I Perdenti 40.

Luz Long e Jesse Owens campioni nello sport e nella vita

Quel
che accadde in un caldo e afoso pomeriggio del 4 agosto 1936 all’Olympiastadion
di Berlino fu una cosa inimmaginabile per quei tempi in Germania, uno schiaffo
dato in pieno volto al regime nazista all’apice del suo potere: la conquista di
una medaglia d’oro da parte di un uomo di colore alle Olimpiadi che si tenevano
nella capitale dell’ideologia della supremazia della razza ariana su tutte le
altre, non solo in ambito sportivo, ma bensì in ogni aspetto del vivere sociale
e civile.

L’aspetto
più luminoso legato a quella data è la sincera amicizia fra l’atleta tedesco Luz
Long e il suo più forte avversario, lo statunitense afroamericano Jesse Owens,
nata sui campi di gara e consolidatasi nel tempo, a dimostrare che la rivalità
sportiva non si traduce sempre in feroce antagonismo, e che il valore di
un’amicizia si misura dalla sua capacità di sopravvivere al passare degli anni.
Tutto ciò trova valida conferma in una lettera di Long – ultima di una fitta
corrispondenza – spedita dal fronte della Seconda Guerra Mondiale al rivale
sportivo nonché amico fraterno: «Dopo la guerra, va’ in Germania, ritrova mio
figlio e parlagli di suo padre. Parlagli dell’epoca in cui la guerra non ci
separava e digli che le cose possono essere diverse fra gli uomini su questa
terra. Tuo fratello, Luz». Così scriveva Long, divenuto ufficiale della
Luftwaffe tedesca, a Owens che aveva appreso da poco la notizia della nascita
del suo primogenito.

Proprio
con il campione sportivo tedesco Luz Long vogliamo scambiare quattro
chiacchiere sulla loro straordinaria amicizia.

Jesse Owens in piena corsa alle Olimpiadi del 1936 a Berlino (Collection MNS)
Caro Luz, nonostante i tuoi meriti sportivi, anche tu sei stato reclutato
per l’esercito tedesco e mandato in prima linea a combattere…

Devo dire
che il mio status di atleta internazionale mi aveva risparmiato di prendere
parte al conflitto iniziato nel 1939, ma il capovolgimento delle sorti della
guerra richiamava al servizio del Reich tutti gli uomini validi, quindi anche
gli atleti sportivi di ogni disciplina.

Cosa accadde all’Olympiastadion di Berlino in quel lontano 4 agosto 1936?

Cominciamo
col dire che uno spettatore che prendeva posto nelle strutture sportive,
pianificate e costruite in quegli anni in Germania dall’architetto del regime
Albert Speer, rimaneva stupefatto per la loro imponenza ed eleganza. Era un
modo per infondere negli spettatori una forma di ammirazione e rispetto per il
potere nazista.

L’Olympiastadion era veramente così imponente?

Con
chiari richiami ai modelli architettonici dell’Antica Grecia, l’Olympiastadion,
poteva contenere oltre centodiecimila spettatori. Maestoso e immenso,
costituiva un’autentica «macchina di propaganda» messa in azione dal regime
nazista per ottenere un sempre più vasto consenso dal popolo tedesco attraverso
gli avvenimenti sportivi.

Possiamo dire quindi che una manifestazione sportiva come le Olimpiadi era
usata dal potere nazista come uno strumento di battaglia ideologica?

Hitler
intendeva servirsi delle Olimpiadi per dimostrare al mondo intero la supremazia
della razza ariana, di conseguenza l’atleta tedesco doveva corrispondere
all’immagine stereotipata: alto, biondo, prestante, carnagione chiara e occhi
azzurri.

Quindi tu rientravi pienamente nei canoni estetici voluti dal Fuhrer.

Sì.
Appartenevo fin dalla nascita alla patria tedesca, a quel tempo avevo ventitré
anni ed ero studente di legge all’Università di Lipsia. Dal punto di vista
sportivo, in precedenti gare avevo già superato per due volte consecutive nel
salto in lungo il record olimpico di 7,73 metri stabilito nel 1928 ad Amsterdam
dallo statunitense Edward Hamm.

Eri diventato anche il beniamino della nazione tedesca dopo esserti
classificato terzo ai campionati europei di atletica leggera, nel 1934.

Mi
rendevo conto che ero una pedina importante, nella scacchiera preparata da
Hitler per affermare il dominio sportivo germanico sul resto del mondo. Agli
occhi del Fuhrer le mie possibili affermazioni in campo atletico apparivano
quasi scontate e il dittatore si preparava a gustarle di fronte agli ospiti
provenienti da tutto il mondo.

Quante nazioni erano presenti a quelle Olimpiadi?

Parteciparono
ben quarantanove paesi, un numero record rispetto alle edizioni precedenti, che
tuttavia non teneva conto della forte discriminazione insita nell’evento
berlinese. Gli atleti ebrei tedeschi furono espulsi da tutte le discipline
sportive, mentre un destino già più felice toccò agli afroamericani, ai quali
fu concesso di gareggiare, anche se in numero ridotto. La squadra olimpica
americana presentava diciotto atleti di colore su 312 partecipanti, una
percentuale bassissima. Tra l’altro, quei diciotto subivano una pesante
discriminazione perfino in patria. Erano pochi, ma abituati alle privazioni,
forse per questo motivo ancor più desiderosi di riscattarsi. Tra loro spiccava
James Cleveland Owens, da tutti conosciuto come Jesse Owens.

Hitler come vedeva questi atleti di colore?

La
presenza degli afroamericani alle Olimpiadi di Berlino venne giustificata da
Hitler con sordido disprezzo: diceva che essendo loro dei «primitivi» potevano
vantare una costituzione robusta, perciò più adatta alla corsa. A rincarare
l’acredine fu il quotidiano della propaganda nazionalsocialista, diretto da
Joseph Goebbels, che definiva i neri come cittadini di seconda categoria degli
Stati Uniti.

In effetti, a ben guardare, anche nel loro paese non erano trattati molto
bene.

Basti
pensare che in quegli anni gli afroamericani erano costretti a sedere nella
parte posteriore dei bus pubblici e dovevano utilizzare gli ascensori di
servizio negli alberghi: la loro condanna era di essere confinati ai margini
della società. Il diritto di vivere non era loro precluso, eppure,
silenziosamente, veniva negata loro quella possibilità che si trova alla base
della libertà stessa: vivere come loro desideravano.

Nonostante ciò, il desiderio di affermarsi, di emergere nella società
civile come nello sport da parte degli afroamericani era molto sentito.

Proprio
così, e Jesse Owens, figlio di un povero agricoltore dell’Alabama, che a otto
anni lavorava già come inserviente per conquistare un posto un po’ più
dignitoso in quel mondo che lo voleva escludere, era deciso a tutto pur di
farcela.

Quale fu l’occasione che gli permise di «sfondare»?

Furono le
sue doti e le sue capacità atletiche a consentirgli di ottenere una borsa di
studio per la Ohio State University, dove incontrò Larry Snyder, uno dei
migliori coach in circolazione.

Con lui, Jesse cominciò ad affermarsi e a stabilire nuovi record.

Qualche tempo prima in Michigan, partecipando ad un
evento sportivo, vinse ben quattro gare in diverse discipline in un’ora e un
quarto. L’eccezionalità delle sue imprese sportive impressionò la Federazione
americana di Atletica Leggera che lo incluse nel gruppo di atleti da portare
alle Olimpiadi di Berlino.

Dove il nome di Jesse Owens divenne leggenda.

Il tre
agosto del 1936 conquistò la sua prima medaglia d’oro, quella della corsa dei
cento metri. Bisogna dire che i giudici tedeschi durante le gare lo presero
particolarmente di mira, infatti non esitarono a sollevare la bandierina rossa
per delle inezie durante le qualificazioni per il salto in lungo. Dopo due
salti nulli incombeva su di lui lo spettro dell’eliminazione. Jesse era dotato
di grande velocità, ma il suo stile rivelava imperfezioni, soprattutto se
confrontato con l’impeccabile hang style (sospensione nel salto) di altri
atleti.

Per Owens sembrava ormai preannunciarsi una sconfitta inevitabile.

Senza
contare che su di lui pesava duramente la fatica degli sforzi precedenti.
Rimaneva l’ultima possibilità nel salto in lungo, ma la giuria internazionale,
influenzata pesantemente dalle autorità naziste, era pronta a dichiararlo fuori
gioco senza troppi complimenti.

Jesse perciò si trovava di fronte all’ultimo salto valido per accedere alla
finale, quando qualcuno si avvicinò alle sue spalle. Eri proprio tu Luz,
l’atleta tedesco da cui tutti si attendevano una vittoria.

Mi
avvicinai a lui e gli sussurrai all’orecchio: «Uno come te dovrebbe essere in
grado di qualificarsi ad occhi chiusi», poi gli consigliai il punto di stacco
ideale per effettuare un salto valido indicandolo con un fazzoletto bianco
posato accanto alla pedana. Jesse non solo si qualificò per la finale, ma mi
superò ampiamente saltando ben 8,06 metri contro i miei 7 metri e 87
centimetri.

Jesse Owens saluta mentre riceve la medaglia d’oro per il salto in lungo.

Owens quel giorno vinse il suo secondo titolo olimpico, ricordiamo che tra tutti gli atleti di colore della squadra americana il migliore fu proprio lui, che il 3 agosto vinse la medaglia d’oro nei cento metri, il 4 agosto nel salto in lungo e il 5 agosto nei 200 metri e infine, il 9 agosto vinse la sua quarta medaglia d’oro nella staffetta 4×100 metri; questa era una gara a cui Owens non era nemmeno iscritto, ma partecipò dopo che la squadra americana decise di non far partecipare due atleti ebrei a causa delle pressioni dei nazisti. Il trionfo di Jesse Owens fu un vero scacco per Hitler che riponeva ogni speranza nei campioni di casa per una robusta affermazione tedesca nelle discipline sportive di atletica leggera. Si vociferò anche a lungo sulla reazione di Hitler alla mancata vittoria tedesca, gli attribuirono i comportamenti più disparati: come il fatto di essersi rifiutato di stringere la mano a Owens. Jesse, da perfetto galantuomo, smentì le versioni non veritiere, affermando di essere stato salutato, sebbene a distanza, dal Fuhrer. La vittoria alle Olimpiadi non procurò inizialmente molti benefici economici a Owens, quando tornò negli Stati Uniti dovette adattarsi a fare parecchi lavori umili per procurarsi da vivere, tra cui l’inserviente a una pompa di benzina.

Ignorato e snobbato (non si sa per quale ragione) dal presidente Franklin Delano Roosevelt, e dal suo successore Harry Truman, il primo vero riconoscimento per i suoi trionfi sportivi arrivò quarant’anni dopo, nel 1976 dal presidente Gerald Ford, che gli assegnò la Medaglia per la libertà, il più alto riconoscimento civile degli Stati Uniti. Jesse Owens si spense a 77 anni nella sua casa a Tucson, in Arizona, il 31 marzo 1980.

Don Mario Bandera




I Perdenti, 34. Dorando Pietri: il perdente più celebre del ‘900

Testo di Mario Bandera |


Nella galleria dei personaggi che – a torto o a ragione – sono passati alla storia come dei «perdenti eccellenti» e che MC da qualche tempo sta cercando di presentare sotto una luce positiva, trova il suo posto anche Dorando Pietri, l’atleta di Reggio Emilia che alle Olimpiadi di Londra del 1908 percorse, allo stremo delle forze, l’ultimo tratto della maratona nello stadio di Wembley sostenuto da uno dei giudici di gara. L’impresa sportiva di quel giorno, che l’aveva visto come un brillante protagonista per tutto il percorso, si concluse amaramente con la squalifica del corridore emiliano per l’aiuto ricevuto nell’ultimo tratto del percorso. Nella memoria collettiva di tutti gli sportivi – non solo italiani – Dorando Pietri, è l’atleta che seppe incarnare in maniera esemplare gli ideali del marchese Pierre De Coubertin, ideatore delle moderne Olimpiadi.

Dorando Pietri – CC

Nato il 16 ottobre 1885 in una famiglia contadina della provincia di Reggio Emilia, a Correggio nella frazione di Mandrio, Dorando Pietri (morto a Sanremo il 7 febbraio 1942) per i nostri standard era «un piccoletto», essendo alto solo un metro e sessanta centimetri, come la maggior parte degli italiani di quel tempo. Fin da bambino si divertiva un mondo a correre nei campi della sua terra, come tutti i ragazzi nati nei grandi spazi della campagna. Iniziò a lavorare molto presto, probabilmente prima dei dieci anni, nella bottega di un pasticciere a Carpi, cittadina dove il padre aveva portato la famiglia e aperto un’attività commerciale, per emanciparsi – o almeno provarci – dal lavoro della terra.

Nel 1903 entrò a far parte della società sportiva di ginnastica «La Patria», i cui dirigenti, intuendone le qualità del vero campione, lo iscrissero a diverse gare podistiche regionali e nazionali.

Dorando, a distanza di oltre un secolo resti un esempio di atleta serio e meticoloso, da dove nasce questo tuo amore per la corsa?

Fin da ragazzo mi è sempre piaciuto correre, qualcuno disse che avevo un talento naturale per questa disciplina sportiva, forse per il mio fisico, forse per la storia della mia famiglia, in ogni caso tutto convergeva nel fare emergere le caratteristiche dell’atleta corridore insite nel mio animo.

È vera la storia che si racconta, che la tua voglia di correre era tanta che a una gara podistica organizzata a Carpi nel 1904, a cui partecipava Pericle Pagliani, il più celebre corridore dell’epoca, quando questi passò vicino alla tua bottega tu ti mettesti a seguirlo in abiti da lavoro fino al traguardo?

Proprio così! A quel tempo avevo 19 anni e avevo tanta voglia di correre che quando Pagliani passò vicino alla bottega dove lavoravo, mi misi a correre dietro a lui senza nemmeno togliermi il grembiule da pasticciere e riuscendo, nonostante ciò, a stargli incollato fino alla fine della gara.

I dirigenti della società sportiva «La Patria» constatando le tue qualità atletiche, ti spinsero a iscriverti a diverse gare podistiche regionali e nazionali contribuendo così a farti conoscere da un numero sempre più ampio di sportivi…

Dicevano che «avevo talento». A furia di ripeterlo a ogni manifestazione sportiva facendomi un sacco di pubblicità, in pochi anni divenne chiaro a tutti che in Italia se c’era qualcuno da battere nella corsa sulle distanze dai 5 ai 40 chilometri, quello ero io.

A quel punto si aprì anche il palcoscenico internazionale.

Infatti non ci fu molto da aspettare. Nel 1905 vinsi la 30 km di Parigi con un distacco di sei minuti sul secondo classificato; nel 1906 vinsi la maratona che mi qualificò ai giochi olimpici intermedi di Atene; nel 1907 stabilii il primato nazionale italiano dei cinquemila metri e vinsi il titolo nazionale anche sulla distanza dei venti chilometri.

La tua carriera come atleta podista continuò con una serie impressionante di vittorie che lasciò sbalordita l’Italia intera.

Quello fu un momento molto fruttuoso nella mia vita sportiva, oltre alle vittorie già ricordate, nel 1908, mi qualificai per le Olimpiadi di Londra in una gara che si tenne proprio a Carpi. Davanti alla mia gente corsi la maratona in 2 ore e 38 minuti. In Italia un tempo simile su quella distanza non l’aveva mai fatto nessuno.

Adesso parliamo delle Olimpiadi di Londra, di quella fatidica giornata del 24 luglio 1908.

Quel giorno a Londra faceva molto caldo, anche per un italiano. La corsa partì alle due e mezza del pomeriggio. Io avevo la pettorina numero 19, maglietta bianca e calzoncini rossi, all’inizio restai con il gruppo dei corridori in quanto non volevo forzare inutilmente. Seguivo una mia strategia di corsa che mi ero preparato meticolosamente nei giorni precedenti.

Sì, ma appena passasti il segnale di metà gara le cose cambiarono.

Superati i 20 chilometri, applicai un ritmo sempre più spinto alla mia andatura che mi portò a superare tutti quelli che mi stavano davanti e giunsi a riprendere l’atleta che era in testa, il sudafricano Charles Hefferon, quando mancavano meno di tre chilometri all’arrivo.

Ma pagasti a caro prezzo questo tuo sforzo.

A quel punto mi sentivo stanchissimo, ero quasi disidratato. Entrai allo stadio che quasi non riuscivo a correre dritto, barcollavo, sbagliai persino strada. Il pubblico nello stadio mi incitava a continuare, ma i giudici di gara mi fecero notare l’errore e mi fecero tornare indietro.

Non reggevi più lo sforzo e sei persino caduto sulla pista.

È vero, però con l’aiuto dei giudici di gara mi rialzai sempre. Caddi quattro volte in duecento metri prima di arrivare al traguardo, e ogni volta i giudici mi diedero una mano per rimettermi in piedi. Tagliai il traguardo in 2 ore e 54 secondi. Svenni per la quinta volta e mi portarono via in barella. Nello stesso momento entrò nello stadio l’atleta americano Johnny Hayes, che si piazzò secondo.

Eri riuscito a tagliare il traguardo per primo, quindi la maratona l’avevi vinta tu.

Si, ma la delegazione degli Stati Uniti, non appena venne a sapere quello che era successo all’interno dello stadio, con i giudici che mi avevano aiutato a terminare la gara, fece appello alla giuria per chiedere la mia eliminazione, in quanto colpevole di essere stato aiutato dai giudici di gara.

E come andò a finire?

Il reclamo venne accolto: fui squalificato e cancellato dall’ordine di arrivo della gara. La medaglia d’oro fu assegnata allo statunitense Johnny Hayes.

E nei tuoi confronti come si comportarono gli inglesi?

Il mio dramma umano commosse tutti gli spettatori dello stadio: per compensarmi della mancata medaglia olimpica, la regina Alessandra mi diede in premio una coppa d’argento dorato.

È vero che a proporre il riconoscimento reale fu lo scrittore Arthur Conan Doyle, il «papà» di Sherlock Holmes?

Doyle era presente a bordo campo per redigere la cronaca della gara per il Daily Mail. Il resoconto del giornalista-scrittore terminava con queste parole: «La grande impresa dell’italiano non potrà mai essere cancellata dagli archivi dello sport, qualunque possa essere la decisione dei giudici».

Pietri premiato dalal regina alla fine della maratona – CC

Il racconto della sfortunata impresa di Pietri fa immediatamente il giro del mondo. Dorando Pietri diviene una celebrità, in Italia e all’estero, per non avere vinto. La mancata vittoria olimpica è la chiave del successo dell’atleta emiliano: Pietri riceve presto un buon ingaggio per una serie di gare ed esibizioni negli Stati Uniti.

Il 25 novembre 1908, al Madison Square Garden di New York, va in scena la rivincita tra Pietri e Hayes. Gli spettatori sono ventimila, mentre altre diecimila persone rimangono fuori a causa dell’esaurimento dei posti. I due atleti si sfidano in pista sulla distanza della maratona, e dopo aver corso spalla a spalla per quasi tutta la gara, alla fine Pietri riesce a vincere staccando Hayes negli ultimi 500 metri, per l’immensa gioia degli immigrati italiani presenti. Anche la seconda sfida, disputata il 15 marzo 1909, viene vinta da Pietri. Durante la trasferta in America partecipa a 22 gare, vincendone 17. Rientrato in Italia nel maggio 1909 prosegue l’attività agonistica per altri due anni.

La sua ultima maratona è quella di Buenos Aires, corsa il 24 maggio 1910, nella quale Pietri chiude con il suo primato personale di 2 ore, 38 minuti, 48 secondi e 2 decimi. La gara d’addio in Italia si svolge il 3 settembre 1911 a Parma: una 15 chilometri, vinta agevolmente. Corre la sua ultima gara all’estero il 15 ottobre dello stesso anno (il giorno prima del suo 26° compleanno), a Göteborg in Svezia, concludendola con l’ennesima vittoria. Nel 1911 si ritira dall’attività agonistica e si trasferisce a Sanremo dove apre un’autorimessa e dove muore il 7 febbraio 1942, stroncato da un improvviso infarto.

Don Mario Bandera




Nel Brasile olimpico inedita vittoria per gli indigeni


Vale quanto una medaglia d’oro. Anzi di più, perché è una vittoria clamorosa e inaspettata degli “ultimi”, (o meglio ritenuti tali): gli indigeni dell’Amazzonia brasiliana. Sostenuti da Greenpeace, che ha raccolto in poche settimane più di un milione di firme a loro sostegno in venti paesi, gli indios Munduruku sono riusciti a bloccare una mega-diga sul fiume Sao Luis de Tapajòs, che avrebbe distrutto la foresta in cui abitano da millenni e il loro modo di vivere. A sorpresa, infatti, l’Ibama (Istituto brasiliano delle risorse rinnovabili e ambientali) ha accolto le proteste di questo popolo (non più di 12000 anime) e degli ambientalisti, rigettando il devastante mega-progetto (8000 megawatt, la sesta diga più grande del mondo che avrebbe “annegato” ben 376 kmq di selva tropicale).

Si tratta in realtà di una mezza vittoria, perché il governo brasiliano non ha ancora proceduto alla demarcazione ufficiale dei territori ancestrali dei Munduruku: destino che questi ultimi condividono con quasi tutte le 240 etnie sopravvissute in Brasile ed America Latina a un genocidio lungo cinque secoli. Alla faccia di Costituzioni “progressiste”, che garantiscono sulla carta i diritti dei popoli indigeni ma che in realtà li lasciano preda della brutalità di multinazionali e poteri forti, ansiosi di impossessarsi delle loro terre, ricche di risorse (petrolio, pietre preziose, acqua, metalli rari).

Ma in gioco non è soltanto la difesa della foresta e della Pacha Mama (la Madre Terra, ritenuta sacra nella cosmo-visione indigena). Il “rinascimento indigeno” degli ultimi decenni punta anche alla strenua tutela dell’identità storica e culturale dei popoli scampati non solo ai devastanti effetti della conquista, ma a quelli ancor più desolanti dell’assimilazione forzata alla “way of life” dominante.

Non a caso, la “Giornata Internazionale dei Popoli Autoctoni”, celebrata dall’Onu il 9 agosto, nel pieno dei Giochi di Rio,ha messo al centro “la questione dell’accesso all’educazione culturalmente e linguisticamente adattata e non come mezzo di assimilazione”. Nonostante i buoni propositi (e una Dichiarazione dei Diritti dei Popoli Indigeni,approvata dalle Nazioni Unite il 13 settembre 2007), le richieste di poter educare i piccoli indigeni nella loro lingua ancestrale raramente vengono accettate e la tanto conclamata autodeterminazione rimane un miraggio. Tanto che, oltre alle esortazioni di rito dell’Onu ai governi, anche Papa Francesco ha sentito il bisogno di sostenere la disperata lotta degli indios, con un tweet diffuso proprio il 9 agosto :
“Chiediamo che vengano rispettati i popoli indigeni minacciati nella loro identità e nella loro esistenza”.

Proprio in concomitanza con i Giochi Olimpici, con l’intento di “sfruttare” l’attenzione mondiale sul Brasile, Survival Inteational, una delle ong più attive sul fronte della difesa degli indigeni in tutto il mondo, ha lanciato una grande campagna, “fermiamo il genocidio in Brasile”, centrata sul caso esemplare dell’etnia Kawahiva,nel cuore dell’Amazzonia brasiliana, le cui terre sono state prese di mira da grossi commercianti di legname e allevatori, supportati da potenti politici corrotti. Nell’aprile scorso il ministro della giustizia aveva ceduto alle pressioni dei Kawahiva e dei loro supporters,firmando un decreto per la protezione e la demarcazione dei territori concupiti, ma la norma non è stata resa esecutiva, secondo un copione ormai stantio che si ripete in tanti paesi latino-americani (e non solo).

Morale della favola: i Kawahiva, che prima dell’incontro/scontro con la cosiddetta civiltà occidentale non avevano praticamente contatti con i bianchi,vivono da anni in fuga, o in accampamenti di fortuna lungo le strade, piagati da malnutrizione, malattie e violenze dei sicari al soldo dei loro persecutori, mentre le loro foreste vengono via via abbattute e/o trasformate in pascoli, piantagioni di canna da zucchero e soya transgenica.

“In Brasile- spiegano a Survival Inteational- ci sono ancora più etnie “incontattate”, isolate nella selva, che in qualunque altro paese. Sono questi i popoli più vulnerabili del pianeta, che rischiano la catastrofe se le loro terre non saranno protette”.

In attesa che il governo brasiliano, (distratto oggi dagli ori di Rio e domani da problemi considerati ben più gravi, come l’impeachment della Presidente Dilma Rousseff e la sempre più severa crisi socio-economica) si decida a non fare orecchio da mercante, gli indigeni continuano a contare sulle proprie forze e sul sostegno di coalizioni inteazionali di ambientalisti e difensori dei diritti umani. Riuscendo, non di rado, a trasformare anche sconfitte e tragedie in possenti motivazioni per non gettare la spugna.

Un caso simbolico: l’onda di rivolta innescata dall’assassinio della leader ambientalista Berta Càceres, uccisa da due sicari il 3 marzo scorso nella sua casa di La Esperanza, in Honduras, nel territorio della comunità Lenca, uno dei principali gruppi indigeni del paese, eredi della cultura maya.

Berta, in lotta contro il progetto di una centrale sul rio Gualcarque (ma anche intenta a costruire le alternative, perchè come cornordinatrice del Ccopinh, il consiglio dei popoli indigeni honduregni, stava organizzando workshop sulle energie rinnovabili) era molto nota in tutto il mondo perché nel 2015 aveva ricevuto il premio Godlman, l’Oscar ambientale. La sua morte, dunque, ha suscitato indignazione e solidarietà in tutto il pianeta, dando il via ad una mobilitazione a molti livelli, dal parlamento europeo alle reti sociali, nonché a una vera e propria “missione internazionale”, denominata “Justicia per Berta Càcares Flores” che ha ripreso la battaglia contro il progetto, al punto che la Fmo, la banca finanziatrice olandese, ha ritirato i fondi, seguita a ruota da altri investitori.

Ma non basta: la figlia Berta (stesso nome della madre) sta girando il mondo con una delegazione del Copinh, trovando ascolto presso istituzioni e governi. Convinti che la lotta sia soprattutto sul piano della critica all’insostenibile modello di sviluppo attuale, Berta e i suoi sostenitori hanno puntato sulla “parola”: “Loro hanno i proiettili, noi la parola. Il proiettile finisce con la detonazione, la parola torna a vivere ogni volta che la pronunci. Berta Càceres si è moltiplicata”.

La tragedia di Berta diventa così combustibile per il “rinascimento indigeno” in corso,pur tra mille difficoltà.
“Ora capiamo che tutto quello che facciamo, dalle iniziative per la salute comunitaria, alle piccole energie rinnovabili per le nostre case, all’educazione secondo i valori Lenca, è una forma di resilienza alla cultura imposta da uno stato estrattivista e capitalista, oligarchico e patriarcale “conclude la figlia. “Mia madre no muriò, se multiplicò”.




Brasile. Pallottole spuntate?


Oltre undici milioni di brasiliani vivono nelle favelas. Una parte di esse sono territori dominati da banditi e narcotrafficanti, in cui la pacificazione è un’impresa difficile. Ne abbiamo visitate alcune a Rio de Janeiro, la città che nell’agosto del 2016 ospiterà i giochi olimpici.

Rio de Janeiro. Al primo impatto la sensazione è di incredulità. Il verde tropicale della foresta Tijuca fa da sfondo alle centinaia di case che si arrampicano sui ripidi pendii delle colline, si accavallano e incastrano l’una nell’altra. Il quadro che ne risulta è un caotico insieme di linee e colori che si inseguono a perdita d’occhio. Il Morro do Borel è una delle centinaia di favelas di Rio de Janeiro. Si stima che ci vivano oltre 20 mila persone e a questo, come agli altri quartieri della zona Nord della città, anche il gigantesco Cristo Redentore volta le spalle, rivolgendo lo sguardo verso i ricchi quartieri di Copacabana e del centro città. Dire con precisione quanta gente abiti in queste baraccopoli non è certo impresa semplice visto che alcune risultano tutt’oggi inaccessibili. Alcune si sono espanse così rapidamente da inglobae di minori e divenendo delle vere e proprie città nella città: è il caso del Complexo do Alemão, una delle favelas più grandi dell’intera America Latina. Solo in questa comunidade, così la chiamano i suoi abitanti, si calcola possano vivere oltre quattrocento mila persone, numeri impressionanti se si pensa che in tutto il Brasile si stima siano oltre undici milioni le persone che vivono in queste condizioni, pari al 6% dell’intera popolazione (Ibge 2013 su dati 2010).

Da sempre viste nell’immaginario collettivo come luoghi da cui stare alla larga per via dei pericoli legati ai trafficanti di droga, le favelas sono caratterizzate da storie, sofferenze e problemi assai diversi le une delle altre. Ad oggi la prima grande differenziazione tra questi quartieri è la presenza o meno delle Upp (Unidade de polícia pacificadora, Unità di polizia pacificatrice, sito web: www.upprj.com), un corpo speciale della Polizia militare che in questi anni, in vista degli appuntamenti inteazionali dei Campionati Mondiali di calcio (2014) e dei prossimi Giochi Olimpici (agosto 2016), ha iniziato un percorso di bonifica dal narcotraffico, cercando di mitigare la guerra per il controllo della droga. Ad esempio il Morro do Borel fino a qualche anno fa era considerato una delle favelas più pericolose di tutta la metropoli brasiliana, dal momento che la collina su cui sorge era contesa da due comandi differenti che, nel tentativo di prevalere l’uno sull’altro, erano soliti fronteggiarsi in violenti conflitti a fuoco dove il più delle volte a rimetterci la vita erano gli abitanti stessi del quartiere. Oggi invece camminiamo tranquillamente per le ripide strade della favela senza alcun timore e dove una volta sorgeva la «boca do fumo», la via adibita alla vendita e al consumo degli stupefacenti, troviamo decine di negozi e baretti affollati da cui viene diffuso a tutto volume il tradizionale funky carioca.

Narcotrafficanti

Ma sono ancora molte le comunidade che aspettano l’intervento dello stato per ripulire le loro strade da banditi e trafficanti, una di queste è la favela di Acarí all’estrema periferia Nord della città. Ci entriamo accompagnati da Marcelo, una sorta di istituzione della comunità in quanto allenatore della squadra di calcio giovanile che, proprio per il suo impegno con i giovani del quartiere, si è guadagnato il rispetto degli stessi trafficanti avendo in gioventù allenato molti di loro che in seguito hanno abbandonato gli scarpini per darsi ad attività illecite. Tutte le vie d’accesso alla favela sono presidiate da gruppi che, armi in pugno, controllano chi entra e chi esce. Naturalmente l’ingresso di uno straniero non passa inosservato e solo grazie all’intervento di Marcelo il nostro giro nella comunità può proseguire. I muri delle case sono vergati con le sigle del comando che controlla la zona e uomini armati a bordo di grosse moto fanno i corrieri rifoendo i clienti che si fermano all’entrata della favela. Marcelo ci accompagna nella casa di una giovane donna i cui due figli sono rimasti gravemente feriti alle gambe dallo scoppio di una granata. È all’ordine del giorno, nelle guerre dei trafficanti per il controllo dei territori, il coinvolgimento di giovani e bambini che si trovano per strada a giocare. All’ospedale di Rio de Janeiro i medici dopo aver visitato i due ragazzi, hanno tracciato un quadro clinico piuttosto preoccupante, ma le liste per le operazioni raggiungo i sei mesi d’attesa. Ad oggi nella favela di Acarí duecento malviventi tengono in ostaggio le vite di oltre quarantamila onesti abitanti del quartiere, palesando agli occhi di tutti la grande voragine lasciata da uno stato che, oltre a non riuscire a dare un’assistenza dignitosa ai suoi cittadini, troppo spesso non riesce a porre la legalità come alternativa per i giovani che vedono nel traffico di droga un facile modo per guadagnare fama, soldi, rispetto e naturalmente potere. E da lavorare lo stato ne avrebbe anche in quelle favelas pacificate dove la convivenza tra abitanti e agenti della Upp è spesso messa a rischio da incresciosi abusi di potere da parte delle forze dell’ordine che portano a violente reazioni della popolazione.

Pallottole vaganti

A parlarcene è Miramar, il responsabile della comunità cattolica del Morro do Borel, conosciuto in tutto il quartiere perché voce di «Radio Grande Tijuca» (sito web: rgt105fm.tk), l’emittente radiofonica che trasmette ormai da dodici anni dalla favela. Quando lo incontriamo all’interno degli studi della radio ci spiega come è cambiata la vita dopo la pacificazione, ci racconta ad esempio di quando le vie della comunità, affollate di persone che rientravano a casa da lavoro e da scuola, erano il luogo della quotidiana guerra tra trafficanti. Chi era per strada quindi doveva correre a ripararsi aspettando, anche fino a tardi, che il fuoco cessasse. «Non eravamo padroni delle nostre vite e dei nostri spazi, ma oggi fortunatamente tutto questo è cambiato e, da tempo, le armi dei trafficanti hanno smesso di sparare», racconta Miramar che poi aggiunge, «Il rapporto con la Polizia pacificatrice è però allo stesso tempo molto complicato: gli agenti della Upp che sono di stanza nella nostra comunità non ruotano mai con gli uomini dei commissariati delle altre favelas. Questo permette una più facile integrazione con gli abitanti del quartiere, però facilita anche la corruzione, per cui i trafficanti riescono ad avere mani libere in cambio di tangenti alle forze dell’ordine. Così, mentre i grandi criminali restano impuniti e continuano ad arricchirsi, la polizia conduce violente operazioni anti droga contro piccoli spacciatori che, nei tentativi di fuga, vengono spesso uccisi dal fuoco degli agenti. Capita anche che a finirci in mezzo siano i nostri ragazzi i quali, vittime di un dilagante razzismo, solo perché neri vengono identificati come spacciatori e coinvolti in violenti conflitti. Insomma ancora oggi i nostri figli non sono liberi di crescere e giocare per strada senza il rischio che un proiettile vagante possa colpirli». Miramar e il gruppo della comunità cattolica da anni sono impegnati in prima linea per cercare una mediazione nella difficile convivenza tra abitanti e agenti di polizia. In più, dal momento che il prete vive distante dalla comunità e raggiunge la piccola chiesa della favela solo la domenica mattina per celebrare messa, i fedeli si sono organizzati autonomamente creando una rete di aiuto e solidarietà che gira attorno alla radio di Miramar.

Spazzatura e amianto

I temi su cui lavorano sono svariati, ma tutti convergono sui principali problemi quotidiani che la gente deve affrontare, uno fra tutti quello dei rifiuti. Più che un problema quello della spazzatura è una vera e propria piaga che infesta le strade propagando per tutta la comunità un terribile fetore. Per di più i grossi cumuli di immondizia sono il terreno ideale di proliferazione di ratti e malattie. Le aree di raccolta rifiuti sono poche e male attrezzate, quindi, riversando la spazzatura per strada, si finisce inevitabilmente per intasare il già precario sistema fognario. A quel punto il primo giorno di pioggia le strade diventano dei veri e propri torrenti di liquami e acque nere che corrono rapidi giù per la collina finendo nei fiumi e contaminandone le acque. Miramar da tempo conduce alla radio un programma di sensibilizzazione sull’argomento: «Per risolvere il problema bisogna lavorare su un doppio binario, da un lato chiediamo a prefettura e comune di intervenire ampliando le aree di raccolta rifiuti e intensificando lo smaltimento, da un altro puntiamo soprattutto sulla sensibilizzazione dei nostri concittadini, spiegando loro quanto siano dannose alla salute le discariche abusive, e provando a introdurre il concetto di differenziazione dei rifiuti e riclico». Miramar prosegue raccontandoci di come, attraverso il programma, si mettano all’erta gli abitanti della comunità anche dai rischi legati all’esposizione all’amianto, un materiale che per via dei suoi costi estremamente bassi è largamente usato nelle coperture dei tetti e nelle cistee per l’acqua.

Nelle parole e negli occhi di Miramar, Detinha, Ruth e di tutti i membri della comunità cattolica, riusciamo a leggere la grande delusione e la rabbia di chi si sente completamente abbandonato da una società che li costringe alla ghettizzazione.

Abusi tra le mura domestiche

I pochi e sudati progressi nascono dalla cooperazione tra gli abitanti della comunità, tra questi anche i fedeli delle numerose comunità evangeliche, come Kennedy, uno dei tanti ragazzi che gestiscono il centro culturale Jocum. «Solo nella nostra favela ci sono oltre ventimila abitanti e non c’è nemmeno un presidio medico. Abbiamo sparso la voce chiedendo aiuto alle altre comunità, c’è stata una grande mobilitazione e così si è creata una rete di medici volontari che offrono la loro assistenza a tutti coloro che ne hanno necessità. Inoltre ogni sabato possiamo contare sulla preziosa presenza di uno psicologo». Proprio un supporto psicologico è quello che chiedono le molte donne vittime di abusi sessuali, una piaga sociale che colpisce anche giovani e giovanissime ragazze. Monica, maestra di un asilo della comunità e madre di tre figlie, ci racconta la sua drammatica esperienza di aver scoperto che suo padre aveva abusato diverse volte di una delle sue bimbe che in seguito aveva tentato il suicidio. «La vera angoscia incomincia quando ti rendi conto di essere impotente difronte a questi eventi, da un lato il tradimento da parte di un genitore, dall’altro la sofferenza di tua figlia, e tu nel mezzo non puoi contare su nessun aiuto, se non quello della tua comunità». Come Monica e sua figlia sono moltissime le donne vittime di queste situazioni, tanto che in alcune aree del Nord del paese i casi di violenze e stupri coinvolgono il 60% della popolazione femminile e quasi tutti avvengono all’interno delle mura domestiche.

Senza giustizia

Il teologo don Mario Antonelli, che per anni ha lavorato in?Brasile, ci mette a conoscenza di un aspetto ancora più inquietante di questo dramma femminile: «Capita spesso che durante la prima confessione le bambine raccontino degli abusi subiti come se si trattasse di una loro colpa, di un loro peccato. La totale diseducazione alla sessualità in una società dal radicato maschilismo è un vero e proprio cancro per questo paese».

Negli anni in cui i trafficanti controllavano la favela, questi reati contro donne e bambine erano puniti in maniere brutali in modo che le punizioni fossero di esempio per tutti. Naturalmente i trafficanti non erano spinti da un senso di compassione e umanità, quanto dall’esigenza di dimostrare che, all’interno della favela, solo loro erano padroni di ciascuna vita. Purtroppo oggi quelle punizioni esemplari rischiano di essere ricordate da molte famiglie come l’atto di una giustizia che lo stato invece non sa garantire.

Stefano Bertolino*

* Stefano Bertolino è fotografo e videomaker. Con due colleghi ha girato un documentario sui mondiali di calcio in Brasile (2014). A settembre è stato a Cuba per seguire la riapertura dei rapporti con gli Usa e il viaggio di papa Francesco.

Stefano Bertolino