La guerra calda globale


Mentre l’umanità è sull’orlo di una nuova guerra mondiale, decisori e grandi media ripetono: «Se vuoi la pace prepara la guerra». Un pensiero magico che occorre contrastare con strumenti razionali e nonviolenti.

Nel 2007 le Nazioni Unite, su proposta del governo indiano, dichiararono Giornata internazionale della nonviolenza il 2 ottobre, anniversario della nascita di Mohandas
Karamchand Gandhi.

Allora, quasi nessuno immaginava che nel giro di tre lustri l’umanità si sarebbe trovata sul punto di precipitare nel baratro di una nuova guerra mondiale.

La Seconda guerra fredda

Scrivo quasi nessuno, perché nel 2008 venne pubblicato in italiano il volume Affrontare il conflitto. Trascendere e trasformare, firmato da Johan Galtung, fondatore dei Peace studies, gli studi internazionali per la pace ispirati dall’opera di Gandhi.

In quelle pagine, lo studioso norvegese svolgeva un’operazione di diagnosi-prognosi-terapia riferita ai molti conflitti di quegli anni e agli scenari futuri sulle diverse scale (micro, meso, macro e mega), soffermandosi anche su quello della «Seconda guerra fredda», imputata all’agenda geopolitica degli Usa. «L’espansione globale a Est con la Nato, e a Ovest con l’Anpo, il Trattato di sicurezza Usa-Giappone», diagnosticava Galtung, aveva interesse a portare le alleanze «a linee di rottura radicali ed esplosive», tra Usa-Anpo-Nato da un lato e Russia-India-Cina dall’altro. Ma ciò, ed ecco la prognosi, non sarebbe durato a lungo: prevedeva Galtung, infatti, che sarebbe bastato «un incidente minore lungo il confine tra Polonia ed Ucraina, […], e queste faglie erutteranno lava come vulcani, con potenze nucleari dappertutto e senza alcun Paese neutrale in mezzo a fare da cuscinetto, come lo furono Finlandia, Svezia, Austria e Jugoslavia durante la “Prima guerra fredda”».

U.S. Navy photo by Mass Communication Specialist 2nd Class Evan Diaz

«Si vis pacem para bellum»

Oggi, finita la «Seconda guerra fredda», siamo dentro alla guerra calda globale. Questa si svolge contemporaneamente su molti fronti, dal Mediterraneo al Mar Rosso al confine russo-ucraino. Fronti che potrebbero rapidamente saldarsi, con seri rischi di carattere nucleare.

Di fronte a questo terrificante scenario, mentre Galtung con il suo lavoro propone precisi passi di disarmo e una radicale rifondazione dell’Onu – avendo anche elaborato e sperimentato manuali di «trasformazione dei conflitti con mezzi pacifici» per i mediatori -, i decisori e i media spingono per una nuova corsa agli armamenti.

Una corsa sempre più folle, fondata sulla menzogna originaria, una vera e propria formula magica, che recita «si vis pacem para bellum», se vuoi la pace prepara la guerra.

Un esempio su tutti è quello della lettera mandata a molti quotidiani europei da Charles Michel, presidente del Consiglio europeo, al suo secondo mandato in scadenza il prossimo 30 novembre, che anticipava l’esito dell’assemblea dello scorso marzo chiudendosi proprio con queste parole: «Se vogliamo la pace dobbiamo prepararci alla guerra». Per non parlare del vertice Nato svoltosi a Washington il 10 e 11 luglio scorsi per i 75 anni dalla sua fondazione, che ha rilanciato la già massiccia corsa globale agli armamenti, cosa, quest’ultima, che per il nostro Paese comporta l’impegno a raggiungere velocemente una spesa militare pari al 2% del Pil, ossia a trasferire altri 10-12 miliardi all’anno di risorse pubbliche da scuola, università, sanità e welfare all’acquisto di nuovi armamenti, in aggiunta a quelli che già si spendono.

Il pensiero magico e guerra

Eppure, non è difficile dimostrare che preparare la guerra per avere la pace è un’illusione fondata sul pensiero magico, tenuta ancora in circolo per giustificare il trasferimento alle spese militari, e dunque all’industria bellica, di risorse pubbliche sottratte agli investimenti sociali e civili.

I governi di tutto il mondo non hanno mai speso così tanto per preparare la guerra (2.443 miliardi di dollari nel 2023, dati Sipri) e questo non ha impedito ai conflitti armati di dilagare ovunque (169 sul pianeta nel 2023, di cui 59 coinvolgono Stati, dati Uppsala conflict data program), facendo impennare il numero di vittime civili (il 72% in più nel 2023 rispetto al 2022, dati Onu), con il conseguente aumento di profughi e rifugiati (117 milioni nel 2023, giunti a 120 milioni nei primi sei mesi del 2024, dati Unhcr).

Preparando le guerre, dunque, non si ottiene – ovviamente – la pace, ma più guerre e più vittime, in un perverso circolo vizioso nel quale la prossima tappa – annunciata lo scorso 24 luglio dal nuovo Capo di stato maggiore britannico Roly Walker – prevede la Terza guerra mondiale entro il 2027.

Economia di guerra

In questa nuova corsa agli armamenti è pienamente coinvolto, da tempo, anche il nostro Paese: nel periodo 2013-2023 la spesa militare in Italia – rileva il Rapporto «Economia a mano armata» della campagna Sbilanciamoci – è aumentata del 30% e quella per i soli nuovi sistemi d’arma è passata da 2,5 miliardi a 5,9 miliardi di euro (+132%). Mentre, nello stesso periodo, l’investimento per la sanità è aumentato solo dell’11%, la spesa per la protezione ambientale del 6% e la spesa per l’istruzione appena del 3%.

Inoltre, specifica la Rete italiana pace e disarmo, la spesa militare italiana complessiva per il 2024 sarà di circa 28,1 miliardi di euro, con un aumento di oltre 1.400 milioni rispetto al 2023. Una crescita derivante soprattutto dagli investimenti in nuovi sistemi d’arma.

Ancora, come se non bastasse la spesa annuale, il milex.org, l’Osservatorio che monitora la dinamica delle spese militari italiane, informa che dall’inizio dell’attuale legislatura e fino a ora, il ministro della Difesa Guido Crosetto ha trasmesso alle commissioni Difesa del Parlamento per avere il loro parere, sempre favorevole, ventisette nuovi programmi militari per un onere finanziario pluriennale di 34,6 miliardi di euro.

Insomma, mentre l’Istat segnala la crescente povertà assoluta nel nostro Paese, che colpisce ormai il 14% dei minori (il valore più alto della serie storica dal 2014), sul sito web di Leonardo, azienda di cui il Governo italiano è il principale azionista, che per il 75% produce armamenti, si legge: «Nei primi tre mesi del 2024 prosegue l’ottima performance del Gruppo già registrata nel 2023, con una solida redditività in tutti i segmenti di business, in ulteriore sensibile crescita rispetto al periodo precedente», con un +18,2% di ordini e un +20,8% di ricavi.
Una vera e propria economia di guerra.

Foto di Alexander Popovkin su Unsplash

Essere contro la guerra non è sufficiente

Quale uscita di sicurezza può esserci, dunque, da questo scenario nazionale e internazionale che si avvita perversamente nella logica bellica?

È di nuovo Galtung che ci viene incontro: «Essere contro la guerra è una posizione moralmente lodevole, ma non è sufficiente a risolvere i problemi delle alternative alla guerra e delle condizioni per la sua abolizione», scriveva in Pace con mezzi pacifici (Esperia, 1996). Ossia, occorre ricercare, formare e agire rispetto a tutta la filiera della violenza.

La violenza non si esprime solo nella dimensione manifestamente dispiegata ed esplicitamente distruttiva, come accade nei conflitti armati, ma ha delle componenti più profonde che, pur essendo implicite e nascoste, sono necessarie affinché la punta dell’iceberg della violenza propriamente detta emerga.

In un ideale «triangolo della violenza», se il vertice in alto è rappresentato dalla «violenza diretta», i due vertici della base sono la violenza strutturale e quella culturale.

La violenza strutturale è una violenza in sé – per esempio nelle forme dello sfruttamento economico o della repressione del dissenso -, ma anche la predisposizione delle strutture organizzative ed economiche che consentono la violenza e, in riferimento ai conflitti armati, le guerre: dagli eserciti alle spese militari, dagli armamenti alle cosiddette «banche armate».

La violenza culturale è quella forma pervasiva di giustificazione della guerra diffusa attraverso gli apparati formativi, i dispositivi mediatici, le curvature linguistiche che rendono la preparazione della guerra – e il suo impiego, variamente aggettivato – un fatto ovvio, da non mettere in discussione. Alimentando anzi, al bisogno, il bellicismo e l’odio verso il «nemico», ossia la propaganda di guerra.

E spesso chi produce e vende strumenti di guerra, produce e vende anche i media che la promuovono.

Trascendere i conflitti

Per queste ragioni l’impegno nonviolento, a differenza di quello genericamente pacifista, è indirizzato a decostruire tutto il sistema di violenza – non solo a contrastare questa o quella specifica guerra – e a costruire alternative nonviolente in riferimento a tutti i livelli esaminati. A cominciare dalla messa in campo della capacità di «trascendimento dei conflitti» (Galtung), ossia della loro trasformazione nonviolenta.

Ciò significa che non è il conflitto in sé a dover essere eradicato, in quanto i conflitti sono fisiologicamente generati dai differenti bisogni, ma la modalità violenta – e dunque patologica – della loro conduzione.

«Il maggior numero delle parti in conflitto», scriveva ancora Galtung, «ha qualche posizione valida: il lavoro sul conflitto consiste nel costruire una posizione accettabile e sostenibile a partire dal quel “qualcosa di valido”, per quanto minuscolo possa essere». È necessario, dunque, aiutare le parti a uscire dalla polarizzazione e dalla reciproca deumanizzazione.

Le tre caratteristiche necessarie, i tre saperi, per lavorare seriamente alla trasformazione de-polarizzante e umanizzante dei conflitti, sono l’empatia, ossia la capacità di vedere le cose anche dal punto di vista dell’avversario, la creatività, in quanto ricerca di soluzioni non scontate e prevedibili, e la nonviolenza, in quanto metodo che porta oltre il conflitto violento, lo trascende, appunto. Questi saperi sono indispensabili per stare al mondo in maniera non reciprocamente distruttiva, all’interno di sistemi complessi naturalmente generatori di conflitti. Agli antipodi di quelli messi in campo oggi da tutti gli apprendisti stregoni che alimentano le guerre anziché impegnarsi a spegnerle risolvendone i conflitti alla base.

EU Civil Protection and Humanitarian Aid_flickr

Mezzi nonviolenti

Di fronte al bellicismo dei governi, ogni livello di violenza ha bisogno di essere dunque contrastato dal basso con adeguati strumenti e mezzi di nonviolenza, che interagiscono in modalità complessa e coerente.

Per esempio, rispetto alla violenza diretta delle guerre, è in corso la campagna nazionale e internazionale di «Obiezione alla guerra» del Movimento Nonviolento. Chi la sottoscrive, sostiene i tanti obiettori di coscienza, disertori e renitenti alla leva di tutte le parti coinvolte nei conflitti armati, e, allo stesso tempo, dichiara la propria personale obiezione di coscienza alla guerra e alla sua preparazione, esplicitando l’indisponibilità a qualunque «chiamata alle armi».

Rispetto alla violenza strutturale dell’accumulo degli strumenti di guerra, inoltre, è necessario intensificare l’impegno per il disarmo, a cominciare da quello nucleare, imponendo l’adesione anche del nostro Paese al Trattato internazionale per la messa al bando delle armi nucleari – come prevede la campagna «Italia ripensaci» – e per la riconversione sociale delle spese militari e quella civile delle industrie belliche, oltre a interrompere l’invio di armi e le collaborazioni militari con tutti i Paesi in guerra.

Rispetto alla violenza culturale, infine, la più difficile da decostruire, è necessario, prima di ogni altra cosa, contrastare il doppio standard etico che viene generalmente utilizzato per affrontare la violenza nei conflitti interpersonali e in quelli internazionali.

Per i conflitti interpersonali, infatti, è comune l’idea che si possano affrontare e risolvere in modo nonviolento anche tramite dispositivi formativi e giuridici di regolazione pacifica e sanzionamento della violenza. Per quelli armati, nazionali o internazionali, invece, è prevalente il pensiero magico dei vertici politico mediatici secondo il quale si ottiene più pace preparando più guerra, «etificando» la violenza, quando voluta dallo Stato, e sanzionando il suo rifiuto.

Il superamento di questo doppio standard morale, che promuove l’etica nonviolenta nei conflitti interpersonali ma il suo repentino «disapprendimento» e l’etica della violenza nei conflitti internazionali, metterebbe in crisi l’intero sistema della violenza: «Immagina che fanno la guerra e che nessuno ci va», scrisse Wolfgang Ness.

Qui si gioca, in ultima analisi, l’impegno formativo nonviolento, che deve contaminare i dispositivi culturali, mediatici ed educativi.

Pasquale Pugliese

 




Vite contro Hitler


Storie di cristiani nonviolenti tedeschi e austriaci oppositori del regime nazista ce ne sarebbero molte da raccontare. Il libro di Francesco Comina ne raccoglie alcune note e altre sconosciute. Tutte esemplari.

È esistita un’opposizione tedesca a Hitler? Certamente sì, in Germania e in Austria sono state scritte pagine ammirevoli di resistenza al regime nazista.

Il recente libro del giornalista e scrittore di Bolzano, Francesco Comina, La lama e la croce, fa emergere tracce significative di tali storie: «In queste pagine, che non vogliono essere né un’opera storiografica né una galleria esaustiva di cattolici antinazisti, si ricordano alcune vite, solo alcune fra le tantissime vicende di uomini, donne, ragazzini rimasti fedeli alla coscienza in nome del Vangelo». Non è un saggio storico critico, dunque, ma un resoconto memorialistico appoggiato su una solida base documentaria che ricostruisce il nucleo essenziale di vite, in genere giovani, illuminate dalla volontà di opporsi alla crudeltà della tirannia.

Una varietà di storie

Alcune di queste storie godono di una certa notorietà, come quella di Franz Jägerstätter, il contadino austriaco che rifiutò di far parte dell’esercito di Hitler.

Altre sono pressoché sconosciute, come quella di Heinrich Dalla Rosa, giovane prete della zona di Merano.

In queste vicende possiamo rintracciare differenti modalità di contrapposizione al regime hitleriano: ci sono «i casi di testimoni “solitari”», come Max Josef Metzger o suor Angela Autsch, l’angelo di Auschwitz, oppure quelli di resistenti inseriti in un gruppo, come Eva-Maria Buch e Maria Terwiel, che erano parte dell’organizzazione della «Rote Kapelle», o Walter Klingenbeck e i suoi amici a Monaco di Baviera. C’è anche un esempio di disobbedienza di massa: le duemila reclute di Bressanone che nel febbraio del 1945 non pronunciarono la formula canonica del giuramento a Hitler, «l’unico gesto – scrive Comina – di ribellione da parte di una compagnia di soldati di cui si è a conoscenza sotto il nazionalsocialismo».

Comune a tutti è stata la concreta spinta ad agire, l’«obiezione di coscienza», l’insopprimibile necessità di disobbedire e di non essere complici di chi calpestava la dignità e i diritti fondamentali di altri uomini.

Visioni di mondi futuri

Dei personaggi di cui racconta la vita, Comina aiuta a cogliere, oltre alla centralità dell’obiezione di coscienza, la capacità di leggere alcuni segni del mondo futuro, sia in senso drammatico, come l’affacciarsi di una nuova guerra mondiale, intravisto da Max Josef Metzger già nel 1929, sia in direzione opposta, come i germi di novità politica e religiosa, intravisti sempre da Metzger, che saranno alla base della costruzione di un’Europa più giusta e pacifica e di una Chiesa cattolica meno ripiegata su se stessa. Ecco allora la sua prefigurazione di una Confederazione europea e l’aspirazione a un dialogo ecumenico fra Chiese d’Oriente e d’Occidente.

In padre Dalla Rosa e in altri, invece, Comina trova le anticipazioni di istanze che saranno alla base del Concilio Vaticano II, un cattolicesimo più aperto al mondo moderno e capace di innovare la propria liturgia e azione pastorale.

Mayr-Nusser e Jägerstätter

Alcune delle figure ricordate in questo libro possono essere approfondite grazie ad altri studi dello stesso Francesco Comina. È il caso, ad esempio, di Josef Mayr-Nusser che, da recluta delle SS, decise di non giurare ad Adolf Hitler e, accusato di «disfattismo», fu processato e condannato a essere internato nel campo di Dachau, dove Mayr-Nusser non arrivò mai, perché morì prima di raggiungerlo di broncopolmonite e stenti (L’uomo che disse no a Hitler, Il Margine, 2014).

Comina ha dedicato un libro anche a Jägerstätter, il cui caso è stato poco conosciuto fino alla sua beatificazione nel 2007.

Con il tempo la bibliografia su di lui è cresciuta, e la sua storia è stata raccontata anche nel film di Terrence Malick, La vita nascosta – Hidden Life (2019).

Oltre a quello di Comina (Solo contro Hitler, Emi, 2021), in lingua italiana sono disponibili diversi altri testi che ricostruiscono la biografia di questo straordinario obiettore, condannato a morte e ghigliottinato per avere rifiutato di prestare il servizio militare nell’esercito nazista. «Besser die Hände als der Wille gefesselt», ha scritto Jägerstätter negli ultimi giorni della sua vita, «meglio avere incatenate le mani piuttosto che la volontà». L’esito della sua breve vita si è rivelato una testimonianza altissima in omaggio a questo principio. Chi volesse confrontarsi direttamente con le sue parole, può farlo grazie a un libro che raccoglie le lettere che scrisse in carcere (Scrivo con le mani legate, Berti, 2005).

Le due storie più note

Come si diceva, in La lama e la croce, Comina ha ripercorso soltanto alcune delle vite dei molti resistenti al nazismo. Molte altre ne esistono, e forse non poche attendono di essere portate alla luce ed esplorate. Tra quelle note, nelle pagine del libro viene citata, anche se non narrata, quella che probabilmente è la storia di opposizione al nazismo più celebre: l’azione di controinformazione che vide protagonisti i ragazzi della Rosa Bianca e che ebbe come epicentro Monaco di Baviera tra l’estate del 1942 e il febbraio del 1943. In tanti ne hanno scritto ma forse la prima testimonianza da leggere è quella lasciataci da Inge Scholl, sorella di Sophie e Hans, i due componenti più noti del gruppo (La Rosa Bianca, Itaca, 2006).

Altra vicenda molto conosciuta è quella del grande teologo e pastore protestante Dietrich Bonhoeffer, impiccato il 9 aprile 1945 nel campo di Flossenbürg perché coinvolto nel complotto per uccidere Hitler. Resistenza e resa, che raccoglie le lettere e altri scritti composti nel carcere di Tegel, nel quale Bonhoeffer fu rinchiuso tra il 1943 e il 1945, è un libro indispensabile, un classico del Novecento che non si può evitare di leggere.

Massimiliano Fortuna
Centro studi Sereno Regis

I LIBRI E IL FILM CITATI

  •  Francesco Comina, L’uomo che disse no a Hitler. Josef Mayr-Nusser, un eroe solitario, Il Margine, Trento 2014, pp. 179, 14 €.
  •  Francesco Comina, Solo contro Hitler. Franz Jägerstätter, il primato della coscienza, Emi, Verona 2021, pp. 173, 16 €.
  •  Franz Jägerstätter, Scrivo con le mani legate. Lettere dal carcere e altri scritti dell’obiettore-contadino che si oppose ad Adolf Hitler, Berti, Piacenza 2005, pp. XXXV, 231, 13 €.
  •  Inge Scholl, La Rosa Bianca, Itaca, Castel Bolognese 2006, pp. 190, 12 €.
  •  Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e resa. Lettere e altri scritti dal carcere, Queriniana, Brescia 2024, pp. 688, 23 €.
  •  Terrence Malick, La vita nascosta. Hidden Life, Germania-Stati Uniti, 2019.




Con la resistenza civile


Dentro un conflitto cruento o contro un regime oppressivo, cosa funziona di più? La resistenza armata o quella civile? Al di là delle valutazioni morali, studiare quali azioni sono più efficaci e catalogarle e raccontarle, come ha fatto l’autrice del libro di questo mese, può offrire una risposta semplice e logica.

«La nonviolenza è una bella idea, però funziona solo in alcuni casi. Se tutti fossimo nonviolenti, il mondo sarebbe più giusto e pacifico, ma non è così, e sin tanto che esisteranno aggressori, prepotenti, tiranni, dovremo attrezzarci per combatterli con le loro stesse armi».

«In una democrazia, la resistenza civile è da preferire, ma nelle autocrazie, dove il popolo viene represso da un governo dispotico, non raggiunge risultati».

«Di fronte a un’aggressione come quella della Russia nei confronti dell’Ucraina, l’unica resistenza possibile è quella armata».

Quante volte abbiamo sentito ripetere questa narrazione, anche da parte di chi non guarda alla nonviolenza con sospetto e rifiuto preconcetto. E quante volte i pacifisti si sono trovati in difficoltà nel rispondere, opponendo petizioni di principio più che fatti?

Il libro di Erica Chenoweth nasce proprio per contestare queste obiezioni con i fatti della storia.

È interessante che la stessa autrice nella prefazione confessa che inizialmente era molto critica sulle possibilità della resistenza nonviolenta.

Nel 2006, con Maria Stephan, iniziò studi sui movimenti sociali contemporanei, catalogandoli tra «prevalentemente violenti» e «nonviolenti», al fine di valutarne, in modo sistematico ed empirico, i tassi di successo.

Ne è venuto fuori un database, aggiornato di anno in anno, formato da 623 casi storici, il cui elenco si trova in appendice al libro. Esso dimostra che le rivolte nonviolente hanno avuto successo nel 50% dei casi, contro un 25% delle rivolte armate.

Il database è disponibile online al sito del progetto Navco (Nonviolent and violent campaigns and outcomes).

Azioni, lotte, movimenti

Da quegli studi nasce il libro Come risolvere i conflitti.

L’edizione americana è del 2021 e ha un titolo diverso, a mio parere più incisivo: Civil resistance: what everyone needs to know (La resistenza civile. Ciò che ognuno dovrebbe conoscere).

È questo, resistenza civile, il nome che Erica Chenoweth dà a quel complesso di azioni, lotte, movimenti che altri chiamano lotta nonviolenta, che Gandhi chiamava Satyagraha, forza della verità. E mette subito in chiaro che si tratta di un metodo di lotta contro il potere costituito, giacché in un mondo e in situazioni ingiuste, i conflitti vanno innanzitutto suscitati, e solo dopo risolti, mentre il nemico peggiore è l’assuefazione a quella che Johan Galtung chiama «violenza strutturale».

La nonviolenza funziona?

Il libro è organizzato in domande, che costituiscono i titoli dei paragrafi, questi a loro volta raggruppati in cinque capitoli: le basi, come funziona la resistenza civile, la violenza interna, la violenza contro il movimento, il futuro della resistenza civile.

La domanda principale che sottende tutto il volume è: la resistenza civile funziona per ottenere giustizia e difendere i diritti umani? In quali circostanze?

Il metodo di lavoro usato astrae dall’ideologia e dalla concezione morale per concentrarsi prevalentemente sul tema dell’efficacia della lotta, cosa non sempre gradita ai nonviolenti, soprattutto qui da noi. È l’approccio di Gene Sharp (1928-2018), filosofo e politologo americano, definito il «Macchiavelli della nonviolenza», che si cimentò sin dagli anni Settanta (Politica dell’azione nonviolenta, 3 volumi pubblicati da Edizioni Gruppo Abele) a dimostrare che il metodo nonviolento era più efficace della lotta armata. Fu fondatore, nel 1983, dell’Albert Einstein institute per «lo studio e l’utilizzo della nonviolenza nei conflitti di tutto il mondo». La Chenoweth si definisce una sua allieva.

I successi di un metodo

Corsi di formazione, libretti sulle metodologie, contatti con attivisti di tutto il mondo, servirono a spronare diverse campagne nonviolente, anzi, vere e proprie rivoluzioni, molte delle quali ottennero significativi successi.

Ricordiamo la lunga lotta nonviolenta del popolo polacco che fu all’origine del tracollo dell’impero sovietico, a cui seguirono la rivoluzione di velluto in Cecoslovacchia, la lotta per la democrazia in Germania Est, ma pure il caso delle Filippine con la caduta del dittatore Marcos nel 1986.

Grazie a questi successi il metodo della resistenza civile ebbe ulteriore diffusione, in particolare con la stagione delle «rivoluzioni colorate» degli anni Novanta e Duemila nei paesi ex comunisti dell’Est Europa, contro la corruzione e per la democrazia. E qui molti ci vedono l’intervento del dipartimento di Stato Usa.

Ci sono tuttora discussioni tra gli attivisti e gli studiosi su questo approccio: se la nonviolenza è «solo una metodologia», può essere usata per fini buoni o cattivi, da socialisti o democratici, da fautori dell’ordoliberismo, da progressisti o reazionari.

Anche questo è un tema dibattuto dalla Chenoweth, titolo di uno dei cento paragrafi.

Fatti e conclusioni

Tornando al libro, esso si basa su uno studio statistico: l’autrice, per rispondere alle domande, osserva come le varie resistenze civili hanno lavorato. Sia quelle che hanno avuto successo, sia le altre. Dunque, le risposte non sono mai teoriche, o ideologiche, ma sempre basate sui fatti.

Si viene dunque a conoscenza di un gran numero di lotte nonviolente, della loro evoluzione, delle problematiche affrontate. Come uno scienziato, l’autrice cerca di estrarre da esse delle leggi generali, ma sempre con l’avvertenza «salvo smentite», e con l’invito a continuare lo studio.

Alcune conclusioni generali vengono indicate alla fine del volume, e qui le riassumo.

  • Fare resistenza civile significa ribellarsi al potere costituito attraverso metodi più inclusivi della violenza.
  • La resistenza civile non si limita a «toccare il cuore» dell’avversario, è lotta, e vince quando riesce a generare defezioni nel suo potere.
  • Non si esaurisce nelle manifestazioni e nelle marce, include metodi di non cooperazione, costruzione di poteri alternativi, coinvolgendo una vasta parte di popolo e costruendo alleanze.
  • Negli ultimi cento anni, la resistenza civile si è dimostrata più efficace della lotta armata.
  • Non sempre ha successo ma funziona molto meglio di quanto i suoi detrattori non affermino e, soprattutto, anche quando perde, è decisamente meno letale.

Un insegnamento molto utile oggi, mentre è in atto una corsa generalizzata alla guerra vista come unica soluzione contro autocrati e dittatori.

La domanda «ma agli ucraini servirebbe la nonviolenza?», non la troverete in questo libro, chiuso in stampa nel 2021.

Possiamo solo dire che non siamo in grado di capire se la nonviolenza sarebbe stata efficace o meno, essendo una possibilità scartata fin dal principio, e che, di certo, vediamo cosa sta facendo la guerra oggi.

Paolo Candelari

Centro studi Sereno Regis




La via di Capitini


La via di Capitini

È il filosofo che ha portato la teoria e la prassi della nonviolenza gandhiana in Italia. È stato, tra le altre cose, fondatore del Movimento nonviolento e ideatore della marcia Perugia-Assisi. Una serie di volumi ne ripropongono il pensiero.

Aldo Capitini (Perugia 1899 – 1968) è il grande maestro della nonviolenza del Novecento italiano. È suo il contributo determinante per l’introduzione nel nostro paese del pensiero e della prassi nonviolenta secondo la lezione gandhiana.

La sua figura, rimasta marginale per decenni nella cultura italiana, nell’ultimo trentennio ha conosciuto un rinnovato interesse da parte di un certo numero di studiosi.

Tra questi, Mario Martini occupa un posto di indiscussa centralità. Egli, infatti, allo studio del pensiero di Capitini ha affiancato una vasta attività divulgativa tesa, da un lato, a farlo conoscere tramite incontri pubblici e, dall’altro, a promuovere nuove edizioni dei suoi scritti.

Forse proprio per questa ragione, Martini non ha mai dedicato al fondatore del Movimento nonviolento italiano una monografia sistematica: la sua scelta è sempre stata quella di «far parlare lo stesso Capitini».

Anche il libro a sua firma uscito quest’anno per le edizioni Aras, L’altra via di Aldo Capitini, non è propriamente un saggio. Esso raccoglie diversi testi, tra cui alcuni inediti, scritti da Martini nel corso degli ultimi trent’anni come introduzioni a nuove pubblicazioni dei libri del filosofo perugino, studi in lavori collettanei, articoli, ecc.

Avere riunito in un volume unico tutti questi interventi rappresenta davvero una buona notizia.

Nel libro tutti i principali temi capitiniani sono toccati e sono oggetto di indagine critica. In particolar modo, si analizzano gli aspetti filosofici e religiosi della visione del mondo di Capitini, il quale, nella luce della stella polare della nonviolenza, intreccia in modo stimolante e originale teoria e pratica, metafisica e pedagogia, politica e religione, dimensione sociale e prospettive escatologiche, disobbedienza civile e spirito profetico.

Le ragioni della nonviolenza

Per chi intendesse accostarsi direttamente alle pagine di Aldo Capitini, il punto di partenza potrebbe essere un’antologia curata dallo stesso Mario Martini, Le ragioni della nonviolenza (Ets, 2016). Il volume si propone di presentare le principali nervature della riflessione capitiniana sulla nonviolenza, tenendo però costantemente presente che per l’autore il momento della riflessione non può essere disgiunto da quello dell’azione.

Il filo rosso del libro è dunque un quadro nel quale le «premesse teoriche», già ben riconoscibili nel primo scritto del 1937, Elementi di un’esperienza religiosa, si saldano al concreto «impegno nonviolento», il cui vertice simbolico può ritenersi la Marcia della pace Perugia-Assisi che Capitini ideò e che si svolse per la prima volta il 24 settembre 1961.

Religione aperta

Va ricordato che negli ultimi anni sono state ripubblicate due opere di Capitini che possono essere considerate delle vere e proprie summae del suo pensiero e rappresentano testi ideali dai quali partire per uno studio approfondito di questo autore.

Nel 2011 Laterza, che di Capitini fu il primo editore, ha riproposto Religione aperta, pubblicazione affidata anche in questo caso alle cure di Mario Martini.

Il libro, che uscì nel 1955 e da lì a poco venne incluso nell’Indice dei libri proibiti (soppresso nel 1966), affronta in modo organico i vari aspetti che caratterizzano l’esperienza religiosa dell’autore, incentrata sull’idea di «apertura» e in contrapposizione alle religioni istituzionalizzate, cristallizzate in una rigida dogmatica, strutturate in forme di potere.

Una decina di anni dopo la pubblicazione di Religione aperta, nel 1966, apparve un altro testo fondamentale riedito di recente, La compresenza dei morti e dei viventi (Libreria editrice fiorentina, 2022). L’idea di «compresenza», già affiorata in diversi scritti precedenti, trova la sua ultima e più compiuta elaborazione in queste pagine dense di pensiero, forse ardue sotto certi aspetti, di certo teoreticamente vertiginose, nelle quali Capitini prova a mostrare in tutte le sue articolazioni la propria prospettiva metafisico religiosa fondata sulla speranza nell’avvento di una realtà ultima, liberata dai vincoli della sofferenza e della morte.

Amico di Norberto Bobbio

Un cenno merita, infine, la pubblicazione dell’epistolario capitiniano, o meglio di una parte di esso. Anche questa è un’iniziativa che deve molto all’impegno di Mario Martini, che la promosse quando presiedeva il comitato scientifico della Fondazione Capitini e che venne accolta dall’editore Carocci, presso il quale, tra il 2007 e il 2012, apparvero sei volumi di carteggi, uno relativo alle lettere di ambito famigliare, gli altri intercorsi con alcune figure di rilievo pubblico: Walter Binni, Danilo Dolci, altro nome imprescindibile per la nonviolenza italiana del Novecento, Guido Calogero, Edmondo
Marcucci e Norberto Bobbio. Quest’ultimo, che si è confrontato a lungo con Capitini, ha sempre rivolto grande attenzione alla questione della pace e allo studio dei pacifismi, seppure con declinazioni teoriche differenti.

Lo stesso Bobbio, peraltro, dopo la scomparsa dell’amico, avvenuta nel 1968, gli ha dedicato due brevi saggi (composti in momenti diversi e ripubblicati assieme qualche anno fa dalle Edizioni dell’Asino in un opuscolo intitolato Il pensiero di Aldo Capitini) che rappresentano quanto di meglio sia stato scritto su di lui e che possono costituire un’altra porta d’accesso alle sue idee.

Massimiliano Fortuna




Atomica e nonviolenza


L’attualità di un pensatore cristiano e nonviolento

Lanza Del Vasto, scrittore, artista e attivista, morto nel 1981 ma molto attuale, fu tra i primi a denunciare i pericoli dell’atomica. Nel nostro tempo l’umanità si trova di fronte a un bivio: la via irrazionale della guerra, quella efficace della nonviolenza.

È stato di recente pubblicato, per le Edizioni La Meridiana, Le due potenze. L’atomica e la nonviolenza, un agile libro che raccoglie due testi di Lanza Del Vasto, tra i primi a denunciare i pericoli dell’atomica.

Poeta, filosofo, pellegrino, profeta della nonviolenza, intellettuale e artista cristiano, Lanza Del Vasto nacque a San Vito dei Normanni (Br) nel 1901 e morì a Murcia, in Spagna, nel 1981. È ricordato, tra le altre cose, per aver dato vita in Francia nel 1948 alla Comunità dell’Arca, una realtà di vita comunitaria fondata sul modello degli ashram gandhiani che egli aveva conosciuto in India tra il 1937 e il 1938 presso il Mahatma Gandhi e in pellegrinaggio alle sorgenti del Gange.

Della bomba e della Chiesa

Nel primo dei due testi, intitolato Della bomba, l’autore afferma che, di fronte alla concatenazione delle violenze legittime (quelle che trovano giustificazione nei torti dell’avversario), e nel nuovo contesto creato dall’avvento dell’atomica, l’umanità si trova di fronte a un bivio: o la guerra perpetua che porta alla distruzione, oppure la nonviolenza che porta alla rottura della catena e alla liberazione.

La prima strada è irrazionale: si può capire, infatti, che un uomo si sacrifichi per la sua terra, per il suo focolare, ma non che sacrifichi allo stesso tempo ciò per cui egli si sacrifica. Nell’era atomica, non vi è più sacrificio, ma suicidio e crimine imperdonabile.

Nel secondo testo, intitolato La Chiesa di fronte al problema della guerra, Del Vasto argomenta come la nonviolenza sia mezzo di difesa e di salvezza ben più di ogni arma, perché l’evangelico non opporsi al malvagio non è arrendersi, ma non opporre cattiveria alla sua cattiveria, e colpi ai suoi colpi. Non significa non difendersi, ma rifiutare di offendere con il motivo di difendere, di rendere il male, raddoppiandolo, con il pretesto di fermarlo, giacché, così facendo, si entra nella catena il cui ultimo anello è la morte.

Più avanti l’autore delinea quali sono i tratti del conflitto nonviolento quando, affermando che la nonviolenza è lotta per la giustizia con le armi della giustizia, scrive: «Se il mio nemico è un uomo come me, io sono un uomo come lui, e posso sbagliare. Ed è pure probabile e, per parte, certo. Devo dunque scoprire la mia parte di torto nell’affare e se, per fortuna, vi riesco, devo riconoscerla davanti a lui e offrire riparazione. Sarà un passo verso la verità e verso la pacificazione, poiché questo finirà per inclinarlo a seguirmi nella medesima direzione». E ancora: «Se restituisco lo schiaffo, giustifico il suo; il suo spirito di giustizia continuerà a deviare nel giustificarsi, perché lo spirito di giustizia è quell’istinto che fa ricercare l’equilibrio. L’equilibrio è la giustizia, ma quando si devia, si cerca un punto di appoggio che è, appunto, la giustificazione».

La soluzione del «non uccidere»

A corredo dei due testi di Lanza Del Vasto, il volume offre una prefazione di Daniel Vigne, presidente dell’Association des amis de Lanza Del Vasto, e i contributi di Antonino Drago – che analizza la storia dell’atomica e la proposta della nonviolenza -, del teologo Giovanni Mazzillo – sulle linee portanti del Magistero ecclesiale sulla pace dopo il fondatore delle Comunità dell’Arca -, di Maria Albanese ed Enzo Sanfilippo – sull’eredità del pensatore pugliese- e di Frederic Vermorel – che cura una parziale ma preziosa biobibliografia.

Il testo di Antonino Drago, che commenta il saggio di Lanza Del Vasto I quattro flagelli, di cui il volume riporta alcuni estratti, si articola in tre parti: una storia delle armi atomiche; l’analisi della posizione di Lanza Del Vasto che decostruisce la razionalità degli stati nucleari; la proposta di una razionalità alternativa nelle politiche di difesa che parta dal Trattato Onu di messa al bando delle armi nucleari (Tpnw) e arrivi ad affermare la novità epocale della nonviolenza.

La nonviolenza è la vera alternativa storica alla guerra, perché ripropone la millenaria sapienza sociale del «non uccidere», non intesa, però, come semplice rifiuto passivo della violenza, ma come strumento di risoluzione dei conflitti, come dimostrato dall’efficacia delle tecniche adottate da Gandhi in India.

Di fronte all’infinita potenza tecnologica della bomba, la nonviolenza è anch’essa potente, perché recupera l’infinita forza interiore di ogni persona.

Davanti ai conflitti, il metodo nonviolento è più della razionalità, perché alla ragione aggiunge l’etica. Dunque se, come afferma Del Vasto, le due grandi scoperte del secolo sono la nonviolenza e la bomba atomica, si tratta di scegliere tra questi due poli.

Oggi è in atto un braccio di ferro tra i 46 paesi favorevoli alle bombe atomiche (le nove potenze nucleari e i cinque paesi ospitanti gli ordigni, più altri 32), e i 122 favorevoli al Tpnw (i 65 che l’hanno ratificato, più i 57 che l’hanno approvato nel 2017).

Solo l’azione dei popoli motivati eticamente farà bandire le armi nucleari dalla coscienza dell’umanità. Solo dopo di ciò queste armi potranno essere eliminate anche formalmente da provvedimenti giuridici della comunità internazionale.

Le gocce del colibrì

Se fosse evidente a tutti la catena che collega la vittima innocente di un qualunque paese in guerra all’operaio che ha costruito la bomba, all’ingegnere che l’ha progettata, alle banche che ne hanno sostenuto la produzione, al ragioniere che ha emesso le fatture, ai lavoratori dei porti che l’hanno imbarcata, e così via, scopriremmo che in essa è coinvolta qualche persona che conosciamo, magari un nostro parente o un nostro vicino di casa.

Se ciascuno di noi ne fosse consapevole, potrebbe fare come il colibrì che, in una favola africana, fa la sua parte portando nel suo minuscolo becco due gocce d’acqua per spegnere l’incendio.

Angela Dogliotti

 




Noi e Voi, lettori e missionari in dialogo

Nonviolenza e guerra in Ucraina

Pubblichiamo lo scambio di mail tra un nostro lettore e Pasquale Pugliese, autore dell’articolo «La guerra dei sonnambuli» uscito su MC di gennaio. Ringraziamo i due per averlo condiviso con noi e i nostri lettori.

Buonasera Pasquale,
nell’articolo «La guerra dei sonnambuli» parla di azioni nonviolente di Gandhi e tanti altri che hanno ottenuto per il loro popolo risultati che sembravano incredibili.

Attuare l’azione nonviolenta anche in Ucraina sarebbe straordinario, ma non ho trovato possibili azioni concrete. Voi quali azioni pensate per quello che il Papa definisce «il martoriato popolo ucraino»?

Ci vorrebbero modalità diverse: perché ogni situazione è diversa dalle altre e soprattutto perché in Ucraina un esercito bombarda case e civili. Come si può affrontare un’azione militare con la nonviolenza?

Ci penso dall’inizio della guerra. E non mi dò pace per non aver cercato gruppi come il vostro già nel 2014.

Non l’ho fatto io, ma anche nessun governo in Occidente in quegli 8 anni ha cercato di fare quello che avrebbe potuto ottenere, che allora sarebbe stato incommensurabilmente più di quanto si possa immaginare adesso.

La stella polare resta nelle parole del Papa e dei siti da lei indicati: interrompere la guerra per ricostruire un tessuto umano, che nessuna vittoria militare riuscirebbe a garantire.

Il problema è immenso: cessare le ostilità senza la resa dell’Ucraina e l’assoggettamento alla Russia di tutta la sua popolazione: la diplomazia non è il mio mestiere, ma non posso credere che non esista una via per un accordo, anche parzialmente doloroso.

Sempre sperando che uno spiraglio di pace, «giusta», come dice il Papa, possa aprirsi e superare la terribile situazione di milioni di nostri fratelli e sorelle, non solo ucraini, ma anche di tutte le altre situazioni di guerre e persecuzioni nel mondo.

Filippo Pongiglione, Genova, 24/01/2023

Buonasera Filippo e grazie per la sua email.

Credo che non sia possibile proporre dall’esterno specifiche azioni nonviolente durante una guerra in corso, senza esserne parte e conoscerne le condizioni e le sofferenze, tuttavia, gli stessi ucraini hanno realizzato importanti forme di resistenza senza l’uso delle armi, seppure non sufficientemente raccontate e mai davvero prese in considerazione, come realistica possibilità, di fronte al diktat politico e comunicativo dominante: o armi oppure inermi.

Ne trova una significativa documentazione a cura dell’Istituto catalano per la pace (Icip) e dell’Istituto internazionale di azione nonviolenta (Novact) nel dossier «La resistenza civile nonviolenta in Ucraina» (in www.atlanteguerre.it).

Purtroppo – come avvenuto peraltro anche nel caso della resistenza nonviolenta del popolo kosovaro rispetto alla Serbia – l’insistere sulla guerra come unico strumento di lotta (soprattutto se con intervento militare esterno) annienta, insieme alle vite, anche le possibilità di successo delle altre forme di resistenza schiacciate tra le opposte violenze.

L’organizzazione della quale faccio parte, il Movimento nonviolento, fin dallo scorso febbraio 2022, da un lato sostiene il Movimento pacifista ucraino@ nelle sue diverse azioni, anche traducendone e diffondendone i documenti, dall’altro, insieme alla War resister’s international@ sostiene gli obiettori di coscienza alla guerra russi, bielorussi e ucraini, la cui azione coraggiosa, osteggiata dai rispettivi governi, ha sia un valore in sé, che di esempio rispetto alla dimostrazione della non inevitabilità della guerra e della relativa obbedienza@.

Per quanto mi riguarda, inoltre, nell’articolo che ha letto, e nei molti altri che può trovare su diverse testate, cerco di resistere con la nonviolenza alla militarizzazione del pensiero anche in casa nostra. Cordiali saluti.

Pasquale Pugliese

Sudafricano con i sudafricani

L’annuncio della scomparsa, il 14 marzo 2023, di padre Rocco Marra ha portato una grande nube di tristezza su molti, sia missionari che laici nella delegazione (il gruppo dei 25 missionari della Consolata, ndr) del Sudafrica/eSwatini.

Padre Rocco Marra nasce il 19 ottobre 1962 a Tricase, Lecce, da Riccardo e Longo Fulvia (riposi in pace). Ha una sorella, Stefania, e due fratelli, Tommaso e Gianni. Arriva in Sudafrica nel 1993, dopo essere stato ordinato sacerdote nel 1988 e aver fatto alcuni anni di animazione missionaria a Galatina (Le). Concluso lo studio della lingua zulu, nel 1994 inizia il suo servizio adattandosi a vari ruoli in Sudafrica: come aiutante in una missione, come parroco responsabile oppure come animatore missionario; diventa anche consigliere e poi amministratore del gruppo dei missionari.

Questo fino al 2016, quando viene inviato a Manzini, in eSwatini dal 2016 al 2019. Là svolge attività pastorale nelle parrocchie dei santi Pietro e Paolo a Kwaluseni, e si interessa attivamente anche dei rifugiati. Nominato superiore delegato della gruppo dei missionari, si trasferisce a Waverly (Pretoria). Nel 2021, a causa di problemi di salute, padre Rocco torna in Italia, nella comunità di Milano dove, mentre si fa curare, aiuta il superiore regionale dei missionari in Europa. Il Signore lo chiama a sé il 14 marzo 2023 per ricompensarlo di tutto il lavoro missionario e sacerdotale che ha svolto con tanta dedizione.

Padre Rocco Marra era molto conosciuto in tutto il Sudafrica, soprattutto nelle diocesi di Pretoria e Dundee. Era un animatore molto dedito, che lavorava con e per i giovani. Oltre a questo, la sua passione era nella formazione dei laici cristiani, nella collaborazione tra laici e missionari e, ancora più profondamente, nell’inter collaborazione tra i missionari stessi. Curare la formazione permanente era anche un suo punto di forza.

Padre Rocco era un comunicatore appassionato, e da quella passione è nato il blog Sanibonani (ciao, salve, saluti, ndr), che è diventato lo strumento di informazione dei missionari all’interno e all’esterno del Sudafrica ed eSwatini.

Padre Rocco ci ha amato. Amava tutti i missionari in egual misura, anche se aveva un carattere a tratti imprevedibile. Tuttavia, era un vero riconciliatore e non ha mai preso le cose sul personale. Per questo lo ricorderemo davvero. Possiamo quindi riassumere padre Rocco Marra con queste caratteristiche: un vero essere umano, un autentico missionario e un sacerdote devoto, un vero figlio del beato Giuseppe Allamano.

Phumula ngoxolo, Idwala (Riposa in pace, roccia).

adattato da Sanibonani, https://consolata.blogspot.com
di padre Francis Onyango, 20/03/2023

 


Una rivista che parli a tutti

Caro direttore,
ricordo che già da bambino arrivava in famiglia la rivista delle Missioni e parlo degli anni 1940.

Ho viaggiato il mondo in lungo e in largo come pochi per lavoro. Ho vissuto a contatto con le popolazioni sudamericane e africane, specie East Africa: Kenya, Rwanda, Burundi, Tanzania e Sudan. Viaggiavo da solo per conoscere e per capire […]. La mia terribile sintesi dopo tanti viaggi è questa frase: «Mi vergogno di avere la pelle bianca». L’ho ripetuta sovente e rappresenta il mio vero sentire perché questa è la realtà. Ho vissuto l’impegno, la passione, la generosità dei Comboniani delle loro missioni distrutte nel Sud Sudan, e nelle missioni in Kenya. Ovunque le missioni cristiane sono un esempio di altruismo: persone che portano civiltà, educazione là dove regna solo miseria. Ho viaggiato negli anni 70 per circa 3.500 km in Africa da solo con zaino, la macchina fotografica e con pochi soldi in tasca. Sono stato rispettato e accolto da una marea di persone semplici e povere, mai avuto problemi o furti.

Direttore, le scrivo queste righe per due ragioni.

La prima è che niente può a mio avviso sublimare di più una persona che ha scelto la nostra fede se non la vita di missionario, attività che ti dà la soddisfazione ogni giorno di essere utile agli altri, cosa che oggi nel nostro mondo consumistico e avaro nessuno riconosce alla attività dei preti in generale.

La seconda ragione si riferisce alla abissale caduta di valori a ogni livello che si è sempre più accelerata da quaranta anni in qua. Penso solo ai miei viaggi in solitario, oggi impensabili, fosse solo per la sicurezza personale. Il morbo del potere a ogni costo ha rinforzato una élite politica mondiale che non sente più il senso della fratellanza, della pianificazione di progetti agrari e sociali per garantire almeno un pasto al giorno normale oltre un minimo di assistenza medica. Mentre l’unico sviluppo sempre più rapido sono guerre e conseguenti distruzioni. Il Medio Oriente, che ben conoscevo, non c’è più: Siria, sud Turchia, Giordania, Iraq al 50% distrutti con i loro patrimoni storici in rovina.

Scrivo queste righe a lei perché da sempre, non da oggi, ho apprezzato lo spessore educativo della rivista. […] In conclusione, MC ha uno spessore di contenuto morale educativo molto elevato.

Dico questo perché sarebbe utile a mio avviso pensare a una edizione che permetta di avvicinare anche il lettore che non è un fervente o assiduo credente. Voglio cioè dire che l’impronta attuale non viene accettata dai troppi che sono poco credenti. L’obiettivo sarebbe di valorizzare al massimo il contenuto della rivista facendola arrivare a un pubblico più vasto.

Ho qui davanti l’edizione del marzo 2023 ricca di articoli molto incisivi sulle tragedie del mondo di oggi che devono far pensare il maggior numero possibile di persone.

Questa email ha lo scopo di valutare se possibile fare una edizione meno religiosa per dare più valore agli articoli che descrivono sempre con verità le tante situazioni.

Per esempio, circa un anno fa ci fu un articolo sul Perù che dava una descrizione dell’antagonismo contro l’eletto presidente Castillo che spiegava molto bene la realtà. Sono articoli che scrive solo chi vive e conosce bene l’argomento come è la regola di MC.

Spero che la lettura non l’abbia annoiata e possa portare a qualche concreta valutazione. Un cordiale saluto

Giorgio Biancardi
15/03/2023

Caro Giorgio,
grazie della lunga email (che ho dovuto tagliare in parte). Grazie anche per la sua lunga amicizia con la nostra rivista e i missionari. Grazie anche dell’invito che ci fà a fare una rivista che parli anche al cuore di chi è poco credente. Cerchiamo di realizzare questo facendoci aiutare da testimoni e corrispondenti che vivano in prima persona quello che raccontano.

Tentiamo anche di usare un linguaggio il meno clericale possibile. Con convinzione abbiamo fatto nostro il motto: «Tutto quello che è umano mi interessa» (libera traduzione di Homus sum, humani nihil a me alienum puto di Terenzio), perché crediamo che il primo a essere totalmente appassionato dell’uomo sia Dio stesso, che non ha considerato un’umiliazione prendere su di sé la nostra umanità in Gesù.

È una sfida quotidiana anche per noi, grazie di esserci vicino in questa avventura.

 


Nell’agenda di Gianni

Gianni Minà a una serata nell’Aula Magna del CAM a Torino.

La sua rubrica esordì su MC nel dicembre del 2015 con un titolo azzeccatissimo: «Persone che conosco». Perché Gianni Minà, scomparso lo scorso 27 marzo, conosceva tutti, ma proprio tutti.
Famosa al riguardo è rimasta la battuta di Massimo Troisi: «Invidio quest’uomo per la sua agendina telefonica», disse l’attore napoletano.

Giornalista, scrittore e documentarista, Gianni Minà aveva nell’empatia la sua qualità più preziosa. È stata certamente questa sua dote che gli ha permesso di portare davanti a taccuini, microfoni e telecamere un numero impressionante di personaggi dello sport, della cultura, dello spettacolo e della politica. Da Muhammad Ali (Cassius Clay) a Diego Armando Maradona, da Rigoberta Menchú a Fidel Castro.

Nel giornalismo – oggi più che mai – l’obiettività è un mito. Gianni Minà è sempre stato considerato un giornalista schierato, militante. Vero, ma lo ha fatto senza sotterfugi: prima la realtà dei fatti e il racconto dei protagonisti, poi le opinioni. «Non ho mai avuto – mi ha raccontato in occasione della presentazione di un suo libro – una tessera politica, né ho mai ambito ad averla. Io sono una persona che è stata educata dai Salesiani. Ho capito da che parte stare quando ho visto la miseria. Per esempio, quella dei bambini di San Paolo che mi ha fatto conoscere Frei Betto».

I pezzi di Gianni scritti per Missioni Consolata non sono molti (li trovate tutti sul sito della rivista), ma per noi era già un onore essere riusciti ad annoverarlo tra i nostri collaboratori. Era una stima reciproca: quando lui decise di presentare – in anteprima nazionale – il suo documentario sulla visita di papa Francesco a Cuba, lo fece a Torino, sua città natale, nell’aula magna dei missionari della Consolata (2016, foto qui sotto).

L’ultima apparizione su MC è stata indiretta (giugno 2022), per mano di Loredana Macchietti, moglie di Gianni, ma anche sua producer, agente e factotum: era la presentazione di un suo documentario dedicato al marito (e padre di Marianna, Francesca e Paola).

Per concludere, mi sia consentito un piccolo ricordo personale.
Il mio primo incontro con Minà risale a oltre venti anni fa, quando ricevetti una sua telefonata in risposta a una email. Mi parlò subito come ci conoscessimo da una vita e poco dopo (relativamente poco, visto che le sue telefonate erano sempre lunghissime) mi chiese di scrivergli un articolo sulla situazione in Perù per «Latinoamerica», la prestigiosa rivista che lui e Loredana avevano rilanciato. Non ci pensai su un attimo e quello fu l’inizio della nostra amicizia.

Paolo Moiola




Nonviolenza da Oscar


«Coda. I segni sul cuore» e «The Guilty», Il colpevole

Una ragazza, figlia di genitori sordi, scopre di avere un talento nel canto. Un poliziotto danese si lascia coinvolgere in un caso che non dovrebbe seguire. Due film diversi tra loro, ma accomunati dall’ascolto attivo dei protagonisti che affrontano i conflitti cambiando se stessi e le relazioni attorno a loro.

Coda. I segni sul cuore

A volte vincono. Sì, a volte – raramente – i film nonviolenti arrivano ai vertici del riconoscimento mondiale.

È stato così per Coda. I segni sul cuore che ha vinto tre Oscar nel 2022: il più ambito, quello per il miglior film, quello per l’attore non protagonista, Troy Kotsur, e quello per la migliore sceneggiatura non originale.

Coda è il remake statunitense di un film francese del 2014, La famiglia Bélier, una pellicola talmente bella che al Centro studi Sereno Regis, dove ci occupiamo di educazione alla pace, lo usiamo spesso nei nostri corsi.

Tra l’altro, Coda è passato come film fuori concorso anche all’edizione 2021 del Tff (Torino film festival, ndr) ed è uno dei film segnalati dal premio «Gli occhiali di Gandhi», il premio del Centro studi Sereno Regis, in collaborazione con il Tff, alla cinematografia nonviolenta.

È una storia che esemplifica in modo semplice, ma non superficiale, come un conflitto si può risolvere in modo nonviolento.

La trama è semplice: la diciassettenne Ruby, figlia di due persone sorde (c.o.d.a., dall’inglese child of deaf adults, figlia di adulti sordi), scopre di avere un talento nel canto. Inizia a prendere lezioni, finché il suo maestro le propone di continuare gli studi trasferendosi in un’altra città.

Il film racconta come Ruby riesca nel compito di accompagnare i genitori, impossibilitati a riconoscere la sua dote, a mettersi nei suoi panni, coinvolgendoli, rassicurandoli, e mettendosi a sua volta nei loro panni, cosa che rappresenta una delle lezioni basilari della nonviolenza: riconoscere i bisogni dell’altro, il quale non è un avversario, ma una persona con cui trovare il giusto modo di relazionarsi.

Le scene fondamentali che illustrano in modo magistrale la soluzione nonviolenta del conflitto sono tre.

La prima è quella nella quale emerge il problema ed esplode il conflitto: il desiderio della ragazza di trasferirsi si scontra con la contrarietà dei genitori, i quali, con la partenza della figlia che li aiuta nella loro azienda a conduzione famigliare, perderebbero un valido aiuto.

La seconda è la rappresentazione delle difficoltà oggettive dei genitori nel comprendere il talento della figlia (qui il regista mette anche il pubblico nella condizione di capire lo stato d’animo dei genitori). La terza è quella della soluzione finale del conflitto: la ragazza riesce a rendere partecipi i genitori della sua performance usando la lingua dei segni (uno dei motivi per cui è stato fatto il remake statunitense del film francese: la lingua dei segni europea è diversa da quella Usa).

Il film della regista Sian Heder si differenzia dall’originale francese di Éric Lartigau, per il fatto che i ruoli di persone sorde sono stati interpretati da attori effettivamente sordi, a cominciare da Marlee Matlin, che vinse l’oscar come migliore attrice per Figli di un dio minore del 1986.

Andatelo a vedere e, se possibile, guardate anche La famiglia Bélier: un confronto che vi riserverà delle belle sorprese.

D.C.

Il colpevole (The Guilty)

«Il colpevole (The Guilty)» è un thriller del 2018, terzo film del danese Gustav Möller.

Si potrebbe definire un film claustrofobico, incredibilmente ambientato in sole due stanze. Eppure ha una forte e determinante componente nonviolenta. Vediamo perché.

Asgar è un agente di polizia di Copenaghen, temporaneamente demansionato, per un motivo che scopriremo più avanti, al servizio di risposta alle chiamate di emergenza. È il classico lavoro da 112: smistare le telefonate. Una noia.

Un giorno, però, riceve la chiamata di una giovane donna che dichiara di essere stata rapita dall’ex marito, e Asgar decide di oltrepassare i limiti professionali prendendosi segretamente carico dell’investigazione e mettendosi in gioco per salvare la donna.

Svolgere un’indagine esclusivamente al telefono, però, è pericoloso, e il protagonista deve confrontarsi con un inaspettato ribaltamento della situazione.

Spesso, fare supposizioni partendo da poche informazioni, può portare a commettere gravi errori, anche se si hanno le migliori intenzioni.

Ciò che appare un limite del film, cioè la messa in scena in sole due stanze, amplifica la tensione, spingendo a entrare nello spazio emotivo dei protagonisti.

Il regista lancia una vera e propria sfida allo spettatore, cercando di emozionarlo con il semplice riferimento a «ciò che accade fuori». Una sfida indubbiamente vinta.

Così come è vinta la sfida della sostenibilità ambientale della produzione: niente sparatorie, niente auto incendiate, niente palazzi che crollano.

«Il colpevole», il cui titolo originale è Den Skyldige, merita di essere visto non solo perché è un thriller emozionante e magnetico, ma anche perché offre spunti di riflessione sulla nonviolenza.

La grande empatia di Asgar nell’aiutare la donna al telefono, a prescindere dai suoi doveri, ne è un esempio. Il protagonista va contro l’etica professionale per salvare una persona sconosciuta, facendosi coinvolgere dalla sua vicenda e mettendoci tutto il suo impegno.

Inoltre, è interessante notare come il dialogo sia l’unico strumento utilizzato per risolvere il conflitto e, in una situazione estrema, per salvare una vita.

Non solo. Il dialogo diventa cura e diventa perdono, per sé e per gli altri: mettendosi nei panni della donna, nel suo dramma, il poliziotto trova il coraggio di affrontare le proprie responsabilità (il motivo – che non sveliamo – per il quale è stato «messo a riposo» in ufficio) e, in definitiva, di perdonarsi.

Un chiaro esempio di come la relazione profonda tra esseri viventi, il vero ascolto, partecipe e responsabile, siano le basi fondanti di un percorso di risoluzione nonviolenta dei conflitti.

Giorgia Bettuzzi e Dario Cambiano




Dall’obiezione al servizio civile


Nel 1972 viene emanata la legge che riconosce l’obiezione di coscienza al servizio militare, ma la sua forma punitiva mostra che la strada da percorrere è ancora lunga. Cinquant’anni di lotte per affermare il diritto di servire il bene comune ripudiando le armi.

«Votata la legge truffa sull’obiezione di coscienza». Così viene accolta la legge 772 del 15 dicembre 1972 che introduce il servizio civile in Italia da «Azione nonviolenta», il periodico fondato da Aldo Capitini e allora diretto da Pietro Pinna, il primo obiettore al servizio militare in Italia a dare «pubblicità» alla propria scelta. Si tratta di un sentimento diffuso tra obiettori e pacifisti.

Una legge «punitiva»

Tanti sono i punti di insoddisfazione: innanzitutto, la legge riconosce la possibilità dell’obiezione per i soli motivi religiosi, morali e filosofici, ma non per quelli politici; poi indica un tempo limitato nel quale si può presentare la domanda di obiezione, cosa che esclude maturazioni successive dell’obiezione.

In più, gli obiettori rimangono dipendenti dal ministero della Difesa, condizione che porta anarchici e, in particolare, testimoni di Geova, cioè il gruppo più consistente, a rifiutare la legge.

Inoltre, la durata del servizio civile è superiore di otto mesi rispetto al servizio militare.

Infine, la legge prevede una commissione che ha il potere di vagliare le motivazioni degli obiettori sulla base di una dichiarazione scritta e di un rapporto dei carabinieri.

Chi rifiuta di prestare il servizio civile o chi, non riconosciuto dalla commissione, insiste nell’obiezione di coscienza, è condannato a una pena tra i due e i quattro anni di carcere militare (che, con le attenuanti, scende spesso a circa 16 mesi).

La norma inaugura una fase nuova nella storia dell’obiezione al servizio militare. La stessa espressione «obiettore di coscienza» muta sul piano semantico (estendendosi ad altri ambiti, ad esempio quello sanitario): non individua più solo chi «getta la propria coscienza» (dal latino ob-iacio) contro un ordinamento che si ritiene ingiusto, ma anche chi sceglie un’opzione garantita dalla legge. Inoltre, per quanto sia costretta a snodarsi tra molte restrizioni, prende corpo la realtà nuova del servizio civile.

da Archivio Centro studi Sereno Regis

La lega obiettori

Poco più di un mese dopo l’approvazione della legge, obiettori e movimenti fondano la Lega obiettori di coscienza (Loc), che si prefigge due obiettivi: quello di modificare la legge, e quello di trasmettere al nuovo servizio civile l’esperienza antimilitarista della lotta precedente.

Fin dall’inizio è evidente il legame con il Partito radicale, che, con lo sciopero della fame di Marco Pannella e Alberto
Gardin, aveva «imposto» al parlamento il riconoscimento dell’obiezione di coscienza: la Loc, infatti, costituisce la propria sede nelle stanze del quartier generale del partito in Largo Torre Argentina.

Il primo anno è difficile. Il ministero della Difesa non si premura di attivare il servizio civile, mentre la commissione nominata dal governo interpreta la legge 772 nella forma più restrittiva: anche alcuni obiettori che erano stati in carcere vedono le loro domande respinte. Nei primi due mesi di gennaio e febbraio, sono 9 su 29 gli obiettori non riconosciuti.

Inizialmente, un ritardo di qualche ora nella presentazione della domanda può comportare svariati mesi di carcere.

L’ostracismo del ministero della Difesa culmina alla fine del 1973 con una circolare che intende arruolare tutti gli obiettori riconosciuti alla Scuola dei vigili del fuoco di Passo Corese (Rieti).

Il rifiuto compatto della Loc e degli obiettori lo costringe tuttavia a fare macchina indietro.

Fallito il colpo di mano, il ministero muta strategia, alternando concessioni, ad esempio sui ritardi delle domande, a un boicottaggio meno manifesto, fatto di dilazioni nell’evadere le richieste o di rifiuti al sostegno economico per i corsi di formazione.

Il suo disinteresse alla realizzazione di un servizio civile nazionale lo porta a delegarne l’attuazione interamente alla Loc, che però non è organizzata per un simile sforzo. In questa fase difficile, ma anche creativa, di autogestione, viene in soccorso, per quanto possibile, il Mir (Movimento internazionale della riconciliazione), guidato da Hedi Vaccaro e poi da Domenico Sereno Regis: essendo tra i primi enti a firmare una convenzione con il ministero, destina gli obiettori alle sedi locali della Loc, perché siano impiegati nell’organizzazione burocratica dello stesso servizio civile.

Mutazioni e sfederazioni

Le prime esperienze partono nel 1974. Tre corsi di formazione cominciano alla Comunità Capodarco di Fermo, alla Casa dell’ospitalità di Ivrea e all’Ospedale psichiatrico di Trieste, quello diretto da Franco
Basaglia. In seguito gli obiettori sono smistati negli enti che firmano la convenzione: sono impiegati soprattutto in ambito sociale, ad esempio nelle comunità di tossicodipendenti del Gruppo Abele o in quelle per minori dell’Istituto don Calabria, o, ancora, in comuni sperduti, come Castelmagno (Cn).

Particolarmente significativo, anche per la sua rilevanza politica, è il servizio civile avviato all’Ital Uil, a Vicenza.

Date le molte anime che compongono la Loc, si innescano al suo interno conflitti che diventano man mano difficili da comporre. In particolare, chi fa riferimento al Partito radicale ritiene il servizio civile un accessorio rispetto al vero fine dell’organizzazione che deve rimanere l’antimilitarismo. Al contrario, per molti enti e per i nuovi obiettori che non hanno alle spalle le precedenti battaglie, la Loc dovrebbe mantenere l’identità antimilitarista subordinata all’azione «sindacale», sia muovendosi tra gli spazi garantiti dalla legge, sia mobilitandosi per un cambiamento.

Vedendo la propria linea diventare sempre più minoritaria con la crescita degli obiettori, il
Partito radicale opta nel 1978 per la «sfederazione» dalla Loc e orienta la propria battaglia in due direzioni: i referendum per l’abolizione di codici e tribunali militari (la Corte costituzionale ne consentirà solo uno, quello sulla composizione dei tribunali militari che sarà sufficiente per una riforma della giustizia militare) e la creazione della Lega socialista per il disarmo, poi confluita nella Lega per il disarmo unilaterale.

Nei mesi precedenti sono avvenuti altri due fatti rilevanti per la storia del servizio civile: il ministero ha emesso, dopo cinque anni, le norme attuative del servizio civile, e la Caritas, nata nel 1971, ha firmato la convenzione, accogliendo i primi obiettori. Finisce la stagione dell’autodeterminazione e comincia quella nella quale i grandi enti capaci di mobilitare centinaia di giovani, vedono crescere il proprio peso a discapito della Loc.

Ancora il carcere

Le restrizioni di una legge che non riconosce la scelta del servizio civile come un diritto, fanno sì che l’obiezione assuma ancora forme «sovversive».

A parte la scelta dei testimoni di Geova di non politicizzare il loro rifiuto e di non conferirgli rilievo pubblico, si aprono, infatti, spazi di contestazione della legge, soprattutto laddove essa mantiene la subordinazione alla realtà militare.

Gli obiettori «totali», quelli che rifiutano sia il servizio militare che quello civile per il modo in cui è regolamentato, e quelli che persistono nel rifiuto vedendo respinta la propria domanda, continuano a scontare il carcere militare e conferiscono alla loro opposizione un rilievo politico.

Una delle azioni più incisive nasce nel carcere di Gaeta (Latina), condotta simultaneamente nel 1975 da due obiettori «totali» e un obiettore con domanda respinta: Dalmazio Bertulessi,
Bachisio Masia ed Ezio Rossato. Con uno sciopero della fame prolungato, innescano una nuova attenzione sulle carceri militari: chiedono condizioni di vita migliori per i detenuti, la fine della censura della stampa, una più larga disponibilità di visite, la rimozione dei limiti alla corrispondenza. Per il momento ottengono solo il trasferimento a Forte Boccea, carcere giudiziario militare a Roma, e l’interessamento di alcuni parlamentari.

Un nuovo sciopero che coinvolge anche Francesco Galli, detenuto a Peschiera del Garda (Verona), consegue alcuni risultati: la riforma carceraria del ‘72 viene infatti estesa dai penitenziari civili anche a quelli militari, nei quali viene ora consentito l’ingresso ai parlamentari.

Le condizioni tremende di Gaeta sono così certificate da un’ispezione, e di lì a pochi anni il reclusorio viene chiuso.

Tre anni dopo, una nuova forma di protesta nasce nella comunità per disabili mentali di
Prunella di Melito Porto Salvo (Reggio Calabria). Sandro Gozzo, tra i primi obiettori della Caritas, interrompe otto mesi prima del termine il servizio civile che sta svolgendo in quella struttura. Si tratta di un’azione che intende affermare la pari dignità tra servizio civile e militare: «Ritengo incostituzionale e quindi inaccettabile la discriminazione nei nostri confronti», scrive in un’autodichiarazione. Per questo sconterà otto mesi di carcere militare.

Nei mesi e negli anni successivi lo seguono altri, come Silverio Capuzzo e Antonio De Filippis.

Inizialmente la protesta sembra rimanere un puro atto simbolico, ma, con la decisione della corte costituzionale nel 1986 di trasferire dai tribunali militari a quelli civili i giudizi sugli obiettori, anche la differente durata dei due servizi diventa oggetto di un pronunciamento di costituzionalità.

Nel 1989, infatti, la consulta ne statuisce l’equiparazione: la maggiore durata del servizio civile è letta come una sanzione in contrasto con i diritti tutelati dalla Costituzione, «in quanto sintomo di una non giustificabile disparità di trattamento per ragioni di fede religiosa o di convincimento politico e, nello stesso tempo, freno alla libera manifestazione del pensiero».

Distruzioni a San Gregorio causate dal terremoto dell’Irpinia nel novembre 1980.

Un servizio civile di massa

Al principio degli anni Ottanta, a Padova, presso la sede locale del Mir, alcuni giovani cominciano ad adoperarsi per contrastare l’attitudine del ministero della Difesa a respingere annualmente diverse richieste di servizio civile. Dalla fine degli anni
Settanta, infatti, le domande respinte hanno ripreso a risalire: nasce una commissione ad hoc che assume un rilievo nazionale, preoccupandosi di organizzare un affiancamento giuridico agli obiettori non riconosciuti.

In quel decennio gli obiettori sono ormai migliaia ogni anno. Si tratta di una prova della trasformazione della società: il servizio militare e la retorica del sacrificio e dell’obbedienza hanno sempre meno appeal tra i giovani, mentre per una generazione che scopre il volontariato come nuova forma di impegno sociale, il servizio civile rappresenta una pratica di sperimentazione e di percezione della propria utilità.

Inoltre, pur non mancando le precettazioni d’ufficio, casi di distacchi lontano dalla propria residenza o di servizi faticosi e frustranti, nella maggior parte dei casi il servizio civile può essere svolto vicino a casa, spesso nell’ente prescelto.

A dare un ulteriore contributo al suo sviluppo è l’ingresso di un altro grande ente che si affianca alla Caritas, ovvero l’Arci: con la loro ramificata struttura, le due organizzazioni possono gestire molteplici sedi e garantire un luogo identitario a obiettori cattolici e di sinistra.

Un altro contributo alla crescita del numero di obiettori viene anche, nel 1979, dalla circolare emessa dal ministero della Difesa, retto dal socialista Lelio Lagorio, che prevedeva il congedo per gli obiettori in attesa di chiamata da oltre 26 mesi chiarendo così l’approccio svalutativo del governo nei confronti del servizio civile. Il provvedimento esplicitava che si preferiva liberarsi degli obiettori piuttosto che investire in favore di un’organizzazione capace di evadere le pratiche in tempi consoni.

La presenza pubblica degli obiettori diventa particolarmente visibile in occasione del terremoto dell’Irpinia, avvenuto il 30 novembre 1980. Già per il terremoto in Friuli di quattro anni prima non era mancato l’impegno degli obiettori, ma ora, grazie all’azione di diverse realtà, in primis la Caritas, è ben più forte.

A partire dal 1981 si assiste, invece, all’autodistaccamento di molti obiettori per partecipare alla grande mobilitazione contro gli euromissili nucleari di cui si prevede l’installazione nella base militare americana di
Comiso (Ragusa).

Per due anni l’obiezione sembra tornare alle origini, ma in realtà si tratta di una punta avanzata, rispetto a un ventre che, crescendo nei numeri, è mosso da motivazioni meno radicali, volgendosi soprattutto all’aspetto solidaristico del servizio civile.

È il prezzo inevitabile della trasformazione di un’esperienza fino a questo momento elitaria.

Un ulteriore impulso viene dalla già citata sentenza della corte costituzionale del 1989 che equipara leva e obiezione, permettendo anche a chi viene da contesti economici precari di optare per il servizio civile.

Dalle migliaia si passa alle decine di migliaia: il servizio civile è ormai una realtà di massa.

guerra jugoslavia – Condomini bruciati nel centro di un quartiere serbo di Sarajevo

Un servizio universale

La sentenza della corte costituzionale del 1989 rivela l’anacronismo di una norma che ancora non riconosce l’obiezione come diritto. L’azione sindacale del Cesc, il Coordinamento di enti di servizio civile, nato nel 1982, quella più movimentista della Loc, e alcune iniziative che hanno una certa risonanza come i digiuni del dehoniano padre Angelo Cavagna, spingono le istituzioni a promuovere una revisione della norma.

Dal 1972 alla camera e al senato sono stati presentati numerosi progetti di legge, ma i governi che si sono succeduti non hanno mai sostenuto una riforma.

Nel 1992, invece, finalmente, i due rami del parlamento approvano l’attesa sostituzione della legge 772 con una che riconosce l’obiezione di coscienza come diritto. Tutto l’arco parlamentare è unanime, con l’eccezione, scontata, dell’Msi. A mettersi di traverso è il presidente della Repubblica Francesco Cossiga. La norma è rimandata, infatti, alle camere, a poche ore dall’avvio della procedura del loro scioglimento. Per giungere a una legge che stabilisca il diritto di scelta saranno necessari altri sei anni.

Ci si arriva solo nel 1998, dopo che un’intera stagione politica è finita: è passata tangentopoli e la prima repubblica ha chiuso i battenti.

Anche per l’obiezione di coscienza alcune cose sono cambiate. Il conflitto in Jugoslavia ha riportato lo spettro della guerra in Europa: per iniziativa dell’Associazione Papa Giovanni XXIII di don Oreste Benzi, alcuni giovani hanno abbandonato il loro servizio e si sono
recati in zona di guerra. Si trattava di una scelta non consentita dalla norma in vigore, ma che apriva a un importante sviluppo del servizio civile, in un’ottica di difesa nonviolenta che intervenga tra i paesi in conflitto.

Partendo da questa esperienza nascono i caschi bianchi.

Con la legge del 1998 e la trasformazione dell’obiezione di coscienza in diritto, avviene l’inevitabile sorpasso: entrando nel nuovo millennio, le domande di servizio civile superano per la prima volta quelle di leva, oltrepassando le centomila richieste.

Una storia legislativa fino a questo momento piuttosto paludata, accelera improvvisamente.

Anche le donne

Nel 2001 viene creato il nuovo servizio civile nazionale, aperto anche alle donne, e si prevede la sospensione della leva a partire dal 2007: si tratta di un istituto ritenuto ormai superato rispetto alle esigenze di professionalizzazione dell’esercito.

Sembrano intervenire anche preoccupazioni economiche che guardano alla massa di giovani che preferiscono il servizio civile: un numero contingentato di volontari sarebbe meno oneroso per lo stato: la sospensione viene anticipata al 2005 e da allora il nuovo servizio civile volontario rimane l’unico erede della precedente esperienza.

Per la prima volta ragazzi e ragazze si trovano fianco a fianco in un istituto che non prevede più differenze di genere. Anzi, un’esperienza nata in una forma totalmente maschile vede le ragazze diventarne le principali protagoniste (nel 2021, oltre il 63% saranno donne).

Nel 2015 si compie l’ultima mutazione, e il servizio civile diventa, a tutti gli effetti, universale: ancora una volta è la Corte costituzionale a garantire quell’avanzamento che la politica non riesce a intraprendere: essa allarga, infatti, la possibilità di fare domanda anche a stranieri regolarmente soggiornanti in Italia.

La nuova realtà del servizio civile nasconde tuttavia anche alcune ombre: la sua progressiva meridionalizzazione racconta un’Italia divisa, dove le opportunità di lavoro tra Nord e Sud sono drammaticamente diverse e in molti casi i 443 euro mensili diventano una valvola di sfogo alla disoccupazione.

Laddove gli enti che accolgono i giovani in servizio civile non sono consapevoli di quanto esso possa essere una vera scuola di cittadinanza, essi corrono il rischio di smarrire il contatto con i suoi principi e di farlo degenerare in un lavoro sottopagato, subordinato alle esigenze di bilancio dell’organizzazione.

Fare in modo che ciò non accada è la sfida che molti enti stanno raccogliendo con crescente attenzione.

Marco Labbate*

 * È dottore di ricerca in Storia dei partiti e dei movimenti politici e assegnista di Storia contemporanea presso l’Università Carlo Bo di Urbino. Collabora con il Centro studi Sereno Regis di Torino e con l’associazione Il portico di Dolo (Ve).


ARCHIVIO
Marco Labbate, Tu non uccidere, MC luglio 2022, p. 26.
– Si veda anche «Librarsi» di questo numero.




La guerra dei sonnambuli


Nel tempo del pericolo nucleare, i decisori politici e l’opinione pubblica sono prigionieri della logica binaria che non vede alternative alla violenza per rispondere alla violenza (e «vincere»). È necessario rimettere al centro i principi e i saperi della resistenza nonviolenta. Prima che sia tardi.

Di questi tempi bisognerebbe rileggere il libro I sonnambuli dello storico Christopher Clark che descrive tutti coloro che avevano le leve del potere e dell’informazione nel 1914 come sonnambuli, apparentemente vigili, ma incapaci, in realtà, di rendersi conto che stavano conducendo il mondo nel baratro di quella «grande guerra» che papa Benedetto XV avrebbe definito «l’inutile strage».

A giudicare dalle scelte fatte e reiterate dai governi rispetto alla guerra in Ucraina, e dalle posizioni veicolate dalla maggior parte dei mezzi d’informazione, un’analoga epidemia di sonnambulismo sembra contagiare anche i decisori e i media di oggi.

Essi, infatti, fanno scelte ed esprimono posizioni non all’altezza dei tempi che attraversiamo, perché prive di consapevolezza della «situazione atomica» nella quale siamo immersi.

Siamo come gli «utopisti al rovescio» de Le tesi sull’età atomica del filosofo Gunter Anders: «Mentre gli utopisti non sanno produrre ciò che concepiscono, noi non sappiamo immaginare ciò che abbiamo prodotto». Siamo incapaci di superare la distanza che separa la capacità distruttiva delle armi nucleari da quella di generare pensieri, discorsi e azioni consapevoli e responsabili. Soprattutto in questo varco critico della storia, nel quale la minaccia atomica viene brandita come mai prima.

Photo by Thomas Gaulkin/Bulletin of the Atomic Scientists.

100 secondi alla mezzanotte

Se questa definizione di Anders del 1960 era vera allora, quando la coscienza del pericolo atomico era diffusa, è incomparabilmente più vera oggi, quando si è persa la memoria del trauma di Hiroshima e Nagasaki: se nel 1960 le lancette dell’«orologio dell’apocalisse», l’orologio simbolico ideato dal «Bollettino degli scienziati atomici» per misurare quanto siamo vicini all’olocausto nucleare, erano posizionate a 7 minuti dalla mezzanotte (la fine del mondo), oggi sono a soli 100 secondi.

Questa dimenticanza dell’olocausto atomico la spiega bene lo storico Daniel Immerwahr su «The Guardian», riportato da «Internazionale» del 21-27 ottobre 2022: «Con il passare del tempo i traumi svaniscono, per nostra fortuna. Vogliamo che la bomba atomica sia proprio questo: un fatto arcaico definitivamente relegato nel passato. Ma non raggiungeremo questo obiettivo ignorando la possibilità della guerra nucleare. Dobbiamo smantellare gli arsenali, rafforzare i trattati e consolidare le norme contro la proliferazione. In questo momento stiamo facendo il contrario. La nostra coscienza nucleare si è atrofizzata. Ci rimane un mondo pieno di armi atomiche che però si sta svuotando delle persone consapevoli delle possibili conseguenze».

Benzina invece di pompieri

Questo svuotamento di consapevolezza sembra attraversare il dibattito pubblico e le scelte politiche fin dall’inizio dell’aggressione russa all’Ucraina conducendo tutti a irreggimentarsi nella logica binaria – pace/vittoria; resistenza/resa – che ha militarizzato il pensiero e la discussione, alimentando «l’emozione unidirezionale pro/contro, come se fossimo tutti noi sul campo di battaglia», come ha scritto la politologa Nadia Urbinati su «Domani» già il 5 marzo 2022.

Il sostegno armato alla legittima difesa degli ucraini è così diventato, immediatamente, il solo mezzo e l’unica via alla «pace». Altre possibilità di uscita dalla guerra sono state escluse. L’unica opzione è rimasta quella di mandare sempre più armi per raggiungere la «vittoria» (impossibile in un contesto di permanente minaccia atomica).

Abbiamo così visto all’opera, ancora una volta, il riflesso pavloviano, automatico, del rispondere alla guerra con la guerra, e di gettare benzina sul fuoco invece di inviare «pompieri» per spegnerlo e dipanare la matassa del conflitto in favore di una soluzione sostenibile e duratura. In un avvitamento progressivo verso l’escalation che ha riportato all’ordine del giorno anche il possibile uso di armi nucleari.

(Photo by Andrea Ronchini, Ronchini / NurPhoto / NurPhoto via AFP)

Ripartire dal dialogo

Tutto questo ha impedito ai singoli governi europei e all’Ue nel suo insieme di assumere una posizione di «neutralità attiva» – come ha chiesto fin da subito la Rete italiana pace e disarmo – che non è equidistanza tra aggressore e aggredito, ma la postura che forse le avrebbe consentito di ricoprire il ruolo di soggetto pacificatore nel contesto di un conflitto che non è scoppiato un anno fa, ma già nel 2014.

Una colpevole rinuncia, questa dell’Ue, che lascia il ruolo di mediatore all’autocrate Erdogan.

Chi, invece, si è tenuto vigile e lungimirante nella ricerca di una mediazione, è stato papa Francesco, con i suoi ripetuti appelli alla pace e al disarmo, sui quali ha condotto anche i principali leader religiosi con la straordinaria Dichiarazione del Colosseo dello scorso 24 ottobre, un testo che – proprio perché ignorato da media e governi – merita di essere ampiamente citato.

«Con ferma convinzione diciamo: basta con la guerra! Fermiamo ogni conflitto. La guerra porta solo morte e distruzione, è un’avventura senza ritorno nella quale siamo tutti perdenti. Tacciano le armi, si dichiari subito un cessate il fuoco universale. Si attivino presto, prima che sia troppo tardi, negoziati capaci di condurre a soluzioni giuste per una pace stabile e duratura. Siamo di fronte a un bivio: essere la generazione che lascia morire il pianeta e l’umanità, che accumula e commercia armi, nell’illusione di salvarsi da soli contro gli altri, o invece la generazione che crea nuovi modi di vivere insieme, non investe sulle armi, abolisce la guerra come strumento di soluzione dei conflitti e ferma lo sfruttamento abnorme delle risorse del pianeta. L’umanità deve porre fine alle guerre o sarà una guerra a mettere fine all’umanità. Il mondo, la nostra casa comune, è unico e non appartiene a noi, ma alle future generazioni. Pertanto, liberiamolo dall’incubo nucleare. Riapriamo subito un dialogo serio sulla non proliferazione nucleare e sullo smantellamento delle armi atomiche. Ripartiamo insieme dal dialogo che è medicina efficace per la riconciliazione dei popoli. Investiamo su ogni via di dialogo. La pace è sempre possibile! Mai più la guerra! Mai più gli uni contro gli altri!».

Mezzi coerenti con i fini

Per trovare, dunque, una via di uscita dalla guerra che non sia catastrofica per tutti – a cominciare dal popolo ucraino -, occorre recuperare un principio fondamentale e alcuni saperi dell’agire politico. Il principio è quello teorizzato già da Max Weber alla fine della Prima guerra mondiale: l’etica della responsabilità che, al contrario dell’etica delle intenzioni, cerca di prevedere le conseguenze dell’agire. Essa indica il rischio che un obiettivo buono possa essere realizzato producendo «effetti collaterali» negativi. Suggerisce, quindi, di mettere in campo mezzi coerenti con i fini da raggiungere. In altre parole: il fine non giustifica i mezzi.

Nel nostro tempo il «Principio responsabilità», riformulato da Hans Jonas come «etica per la civiltà tecnologica», prescrive di agire «in modo che le conseguenze dell’azione siano compatibili con la sopravvivenza di un’autentica vita umana sulla terra». È il principio espresso anche nel Manifesto Einstein-Russell del luglio 1955: «Dobbiamo imparare a pensare in modo nuovo. Dobbiamo imparare a domandarci non già quali misure adottare affinché il gruppo che preferiamo possa conseguire una vittoria militare, poiché tali misure ormai non sono più contemplabili; la domanda che dobbiamo porci è: quali misure occorre adottare per impedire un conflitto armato il cui esito sarebbe catastrofico per tutti?».

(Photo by Tiziana FABI / AFP)

La nonviolenza

Per fare in modo che il «principio responsabilità» sia applicato nei conflitti, però, non basta enunciarlo, occorre mettere in campo i saperi conseguenti della nonviolenza, fondati esattamente sulla coerenza tra i mezzi e i fini dell’agire. Si tratta, per esempio, dei saperi della mediazione che forniscono la consapevolezza che nei conflitti degenerati in violenza e lasciati a se stessi (o, peggio, alimentati da istigatori come l’industria bellica che vince tutte le guerre), a ogni azione violenta di una parte corrisponde un’azione contraria di livello di violenza superiore dall’altra, in un crescendo che arriva alla potenziale distruzione dell’altro, o di entrambi, se non intervengono soggetti terzi a mediare.

Si chiama dinamica dell’escalation, quella che Mohandas K. Gandhi spiegava dicendo che «occhio per occhio, il mondo diventa cieco».

Inoltre nella vulgata binaria che costruisce fin dagli inizi di questa guerra la narrazione tossica anti-pacifista, mancano i saperi di oltre un secolo di efficaci lotte nonviolente e resistenze disarmate. Essi, anche in Ucraina, soprattutto nel primo periodo di invasione, sono stati praticati dalla popolazione civile, prima di essere superati e oscurati dal massiccio invio di armi.

Sono saperi che non sfuggivano, per esempio, ad Hannah Arendt che ne La banalità del male, faceva un appello (inascoltato) affinché la resistenza disarmata danese all’occupazione nazista fosse studiata in tutte le facoltà di scienze politiche «per dare un’idea della potenza enorme della nonviolenza, anche se l’avversario è violento e dispone di mezzi infinitamente superiori». La Danimarca, infatti, fu l’unico paese in Europa che, sotto l’occupazione nazista, venne risparmiato da stragi e rappresaglie, e nel quale furono salvati dalla deportazione quasi tutti i cittadini di origine ebraica.

Corpi civili di pace

I movimenti per la pace, da almeno trent’anni – dalla guerra nella ex Jugoslavia -, propongono ai governi, senza essere mai stati presi in considerazione, la costituzione dei Corpi civili europei di pace, e mettono in campo esperienze di interventi di mediazione internazionale di pace nati e gestiti dal basso.

Con un esperimento di storia controfattuale potremmo immaginare che cosa sarebbe potuto accadere se nelle regioni del Donbass, a partire dal 2014, invece di far arrivare armi e armati a entrambe le parti, fosse stato inviato un Corpo civile di pace internazionale per fare interposizione, mediazione, comunicazione, riconciliazione tra le comunità, secondo la proposta che già nel 1995 Alex Langer aveva avanzato al Parlamento europeo. Langer non fu ascoltato, e nemmeno i movimenti nonviolenti che hanno continuato a proporlo, a progettarlo e, qualche volta, anche a sperimentarlo.

(Photo by Andrea Ronchini, Ronchini / NurPhoto / NurPhoto via AFP)

Obiettori e disertori

Tra i saperi da recuperare e valorizzare, ci sono poi quelli dei disertori e obiettori di coscienza, sia alla guerra di Putin che alla difesa armata dell’Ucraina.

Il movimento degli obiettori di coscienza russi è in crescita: si stima che siano almeno 100mila, come spiega Elena Popova, coordinatrice del Movimento degli obiettori russi: «Sono tanti i giovani che non vogliono partecipare alla guerra, e quelli che sono stati obiettori di coscienza in passato stanno ora aiutando altri a diventare obiettori. Grazie alla loro esperienza, guidano amici e familiari in tutto ciò che è necessario fare per non prendere parte all’esercito».

Anche i pacifisti ucraini – incontrati dalla delegazione della carovana #Stopthewarnow lo scorso ottobre (cfr. MC dic 2022) – rifiutano la logica della guerra a oltranza e chiedono al proprio governo di impegnarsi nei negoziati di pace. Per gli uni e gli altri è attiva la campagna internazionale di protezione e asilo.

Ripudiare la guerra

Nella Costituzione italiana il «principio responsabilità» e i saperi elencati sopra non mancano. A essa i costituenti iniziarono a lavorare poco meno di un anno dopo le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki.

Per questo, nell’articolo 11, non sembrò abbastanza esplicito il verbo «rinunciare» della prima stesura, e scelsero il verbo «ripudiare», che contiene il disprezzo per ciò che si è conosciuto e si vuole allontanare per sempre.

Inoltre, non sembrò sufficiente ripudiare la guerra come «strumento di offesa alla libertà degli altri popoli», ma aggiunsero anche come «mezzo di risoluzione delle controverse internazionali», nella duplice consapevolezza che i conflitti non sono eliminabili e che non si possono risolvere con la guerra. Soprattutto nell’epoca atomica. Per questo bisogna trovare mezzi alternativi alla guerra per affrontarli.

A questo scopo, il secondo comma dell’articolo 11 – che «consente, in condizioni di parità con gli altri stati, alle limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni» e «promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo» – fa riferimento alle
Nazioni Unite che erano nate già nell’ottobre del 1945 per «liberare l’umanità dal flagello della guerra» attraverso la risoluzione delle «controversie internazionali con mezzi pacifici, in maniera che la pace, la sicurezza internazionale e la giustizia non siano messe in pericolo».

Un’altra difesa possibile

È alla luce di questi principi e saperi che le organizzazioni impegnate per la pace e il disarmo, riunite nel cartello Europe for Peace, hanno organizzato molte iniziative di mobilitazione dal basso: da quella del 5 marzo a quella del 23 luglio, dal 21-23 ottobre alla grande manifestazione del 5 novembre a Roma.

La richiesta ai governi, sempre più pressante, è di cessare il fuoco, indire una Conferenza internazionale di pace, sottoscrivere il Trattato Onu per la messa al bando delle armi nucleari.

Principi e proposte coerenti con la campagna «Un’altra difesa è possibile» che, in Italia, già per due legislature consecutive ha presentato in parlamento una proposta di legge organica per la creazione di una vera difesa civile, non armata e nonviolenta, secondo gli articoli 11 e 52 della Costituzione.

È necessaria una via d’uscita nonviolenta dalla crisi sistemica globale in corso, che è ecologica, climatica, idrica, energetica, alimentare, pandemica, e che genera continui conflitti per le risorse (circa 170, secondo l’università di Uppsala, Svezia). Oppure, con 13mila testate nucleari puntate sulle teste di tutti, non ne usciremo vivi.

Pasquale Pugliese*

* Filosofo di formazione, ha studiato il pensiero della nonviolenza. Per anni educatore in contesti complessi, oggi si occupa di politiche giovanili. Cura percorsi sulla nonviolenza, ed è formatore per il Servizio civile.
È impegnato nel Movimento Nonviolento e, fino al 2019, nella Segreteria nazionale. Fa parte della redazione di «Azione nonviolenta», rivista fondata nel 1964 da Aldo Capitini.
A Reggio Emilia ha contribuito a fondare e animare la Scuola di Pace.
Sul web, oltre ai suoi profili Facebook, Twitter e Instagram, cura un sito su nonviolenza e disarmo. Inoltre, oltre a collaborare con diverse testate, cura un blog personale sulla rivista vita.it.
Nel 2018 ha pubblicato il volume Introduzione alla filosofia della nonviolenza di Aldo Capitini. Elementi per la liberazione dalla violenza, i cui diritti d’autore vanno al Movimento Nonviolento, e nel 2021 Disarmare il virus della violenza. Annotazioni per una fuoriuscita nonviolenta dall’epoca della pandemia, entrambi editi da GoWare.




Una controstoria del Novecento in ottica nonviolenta


Si può parlare del secolo racchiuso tra il 1918 e il 2018 come di un secolo di pace? A Torino, un gruppo di studiosi crede di sì: mettendo insieme diverse esperienze di pace e giustizia dei decenni passati in tutto il mondo, ha dato corpo a una vera e propria controstoria. Non sono solo le guerre e il sangue sparso a indirizzare la storia dell’umanità, ma anche, e soprattutto, le azioni di pace, gli atti e le lotte nonviolente, di cui il Novecento è costellato.

«La nostra memoria è selettiva. Si perde nel tempo restituendoci del passato solo ciò che rafforza i nostri schemi mentali e le nostre convinzioni. Il problema della difesa si fonda in gran parte sull’esperienza che ci proviene dal passato. Se la nostra memoria collettiva non conserva che i fatti violenti, è evidente che le soluzioni che troveremo per l’oggi al problema della guerra non potranno che essere soluzioni militari. Al contrario, se recuperiamo dal passato le tracce di un’altra storia, di un’altra difesa, di una resistenza non militare che ha mostrato qua e là la sua efficacia nel corso dei secoli, allora il moderno discorso sulla difesa non potrà che essere radicalmente trasformato», scrive il ricercatore francese Jacques Semelin, e ciò sintetizza bene le motivazioni alla base del progetto di ricerca che da alcuni anni viene portato avanti da un gruppo di lavoro del Centro studi Sereno Regis: far emergere la storia nascosta dei tentativi di costruzione della pace nel secolo appena trascorso, provare a ricostruire qualche tassello significativo dei «Cento anni di pace», come abbiamo intitolato il progetto, dalla prima guerra mondiale a oggi, per aprire speranze di futuro.

Nonviolenza, scultura di Fredrik Reuterswa?rd, Malmö, Sweden. Una versione di questa si trova anche davanti al Palazzo di Vetro di Ny, sede dell’Onu.

Un secolo di pace?

Ma il Novecento non è stato il secolo più violento della storia umana?
Come possiamo dire che è stato un secolo di pace?
Ovviamente, non intendiamo solo le pause tra guerra e guerra, impregnate dei disastrosi effetti della guerra precedente e dei germi infetti della successiva.

Non intendiamo le «paci» che i vincitori impongono ai vinti, perché esse non sono paci, ma il risultato della guerra: l’imposizione con la violenza della propria volontà al più debole. La «pace d’imperio» (Raimond Aron, Norberto Bobbio) non è la pace che soddisfa il diritto umano universale alla vita giusta e libera.

Quando questa sembra ai popoli un buon risultato, è spesso un’illusione, perché la realtà dimostra che «la vittoria non conduce mai alla pace» (Raimon Panikkar). La vittoria italiana nel 1918 fu la «madre del fascismo», come vantava lo stesso regime. La vittoria su Hitler nel 1945 tolse tardivamente un male gravissimo, ma generò altri grandi mali come la Guerra Fredda, enormi diseguaglianze umane, e la minaccia atomica sull’umanità.

Semi di pace

Che cosa intendiamo allora dicendo «cento anni di pace»? Vogliamo mostrare che «in mezzo alla morte persiste la vita, in mezzo alla menzogna persiste la verità, in mezzo alle tenebre persiste la luce» (M. K. Gandhi). In mezzo all’inferno della guerra persistono sorgenti genuine di pace giusta. È sbagliato disperare e lasciare che la violenza sia vista come regina della storia.

La migliore delle paci è quella che si verifica non prima o dopo la guerra, ma invece della guerra. È la pace che si attua preventivamente con il gestire i conflitti senza violenza.

Un’altra pace è quella desiderata come un sollievo, nonostante i suoi limiti, dopo una guerra.

Altrettanto coraggiosa e ammirevole è l’azione di pace fatta durante la guerra, che pone le basi alternative e sostanziali per il superamento della logica distruttiva della guerra stessa.

Nel travagliato cammino umano ci sono semi di pace che attendono di essere visti, coltivati, curati. Non trionfano, ma promettono, perciò ci impegnano.

Cerchiamo queste azioni promettenti nel mezzo delle diverse violenze del Novecento. E le riconosciamo in ogni atto che limita la violenza e riduce le sofferenze, ma specialmente le vediamo nelle lotte nonviolente. Queste ultime sono «lotte» perché non sopportano le ingiustizie e vogliono attivamente liberarne le comunità umane, e sono «nonviolente» perché scelgono di non usare la violenza omicida e distruttiva, ma le forze umane del coraggio, dell’empatia, dell’unità, della resistenza, della disobbedienza civile, dell’organizzazione politica alternativa.

Coerenza tra mezzi e fini

Caratteristica fondamentale della nonviolenza è l’omogeneità tra mezzi e fini, secondo l’insegnamento e le esperienze di Gandhi: «I mezzi possono essere paragonati al seme, e il fine all’albero; tra i mezzi e il fine vi è lo stesso inviolabile rapporto che esiste tra il seme e l’albero».

La cittadinanza nonviolenta ha come principio fondamentale la «non collaborazione al male», che esige il coraggio della disobbedienza civile all’ordine ingiusto: una disobbedienza leale, dichiarata, solidale che è la prima arma nonviolenta. Infatti nessun potere politico, economico o militare può imporsi se il popolo non collabora.

Questi principi sono fondamentali per un’autentica democrazia, conquista storica del Novecento contro le dittature violente, preziosa e delicata: la democrazia, infatti, si corrompe in «dittatura della maggioranza» (Alexis de Toqueville), quando diritti e dignità delle minoranze non sono rispettati, ma anche quando sono rispettati solo all’interno, mentre verso l’esterno si attuano politiche di dominio e di guerra.

Il superamento delle violenze

Tra gli obiettivi principali della nonviolenza, oltre al superamento delle violenze fisiche, armate, oltre alla lotta contro le violenze strutturali ed economiche, c’è la lotta contro la violenza culturale, la più profonda e nascosta, causa e giustificazione delle altre, la quale si manifesta spesso nella rassegnazione di fronte a ingiustizie e disuguaglianze.

Per superare la violenza occorre smettere di dare per scontato che la società sia per natura fatta di forti e deboli, di primi e ultimi, di affermati e scartati, in competizione individuale e nell’indifferenza verso il bene comune.

Proteggere la casa comune

Pacifisti e nonviolenti da sempre hanno manifestato contro i test nucleari e gli armamenti atomici, a difesa della sopravvivenza umana. Nello stesso tempo, altri movimenti hanno dato vita alle lotte per i diritti animali, per la protezione delle foreste, o contro i crescenti casi di inquinamento causati dalle attività industriali. Tuttavia, la percezione di «essere in guerra contro l’ambiente» è nata, nel pensiero occidentale, molto tardivamente. La parola «ecocidio» è recente: altre comunità da sempre riconoscono in Gaia, Madre Terra, la fonte di vita e la casa comune che ospita tutti i viventi.

Negli ultimi decenni un aumento drammatico di conflitti ha visto contrapporsi i detentori del potere economico/finanziario contro vaste comunità di contadini, pescatori, popoli indigeni, ma anche comunità locali dei paesi «sviluppati». In questi conflitti, gruppi sociali, associazioni, movimenti che condividono strategie e obiettivi nonviolenti organizzano proteste, marce, iniziative che – grazie alle crescenti reti di comunicazione – stanno assumendo dimensioni globali, e propongono nuove modalità di relazione con i sistemi naturali che ci ospitano.

Masanobu Fukuoka è stato un botanico e filosofo giapponese, pioniere di un metodo nonviolento di trattare il terreno agricolo.

Due casi esemplari

A titolo esemplificativo citiamo due esempi concreti di costruzione della pace dal basso.

Il primo è l’opera di mediazione svolta dalla comunità di Sant’Egidio in Mozambico, come testimonia Roberto Zuccolini, suo portavoce: «Il 4 ottobre 1992, festa di S. Francesco, a Roma, il presidente mozambicano e segretario del Frelimo, Joaquim Chissano e Afonso Dhlakama (scomparso di recente), leader della Renamo, la guerriglia che lottava contro il governo di Maputo, firmavano un Accordo generale di pace che metteva fine a 17 anni di guerra civile (centinaia di migliaia di morti; 3-4 milioni di sfollati interni e profughi nei paesi confinanti).

La firma concludeva un lungo processo negoziale, durato un anno e qualche mese, portato avanti nella sede della comunità di Sant’Egidio. Lì, a Trastevere, alcuni membri della comunità (il fondatore, Andrea Riccardi, e un prete, Matteo Zuppi, oggi arcivescovo di Bologna), un vescovo mozambicano (Jaime Gonçalves, ordinario di Beira) e un “facilitatore” espressione del governo italiano (Mario Raffaelli), avevano pazientemente tessuto un dialogo tra chi si combatteva in nome dell’ideologia e del potere. Avevano imbastito un quadro negoziale all’insegna dell’unità del popolo mozambicano, alla ricerca di ciò che unisce e non di ciò che divide.

Con l’Accordo generale di pace si stabiliva la consegna delle armi della guerriglia alle forze dell’Onu, l’integrazione degli ex combattenti nell’esercito regolare, le procedure di sminamento e di pacificazione delle zone rurali, una serie di passi destinati a trasformare il confronto armato tra le parti in una competizione fondata sulle regole costituzionali e democratiche. Le elezioni del 1994, le prime veramente libere nell’ex colonia portoghese, avrebbero sancito il successo dell’intero percorso negoziale e consegnato il Mozambico a una stagione nuova, fatta innanzitutto di pace».

Un altro caso esemplare è l’esperienza di Lucha nella Repubblica democratica del Congo. Dopo la morte di Lumumba, primo presidente dopo l’indipendenza, democraticamente eletto ma subito assassinato, e la lunga dittatura di Mobutu, il paese è nel caos, con milioni di morti, disastro economico e miseria nonostante la ricchezza di risorse.

Alcuni giovani, stanchi della violenza e dell’ingiustizia, attivano un movimento di intervento su problemi concreti e quotidiani, come, ad esempio, l’approvvigionamento dell’acqua. In poco tempo il movimento cresce e nel 2013 prende il nome di Lucha, abbreviazione di Lutte pour le Changement. Il logo del movimento è semplice: una freccia, e le sue iniziative sono comunicate tramite immagini e messaggi chiari e diretti, per coinvolgere tutti, nella convinzione che ognuno può fare qualcosa.

Il punto comune di tutte le azioni di Lucha è la nonviolenza, che richiede più tempo e pazienza della violenza, ma alla fine è più efficace, perché la guerra ha fallito.

«Coloro che accettano di morire nei gruppi armati», sta scritto in uno dei «fumetti» di Lucha, «non sono idioti o manipolati; qualcuno è riuscito a convincerli che stavano facendo qualcosa di bene per il loro paese, ma per noi la nonviolenza è il solo modo di difendere la propria causa rispettando la dignità delle persone». Una figura mostra persone che si tengono per mano, sedute in cerchio per terra, resistendo ai soldati armati.

Un obiettivo formativo per le nuove generazioni

La storia è memoria collettiva formata e narrata in modo da avere un significato. Nel fare storia si mette in atto un vitale rapporto passato-presente. Per questo è importante porsi il problema di come leggere il passato, perché da esso si possano trarre efficaci spunti di riflessione per il vivere civile della realtà odierna.

Due in particolare sembrano le concezioni che la storia contemporanea ha posto radicalmente in crisi: innanzitutto l’idea di progresso-sviluppo così come si è affermata nella storia dell’Occidente dall’età moderna a tutto il Novecento. Questo modello lineare e meccanicistico oggi rivela tutti i suoi limiti nelle conseguenze sociali e ambientali disastrose che ha prodotto. In secondo luogo appare in crisi l’idea di guerra-difesa come si è affermata dalla Rivoluzione francese in poi. L’armamento atomico sintetizza emblematicamente entrambi gli aspetti: è uno dei più importanti frutti del progresso-sviluppo raggiunto – nell’accezione principale che il termine ha nella cultura occidentale, cioè di progresso scientifico tecnologico -, ed è il più potente mezzo di guerra o, meglio, di dissuasione, cioè di quella forma assunta nella guerra fredda dai modelli di difesa. Alla luce di tali considerazioni, rendere visibile una contronarrazione di quanto è stato fatto per costruire percorsi di pace, affinché diventi parte integrante del bagaglio collettivo della società di oggi e del futuro, diventa un obiettivo importante da perseguire: per ridare speranza e fiducia alle nuove generazioni.

Se il XX secolo è stato infatti il secolo dei campi di sterminio, della bomba atomica, dell’allarme ambientale, del malsviluppo, è stato anche l’età di Gandhi, di Martin Luther King e delle rivoluzioni nonviolente in diverse parti del mondo.

La strategia nonviolenta di trasformazione dei conflitti appare oggi l’unica via razionale per risolvere le controversie, l’unica strada compatibile con la sopravvivenza dell’umanità.

Se dunque la storia è interpellata dai problemi del presente e se ogni storiografia è un particolare sguardo sul passato alla luce di essi, l’assunzione di un’ottica nonviolenta nella storia può avere oggi un grande significato e una forte rilevanza teorica e politica.

Angela Dogliotti
con
Dario Cambiano, Elena Camino, Paolo Candelari, Enrico Peyretti

 


La mostra «100 anni di pace»

Nel XX secolo si è manifestata la violenza delle due guerre mondiali, dei genocidi e delle distruzioni di massa, ma anche la novità della nonviolenza come dottrina politica che si è tradotta in nuove modalità di lotta e di liberazione.

La storia umana che dalle elementari all’università viene raccontata come un susseguirsi di guerre, si è costruita anche nei tempi di pace. Il progresso civile, le conquiste sociali e ambientali, i diritti, le Costituzioni, sono opera della lenta e tenace cooperazione tra le persone, non l’esito di conflitti violenti.

La mostra «100 anni di pace»

La mostra presenta in tre sezioni alcune delle tante realtà di nonviolenza attiva che hanno segnato l’ultimo secolo.

1 – No alla guerra: superare l’idea di nemico. La pace dentro la guerra, la resistenza contro la guerra e la resistenza civile. I movimenti e le azioni nonviolente contro il militarismo e per l’obiezione di coscienza, i movimenti antinucleari. L’alternativa nonviolenta alla guerra: un’altra difesa è possibile.

2 – «Satyagraha»: la forza della nonviolenza per costruire giustizia. La resistenza nonviolenta contro il colonialismo. I movimenti per i diritti civili e la giustizia economica e sociale. La resistenza nonviolenta contro occupazioni, dittature e totalitarismi.

3 – Gaia, la nostra casa comune: fare la pace con la natura. La resistenza contro le violenze verso i socio-eco-sistemi. Dall’ecocidio all’inclusione.

Tempi e modi per visitarla

Dal 4 al 30 novembre presso il Centro studi Sereno Regis, Via Garibaldi 13, Torino, con ingresso gratuito.

Visite libere al pubblico al pomeriggio (in orario preserale da confermare).
Per le scuole, al mattino con due turni: 8.30-11.00 e 11.00-13,30.

Per info e iscrizioni alla visita guidata, inviare una mail a
prenotazioniclassi@100annidipace.org

indicando nome e cognome del/la docente, mail e, possibilmente, un recapito telefonico, scuola, classi e materie di insegnamento.

www.100annidipace.org/


Il Centro studi Sereno Regis

Il Cssr è una Onlus che promuove ricerca, educazione e azioni sui temi della partecipazione politica, della difesa popolare nonviolenta, dell’educazione alla pace e all’interculturalità, della trasformazione nonviolenta dei conflitti, dei modelli di sviluppo, delle energie rinnovabili e dell’ecologia.

Costituito nel 1982 su iniziativa del Movimento internazionale della riconciliazione e del Movimento nonviolento, dopo la prematura scomparsa di Domenico Sereno Regis, uno dei fondatori, nel gennaio 1984, il Centro fu intitolato alla sua memoria.

Il Cssr promuove iniziative culturali e ricerche in collaborazione con alcuni dei più significativi centri di ricerca per la pace nel mondo, ad esempio la Rete Trascend, fondata da Johan Galtung per la trasformazione dei conflitti su scala locale e internazionale.

Il Centro studi è una struttura aperta alla collaborazione con altre associazioni e realizza le sue attività grazie al concorso dei soci, dei collaboratori, di giovani in servizio civile, volontari, e grazie al contributo di privati, di enti locali e fondazioni.

Per Info: http://serenoregis.org/

Centro studi Sereno Regis, via Garibaldi, 13 – Torino
Mail: info@serenoregis.org – Tel. +39 011532824