saranno in grado di spingere il paese nella giusta direzione. Detto questo, è inutile negare quanto la speranza tende a nascondere: la sfida sarà enorme. Come già hanno mostrato le prime settimane di governo: il 2 settembre, sette agenti di polizia sono stati uccisi in un attentato nel dipartimento di Huila.

Paolo Moiola

Immagine simbolica dell’espansione economica di Pechino in America Latina, spesso subentrando a Washington. Foto CBN News.


 Le relazioni internazionali dei governi latinoamericani

Da Washington a Pechino?

La nuova Colombia nata con l’elezione di Gustavo Petro va ad allungare l’elenco di paesi latinoamericani guidati da rappresentanti delle sinistre. Ad oggi, infatti, sono in carica Andrés Obrador in Messico, Alberto Fernández in Argentina, poi Luis Arce in Bolivia, Pedro Castillo in Perú, Xiomara Castro in Honduras, Gabriel Boric in Cile, oltre ai tre leader più discussi: Nicolás Maduro in Venezuela, Miguel-Diaz Canel a Cuba e, soprattutto, Daniel Ortega in Nicaragua. In attesa dei risultati delle elezioni di questo ottobre quando, in Brasile, l’ex presidente Lula potrebbe sostituire Jair
Bolsonaro, uomo dell’ultradestra, distruttore dell’Amazzonia e imputato di genocidio.

Sono presidenti di sinistra (pur con una pluralità di sfumature, anche consistenti, di rosso) che si trovano a governare paesi con alcuni tratti comuni. Il primo è dato da società caratterizzate da enormi diseguaglianze con i ricchi che s’intascano la gran parte delle ricchezze, come raccontano i rapporti delle Nazioni Unite (Pnud). Una disparità sociale ed economica che viene amplificata dal colore della pelle e dall’etnia: afrodiscendenti e indigeni sono sempre discriminati rispetto ai bianchi e ai meticci, come ha evidenziato anche la pandemia da Covid-19.

Altro tratto comune è la religione cristiana e la sua influenza sulle società latinoamericane. Tutti i paesi sono a maggioranza cattolica, ma le nuove Chiese evangeliche e pentecostali, schierate a destra (senza se e senza ma), stanno crescendo anno dopo anno, spostando milioni di voti.

La tela cinese

E poi c’è il rapporto con gli Stati Uniti, un rapporto che potremmo definire di odio e amore. Odio che nasce dagli errori storici fatti da Washington nel continente, a iniziare dal golpe cileno del 1973. Amore perché è in quel paese che milioni di latinoamericani vorrebbero trasferirsi (come dimostrano le ininterrotte ondate migratorie). Nel frattempo, negli ultimi decenni, in America Latina è arrivata in forze la Cina con il suo capitalismo di stato. Verso Pechino non esiste (e probabilmente mai esisterà) un’attrazione, ma c’è un forte interesse economico per i suoi investimenti nell’area. Com’è stato confermato nel corso del 14.mo Summit dei Brics (l’alleanza a trazione cinese tra Brasile, Russia, India, Sudafrica e appunto Cina), organizzato da Pechino lo scorso 23 giugno.

Gli Stati Uniti e i paesi occidentali (con l’Unione europea in testa) possono ancora recuperare il terreno perduto in America Latina. Se faranno emenda degli errori del passato e se metteranno da parte gli atteggiamenti neocolonialisti, puntando invece su relazioni di pari dignità.

Paolo Moiola

Verso il porticciolo di Hericha sul fiume Orteguaza (Solano, Caquetá). Foto Angelo Casadei.




Conferenza cooperazione:

non c’è pace senza sviluppo


Nei giorni 23 e 24 di giugno scorsi, si è svolta a Roma la seconda Conferenza nazionale della cooperazione. Appuntamento fissato per legge, la due giorni ha restituito un’immagine della cooperazione e dei suoi attori profondamente cambiata dagli eventi epocali degli ultimi tre anni.

Pace, persone, prosperità, pianeta e partnership: sono le cinque P dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, quella che contiene gli obiettivi di sviluppo sostenibile. Cinque parole chiave che hanno dato il nome ad altrettante tavole rotonde di Coopera, la seconda Conferenza nazionale della cooperazione allo sviluppo, che si è svolta a Roma lo scorso giugno@.

La precedente Coopera si era tenuta nel gennaio del 2018 e, facendo un confronto anche solo superficiale fra i programmi, alcune differenza saltano all’occhio: tre anni e mezzo fa, la comunità della cooperazione aveva dato grande risalto al dibattito sulla collaborazione con il settore privato, sulla comunicazione e sulla migrazione, mentre aveva parlato meno di pace e di clima@.

Quest’anno, anche se il tema della migrazione è rimasto centrale – anche per via della recente aggressione russa all’Ucraina e dei cinque milioni di profughi che ha causato -, si è parlato molto di più di pace, di ambiente e di crisi climatica, mentre la collaborazione con il mondo profit è stata trattata come elemento che integra la cooperazione.

L’impressione è che, se Coopera 2018@ sottolineava l’importanza della cooperazione in sè – forse per tentare di arginare l’ostilità verso l’aiuto allo sviluppo alimentata dal clima politico dell’epoca -, la conferenza di quest’anno abbia insistito piuttosto sull’argomento che da soli non ci si salva, come la crisi climatica, la pandemia e la guerra in Ucraina stanno dimostrando.

La sensazione di un mondo interconnesso in modo non reversibile e di un’urgenza non rimandabile è emersa in modo più potente rispetto al 2018 e ha ripreso forza il dibattito sull’impegno ad aumentare la percentuale di Pil da destinare alla cooperazione, per portarlo dall’attuale 0,28% allo 0,70% richiesto dalle Nazioni Unite già cinquant’anni fa, come ha ricordato la portavoce della campagna 070 e presidente della Focsiv, Ivana Borsotto@.

Intervento del Cardinal Parolin

Pace@

La prima tavola rotonda della Conferenza è iniziata con un omaggio all’ambasciatore Luca Attanasio, ucciso nel febbraio del 2021 insieme al carabiniere della scorta, Vittorio Iacovacci, e all’autista del convoglio, Mustapha Milambo, in un agguato nei pressi di Goma, Repubblica democratica del Congo.

La viceministra Marina Sereni ha sottolineato il legame fra intervento umanitario e sviluppo nelle emergenze e nei conflitti. «Dobbiamo avere un’ottica di medio periodo», ha detto Sereni, «e indirizzare gli aiuti in modo da portare assistenza alla popolazione, ma anche rafforzarne la resilienza».

Stimolo, questo, subito raccolto da Fatima Gailani, negoziatrice di pace ed ex presidente della Mezzaluna rossa afghana, che si è fatta portavoce del timore della popolazione afghana che la comunità internazionale abbandoni il paese per ostilità verso l’attuale regime dei talebani, al quale gli aiuti danno sollievo. «È una scelta difficile, ma fatela pensando ai 35 milioni di persone che non sopravviverebbero un solo giorno senza quegli aiuti».

La Ong Emergency, ha poi affermato la sua presidente Rossella Miccio, non solo non ha abbandonato il paese, ma ha ampliato la sua presenza, introducendo fra l’altro una scuola di specializzazione per medici nella quale il 20% degli studenti è costituito da ragazze. L’anno scorso il mondo ha sborsato 2.113 miliardi in spese militari, ha ricordato Miccio, e solo 175 miliardi in aiuti allo sviluppo. Raggiungere lo 0,70% del Pil in cooperazione è davvero «l’obiettivo minimo», e per farlo occorre una volontà politica chiara che scelga questa strada e la porti avanti con la collaborazione di tutti.

L’Africa, ha poi spiegato il presidente della Comunità di Sant’Egidio Marco Impagliazzo, è il continente con più conflitti e con il maggior numero di paesi nei quali la democrazia regredisce: si registrano infatti numerosi colpi di stato e l’espandersi del jihadismo, che nella provincia mozambicana di Cabo Delgado ha già provocato 850mila sfollati. Chiederci a che cosa serve la cooperazione, ha detto Impagliazzo, equivale a chiedersi a che cosa serve l’Italia.

Intervento di Suor Alessandra Smerill

Persone@

Il panel sul tema Persone ha messo al centro la migrazione, con l’intervento della ministra dell’Interno Luciana Lamorgese che ha ricordato l’accordo raggiunto al Consiglio affari interni dell’Unione Europea lo scorso 10 giugno: su 28 paesi presenti al Consiglio, 18 paesi membri e tre dei quattro cosiddetti associati (cioè non membri Ue ma aderenti al trattato di Schengen) hanno deciso di aderire al meccanismo per il ricollocamento dei migranti, introducendo così accanto al principio di responsabilità anche il principio di solidarietà fra stati europei, con un impegno ad aiutare i paesi di primo ingresso come l’Italia.

Sul nesso fra accoglienza e integrazione si è invece soffermato padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli: «Non dobbiamo pensare all’accoglienza solo in termini di spazio, di quante persone possiamo accogliere», ha spiegato il gesuita, «dobbiamo vederla come la faccia di una medaglia di cui l’altra faccia è l’integrazione». Per la legge attuale, ad esempio, i richiedenti asilo non possono accedere a corsi di formazione professionale. Eppure i dati ci dicono che la loro permanenza in Italia dura anni e allora varrebbe la pena pensarli da subito come nuovi residenti.

La seconda parte della tavola rotonda ha affrontato temi sanitari legati alla pandemia e all’aumento delle diseguaglianze che questa ha causato, ma anche problemi noti da tempo, come l’antibiotico-resistenza che ha reso inefficaci un’ampia fascia di antimicrobici. È fondamentale investire in vaccini e tecnologie, ha precisato la direttrice del Centro della regione Toscana per la salute globale, Maria José Caldés Pinilla: nel Sud del mondo la popolazione vaccinata è fra il 16 e il 20% e questo è preoccupante. Ma è altrettanto fondamentale investire per rafforzare i sistemi sanitari pubblici nel mondo, affinché possano non solo rispondere a future pandemie, ma anche garantire alle donne un parto sicuro.

Intervento di Walter Ricciardi, consulente del Ministro della Sanità.

Pianeta, Prosperità, Partnership

La tavola rotonda sulla Prosperità ha visto la partecipazione del ministro dell’Economia e delle finanze Daniele Franco e, fra gli altri, l’intervento di suor Alessandra Smerilli, religiosa salesiana a capo del dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale della Santa Sede@. A causa degli stravolgimenti degli ultimi anni, ha detto suor Alessandra, alcuni dogmi economici sono crollati e modelli alternativi di sviluppo considerati prima un po’ esotici ora non appaiono più come tali. Citando l’economista britannica Kate Raworth, suor Smerilli ha parlato dell’economia della ciambella@: «Finora abbiamo pensato che tutto può essere rappresentato da un grafico su assi cartesiani dove “buono” è ciò che va verso destra e verso l’alto. Immaginiamo invece il sistema economico come un grafico a forma di ciambella, nel cui buco stanno tutti coloro che non si vedono garantiti nemmeno i diritti fondamentali, mentre fuori dalla ciambella stanno quanti vivono senza rispettare i limiti del pianeta. Una finanza per lo sviluppo dovrebbe avere il compito di aiutarci a rimanere tutti dentro quei limiti», ha concluso suor Alessandra, cioè nello spazio delimitato dalla ciambella.

Quanto al panel sul Pianeta@, il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, ha sottolineato che è indispensabile rimuovere le diseguaglianze globali perché la transizione ecologica abbia successo e che «la sobrietà è la forma più sofisticata di resilienza». Francesco La Camera, presidente dell’Agenzia internazionale per le energie rinnovabili (Irena), ha poi affermato che la crisi attuale dovuta alla guerra in Ucraina avrà nel breve periodo un effetto negativo sulla transizione energetica, per via del ricorso temporaneo a fonti tradizionali per produrre elettricità; tuttavia, nel medio-lungo periodo la crisi potrebbe determinare addirittura un’accelerazione della transizione. Per i paesi che hanno bisogno di trovare alternative al gas russo, infatti, passare al carbone nell’immediato è un modo per non vincolarsi ad altri fornitori di gas firmando con questi contratti a lungo termine, il rispetto dei quali poi allungherebbe i tempi per il definitivo passaggio alle fonti di energia pulita.

L’ultima tavola rotonda sulla Partnership@ ha riguardato la costruzione dei partenariati multi-attore per lo sviluppo sostenibile e ha visto fra gli altri l’intervento in collegamento di Elly Schlein, vicepresidente della Regione Emilia-Romagna. Schlein ha raccontato di aver partecipato in giugno all’incontro dei 70 direttori nazionali della federazione di Ong ActionAid e di averli visti convergere su un punto: «Serve partecipazione per fare partenariati solidi, ma bisogna soprattutto mettere le fasce più deboli delle nostre popolazioni in condizioni di partecipare».

Chiara Giovetti

Intervento di Mattarella, presidente della Repubblica


Italia in Africa

Il XII Convegno SpeRA

Lo scorso maggio, nei giorni 26 e 27, si è svolto in modalità ibrida – in parte online e in parte in presenza al ministero degli Affari esteri e della Cooperazione interazionale, Maeci – il convegno Italia e Africa@.

Organizzatore ne è stato il consorzio SpeRA, un coordinamento che riunisce diverse associazioni di volontariato attive nella cooperazione in Africa e che ha l’obiettivo di favorire la collaborazione e lo scambio di informazioni fra organizzazioni impegnate nel Continente@.

Le due giornate di tavole rotonde hanno permesso il confronto tra una ventina di partecipanti appartenenti a quattro articolazioni della società: l’università, la chiesta missionaria, l’imprenditoria e il volontariato, inteso quest’ultimo – nelle parole del direttore centrale  per l’Africa subsahariana al Maeci, ambasciatore Giuseppe Mistretta – come cooperazione spontanea, cioè non istituzionale.

A rappresentare la chiesa missionaria sono stati i tre interventi di suor Paola Moggi, direttrice di «Combonifem», la rivista del Centro di comunicazione delle Suore missionarie comboniane, di padre Matteo Pettinari, missionario della Consolata in Costa d’Avorio e di chi scrive, in qualità di responsabile dell’ufficio progetti di Missioni Consolata Onlus e collaboratrice di MC.

La sessione del 26 maggio mattina ha affrontato il tema dei progetti e delle opere italiane nei paesi africani. In questo contesto, la chiesa missionaria ha presentato tre iniziative: una scuola nella contea di Foya, Nord Ovest della Liberia, illustrata con un video inviato da padre Lorenzo Snider, missionario della Società delle missioni africane (Sma) responsabile della scuola; il progetto educativo delle Suore missionarie comboniane a Butembo, Nord Kivu, Rd Congo, presentato nel video inviato dalla superiora regionale suor Cinzia Trotta; il Consolata hospital Ikonda, descritto attraverso il video ufficiale visualizzabile online sul sito dell’ospedale@.

Il 26 pomeriggio il convegno ha affrontato il tema «La società civile e religiosa italiana: processi di integrazione in Africa», mentre la mattina del 27 è stata dedicata alle sinergie per la salute globale, o «OneHealth», ossia «un modello sanitario basato sull’integrazione di discipline diverse» e «sul riconoscimento che la salute umana, la salute animale e la salute dell’ecosistema sono legate indissolubilmente»@.

La sessione finale del pomeriggio del 27, dedicata agli interventi istituzionali e alla sintesi dei lavori, ha visto l’emergere di un dibattito in corso da tempo nel mondo del volontariato: per molte piccole associazioni è impossibile operare gli adeguamenti – principalmente tecnici, di personale e di bilancio – necessari per essere riconosciute come attori della cooperazione istituzionale. Nonostante questo, con grande impegno e spesso sopportando costi anche notevoli, svolgono numerose attività in Africa e nel mondo, sono a tutti gli effetti una parte della cooperazione dell’Italia e vorrebbero vedere riconosciuto dalle istituzioni il loro ruolo.

Intervento della viceministro Marina Sereni

La risposta delle istituzioni – affidata alla viceministra degli Esteri Marina Sereni – è stata di voler certamente valorizzare il mondo delle piccole associazioni e della cooperazione spontanea, ma di volerlo e doverlo fare nel contesto indicato dalla legge 125/2014 sulla cooperazione, a sua volta frutto di un adeguamento legislativo alle modalità di cooperazione adottate dagli altri paesi europei. Se non possiamo costringere nessuno a adattarsi a un modello unico, ha detto la viceministra riferendosi al modello della cooperazione istituzionale, non possiamo nemmeno pensare che questo modello si adatti alle piccole organizzazioni. L’Italia è sottoposta alla valutazione dell’Ocse-Dac, il comitato di controllo sull’aiuto pubblico allo sviluppo dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, e certe procedure che per le piccole associazioni appaiono come rigidità sono tuttavia necessarie per rispettare gli impegni che l’Italia ha preso a livello internazionale.

È legittimo e giusto, ha concluso, che la piccola organizzazione non si iscriva al Registro del Terzo settore, non abbia la forza di partecipare ai bandi, non voglia stare all’interno di regole rigide, così come è giusto che questo tipo di volontariato venga riconosciuto e valorizzato sia dalla rete diplomatica italiana che dalla cooperazione istituzionale, in modi che volontariato e istituzioni devono cercare di definire insieme.

Chi.Gio.




Obiezione di coscienza: Tu non uccidere


L’obiezione al servizio militare ha una lunga storia. Ne ripercorriamo le tappe principali dalla fine della Seconda guerra mondiale all’approvazione della legge avvenuta in Italia nel 1972. Un’altra difesa non armata e nonviolenta è possibile.

Pietro Pinna, primo obiettore

Il 22 maggio 1947 all’Assemblea costituente si discute dell’articolo 49 (poi 52 nella numerazione definitiva) della Costituzione italiana, quello cioè che statuirà il sacro dovere della difesa della patria e il servizio militare obbligatorio nei limiti e modi previsti dalla legge.

Il momento storico è delicato: il secondo governo De Gasperi è andato in crisi. Ancora non lo si sa, ma l’unità resistenziale tra democristiani, socialisti e comunisti è in procinto di rompersi.

Umberto Merlin, relatore, membro della Democrazia Cristiana, interviene su alcuni emendamenti. Uno di questi, a firma del socialdemocratico Ernesto Caporali, propone il riconoscimento in Costituzione dell’obiezione di coscienza. Merlin lo rigetta con una frase laconica: «Non lo possiamo accettare perché in Italia non esiste una setta di obiettori di coscienza, come quella che esiste in Inghilterra» (si riferisce probabilmente alla Società degli amici, noti come Quaccheri, presso i quali il rifiuto della guerra ha una lunga tradizione).

«Obiezione di coscienza» è, in effetti, un’espressione «esotica», come la definirà nel 1949 il poeta Guido Ceronetti, giovanissimo attivista per il suo riconoscimento. Se il primo paese a legiferare sul tema è stato la Norvegia nel 1900, seguito da Gran Bretagna nel 1916, Danimarca nel 1917, Svezia nel 1920 e Paesi Bassi nel 1922, i paesi cattolici ci arriveranno solo nella seconda metà del ‘900: la Francia nel 1963, il Belgio nel 1964, l’Italia nel 1972, la Spagna e il Portogallo nel 1976.

Di obiettori di coscienza in Italia ce ne sono stati fin dalla Prima guerra mondiale, ma dei loro nomi non si ha notizia. Erano liberi pensatori o, soprattutto, testimoni di Geova: nessuno di loro si è mai definito obiettore.

All’epoca della Costituente, della questione cominciano a discutere alcuni circuiti pacifisti raccolti attorno al filosofo Aldo Capitini e all’ex sacerdote modernista Giovanni Pioli. Ma di fatto l’obiezione è presente solo nei dizionari come calco dall’inglese.

Fermenti cattolici

Foto LaPresse Torino/Archivio storico | Storico, anni ’60, Aldo Capitini

Che l’obiezione di coscienza abbia maggiore diffusione nel mondo anglosassone protestante è cosa evidente. Tuttavia, anche il mondo cattolico comincia a fare i conti con l’adesione al comandamento del non uccidere e dell’amore evangelico. Il cattolicesimo francese, ad esempio, si confronta con le crisi di coscienza legate alla drammatica guerra in Indocina iniziata nel 1946. In Austria, invece, il caso del contadino Franz Jägerstätter, il quale ha rifiutato di prestare servizio militare nella Wehrmacht di Hitler, venendo giustiziato, suscita imbarazzo nell’episcopato: questo, nonostante la sua opposizione morale al nazismo, biasima l’atteggiamento di Jägerstätter rispetto al servizio militare.

A tutte le latitudini, gli obiettori di coscienza pongono questioni non marginali: la sostenibilità della dottrina della guerra giusta in epoca atomica, il ruolo della coscienza del singolo di fronte all’autorità di uno stato che può ordinare crimini immani.

Emerge, inoltre, una tradizione cristiana nonviolenta che affonda le radici nei richiami del Vangelo, ma anche nelle storie esemplari di alcuni santi, come Massimiliano di Tebessa o Martino di Tours.

Il «primo» obiettore

A cambiare l’inerzia della situazione in Italia è un giovane di Ferrara, Pietro Pinna. Egli, pur essendo mosso dalla spiritualità cattolica, si è distaccato dalla Chiesa nella quale non ha trovato conformità tra la sua predicazione e il Vangelo.

Matura la sua scelta mentre svolge il servizio militare nel 1949. Scrive a Capitini, che gli risponde in modo distaccato. Questi, infatti, preferisce che il giovane prenda in completa autonomia la decisione che gli potrà costare la libertà. Quando Pinna decide di obiettare, tuttavia, Capitini gli è a fianco. «Bastò una breve circolare dattiloscritta spedita ai più noti operatori per la pace in Italia, a qualche associazione all’estero, a un parlamentare (il deputato Umberto Calosso), a qualche giornale, per rendere noto il fatto, sì che in pochi mesi, in Italia, divennero popolari […] il termine e il nome dell’obiettore di coscienza n. 1», ricorderà qualche anno più tardi.

A sostegno di Pietro Pinna si muovono Edith Bolling, vedova del presidente americano Woodrow Wilson, Tatjana Tolstoj, figlia del celebre scrittore russo, alcuni parlamentari laburisti.

Al processo di Torino sono presenti le maggiori testate giornalistiche nazionali: molte sono critiche, ma non pochi sono i fogli che sostengono l’obiettore.

A difendere Pinna in tribunale è Bruno Segre, quello che diventerà lo storico avvocato degli obiettori. Il suo giornale «L’Incontro», fondato all’inizio del 1949, si imporrà come una delle voci più presenti nel diffondere le idee degli obiettori.

Pinna è condannato a dieci mesi con la condizionale e nuovamente richiamato al Car di Avellino. Seguono una nuova condanna, l’amnistia, infine la liberazione: al Car di Bari viene, infatti, riformato il 12 gennaio 1950 per una inesistente nevrosi cardiaca, inventata per chiudere il caso.

Padre Ernesto Balducci

Un embrione di dibattito

Nell’ottobre 1949, Umberto Calosso, deputato del Partito socialista dei lavoratori italiani, e il democristiano Igino Giordani presentano un disegno di legge per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza, poi insabbiatosi nella Commissione difesa.

Nel frattempo, l’esempio di Pinna è seguito da altri giovani: dal libertario Elevoine Santi e dagli anarchici Pietro Ferrua e Mario Barbani. Proseguono anche le obiezioni dei testimoni di Geova che, tuttavia, non danno risalto al loro gesto.

Presentatosi al primo processo con la Bibbia in mano, Pinna compie un gesto che chiama in causa il mondo cattolico, il quale è attraversato da un forte dibattito. «L’Osservatore romano» rievoca «la più famosa obiezione di coscienza che la storia registri», quella dei terziari francescani, avvenuta nel 1221 a Rimini. Monsignor Carlo Pettenuzzo, docente dell’Istituto internazionale salesiano don Bosco di Torino, su «L’Incontro» definisce il cristianesimo «il più grande obiettore di coscienza».

Su questo embrionale dibattito cala la scure della condanna della «Civiltà Cattolica»: lo stato impone il servizio militare per proteggere la «vita associata»; il cittadino che ne «trae benefici» vi deve obbedire.

Nell’esasperazione delle tensioni della guerra fredda, l’obiezione di coscienza è vista come un cavallo di Troia della propaganda comunista, nonostante il Partito comunista guardi con freddezza, quando non con ostilità, il gesto degli obiettori, avvertito come frutto di una mentalità borghese.

Don Primo Mazzolari

Don Primo Mazzolari

Con lo scoppio della guerra di Corea nel 1950, il dibattito si chiude. Oltre alla voce del gruppo capitiniano, a sostenere gli obiettori rimane quella solitaria di don Primo Mazzolari. Nel suo libro più celebre, Tu non uccidere, pubblicato inizialmente anonimo nel 1955, condanna la guerra con parole che sembrano preconizzare l’enciclica che il futuro papa Giovanni XIII scriverà nel 1963, la Pacem in terris: ogni guerra è sempre «criminale in sé e per sé», mostruosamente sproporzionata, «trappola per la povera gente», «antiumana e anticristiana»; agli obiettori va riconosciuta l’attenzione alla pace come «un’adorazione in ispirito e verità». In un precedente articolo sulla rivista «Adesso», fondata dallo stesso Mazzolari nel ‘49, definisce gli obiettori profeti.

L’anno seguente, nel messaggio natalizio del dicembre 1956, il papa Pio XII usa, invece, ben altre parole. Guardando ai carri armati sovietici nella piazza di Budapest, dichiara: «Un cittadino cattolico non può appellarsi alla propria coscienza per rifiutare di prestare i servizi e adempiere i doveri fissati per legge».

La guerra è follia

«Ci sembra conforme ad equità – si troverà scritto nella costituzione conciliare Gaudium et spes del 1965 – che le leggi provvedano umanamente al caso di coloro che, per motivi di coscienza, ricusano l’uso delle armi, mentre tuttavia accettano qualche altra forma di servizio della comunità umana». Dal messaggio natalizio di Pio XII a queste parole passeranno nove anni. Dentro la Chiesa il cambiamento sarà epocale.

Ci sarà il papato giovanneo e la Pacem in terris con quell’«alienum est a ratione» (è follia, è impensabile) riferito alla guerra.

La Gaudium et spes raccoglierà il testimone di una nuova attenzione all’obiezione di coscienza al servizio militare tra i cattolici.

Nel 1961, a Firenze, il sindaco Giorgio La Pira proietta il film Non uccidere di Claude Autant Lara, la cui circolazione è stata vietata in Italia dalla commissione censura. Il film racconta una storia realmente accaduta in Francia nel dopoguerra: un tribunale militare, nello stesso giorno in cui condanna Jean Bernardo Moreau, un obiettore di coscienza cattolico, assolve un sacerdote tedesco che durante la guerra ha obbedito all’ordine di uccidere un partigiano francese.

In maniera ben più accesa rispetto al caso Pinna, il mondo cattolico si divide tra chi approva la censura e chi la contesta.

Don Milani

Gozzini, Balducci, Milani

Nel 1962, all’obiettore raccontato dal cinematografo se ne sostituisce uno in carne e ossa, Giuseppe Gozzini, il primo in Italia a richiamarsi esplicitamente al cattolicesimo e alle parole di papa Giovanni XXIII.

All’indomani della condanna di Gozzini, su «La Nazione» interviene l’assistente diocesano della gioventù femminile dell’Azione cattolica, don Luigi Stefani, affinché «i giovani cattolici fiorentini non vengano tratti in errore da un gesto arbitrario che mette il suo protagonista al di fuori delle norme di ubbidienza alle legittime autorità dello stato e quindi contro i principi della morale cattolica». Gli risponde, il 13 gennaio 1963, in un’intervista sul «Giornale del Mattino», padre Ernesto Balducci, sollecitato dagli operai cattolici della Nuova Pignone: secondo Balducci, il rischio di un conflitto apocalittico fa sì che gli obiettori meritino una «silenziosa ammirazione». Per queste parole, il sacerdote viene processato. All’assoluzione in primo grado, segue nel 1964 la condanna in appello per apologia di reato che verrà poi confermata dalla Cassazione. La sentenza suscita scalpore: il «magistrato teologo», come viene definito dal settimanale «Il Mondo», si incarica di fornire quella che a suo dire è l’interpretazione della Chiesa sull’obiezione di coscienza (senza però citare la Pacem in Terris) e accusa Balducci di ricorrere alla frode nel modo in cui presenta la posizione della Chiesa sul tema.

Nel 1965 è don Lorenzo Milani a intervenire in difesa degli obiettori contro il pronunciamento dei cappellani militari toscani in congedo. Questi hanno definito l’obiezione «insulto alla Patria e ai suoi caduti», «estranea al comandamento cristiano dell’amore» ed «espressione di viltà».

In una lettera che diventerà celebre, don Milani stravolge quella forma di religione della patria, proponendone una alternativa. «Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora io dirò che, nel vostro senso, io non ho patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia patria, gli altri i miei stranieri». Anche lui viene processato, ma la sua morte, che lo coglie il 26 giugno 1967, interviene prima della sentenza.

Viene invece condannato Luca Pavolini, il direttore del periodico comunista «Rinascita», per aver diffuso la lettera.

Una politica impreparata

Nel suo percorso di avvicinamento all’obiezione di coscienza, la Chiesa cattolica è preceduta da quella valdese.

Già nel 1958, infatti, il Sinodo ha approvato un ordine del giorno di appoggio a «ogni iniziativa che, per il rispetto dovuto ai diritti insopprimibili della persona umana, tende a dare uno stato giuridico agli obiettori di coscienza». È il frutto di un dibattito cominciato negli anni Quaranta.

Il mutamento che attraversa il mondo cristiano è specchio di quello che investe la società. L’antimilitarismo entra nella musica cantautorale. I Cantacronache, i Gufi o Fabrizio De André celebrano con irriverenza il rifiuto della morte eroica e della retorica del valore militare.

Anche i pacifisti riprendono il loro impegno: nel 1961 Capitini li ha radunati in una marcia di 20 chilometri da Perugia ad Assisi. L’anno successivo ha fondato il Movimento nonviolento che si è dotato di un braccio operativo, i Gruppi di azione nonviolenta: a guidarli è stato chiamato Pietro Pinna. Le loro azioni dimostrative nonviolente, spesso chiuse dall’intervento repressivo della polizia, hanno portato la richiesta del riconoscimento dell’obiezione di coscienza nei centri cittadini, attraverso sit in, marce, digiuni.

Intanto un democristiano, Nicola Pistelli, e due socialisti, Lelio Basso e Luciano Paolicchi, nel 1964 hanno presentato alla Camera tre progetti di legge, ma la politica non è ancora pronta.

inizio anni 70 – La foto immortala una manifestazione antimilitarista in via Garibaldi. Non ci sono altre indicazioni. Sul retro è segnalato il nome dello studio fotografico.

Il Sessantotto

Il Sessantotto irrompe nella società italiana raccogliendo istanze maturate nel corso del decennio e rimaste irrisolte. Anche l’obiezione di coscienza ne è coinvolta. Muta il lessico: da una tensione spirituale si passa a una dimensione politica. Nei nuovi movimenti antimilitaristi, nelle dichiarazioni degli obiettori, il rifiuto del servizio militare a favore di un servizio civile da destinare ai più deboli è visto come parte della lotta di classe.

Cambia inoltre la forma dell’obiezione: a partire dal 1971 sorgono gruppi che presentano collettivamente il rifiuto del servizio militare con una dichiarazione congiunta. Divulgano la dichiarazione nelle piazze, decidono il momento della consegna alle autorità, si «auto distaccano» in servizi a favore degli emarginati attendendo l’arresto. Sono cattolici, anarchici, libertari, radicali con un linguaggio comune.

Alle manifestazioni non partecipa più una manciata di giovani, ma centinaia, talvolta migliaia.

A partire dal 1967, tutti gli anni, una marcia antimilitarista sfila da Milano a Vicenza (in seguito sarà da Trieste ad Aviano) passando davanti al carcere di Peschiera del Garda per manifestare solidarietà agli obiettori detenuti.

Alla mobilitazione tradizionale del Movimento nonviolento, orfano di Capitini, morto nel 1968, si affiancano nuovi soggetti, su tutti il Partito radicale. Non mancano i momenti di tensione: durante alcune manifestazioni, i pacifisti sono aggrediti da militanti di estrema destra o dalle forze dell’ordine e sottoposti a processo. Rispetto ad altre iniziative di piazza, in queste il grado di violenza rimane basso e unilaterale.

Attenzione crescente

Anche nel mondo cattolico prorompe dalle nuove generazioni una richiesta di rinnovamento.

Gli orrori della guerra nel Vietnam generano un’attenzione crescente verso il tema dell’obiezione e della nonviolenza che viene incanalata in particolare dal movimento di Pax Christi (nato in Francia nel 1945, arrivato in Italia nel 1954 per desiderio di mons. Montini, futuro Paolo VI), guidato dal 1968 dal vescovo di Ivrea Luigi Bettazzi.

Tale sensibilità coinvolge anche le gerarchie della Chiesa, le quali già si confrontano con le esperienze radicali della «teologia della liberazione» – della quale diventa simbolo Camillo Torres – che contempla la lotta armata contro l’oppressione.

I pronunciamenti a favore dell’obiezione di coscienza si moltiplicano: Paolo VI vi fa cenno nella Populorum progressio, vescovi come Carraro a Verona e Pellegrino a Torino esprimono solidarietà agli obiettori.

Nel 1971 il Sinodo dei vescovi invita le nazioni a «favorire la strategia della nonviolenza» e a «regolare mediante le leggi l’obiezione di coscienza».

La legge

Il 14 dicembre 1972 la Commissione Difesa della Camera approva finalmente la legge che la riconosce. La mobilitazione della società civile ha coinvolto deputati dei diversi partiti, riuniti dall’indipendente di sinistra Luigi Anderlini in una Lega per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza. Episodio determinante, tuttavia, è il digiuno dei due militanti radicali Marco Pannella e Alberto Gardin che dura 38 giorni coinvolgendo larghe componenti della società civile e ottenendo la solidarietà di personalità della cultura francese e tedesca, tra cui tre premi Nobel. Il clamore mediatico spinge infine la maggioranza ad acconsentire al varo della legge.

Per obiettori e movimenti il successo, però, è amaro. Azione nonviolenta titola «Votata la legge truffa sull’obiezione di coscienza». Il provvedimento, infatti, manifesta le tracce di una certa diffidenza: il servizio civile dura otto mesi in più rispetto al servizio militare, l’obiettore rimane sottoposto al ministero della Difesa e alla giustizia militare, non sono riconosciute le motivazioni politiche, ma solo quelle religiose o filosofiche. Soprattutto, la domanda per il servizio civile è sottoposta al vaglio di una commissione.

Di fatto continueranno ad andare in carcere quegli obiettori che contesteranno l’impostazione della legge rifiutando il servizio civile o autoriducendolo, e gli obiettori non riconosciuti dalla commissione.

People carry a big peace flag during the march for peace from Perugia to Assisi on April 24, 2022 in Assisi. (Photo by Tiziana FABI / AFP)

Un’altra difesa possibile

Nonostante i suoi limiti, la legge 772 rappresenta comunque una cesura: il servizio civile entra nella storia dell’Italia repubblicana, veicolando un’altra idea di difesa della patria: quella non armata. È una conquista ottenuta da un piccolo gruppo: fino al 1972, infatti, gli obiettori sono stati appena 708, dei quali 622 testimoni di Geova.

In un primo momento, l’inerzia del Parlamento che tarda ad approvare un regolamento attuativo del servizio civile permette che questo sia realizzato, in autogestione, dalla neonata Lega degli obiettori di coscienza e da alcune associazioni. Con la definitiva istituzionalizzazione del servizio civile nel 1977, il ruolo degli enti emerge con maggiore ampiezza: entrano in campo organizzazioni come Caritas e Arci.

L’obiezione di coscienza acquisisce allora quella dimensione di massa tanto attesa. Al tempo stesso, però, si riscopre diversa, legata più a una matrice solidaristica che ai principi di antimilitarismo e nonviolenza.

Nonostante le sue palesi contraddizioni, la legge 772 rimane in vigore fino al 1998, quando una nuova legge riconosce l’obiezione come un diritto. La parificazione etica e temporale del servizio civile è ottenuta grazie alla protesta degli autoriduttori che suscita una sentenza della Corte costituzionale.

Infine, nel 2001, il servizio civile diventa volontario.

Una volta esauritasi la spinta dell’obbligo militare, questa storia è forse diventata improvvisamente lontana. Sembra tuttavia tornare, a parlarci, di fronte all’immane dramma che sta funestando l’Ucraina, provocato dalla guerra offensiva di Putin. Ripropone infatti alcuni interrogativi che hanno travagliato la coscienza di quei giovani che desideravano bandire la guerra dall’umanità: la possibilità di una guerra giusta nell’era degli armamenti atomici, il rapporto tra autorità e coscienza, la possibilità di una difesa nonviolenta della patria.

Marco Labbate*

* È dottore di ricerca in Storia dei partiti e dei movimenti politici e assegnista di storia contemporanea presso l’Università Carlo Bo di Urbino. Collabora con il Centro studi Sereno Regis di Torino.




Ucraina. Aggressione e resilienza


Per il presidente russo, l’Ucraina «non esiste» come stato autonomo. Un’affermazione smentita dall’incredibile resistenza degli ucraini all’invasione di Mosca. Una guerra – «operazione militare speciale», secondo i russi – che, dal 24 febbraio, ha cambiato il mondo.

Da mesi, la domanda che in tanti si ponevano era: ci sarà una guerra contro l’Ucraina o il presidente russo Vladimir Putin sta solo bluffando? La risposta è arrivata la notte del 24 febbraio, quando i convogli corazzati russi hanno attraversato il confine ucraino e i missili hanno iniziato a colpire prima obiettivi militari e poi civili. Mentre la guerra imperversava sempre più cruenta, tutti hanno cominciato a discutere sul perché. Speculazioni e mezze verità che non hanno senso se non si fa un passo indietro, analizzando il legame morboso che lega la Russia all’Ucraina e a come è nato il conflitto nel Donbass, dimenticato ma in atto da otto anni.

Due donne ucraine passano davanti a un carro armato russo fuoriuso e alle macerie di edifici distrutti dall’aggressore nella città di Trostianets (29 marzo 2022). Foto Fadel Senna – AFP.

Un paese giovane con una storia secolare

La dissoluzione dell’Unione Sovietica, sancita ufficialmente nel dicembre del 1991, è stata sorprendentemente pacifica in Ucraina, che ha festeggiato il trentennale della propria indipendenza lo scorso 24 agosto. Festeggiamenti ormai dimenticati a causa dello scoppio di una nuova guerra, che sta lacerando questo paese giovane, ma dalla storia secolare e che, da Est a Ovest, si è ritrovato a lottare per rimanere unito sotto un’unica bandiera. L’Ucraina, infatti, non è nata ieri. Possiede da secoli un’identità propria, un sentito movimento nazionale e una profonda storia d’indipendenza che risale a ben prima dell’arrivo di Pietro il Grande. Un’identità che, spesso e volentieri, è stata vittima di deformazioni storiche: nonostante, infatti, ucraini e russi (insieme ai bielorussi) vengano da alcuni considerati fratelli inseparabili («un unico popolo», come ha sottolineato lo stesso Putin in un lungo scritto del 12 luglio scorso titolato «Sull’unità storica dei russi e degli ucraini»), i primi hanno una loro storia secolare e multiculturale, una loro lingua ufficiale e delle tradizioni culturali diverse da quelle dei secondi.

Tra «Russkij mir» e democrazia

Durante i primi 20 anni dalla dissoluzione dell’Urss, la Russia ha tenuto d’occhio gli sviluppi in Ucraina e ha interferito in vari modi nella politica interna del paese. Ma la presenza di una nutrita popolazione ucraina di lingua russa garantiva – o sembrava garantire – che il paese non si sarebbe mai allontanato troppo dalla sfera d’influenza russa, dal cosiddetto russkij mir («mondo russo»).

Tuttavia, il concetto di democrazia era già ben radicato nella mentalità e nella cultura politica del popolo ucraino, erede storico di quel particolare sistema statale dell’«etmanato cosacco» del XVII secolo (abolito da Caterina II di Russia nel 1764). Non sorprende, quindi, sapere che, al contrario della Russia, in Ucraina è sempre esistita un’opposizione. Senza equivoci, la politica ucraina era (e lo è tuttora) piena di conflitti interni: i cambi di potere e i rimpasti di governo sono stati tumultuosi in quanto riflettevano genuine differenze di opinione nella popolazione su ciò che l’Ucraina sarebbe dovuta essere e diventare. Inoltre, la mancata esperienza diretta di sistemi democratici ha minato la corretta applicazione dei principi di base (come la giustizia o la lotta alla corruzione e al clientelismo) soprattutto nei primi anni Novanta. Alcuni pensavano che il paese dovesse integrarsi ulteriormente all’Europa, altri che dovesse rimanere strettamente legata alla Russia. Una questione che ha portato prima alla «Rivoluzione della dignità» (nota anche come «Euromaidan», Europiazza) e, successivamente, a un conflitto ibrido nei territori orientali del paese, oggi trasformatosi in un bagno di sangue su scala nazionale.

Profughi ucraini accolti in un rifugio temporaneo organizzato in un ex edificio storico della stazione ferroviaria di Cracovia, in Polonia, il 28 marzo 2022. Foto Beata Zawrzel – Anadolu Agency – AFP.

La questione Donbass

L’Ucraina è in guerra dal 2014, ovvero dall’anno dell’annessione da parte della Russia della penisola di Crimea (avvenuta il 18 marzo dopo un referendum giudicato illegale a livello internazionale) e dello scoppio del conflitto nella regione più orientale del Donbass. Per otto anni, il paese è stato diviso da una linea del fronte lunga circa 400 km che separava, fino allo scorso febbraio, una parte dei territori del Donbass dalle autoproclamate repubbliche popolari di Donetsk (Doneckaja narodnaja respublikae, Dnr, nella traslitterazione dal russo) e Luhansk (Luganskaja narodnaja respublika, Lnr), occupate dai separatisti armati e finanziati dal Cremlino. Si è sempre trattato, nei suoi otto anni, di un conflitto ibrido limitato a questi territori e poco noto internazionalmente, tanto che spesso veniva (erroneamente) considerato una guerra civile o addirittura una guerra tra clan mafiosi, data la grande presenza locale di potenti oligarchi.

Un conflitto definito «a bassa intensità» che, però, ha provocato migliaia di vittime e sfollati interni: dall’aprile 2014 e fino allo scorso dicembre, circa 13.300 morti (3.375 civili, 4.150 soldati ucraini e 5.700 separatisti). Vani sono stati i tentativi per trovare una soluzione diplomatica attraverso dei negoziati. Questi hanno visto protagonisti prima esclusivamente le due parti in causa – Russia e Ucraina (Accordi di Minsk del 2014) – e poi anche Francia e Germania («Quartetto Normandia»), in qualità di mediatori, nei cosiddetti Accordi di Minsk II del 2015. L’intento dei negoziati, svoltisi nella capitale bielorussa, era quello di concordare un cessate il fuoco bilaterale, effettuare scambi di prigionieri, fornire aiuti umanitari, demilitarizzare la zona e, soprattutto, decentralizzare il potere fornendo una maggiore autonomia alle regioni del Donbass e indicendo anche nuove elezioni sotto il monitoraggio dell’Osce. L’intesa, tuttavia, è fallita più volte a causa di ripetute violazioni del cessate il fuoco da entrambe le parti.

Uno dei maggiori ostacoli nell’adempimento dei negoziati è stata la mancata ammissione da parte della Russia di essere soggetto integrante del conflitto stesso: Kyiv ha sempre sostenuto che, nel Donbass, le forze armate separatiste provenissero anche da Mosca, ma la Russia ha sempre negato. Questa era la situazione fino allo scorso 22 febbraio, quando Vladimir Putin ha annunciato il riconoscimento ufficiale dell’indipendenza di Dnr e Lnr e ha cambiato le carte in tavola sulla scacchiera geopolitica internazionale.

Oggi, in seguito all’escalation e all’invasione russa, le parti sono tornate a fronteggiarsi apertamente, non solo violando il cessate il fuoco nei territori occupati e vicini alla linea di contatto, ma scatenando una guerra su larga scala e una crisi umanitaria di enormi proporzioni per l’Ucraina e per tutta l’Europa.

Civili in attesa di essere evacuati dalla città martire di Mariupol, quasi rasa al suolo dai militari russi e dai separatisti (26 marzo 2022). Foto Anadolu Agency – AFP.

Il casus belli di Putin

Nel lungo discorso per giustificare il riconoscimento delle repubbliche secessioniste ucraine del Donbass, il presidente russo ha chiaramente detto che l’obiettivo principale del suo intervento militare in Ucraina è quello di «denazificare» il paese.

Per Putin, infatti, l’Ucraina sarebbe governata da un esecutivo di «drogati» e «neonazisti». Inoltre, ha sostenuto che, in Ucraina, sia in corso un vero e proprio «genocidio» nei confronti della popolazione russa e russofona, vittima dei nazisti al governo. Una descrizione della realtà infondata e assurda. Basta guardare ai numeri effettivi della presenza dell’estrema destra ucraina, alla popolazione che attualmente sta combattendo per la propria libertà, nonché al fatto che molti dei politici ucraini (come lo stesso presidente Zelenskyj) sono di madrelingua russa.

Come succede per ogni guerra, anche il conflitto in Ucraina ha dato origine a una sconcertante diffusione di verità parziali e a un controllo pedissequo della narrazione, soprattutto da parte dei media russi. L’affermazione di Putin, secondo cui la «Rivoluzione della dignità» del 2014 fu un «colpo di stato fascista» e l’Ucraina è uno stato nazista, è stata usata per anni come giustificazione per l’annessione della Crimea e il sostegno ai separatisti russofoni nell’Est del paese, guadagnando molto consenso anche sui social. Ma l’Ucraina è un autentico stato liberal-democratico, anche se imperfetto, con libere elezioni che producono significativi spostamenti di potere, compresa l’elezione nel 2019 del riformatore liberal-populista Volodymyr Zelenskyj. Inoltre, il partito che rappresenta i cosiddetti neonazisti non ha attualmente nemmeno un seggio in parlamento. L’Ucraina, quindi, non è assolutamente uno stato nazista, e il casus belli russo è l’ennesima bugia del Cremlino.

Le milizie ucraine di estrema destra

Stemma del «Battaglione Azov», formazione ucraina neonazista.

Stabilito questo, è vero che tra le milizie volontarie ucraine che partecipano a questa guerra ci sono anche quelle neonaziste. Tra queste, la più nota è il «battaglione Azov», un’organizzazione di estrema destra fondata da Andriy Biletskiy. Nato come gruppo paramilitare, nel 2014 il battaglione è stato inquadrato nella «Guardia nazionale ucraina», componente di riserva dell’esercito. Lo scopo principale di Azov era quello di contrastare le crescenti attività di guerriglia dei separatisti filorussi del Donbass. Il battaglione ha come base la città portuale ucraina di Mariupol’ (la più martoriata nel conflitto) ed è legato al progetto politico Nacional’nyj Korpus (Corpo nazionale) che partecipa alle elezioni e ha rapporti internazionali con altri gruppi di estrema destra. Nonostante tra il presidente Volodymyr Zelenskyj e il battaglione non scorra buon sangue, Azov combatte oggi in prima linea ed è molto utile al governo di Kyiv in quanto conosce bene il territorio, è ben organizzato e possiede capacità e conoscenze militari effettive.

Per ora, l’Ucraina e Zelenskyj hanno, quindi, bisogno delle capacità militari e dello zelo ideologico delle milizie nazionaliste e di estrema destra per combattere e vincere la battaglia per la sopravvivenza nazionale. Ma quando la guerra finirà, Zelenskyj e i suoi sostenitori occidentali dovranno stare attenti a non dare troppo potere a gruppi i cui obiettivi sono in netto contrasto con le norme basilari dei sistemi politici liberal democratici. Armare e finanziare Azov e compagni è una delle scelte difficili imposte dallo status di guerra, ma il loro disarmo dovrebbe essere una priorità a conflitto terminato.

Che significa neutralità?

Nessuno si sarebbe mai aspettato né un conflitto di tale portata, né una resistenza così motivata e organizzata da parte del popolo ucraino, caratteristica quest’ultima che ha colto tutti di sorpresa. Come sorprendente è stato il presidente Zelenskyj che, in Occidente e tra il pubblico internazionale, si è guadagnato un’immagine da vero eroe, un capitano che non abbandona la nave nel momento del bisogno ma che, al contrario, lotta con la propria gente.

Le truppe russe si sono trovate davanti un nemico «incapace» di arrendersi e di piegarsi all’aggressore. E Putin, che sperava di risolvere la questione ucraina con una guerra lampo, si è trovato a dover riformulare la propria strategia. Se prima il suo obiettivo principale era evitare che l’Ucraina si unisse a Ue e Nato per poterla tenere sotto la propria ala di influenza e, eventualmente, sostituire l’attuale governo, ai suoi occhi troppo filoeuropeo, con un team fidato, ora (mentre andiamo in stampa, a metà aprile, ndr) la sua priorità sembra essere quella di rendere il paese neutrale. Ma cosa significherebbe? Vorrebbe dire smilitarizzare l’Ucraina trasformandola in una nuova Austria o Svezia. Un’operazione che sarebbe, tuttavia, possibile esclusivamente in tempi di pace e in presenza di un cessate il fuoco, fattori assenti in questo momento: bombardamenti e assedi continuano in diverse città (Mariupol’, Sumy, Charkiv, Cherson) oggi completamente distrutte e dove i civili sono vittime di attacchi quotidiani.

Nel complesso, gli esperti sembrano essere d’accordo sul fatto che la neutralità è la strada da seguire. «Nel suo mondo ideale, Putin potrebbe aver sognato un’Ucraina unita alla Russia in un’unica forma statale, ma gli eventi delle ultime settimane hanno dimostrato che è un risultato altamente improbabile», ha commentato il prof. Graeme Gill, esperto di politica sovietica e russa, aggiungendo che «mentre c’è ancora un sostanziale sentimento filorusso in alcune parti del paese, l’invasione ha inasprito la visione dei russi da parte di molti ucraini».

La crisi dei migranti

Nel giro di un mese e mezzo oltre 4,5 milioni (su 41,5) di ucraini sono fuggiti; la maggior parte (2,6 milioni) ha trovato rifugio temporaneo in Polonia. Anche negli anni precedenti (a partire dal 2014) è stato questo paese ad accogliere oltre un milione di ucraini. Eppure, oggi, dopo una iniziale sincera catena di solidarietà che ha accolto i rifugiati a braccia aperte, nei media stanno emergendo domande su come i sistemi di assistenza sociale e sanitaria, già sovraccarichi, potranno reggere.

La guerra in Ucraina ha costretto uno stato conservatore per antonomasia come la Polonia ad abbandonare la sua rigida posizione anti rifugiati degli ultimi anni. Oggi il governo polacco ha aperto le frontiere a tutti gli sfollati provenienti dall’Ucraina, rivedendo le sue posizioni: un’accoglienza motivata tanto dalla paura della confinante Russia, quanto dalla compassione. Ma quanto reggerà?

Claudia Bettiol*

(*) Nata nel 1986, slavista di formazione, dopo un anno di studio in Russia, un Erasmus in Estonia e un volontariato nella città ucraina di Sumy, Claudia Bettiol si è trasferita a Kyiv dove, fino allo scoppio della guerra, lavorava come traduttrice e insegnante di italiano. Ha scritto per «East Journal» (eastjournal.net). Dal 2019 collabora con «Osservatorio Balcani e Caucaso» (balcanicaucaso.org).


La guerra di Putin e le divisioni della Chiesa ortodossa

Putin e il patriarca Kirill alla cattedrale ortodossa della Resurrezione di Cristo, la principale cattedrale delle forze armate russe, in occasione di una commemorazione, Kubinka (Mosca), 22 giugno 2020. Foto Aleksey Nikolskyi / Sputnik / AFP.

Kirill, il patriarca con l’elmetto

Il patriarca di Mosca non ha voluto (o potuto) distinguersi dall’amico Putin. Il suo avvallo alla guerra in Ucraina è una scelta grave e densa di conseguenze.

Il presidente Putin e il patriarca ortodosso Kirill formano una coppia di guerra ben assortita: il primo ha il sogno di ricostituire una sorta d’impero zarista, il secondo di difendere l’idea della Santa Russia («Svjataja Rus»).

Pubblicamente, entrambi hanno come riferimento l’ideologia del Mondo russo («Russkii mir»). Segretamente, entrambi hanno (o avevano) l’ambizione di ampliare la rispettiva sfera di potere.

Sul tema, un nutrito gruppo di teologi ortodossi è intervenuto con una dichiarazione congiunta: «Questo “Mondo russo” – vi si legge – ha un centro politico comune (Mosca), un centro spirituale comune (Kyiv quale “madre di tutte le Rus’”), una lingua comune (il russo), una Chiesa comune (la Chiesa ortodossa russa, il Patriarcato di Mosca), e un patriarca comune (il Patriarca di Mosca) che lavora in “sinfonia” con un presidente/capo nazionale comune (Putin) per governare questo mondo russo, oltre che per sostenere una spiritualità, moralità e cultura comuni, distinte da quelle del mondo non russo». I firmatari concludono: «[Noi] respingiamo l’eresia del “Mondo russo” e le azioni vergognose del governo della Russia [compiute] con la connivenza della Chiesa ortodossa russa» (13 marzo 2022, domenica dell’ortodossia).

La conversione religiosa di Putin viene fatta risalire agli anni Novanta. Il suo padre spirituale sarebbe l’ultraconservatore vescovo Tikhon, oggi metropolita di Pskov. Tuttavia, le apparizioni pubbliche dello zar del Cremlino sono state e sono con il patriarca Kirill. Dopo l’invasione dell’Ucraina, i due si sono sostenuti a vicenda con dichiarazioni che, fuori della Russia, sono apparse sconcertanti. Durante il suo comizio allo stadio di Mosca (17 marzo), il presidente ha giustificato l’invasione citando un passo del Vangelo di Giovanni: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici». Per parte sua, il patriarca ha superato ogni immaginazione nel suo sermone di domenica 6 marzo. In esso Kirill ha giustificato l’intervento armato russo per proteggere i valori cristiani sulla sessualità e sul matrimonio, minacciati, egli sostiene, dalla cultura occidentale delle «parate gay». Anche nelle ore del massacro di Bucha, il patriarca di Mosca ha parlato in difesa dell’intervento russo (3 aprile).

Come il sodale Putin, pure Kirill, a capo della Chiesa ortodossa russa dal 2009, non ha però tutto sotto controllo. Dopo lo scisma ucraino del 2018 (7mila parrocchie su 19mila sono passate alla neonata Chiesa ortodossa autocefala guidata dal primate Epifanij), oggi Kirill si trova in difficoltà anche con la Chiesa ortodossa ucraina guidata dal primate Onufrij, la quale, pur rimasta legata al patriarcato di Mosca, ha espresso una forte contrarietà alla guerra.

I cattolici ucraini

I cattolici ucraini – stimati attorno all’11 per cento del totale, pari a 6 milioni di persone – sono invece riuniti nella Chiesa greco cattolica, guidata da monsignor Sviatoslav Shevchuk. «Non lasciateci soli nel nostro dolore – ha detto il vescovo (28 marzo) -. Nessuno è preparato alla guerra, tranne i criminali che la pianificano e la mettono in atto. È stato uno choc. Ma era evidente che si trattava di un’invasione ben pianificata». Quella ucraina non è una «guerra di religione», ma è una guerra in cui la religione viene usata come strumento. Come troppo spesso nella storia.

Paolo Moiola


Mappa dell’Ucraina con evidenziate le regioni contese: il Donbass e la Crimea.

Ucraina, alcuni dati

  • Superficie: 603.600 Km2 (due volte l’Italia);
  • Popolazione: 41,5 milioni (dato controverso);
  • Capitale: Kyiv (traslitterato dall’ucraino), Kiev (traslitterato dal russo), con circa tre milioni di abitanti;
  • Sistema politico: repubblica democratica semipresidenziale;
  • Presidente: Volodymyr Zelenskyj, in carica dal 20 maggio 2019;
  • Date essenziali: indipendenza, 25 dicembre 1991; invasione russa, 24 febbraio 2022; scoperta una strage di civili a Bucha, 3 aprile; papa Francesco parla di «impotenza dell’Onu» (6 aprile);
  • Principali gruppi demografici: ucraini 78%, russi 17%;
  • Religioni principali: ortodossi 78% (divisi in due Chiese, una legata a Mosca e una autocefala), cattolici 11% (Chiesa greco cattolica);
  • Economia: produzione agricola (grano, semi di girasole, zucchero, carne, prodotti caseari); industria siderurgica (acciaio e ghisa);
  • Gas: attraversa l’Ucraina il gasdotto Yamal, dal quale passa circa il 10% delle forniture totali di gas proveniente dalla Russia;
  • Regioni contese: Donbass, regione mineraria (carbone in primis, ma anche ferro, uranio, titanio, manganese, mercurio e gas) di circa 32mila Km2, quattro milioni di abitanti (dato controverso), Donesk e Luhansk come capoluoghi; Crimea, penisola sul Mar Nero di 26.200 Km2 (poco più della Lombardia), due milioni di abitanti e Sebastopoli come capoluogo;
  • Migranti (anteguerra): circa sei milioni di cittadini (World Migration Report, 2022), la maggior parte in Russia e Polonia; ottavo paese al mondo per fenomeno migratorio;
  • Ucraini in Italia (anteguerra): 236mila pari al 4,6% degli stranieri ufficiali (dati Istat, 1° gennaio 2021); dei residenti ucraini in Italia 177mila sono donne, in larga parte occupate nei servizi alla persona (colf e badanti; dati Fondazione Leone Moressa);
  • Profughi: 6,5 milioni di profughi interni (International organization for migration, Iom, marzo 2022); 4,5 milioni di profughi scappati dal paese (dati Unhcr al 10 aprile 2022), oltre 87mila arrivati in Italia (secondo le cifre del Viminale al 10 aprile).

(a cura di Paolo Moiola)




La guerra è una pazzia


«Cari fratelli e sorelle,
in Ucraina scorrono fiumi di sangue e di lacrime. Non si tratta solo di un’operazione militare, ma di guerra, che semina morte, distruzione e miseria. Le vittime sono sempre più numerose, così come le persone in fuga, specialmente mamme e bambini. In quel paese martoriato cresce drammaticamente di ora in ora la necessità di assistenza umanitaria. Rivolgo il mio accorato appello perché si assicurino davvero i corridoi umanitari, e sia garantito e facilitato l’accesso degli aiuti alle zone assediate, per offrire il vitale soccorso ai nostri fratelli e sorelle oppressi dalle bombe e dalla paura. […] La Santa Sede è disposta a fare di tutto, a mettersi al servizio per questa pace. […] La guerra è una pazzia! Fermatevi, per favore! Guardate questa crudeltà!» (papa Francesco, Angelus, 6/3/2022).

«La guerra è una pazzia». Non poteva essere più esplicito papa Francesco. Eppure tutto è stato pianificato da tempo con una gelida lucidità: dall’aumento del costo del gas per coprire le spese della guerra alle esercitazioni militari per giustificare il colossale dispiegamento di truppe, dalla campagna di fake news al corteggiamento di nuovi alleati tra politici e imprenditori, dal controllo societario di banche all’acquisizione di grandi fette di società dell’energia. E noi siamo stati a guardare, ignari e increduli, assopiti nel nostro benessere, sicuri che non ci avrebbe toccato e, soprattutto, dimentichi di quello che è davvero la guerra.

Quelli vecchi come me, i figli del ‘68, hanno in qualche angolo della memoria le parole dei nonni o dei genitori che invitavano a non sprecare perché «durante la guerra» si grattava anche il fondo della pentola, e «grazie averne». Dalla Seconda guerra mondiale in poi, in Europa abbiamo vissuto l’avventura della pace con un progresso apparentemente inarrestabile, con un benessere, fluttuante sì, ma così diffuso da permetterci di sprecare: cibo, vestiti, energia, ambiente. Sì, ci sono state guerre in questi anni, ma in paesi lontani, a parte quella degli anni ‘90 nell’ex Jugoslavia, alcune totalmente ignorate, altre esorcizzate nelle nostre canzoni.

Nel 2003 questa rivista ha pubblicato un memorabile numero speciale, poi diventato un libro Emi, intitolato «La guerra, le guerre». La lista dei paesi in conflitto era impressionante. Quel lungo elenco è ancora tristemente attuale, anzi si è allungato: Yemen, Siria, Libano, Libia, Niger, Mali, Mozambico, Burkina Faso, Haiti, Myanmar solo per citarne alcuni.

Nel frattempo, le spese militari sono cresciute in tutto il mondo, anche nei paesi ufficialmente in pace. Il club atomico si è allargato, si sono costruiti missili sempre più sofisticati, potenti e ipersonici, i mercenari sono diventati anche più forti degli eserciti regolari e comodi, perché rispondono al potente di turno piuttosto che a governi e a leggi internazionali.

Trentuno anni fa, era il 21 febbraio 1991, 36° giorno dall’inizio della prima guerra del Golfo, monsignor Tonino Bello, allora presidente di Pax Christi, diceva alla trasmissione Samarcanda: «Il mio desiderio è quello del cessate il fuoco, perché non è possibile, non è accettabile, non è pensabile che ancora oggi, con tutto il progresso che abbiamo fatto, con tutta la cultura che abbiamo alle spalle, della gente debba essere massacrata in questo modo. È osceno. Io credo che ci vergogneremo domani per la nostra mancanza di insurrezione di coscienza». E aggiungeva: «La guerra tutto può partorire, fuorché la pace e la giustizia». «La pace non arriverà finché non si fa giustizia».

Queste parole sono attualissime. In Iraq non c’è ancora pace, neppure nella vicina Siria dove i Russi hanno testato la loro arte della guerra, e tantomeno in Afghanistan, invaso e poi abbandonato a se stesso. In nessuno di quei paesi la guerra ha portato pace, perché non ha costruito giustizia, non ha ridato dignità ai poveri, prospettive ai giovani, lavoro, educazione e sicurezza a tutti.

Don Tonino Bello chiamava a una «insurrezione di coscienza». Per noi missionari significa stare con chi le guerre le paga sulla propria pelle, così come fanno i nostri in questi giorni nelle due comunità in Polonia aperte all’accoglienza dei profughi. Ma anche i missionari nel Nord del Kenya, in Etiopia, in Mozambico, nel Nord del Congo, in Venezuela, in Colombia, in Messico, in Costa d’Avorio, a Roraima in Brasile, dove ci sono guerre di fatto, non dichiarate, e che non fanno certo notizia.




Non diamoci pace


Condividiamo queste poche righe del superiore generale del Missionari della Consolata, padre Stefano Camerlengo. Sono tratte da un documento che egli invia ai missionari, ma certamente sono parole intense che valgono per tutti.

Quest’anno siamo giunti alle soglie della Quaresima “avvolti” dal dramma della guerra scoppiata tra Russia e Ucraina…: una guerra che ha di certo conseguenze ben più vaste… Dolore e silenzio ci trafiggono il cuore… le grida di dolore e sofferenza non potevano che farsi più lancinanti dinanzi a una guerra che è tornata a insanguinare le terre europee e che peraltro deve ridestare l’attenzione sui tanti conflitti che, vicini o lontani da noi, interpellano la nostra coscienza di uomini, di credenti e di missionari.

Davanti a queste guerre e a tanto odio e malvagità ci sentiamo impotenti. Rimane la preghiera e la generosità della nostra vita. Ma, la preghiera autentica ha un prezzo da pagare perché colui che prega in modo autentico, prima che cambiare Dio o la storia, deve lasciarsi personalmente cambiare dall’incontro con Dio, per stare nella situazione in cui si trova con una responsabilità che non viene attenuata o attutita, ma al contrario potenziata dall’incontro con Dio, con il suo desiderio e con la sua grazia.

Cerchiamo di convertire la nostra esistenza per poter non semplicemente giungere a Pasqua, ma per poterla sperimentare nella carne.

Aggiungiamo però un suggerimento: non accogliamo nel cuore e nella mente ciò che è contro la pace (pensieri, parole, azioni) e apriamoci ogni giorno a ciò che la costruisce in noi e attorno a noi! Ogni giorno facciamo CONCRETAMENTE un atto di DISARMO e un atto di PACIFICAZIONE: dobbiamo assolutamente cambiare rotta! Dobbiamo far soffiare venti buoni nel mondo a partire dalle  nostre case! Dobbiamo smetterla di attendere che la pace sia decretata e fatta dai governanti: dobbiamo decretarla e farla noi! E il primo disarmo dobbiamo farlo in noi stessi come diceva il Patriarca Atenagora. Meditiamo a fondo le sue parole: “La guerra più dura è la guerra contro sé stessi. Bisogna arrivare a disarmarsi. Ho perseguito questa guerra per anni, ed è stata terribile. Ma sono stato disarmato. Non ho più paura di niente, perché l’amore caccia il timore. Sono disarmato della volontà di aver ragione, di giustificarmi squalificando gli altri. Non sono più sulle difensive, gelosamente abbarbicato alle mie ricchezze. Accolgo e condivido. Non ci tengo particolarmente alle mie idee, ai miei progetti. Se uno me ne presenta di migliori, o anche di non migliori, ma buoni, accetto senza rammaricarmene. Ho rinunciato al comparativo. Ciò che è buono, vero e reale è sempre per me il migliore. Ecco perché non ho più paura. Quando non si ha più nulla, non si ha più paura. Se ci si disarma, se ci si spossessa, ci si apre al Dio-Uomo che fa nuove tutte le cose, allora Egli cancella il cattivo passato e ci rende un tempo nuovo in cui tutto è possibile.”

Sì: “NON DIAMOCI PACE” FINCHÉ NON CI SIA PACE IN TUTTI E PACE PER TUTTI!

Buona Quaresima e una Santa Pasqua!

Stefano Camerlengo
Da Notiziario IMC, N. 51
Roma, 31 marzo 2022




Tra dubbi e profezia


Il 2022 è iniziato un po’ in sordina, azzoppato dalla variante Omicron che sta condizionando la vita di mezzo mondo. Omicron, nell’alfabeto greco, è la lettera «o», presente due volte nella parola mondo e nel suo omologo greco cosmo. Invece di essere come le ruote di una bicicletta (o di una moto), è diventata come due macigni che appesantiscono e frenano.
Ventuno anni fa siamo entrati in pompa magna nel terzo millennio, ma guardando a quanto sta succedendo nel mondo, verrebbe da dire che siamo tornati alla preistoria. Con tutto il rispetto per la preistoria, quando forse si viveva più «umanamente» di quanto facciamo noi oggi, quando un guaio combinato da qualcuno aveva conseguenze solo locali. Nonostante oltre cinquemila anni di storia documentata, nonostante la conoscenza e lo studio di religioni e filosofie di tutti i popoli, nonostante il progresso scientifico e tecnologico e gli incredibili sviluppi della comunicazione, nonostante tutto questo, stiamo vivendo la distruzione ambientale, l’aumento delle ingiustizie sociali e delle guerre, con i ricchi che diventano più ricchi a spese dei poveri, degli sfruttati e della salute del nostro pianeta, e i potenti che, invece di investire nella pace, usano la guerra e l’intolleranza per dominare, sostenuti dalle derive fondamentaliste delle grandi religioni, anche del cristianesimo.

Viene da domandarsi: perché questo imbarbarimento? Perché non abbiamo imparato nulla dalla storia? Perché duemila anni di cristianesimo sembrano persi nel dimenticatoio di fronte alla logica del profitto, del consumismo, del benessere, del materialismo? Com’è che moltiplichiamo leggi e regolamenti e non cambiamo il cuore?

Come può succedere che un capo di stato chieda – applaudito – che l’aborto diventi un diritto umano universale pari al diritto alla vita, alla libertà in tutte le sue espressioni, alla sicurezza, all’istruzione, al riposo e al gioco, al cibo, alla casa e al lavoro?

Sappiamo poi molto bene che se ci fosse una guerra atomica tutti e tutto ne pagheremmo il prezzo. Perché, allora, sembra impossibile liberarsi dalle armi atomiche? Perché troppe nazioni rifiutano di ratificare il Trattato di non proliferazione nucleare, promosso dalle Nazioni Unite?

Terribile è poi l’ipocrisia sui migranti. Si trovano i soldi per costruire muri, per armare e mantenere reparti di polizia specializzati contro i migranti, come la discutibile guardia costiera libica, si costruiscono campi che diventano il limbo in cui sono fatti sparire, ma poco viene fatto per curare le cause che sono all’origine di un così grande esodo di genti: povertà, sfruttamento, dittature, guerre, persecuzioni, cambiamento climatico. E poi si chiudono tutti e due gli occhi sul caporalato, la tratta delle persone, il traffico della prostituzione, lo sfruttamento dei lavoratori in nero, il lavoro dei bambini, le nuove forme di schiavitù. E si rifiuta lo jus soli. Fa poi comodo usare i migranti per la propaganda politica come se essi fossero la causa di tutti i mali, come se davvero tenerli fuori dai nostri confini risolvesse i nostri problemi di lavoro, sicurezza, sanità, giustizia sociale, invecchiamento della popolazione, spopolamento.

Nell’elenco ci sarebbe da aggiungere il rinascere del razzismo, la manipolazione della storia, il crescere dell’ignoranza, l’incapacità di dialogo, il narcisismo sociale e politico, l’illusione che l’avere di più dia più felicità, l’aggressività sui social, la contraffazione mediatica, l’invasione della privacy.

Mentre scrivo mi arrabbio con me stesso, perché sono bravo a elencare, a fare liste, a piangermi addosso. Ma a cosa serve?

In tutto questo c’è una luce di speranza, una profezia di vita e libertà. Ci è offerta dai poveri del mondo, con i quali vivono tanti dei miei confratelli e consorelle missionari. Poveri che hanno una resilienza incredibile e un’infinita voglia di riscatto. Viene dal guardare a quella croce che domina nelle nostre chiese, che è sui muri di tante stanze, che è al collo di tante persone. Una croce, un crocefisso, che durante questo tempo di quaresima siamo invitati a reincontrare perché non rimanga solo un segno esterno. Il «prendere la croce e seguirlo» deve diventare un modo di essere e uno stile di vita che promuova la vita, ogni forma di vita, tutta la vita. Che sia una via alternativa al tran-tran disumanizzante e cosificante del consumismo, alla logica del più forte e del più ricco, alla rassegnazione alla paura, all’ansia per il futuro, alla chiusura all’altro. Una verità che decodifichi le fake news, gli inganni, le alienazioni dell’uomo e, invece, promuova un uomo libero e liberante, creativo, resiliente e soggetto della storia, non spettatore rassegnato.