Ecuador. I narcos all’attacco di Quito

Diana Salazar Méndez, afrodiscendente di 43 anni, è la procuratrice generale (fiscal general, in spagnolo) dell’Ecuador, posizione delicatissima in un paese attraversato da una guerra interna scatenata dagli eserciti dei narcos. L’ultimo assassinato in ordine di tempo è stato César Suárez, magistrato specializzato in corruzione e crimine organizzato, ucciso in un agguato a Guayaquil lo scorso 17 gennaio. Suárez era anche il responsabile del processo contro le 13 persone che, il 9 gennaio, avevano assaltato gli studi dell’emittente TC Televisión.

Subito dopo quell’evento, Daniel Noboa, il giovane presidente del paese andino eletto da pochi mesi, aveva dichiarato lo stato d’emergenza interno. Il presidente accusa gruppi di narcoterroristi collegati a cartelli della droga stranieri. Secondo Noboa, gli affiliati sarebbero almeno 30mila e molti di essi continuerebbero a operare anche dall’interno delle carceri ecuadoriane, finite nelle mani dei criminali.

Fino a pochi anni fa l’Ecuador era un paese tranquillo, senza la violenza che caratterizza praticamente tutti i paesi latinoamericani. La situazione è cambiata da quando esso è diventato una specie di corridoio della droga (cocaina, in primis) prodotta nei paesi confinanti, Colombia e Perù.

Nel paese agiscono una quindicina di gruppi criminali. I principali sono due: «los Choneros» con una disponibilità di 12mila-20mila uomini e «los Lobos», con circa 8mila. Reclutare personale non è difficile considerando la presenza di grandi sacche di povertà e la debolezza di uno stato corrotto e senza risorse.

I soggetti e la rete del commercio internazionale della droga sono cambiati radicalmente dopo la smobilitazione delle Farc colombiane, avvenuta a partire dal 2016. I gruppi ecuadoriani sarebbero legati ai cartelli messicani (Sinaloa, in primis) e a quelli balcanici (albanesi, in particolare). Tuttavia, scrive Primicias, un rispettato sito giornalistico ecuadoriano, «le prove esistenti sull’infiltrazione della criminalità organizzata nella Polizia nazionale, nelle Forze armate, nella magistratura o nella Procura ci portano inevitabilmente a dire che è difficile credere che i criminali siano arrivati lì senza il sostegno e l’intermediazione di coloro che hanno influenza politica nel paese». Di questi legami tra gang criminali e istituzioni pubbliche aveva parlato anche Fernando Villavicencio, il candidato presidenziale assassinato nell’agosto 2023.

Per Daniel Noboa, il più giovane presidente dell’America Latina, la gioia per la vittoria elettorale è durata poco. Oggi il paese attraversa una crisi molto complicata.

Oggi molti si chiedono se, per fronteggiare la gravissima situazione, il presidente Noboa finirà con l’adottare misure estreme (la cosiddetta «mano dura») come quelle adottate da Nayib Armando Bukele, il presidente di El Salvador. Infine, la situazione in Ecuador solleva l’eterno dubbio sull’efficacia del proibizionismo nella guerra alle droghe, la cui produzione – stando all’ultimo rapporto Unodc (United nations office on drugs and crime) – è in continua crescita.

Paolo Moiola




Messico. Per un nome, un volto, una storia


Da anni i buscadores attraversano il Messico in cerca di figli e familiari desaparecidos andando a scavare nelle fosse comuni in cui sono stati gettati da narcos, poliziotti corrotti o semplici delinquenti. Quest’anno la búsqueda (ricerca) ha avuto una dimensione internazionale. Vi ha partecipato anche Ugo Zamburru, psichiatra torinese.

«Tremi lo stato, il cielo, le strade/ Tremino i giudici e la magistratura/ A noi donne oggi tolgono la calma/ Hanno seminato paura, ci sono cresciute ali».

Cantano con dolcezza e determinazione, mentre si preparano per la giornata di ricerca. Sono madri, sorelle, padri che non si rassegnano e da anni attraversano il Messico in cerca dei familiari desaparecidos. Secondo il Prodh (Centro de derechos humanos Miguel Agustín Pro Juárez A.C, fondato dai gesuiti), il Messico sta per raggiungere le 100mila persone scomparse, con oltre 50mila corpi e resti non identificati negli obitori. «Ma i dati ufficiosi parlano addirittura di 200mila desaparecidos, tra messicani e migranti stranieri», dice Ugo Zamburru, psichiatra torinese che ha preso parte alla prima Brigada internacional de búsqueda, svoltasi dal 16 febbraio al 4 marzo negli stati settentrionali di Sonora e Baja California.

«La novità di questa búsqueda (ricerca) è che hanno partecipato familiari e volontari provenienti da tutto il Centroamerica, dal Canada, e il sottoscritto in rappresentanza di una cordata europea – Carovane migranti, Abriendo fronteras, LasciateCIEntrare e la basca Ongi Etorri – continua Zamburru -. Ma soprattutto è stata la prima volta che, oltre alla búsqueda en campo, cioè la ricerca collettiva dei cadaveri gettati nelle fosse comuni, si è realizzata una búsqueda en vida, per ritrovare alcune delle persone scomparse ancora vive».

I buscadores viaggiano su un bus messo a disposizione dalle autorità locali. Foto Ugo Zamburru.

Madri in prima linea

Mappa con gli stati messicani di Sonora e Baja California dove si è svolta la Prima Brigada internacional de búsqueda.

Come in Cile, con l’Associazione delle famiglie dei detenuti scomparsi, e in Argentina, con le madri e le nonne di Plaza de Mayo, le protagoniste delle búsquedas in Messico sono all’80 per cento donne, soprattutto madri in cerca dei figli o delle figlie vittime di sparizioni forzate.

La violenza e le desapariciones in Messico si sono intensificate dalla fine degli anni ‘90 quando, in un paese già egemonizzato dai cartelli della droga, si sono inseriti Los Zetas: soldati scelti dell’esercito nazionale addestrati in Usa e Israele che hanno creato un’organizzazione criminale tra le più spietate e ramificate, «specializzata» nel narcotraffico, nei rapimenti a scopo d’estorsione, nella prostituzione (anche minorile) e in altre attività illecite in tutto il Centroamerica.

Malgrado i tentativi del governo di reagire (come la «guerra alla droga» avviata nel 2006 da Felipe Calderón), negli ultimi vent’anni si è assistito a un crescendo di omicidi, torture e sparizioni. «Molti messicani sono gente onesta, ma c’è una parte significativa di funzionari e poliziotti corrotti, attratti da facili guadagni o spinti dalla paura – spiega Zamburru -. Non di rado delitti e desapariciones sono opera loro».

Com’è stato per il figlio di Cecilia Delgado Grijalva, una delle partecipanti alla Brigada internacional: la sera del 2 dicembre 2018, mentre stava chiudendo il suo negozio a Hermosillo, Jesús Ramón Martínez Delgado, allora trentaquattrenne, è stato caricato su un furgone bianco della polizia di stato e da allora è svanito nel nulla. «Ho subito fatto denuncia al pubblico ministero, ma per due anni nessuno ha indagato; malgrado la telecamera di sorveglianza e i testimoni, hanno sempre negato l’esistenza della pattuglia 073, responsabile del sequestro (in seguito rintracciata e fotografata da Cecilia stessa, nda)», racconta lei, che da allora ha percorso tutto il Messico in cerca del figlio. «Ho perlustrato ospedali, obitori, prigioni, centri d’accoglienza, ho cercato tra la gente di strada, sotto i ponti e nelle discariche, sono entrata nei rifugi dei drogati, mi sono unita ad altre donne che scavavano in cerca dei cadaveri».

E scavando con le sue mani, il 25 novembre 2020, Cecilia ha trovato i resti di Jesús nel quartiere di Altares. «Non ho dovuto aspettare il test del dna, ero certa che si trattasse di lui per l’apparecchio ai denti e perché sul cranio aveva ancora i capelli, i suoi capelli castani con quei ricci che non gli piacevano e che copriva di gel». Jesús Delgado ha lasciato tre figli, la più piccola oggi ha 5 anni. «È lei che soffre di più, piange e mi domanda perché ci ho messo così tanto a ritrovare il suo papà».

Come Cecilia, molte altre madri continuano a partecipare alle búsquedas durante tutto l’anno, pur avendo già ritrovato i propri cari o quel che ne resta. «Finché si va in cerca dei familiari, si riesce a dare un senso alla propria vita perché c’è la speranza di ritrovarli, vivi o morti, pur di non restare nell’incertezza, che è devastante (vedi box). Una volta raggiunto questo obiettivo, allora la missione diventa aiutare le altre donne – spiega Zamburru -. È un meccanismo psicologico di sublimazione per cui si investe in qualcosa di superiore: lo spirito del gruppo, che crea appartenenza, spezza la solitudine e permette di condividere dolore, rabbia e impotenza».

La madre di una scomparsa mostra un cartello con foto e dati della figlia durante una manifestazione a Guadalajara, il 10 maggio 2022; alle sue spalle, decine di manifesti di scomparse e scomparsi. Foto Ulises Ruiz – AFP.

Resti umani e Dna

«Cantiamo senza paura, chiediamo giustizia/ Gridiamo per ogni scomparsa/ Che risuoni forte: Ci vogliamo vive!».

L’inno della cantautrice Vivir Quintana contro i femminicidi echeggia nello scuolabus giallo messo a disposizione dei búscadores dalle autorità di Hermosillo, la capitale di Sonora: uno degli stati con il maggior numero di segnalazioni di scomparsi, oltre 600 l’anno. Inghiottiti dal deserto, 300mila km² (vale a dire quasi quanto l’Italia) dove bastano cinque minuti per perdere l’orientamento, dov’è facile venire aggrediti da criminali o animali pericolosi, oppure morire di sete e stenti mentre si viaggia verso Nord, verso la frontiera con gli Stati Uniti.

In questi territori inospitali «le búsquedas – organizzate di concerto dalle associazioni dei familiari e dalle istituzioni pubbliche – si svolgono con la scorta di polizia, esercito, protezione civile, Comisión nacional de búsqueda ecc., per il rischio sempre incombente di venire assaliti dai narcos e da delinquenti comuni», racconta Zamburru. Già molti genitori sono stati uccisi per aver cercato i propri figli, ma «quando ti tolgono un figlio, non hai più paura di niente», dice Cecilia Delgado. «Le nostre armi sono la pala, il piccone e la varilla».

Quest’ultima è un’asta di metallo appuntita a forma di «T», che si conficca nel terreno per poi annusarne l’estremità: se emana cattivo odore è un «buon» segno, lì sotto potrebbero trovarsi dei cadaveri. A quel punto l’area viene transennata e iniziano gli scavi, fino a un metro e mezzo di profondità. Nel deserto si usano le pale, mentre nelle zone collinari, dove il suolo è più duro (e dove i narcos costringono le vittime a scavarsi la propria fossa), si utilizza il piccone e a volte la scavatrice.

Spesso i buscadores scavano in punti segnalati da telefonate anonime, talvolta attendibili ma più spesso dovute a depistaggi o tentativi di estorcere denaro. Quando vengono individuati resti umani – membra, parti dello scheletro, oppure resti carbonizzati o sciolti nella soda caustica – l’antropologo forense effettua una serie di verifiche, mentre le madri si fanno prelevare il dna, che viene registrato nella banca dati della Comision nacional de derechos humanos.

«Sono rimasto colpito dall’euforia con cui le madri accolgono il ritrovamento dei resti. Sotto il sole a picco, a quasi 50 gradi, io sentivo la fatica, mentre quelle donne esili, provate da anni di sofferenze, continuavano a scavare per giorni, energiche e instancabili», racconta Zamburru.

«L’amore che abbiamo per i nostri figli è più forte del clima, della fame o della paura», dice Charlín Unger, 62 anni, alla ricerca del figlio Carlos Antonio rapito nel 2019 da un commando armato. «I “pezzi” che riusciamo a trovare sono i nostri cari, i nostri tesori preziosi, da trattare con cura e con amore per restituire loro umanità, per dare loro un nome, un volto, una storia».

Gli antropologi forensi effettuano rilievi in un’area in cui sono stati individuati resti umani. Foto Ugo Zamburru.

La polizia messicana

Charlín Unger è cofondatrice insieme a Cecilia Delgado delle Búscadoras por la paz, uno degli oltre settanta collettivi di familiari nati per reazione all’inerzia dello Stato, incapace di garantire la sicurezza dei cittadini e il diritto alla verità e alla giustizia. Sebbene dal 2013 sia stata promulgata in Messico la Ley general de víctimas [vedi box] per contrastare le sparizioni forzate. Tuttavia, le vittime di questi reati sono in continuo aumento e il 99% delle desapariciones rimane impunito.

Come nel caso di Juan Hernández, agente scelto della polizia federale, «prelevato» dal suo albergo nel Nuevo León nel 2011, all’età di 22 anni. La «colpa» di Juan è stata respingere un tentativo di corruzione da parte di un suo superiore in combutta con Los Zetas. «La polizia, senza indagare, voleva che firmassi subito la presunzione di morte, ed è iniziata la tortura delle menzogne, per impedirmi di cercare. Mi hanno anche mostrato un video in cui alcuni criminali tagliavano la gola a quattro poliziotti», racconta la madre di Juan, Patricia Manzanares Ochoa. «In più, quando sparisce un poliziotto federale, non si fanno denunce di scomparsa. La polizia si limita a un verbale interno e, dopo tre giorni, archivia il caso come “abbandono del lavoro”».

Così la donna ha dovuto rimboccarsi le maniche e fare ciò che sarebbe toccato alle autorità, cercare Juan. «All’inizio credi che il governo compia il proprio dovere. Ma non fanno che trascrivere pezzi di carta, non s’impegnano mai in una vera ricerca, così si perde tempo prezioso, sembra quasi lo facciano apposta per far sparire le prove», dice Patricia. «Ho dovuto documentarmi e acquisire conoscenze che non avevo. Se avessi saputo tutto quel che so adesso, avrei trovato mio figlio. Ma noi familiari non siamo avvocati né antropologi, non sappiamo nulla di diritto». In occasione delle búsquedas «le autorità ci accolgono, assistono agli scavi, ma siamo noi che dovremmo osservarli mentre fanno il loro mestiere. Abbiamo uno stato fallito, che viola i nostri diritti».

Parole amare, confermate dai numeri: a fronte di decine di migliaia di desapariciones, in questi anni sono state emesse appena una quindicina di condanne. In aggiunta, le persone scomparse e le loro famiglie vengono ulteriormente vittimizzate. «Succede spesso che si sparga la voce secondo cui, se sono stati uccisi, è perché erano coinvolti in qualcosa di losco, traffico di droga o altro – dice Cecilia Delgado -, ma è una menzogna, io stessa conosco decine e decine di vittime totalmente innocenti: uomini, donne, giovani e anche bambini». Sono 7mila oggi i minori desaparecidos in Messico, quasi tutti vittime di violenze e omicidi (Registro nacional de datos de personas extraviadas o desaparecidas).

Antropologi forensi al lavoro in una zona di scavo. Foto Ugo Zamburru.

la ricerca in ricoveri, discariche, carceri

«Suo figlio si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato», ha concluso la Procura della Repubblica a più di dieci anni dalla scomparsa di Oscar Javier Muñoz Cortés, studente universitario di 21 anni. Il giorno prima di sparire, nel novembre 2008, Oscar aveva difeso una ragazza che stava subendo molestie per strada. L’indomani un poliziotto municipale di Pachuca fu visto mentre lo consegnava a un gruppo armato, che lo prese a botte e lo caricò su un furgone. Il padre, anche lui di nome Oscar Javier, non ha ottenuto nulla di concreto dalle autorità statali né da quelle federali: «Dopo più di dieci anni, hanno anche preso a pretesto la pandemia per bloccare le indagini. Alla fine, sono stati individuati due colpevoli del sequestro, uno è stato scagionato grazie alla madre avvocato e l’altro liberato per presunti motivi di salute».

Oscar è tra i più attivi nella búsqueda en vida che si snoda tra i centri urbani e rurali, distribuendo e affiggendo i volantini con la foto a colori del figlio, la sua descrizione e il numero di telefono se qualcuno avesse notizie. Insieme a lui, le madri e gli altri búscadores cantano, tappezzano muri, pali della luce e alberi con i ciclostilati, fermano e interrogano ogni persona, ripetono la loro storia alla stampa, alla tv locale, alle Ong, a chiunque possa aprire un varco verso la verità. «A noi europei questo modo di procedere un po’ naïf può sembrare una follia – dice Zamburru -, ma è una maniera per non rassegnarsi: alla perdita dei propri cari, alla violenza, al senso d’impotenza che può sottomettere e abbattere».

Una capacità di resistenza che anima il convoglio dei búscadores mentre attraversano i vari punti nevralgici: dal ricovero per migranti Giovanni Bosco di Nogales alla discarica di Puerto Peñasco, dal carcere di Mexicali al Centro per le dipendenze di Rosarito… mai stanchi di domandare, di cercare nel volto di tanti disgraziati tracce di somiglianza con un marito scomparso, con una figlia o una sorella perdute. «In ogni incontro scattano anche dinamiche di solidarietà: le madri spesso portano cibo e abiti ai migranti affamati, ai recicladores delle discariche, a chi vive negli anfratti ai bordi delle autostrade – racconta Zamburru -. È terribile pensare a queste donne, con i figli scomparsi per politiche criminali, e ai tanti infelici abbandonati qui a causa di un sistema economico altrettanto criminale, costretti a lasciare paesi invivibili per la violenza e finiti a vivere nel nulla».

Migliaia di persone in attesa di valicare il confine con gli Usa o deportados che, una volta arrivati nel «paese pavimentato d’oro», sono stati rispediti indietro e ora vivono in strada perché si vergognano di tornare a casa, o perché sono diventati tossici o alcolisti.

Scarpe, pantaloni e uno scheletro umano. Foto Ugo Zamburru.

Una fede incrollabile

Durante la búsqueda internacional sono stati ritrovati 29 desaparecidos morti e 4 in vita, e si sono individuate alcune piste su cui la Comisión nacional de búsqueda sta proseguendo le indagini. Ma le búscadoras e i buscadores non si fermano, vanno avanti nelle loro ricerche per tutto l’anno. «Per fare una vita così, occorrono un coraggio e una fede incredibili. Sono quasi tutti molto religiosi, hanno una grande fede in Dio e fiducia di ritrovare i loro cari malgrado siano passati anni», dice Zamburru. «Ogni mattina, prima di mettersi all’opera, si riuniscono per pregare insieme. Una volta ho domandato come facecessero a credere ancora in Dio, e una madre mi ha risposto che se lei, povera donna ignorante, era lì a impegnarsi insieme a tutti gli altri, doveva per forza esserci un senso».

«A Dio chiedo di darmi la forza per continuare a cercare, perché l’incertezza ti consuma dentro e non ti restano che la tua fede e la speranza, da non perdere mai», dice Patricia Manzanares. «A Lui chiedo soltanto di non lasciarmi morire senza aver prima conosciuto la verità su quanto è successo a mio figlio».

Stefania Garini

Una buscadora con la varilla, l’asta a forma di «T» per sondare il terreno. Foto Ugo Zamburru.

Buone leggi, cattive prassi

Negli ultimi anni, le istituzioni pubbliche messicane hanno tentato di reagire alla violenza e alle sparizioni forzate mediante una serie di misure a sostegno delle vittime e dei loro parenti. Lo stato di Baja California ad esempio, secondo le parole del segretario generale di governo Amador Rodríguez Lozano, si è impegnato nello stanziamento di un «Fondo per la riparazione globale dei danni» con un budget di circa 4 milioni di pesos (circa 186mila euro).

A livello federale, dal 2013 la Ley general de víctimas garantisce la tutela delle vittime con riferimenti circostanziati al rispetto della loro dignità, alla salvaguardia del benessere fisico e psicologico, alle condizioni di sicurezza, al sostegno economico e occupazionale, ecc., sottolineando il diritto fondamentale a ricevere «assistenza, protezione, attenzione, verità, giustizia, riparazione integrale (individuale, collettiva, materiale, morale e simbolica)».

La legge prevede anche un sussidio per i familiari – messicani e stranieri – costretti ad abbandonare casa e lavoro per dedicarsi a tempo pieno alla ricerca dei desaparecidos. «Un’ottima norma, che però rimane spesso lettera morta», spiega Ugo Zamburru del collettivo Carovane migranti.

Durante la Brigada internacional de búsqueda, insieme ad Ana Gricelides Enamorado, madre e attivista del Movimiento migrante mesoamericano, ha accompagnato alla procura della repubblica di Città del Messico una donna salvadoregna, Silvia Artiga Castaneda, che anni prima aveva denunciato la scomparsa del figlio. «All’epoca Silvia era convinta di aver fatto tutto il necessario, ma abbiamo scoperto che la procura non aveva neppure aperto il fascicolo d’inchiesta. Ufficialmente quel caso di desaparición non esisteva. Quindi, oltre a non fare nulla per cercare il ragazzo, non le avevano riconosciuto alcun sostegno economico».

Attraverso l’intervento di Ana Enamorado e del Movimiento migrante mesoamericano, impegnato nella ricerca dei desaparecidos, nella lotta contro le reti di violenza e le politiche di oppressione dei migranti, e nella capacitación (empowerment) dei familiari, «dopo lunghe trattative e la minaccia di far intervenire un avvocato, si è ottenuto che a Silvia venisse pagato il viaggio e fornito il visto, e si sono attivate le ambasciate di Messico ed El Salvador per occuparsi del caso. Malgrado ciò che le leggi prescrivono, la strada per il rispetto dei diritti resta lunga e difficoltosa».

S.Ga.

Su YouTube

Videopillole della I Brigada internacional de búsqueda di Ugo Zamburru sono disponibili sul canale YouTube di Carovane Migranti: htpps://bit.ly/35dphCg

Scarpe e ossa umane emerse dallo scavo. Foto Ugo Zamburru.

Il lutto impossibile

«Ogni giorno non faccio che pensare a dove possa trovarsi mio figlio, se mangia, se lo picchiano, se è vivo o morto. Voglio trovarlo, ma non voglio trovarlo». Patricia Manzanares Ochoa esprime così quella costante e tormentosa ambiguità che colpisce tutti i buscadores: in bilico tra la volontà di ritrovare le spoglie dei propri cari, uscendo dall’incertezza, e il desiderio di non trovarli per serbare la speranza che siano ancora vivi. Un vortice di pensieri e sentimenti contrastanti tipico di ogni «perdita ambigua», come l’ha definita la psicoterapeuta Pauline Boss negli anni ’70 in riferimento ai familiari dei soldati dispersi in Vietnam. Nella perdita ambigua, l’indeterminatezza della situazione accresce il dolore e ostacola la normale elaborazione del lutto, con possibili esiti patologici (senso d’impotenza, depressione, ansia, conflitti relazionali). Diventano quindi fondamentali la ricerca di significato e la speranza, per sviluppare un approccio costruttivo alla vita e darsi obiettivi realistici.

In questi casi la certezza della morte risulta più accettabile del dubbio continuo. Il riconoscimento ufficiale e i riti collettivi che l’accompagnano possono essere di grande aiuto. Come dice Cecilia Delgado Grijalva, «quando ho ritrovato mio figlio ho provato un dolore straziante; ma sapere che è morto, mettere fine all’incertezza e offrirgli finalmente una cerimonia funebre, in un certo senso ha mitigato le mie sofferenze. Tutte le famiglie e le mamme dovrebbero avere la possibilità di compiere questi gesti di cura postuma, perciò non mi stanco di aiutare gli altri nella loro ricerca».

S.Ga.

Lo psichiatra torinese Ugo Zamburru con Oscar J.M. Cortés (in maglietta bianca), il cui figlio è sparito nel 2008 (due dei rapitori sono stati identificati, ma restano a piede libero).




Messico, la corruzione, madre di tutti i mali


Con 30mila omicidi all’anno e oltre 53 milioni di poveri, con ampie zone del paese nelle mani dei narcos e i difficili rapporti con l’imprevedibile Donald Trump, il compito che attende il neopresidente Andrés Manuel López Obrador (Amlo) è titanico. Paolo
Pagliai, rettore dell’Università «Alta Escuela para la Justicia», individua però il principale problema messicano nella corruzione che nega i diritti fondamentali delle persone trasformandoli in «favori».


Testo di Paolo Moiola


Dal primo dicembre Andrés Manuel López Obrador detto Amlo, è il nuovo presidente del Messico. Amlo, 64 anni, era stato sconfitto nelle presidenziali del 2006 e del 2012, queste ultime molto contestate. Al terzo tentativo, lo scorso 1 luglio, ha ottenuto oltre 30 milioni di voti, pari al 53,19 per cento del totale, più del doppio del secondo arrivato, Ricardo Anaya del Partido Acción Nacional (Partito d’azione nazionale, Pan). Il neopresidente ha vinto guidando Juntos Haremos Historia (Uniti faremo la storia), una coalizione tra due partiti di sinistra (il Partido del Trabajo e il Movimiento Regeneratión Nacional, Morena) e un piccolo partito di centrodestra (il Partido Encuentro Social), dissoltosi dopo le elezioni.

Di Obrador e dei problemi del paese abbiamo parlato con Paolo Pagliai, italiano cinquantenne, sposato con una messicana, da vent’anni a Città del Messico. Dottorato in pedagogia presso la Universidad Nacional Autónoma de México (Unam), già preside della Facoltà di lettere e filosofia presso l’Università del Claustro di Sor Juana, Paolo Pagliai è attualmente rettore di un’università con un nome impegnativo, Alta Escuela para la Justicia. Esperto e appassionato di memoria storica, diritti umani e pace, il professor Pagliai è la persona giusta per parlare di un paese che, pur essendo l’undicesima economia del mondo, è però gravato da problemi giganteschi con intere regioni nelle mani dei narcos (narcotrafficanti), oltre 53 milioni di poveri e una violenza da guerra civile (29.168 omicidi nel 2017).

Andres Manuel Lopez Obrador (© PCU)

Perché Amlo è la speranza

Professor Pagliai, ci sono tre aggettivi con cui lei descriverebbe la data del 1 luglio 2018?

«Il primo luglio: teso, emozionante, euforico (in quest’ordine). Il 2 luglio (the day after): allegro, speranzoso, meraviglioso».

Nel suo editoriale del 2 luglio su La Jornada parlava della vittoria di Amlo come del trionfo di un progetto trasformatore nella politica, nel sociale, nell’economia e nell’etica. Non è una affermazione esagerata ?

Il prof. Paolo Pagliai durante una conferenza nella capitale messicana.

«No, anche se scritto su La Jornada che – durante tutta la campagna – non ha certo appoggiato con chiarezza Andrés Manuel, può apparire piuttosto sorprendente. Morena può rappresentare effettivamente quel progetto trasformatore della politica di cui il Messico e tutto il continente latinoamericano hanno tanto bisogno. Le sue idee in campo economico, sociale e perfino etico, sono indubbiamente innovative. Amlo parla apertamente di “amore” in un contesto politico mondiale cinico dove l’egoismo di classe e il neo-sovranismo la fanno da padroni: amore come motore del cambiamento, come elemento decisivo per la soluzione e la trasformazione dei conflitti, come punto di partenza per una nuova politica di sicurezza pubblica; l’amore per gli altri come strumento per il dialogo politico, anche aspro, ma sempre rispettoso dei diritti altrui. Potrebbe deluderci, è vero. Potrebbe fare esattamente il contrario di quello che dice, esiste questa eventualità. Ma, in linea di principio, le aspettative dei messicani e delle messicane che hanno votato Morena sono altissime. Siamo di fronte a un momento storico, non ci sono dubbi».

Amlo è un populista?

Molti giornali internazionali, negli Usa ma anche in Europa, parlano di una (nuova) vittoria del populismo. Amlo è un politico di sinistra, un populista, un populista di sinistra o nulla di tutto questo?

«Dipende da cosa si intende quando parliamo di “populismo”. Non credo che ci sia – oggigiorno – parola più inflazionata e mal utilizzata di questa.

Se populista è la politica che appella ai bassi istinti della maggioranza, allora io escluderei che Amlo appartenga a questa categoria di politici molto in voga. In un mondo dove chiudiamo i porti e lasciamo in mezzo al mare navi cariche di disgraziati con l’appoggio incondizionato della maggioranza degli elettori, le parole di Andrés Manuel appaiono come veri e propri trattati di “politica complessa, difficile e raffinata”. Qui in Messico, durante la campagna, c’era il “Bronco” – uno dei candidati, un indipendente (Jaime Heliodoro Rodríguez Calderón, ex Pri, ndr) – che proponeva il taglio delle mani per i ladri; il partito verde, invece, proponeva la fucilazione per i sequestratori. Il populismo, da queste parti, non manca davvero e, così come in Italia, fa appello agli istinti più bassi dell’opinione pubblica, ma quando Amlo parla di riconciliazione nazionale, di giustizia sociale includente, di ricostruzione cooperativa del paese, il suo non è certo un discorso populista. Si tratta piuttosto di una proposta politica innovatrice e, in molti sensi, coraggiosa.

Ora se invece vogliamo intendere “populismo” come essere dalla parte degli ultimi, scegliere la causa dei poveri come se fosse la causa di tutti, rappresenta una scelta che fa riferimento a un non meglio precisato populismo, beh, allora, Andrés Manuel è un presidente populista. Che cos’abbia poi a che fare questo populismo con quello che lascia che i bambini affoghino in mezzo al mare, o si rifiuta di fare una legge contro la tortura o diminuisce le tasse ai più ricchi perché la classe media torni a sentirsi importante, lascio che lo chiariscano coloro che dalle sponde della vecchia Europa osservano con sospetto quanto sta succedendo in Messico».

(David Jones Zocalo)

La classifica dei problemi

In una ipotetica classifica dei problemi messicani in che ordine di importanza metterebbe la violenza, la corruzione, le diseguaglianze? Esiste tra queste problematiche una correlazione?

«Esiste una stretta relazione tra tutti i problemi di cui patisce il Messico, ma non è quella di causa-effetto che le persone potrebbero pensare o di cui vengono convinte dal processo di semplificazione della realtà i cui principali responsabili sono i mezzi di comunicazione di massa, completamente asserviti agli interessi dei partiti politici e dei grandi gruppi industriali e finanziari.

È la corruzione la madre di tutti i nostri mali: nega i diritti fondamentali delle persone trasformandoli in “favori”, genera dipendenza dai poteri e relazioni pericolose con i più forti, riduce sensibilmente gli effetti positivi delle politiche pubbliche e annulla ogni tipo di partecipazione genuinamente democratica da parte dei cittadini. Nella lotta alla criminalità organizzata, riduce l’efficienza e l’affidabilità delle forze dell’ordine, restituisce una magistratura assolutamente incapace di fare giustizia, e dei procuratori così inquinati dagli interessi politici che non possono, in nessun modo, garantire indagini minimamente indipendenti e degne di fede.

La corruzione, dunque, è la principale fonte di insicurezza, ma – non dobbiamo dimenticarlo – sta anche alla base della grande povertà che colpisce quella che è, a tutti gli effetti, la decima potenza economica mondiale e che, malgrado questo, conta, tra i propri cittadini, oltre 53 milioni di poveri. Nel nostro sistema corrotto, la ricchezza viene distribuita in maniera iniqua, cosicché, mentre i nostri ricchi sono tra i più ricchi del mondo (secondo Forbes, il messicano Carlos Slim Helu è al settimo posto nella classifica 2018 dei miliardari, ndr), i nostri poveri appartengono alla parte più povera. Già di per sé questa sarebbe una forma di violenza inaccettabile, ma se vi aggiungiamo la sistematica negazione dei diritti umani, accesso alla salute, all’educazione, alla giustizia, ecco allora che la povertà messicana assume dimensioni veramente angoscianti. Se poi, a tutta questa angoscia, sommiamo 200mila morti e 40mila desaparecidos negli ultimi 12 anni, un numero imprecisato di cartelli narco e di organizzazioni criminali che sottraggono il controllo del territorio alle istituzioni dello stato, il lento ma inesorabile esaurimento delle riserve petrolifere, e i riflessi su scala nazionale della crisi del lavoro che si registra a livello planetario, la relazione tra i problemi che affliggono il Messico, in questo momento nevralgico della sua storia, tesse un panorama complesso che richiede soluzioni creative, originali, collaborative, plurali e – prima di tutto – nonviolente».

Per 4 euro al giorno

In tutti i paesi, il sistema economico privilegia la finanza e maltratta il lavoro. La disoccupazione e la sottoccupazione sono il problema socioeconomico per eccellenza. Com’è messo il Messico? Cosa potrà fare il governo di Amlo?

«In Messico, il lavoro non costa niente. Il salario minimo non arriva a 89 pesos al giorno (circa 4 euro, ndr). Molte famiglie, moltissime, devono sopravvivere con due o tre salari minimi, scegliendo – giorno dopo giorno – se la priorità è mangiare, proteggersi dal freddo, muoversi con un mezzo pubblico o comprare un farmaco che a volte può essere vitale: ognuna di queste opzioni esclude automaticamente tutte le altre. Siamo il paese dell’economia informale, dove più della metà dei lavori si fa in nero, senza contributi e senza assicurazioni. Professioni come insegnare nelle scuole di ogni ordine e grado, o la ricerca scientifica sono oggetto di retribuzioni basse e sempre esposte alla precarietà del mercato. Non è difficile incontrare una persona che sia ingegnere chimico o architetto e che, in mancanza di altro, abbia scelto di guidare un taxi più o meno autorizzato.

In questo contesto che definirei più di miseria che di povertà, le grandi imprese – messicane e straniere – fanno affari d’oro. Per i governi anteriori, creare posti di lavoro era un’impresa relativamente facile: in fondo bastava regolare il mercato del lavoro informale e mettere, sul vassoio d’argento delle imprese straniere, migliaia di posti di lavoro sottopagati o, come preferisco dire io, offrire al miglior offerente centinaia di schiavi. Questo scandalo, con Amlo, deve avere fine. La nuova ministra del Lavoro, Luisa Alcalde (avvocatessa di 35 anni appena) ha già annunciato un incremento sensibile del salario minimo che, in pochissimo tempo, dovrebbe addirittura raddoppiare, spingendo in questo modo verso l’alto tutti gli altri salari».

(David Ludwig) elaborazione MC/Kreativezone

I vicini del Nord

Negli Stati Uniti, Donald Trump fa il bello e il cattivo tempo, governando via tweet. Il presidente accusa il Messico di varie cose: di esportare negli Usa migranti illegali e droga, ma anche di rubare lavoro agli statunitensi con le industrie Usa delocalizzate sul territorio messicano. Questi problemi indubbiamente esistono. Come è possibile affrontarli e risolverli senza arrivare alle soluzioni drastiche proposte da Trump?

«Migliorando le condizioni di vita di milioni di messicani in Messico. Restituendo, una volta per tutte, il suo vero significato alla sicurezza umana: accesso universale alla salute, all’educazione e alla giustizia; stipendi e condizioni lavorative rispettosi della dignità umana; un accordo di libero commercio che includa anche il libero movimento delle persone. In realtà sono queste le misure drastiche e coraggiose di cui abbiamo bisogno. Quelle di Trump sono solo il riflesso becero delle pulsioni più basse dell’opinione pubblica statunitense».

 Si ha l’impressione che il Messico sia indeciso tra l’essere un paese latinoamericano o un paese più legato ai vicini del Nord, Usa e Canada. È un’impressione errata?

«Verrebbe quasi da dire che ogni Sud ha il proprio Nord e che, per ovvie ragioni, ogni Nord ha il proprio Sud. Il Messico è un paese latinoamericano dell’America Settentrionale. In questo, non c’è nessuna contraddizione. La nostra realtà è peculiare proprio grazie alla nostra posizione geografica e alle nostre caratteristiche culturali: non siamo un paese sudamericano, con buona pace dei giornalisti italiani che continuano a descriverci come tale, perché sul planisfero non ci troviamo a Sud del mondo; siamo piuttosto un paese nordamericano di cultura e lingua latine. In questo contesto di diversità, si forma la nostra ricchezza culturale e, proprio da qui, ha origine una rete di opportunità per il Messico e per tutto il continente americano. Noi, oggi, abbiamo l’occasione di proporci come ponte fra il Nord e il Sud, una sorta di cerniera tra le due Americhe: un ponte culturale, sociale, politico, economico, senza muri e con pari opportunità per tutti gli abitanti di tutti i paesi che costituiscono questo meraviglioso e variegato bi-continente. Sento che il progetto di Amlo è portatore proprio di quei principi necessari per trasformare il Messico nella terra di incontro tra tutti i popoli americani: il suo è un messaggio di dialogo, nonviolento e carico di segnali positivi e umanistici che mettono sempre al centro il bene della persona umana a prescindere dalla sua appartenenza etnica, partitica e religiosa».

Professor Pagliai, il benessere di una persona è legato alla salute e all’educazione. In Messico esistono una sanità e una educazione pubbliche?

«In Messico esistono sia un’educazione che una sanità pubblica. La qualità dei servizi è profondamente scaduta negli ultimi 25 anni,  a causa di una cultura neoliberale che ha relegato i poveri nel settore pubblico spostando i ricchi verso quello privato. Da quando l’educazione pubblica è diventata, essenzialmente, l’educazione dei poveri, la sua qualità è scesa vertiginosamente. Lo stesso dicasi per la salute: gli ospedali per poveri hanno una bassa qualità dei servizi. Il tutto, però, non è irreversibile. Siamo ancora in tempo per cambiare il senso di marcia».

Per chi votano i poveri

Amlo è stato eletto soprattutto dai poveri, ma anche Matteo Salvini e Donald Trump sono stati votati ed eletti da disoccupati, emarginati, impauriti. Dove sta la differenza? È il fallimento della democrazia?

«Vero, ma la povertà di cui parlo io è un’altra cosa, si tratta di morire di fame, di diarrea, di un raffreddore banale… Vero, ma i disoccupati che votano Salvini non sono necessariamente gli ultimi. Vivono difficoltà grandi, non possono pagare l’affitto, perdono la casa che stavano comprando, ma di lì alla fame e alla disperazione assoluta il salto è grande. Direi piuttosto che alla base del voto leghista e, solo in parte, pentastellato, c’è una buona dose di povertà culturale, quella che, con grande scandalo di alcuni, chiameremmo più volentieri “ignoranza”. Quando poi è la “paura” a scegliere, beh, allora sì, la democrazia ha fallito miseramente. E non si tratta di sminuire i problemi degli italiani – problemi indubbiamente enormi – quanto di dimensionarli su scala mondiale: molti “poveri” italiani sono convinti che la loro povertà sia come quella dei “poveri” africani che si imbarcano sui gommoni. Si sbagliano. C’è povertà e povertà. E, comunque, la povertà non santifica il povero a priori. Se per combatterla, il povero italiano finisce per aggredire il povero extracomunitario con il peso e il potere delle proprie leggi, del proprio sistema, della propria ricchezza insomma, ecco che la povertà dell’italiano diventa un motore di violenza come tanti altri. Il carburante dell’odio. Chi erano gli elettori di Hitler? Chi sono i sostenitori di Maduro? Essenzialmente poveri. Poveri che, per uscire dalla propria condizione, autorizzarono la limitazione dei diritti di tutti (compresi i propri), sopportano la violenza esercitata contro gli altri e chiedono a gran voce la criminalizzazione, la stigmatizzazione, l’emarginazione e l’espulsione degli altri poveri. Ora, se per fallimento della democrazia si intende il fallimento globale di un progetto-paese chiamato Costituzione, mi trova tristemente d’accordo».

(da vignetta di Patrick Chapatte NYT)

Una cattedra speciale

Professore, perché dedicare – in una Università messicana – una cattedra a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, giudici italiani uccisi dalla mafia? Non sarebbe stato più giusto dedicarla a martiri della giustizia messicani? Se non ci fossero giudici messicani da ricordare, ci sono stati tantissimi difensori dei diritti umani e giornalisti…

«La prima risposta che mi viene in mente è la più ovvia: perché si tratta di una cattedra straordinaria fondata in collaborazione con l’ambasciata d’Italia.

Ma, lo riconosco, potrebbe non essere sufficiente. Dunque tenterò di sviluppare una breve riflessione intorno alla collaborazione internazionale su problemi che di locale non hanno assolutamente nulla. Uno di questi, il più grave nei propri effetti immediati, è quello della criminalità organizzata.

La libera cattedra “Giovanni Falcone e Paolo Borsellino” per la cultura della legalità e della responsabilità è il luogo della memoria e della ricerca al servizio della lotta alle mafie che infestano il Messico e il mondo intero. I due giudici siciliani rappresentano, simbolicamente e a livello internazionale, questa lotta. È vero: ci sono 200mila morti e più di 40mila desaparecidos in questo paese, dovuti – direttamente o indirettamente – al fenomeno criminale dei cartelli, ma la nostra situazione non è esattamente quella italiana, dove abbiamo – per il momento – ancora uno stato che si contrappone chiaramente al fenomeno mafioso. Qui in Messico, la contaminazione reciproca tra stato e criminalità è praticamente costante, in una sorta di sistema osmotico che non lascia margini apparenti alla speranza.

Ecco, all’università abbiamo un memoriale dedicato ai 43 di Ayotzinapa (gli studenti scomparsi nel 2014 in circostanze mai chiarite, ndr), così come un centro di documentazione dedicato alla figura del benemerito delle Americhe, Benito Juárez (1806-1872, eroe nazionale, primo indio del continente a rivestire la carica di presidente, ndr). Per la cattedra, la scelta di due simboli “stranieri” ha messo tutti d’accordo. Quella è la magistratura che non c’è e che invece vorremmo anche qui».

Paolo Moiola
(seconda puntata – continua)




Messico: E giunse il tempo di Amlo


Dal prossimo 1 dicembre, per la prima volta nella storia del paese, al governo ci sarà un uomo di sinistra: Andrés Manuel López Obrador. Conosciuto con l’acronimo di Amlo, 64 anni, il nuovo presidente è stato votato dal 53,19 per cento dei messicani, stanchi di corruzione, ingiustizie e di una violenza che pare inarrestabile. Lo attende un compito molto difficile.
Un’analisi di padre Jorge García Castillo che, a Città del Messico, dirige le riviste «Esquila Misional» e «Aguiluchos».

Andrés Manuel López Obrador (Amlo) durante l’ultimo comizio prima delle elezioni del 1° luglio. Foto: Francisco Estrada, Notimex / AFP.

Per molte ragioni, in buona parte negative, le elezioni generali messicane che si sono svolte lo scorso 1° luglio, sono state speciali: il Movimiento de Regeneración Nacional (Movimento di rigenerazione nazionale, Morena), fondato e guidato da Andrés Manuel López Obrador (detto Amlo), in coalizione con il Partido del Trabajo e il Partido Encuentro Social (Pes), ha vinto con percentuali mai viste prima.

Dall’altra parte, i grandi perdenti sono stati i due partiti con le maggiori radici politiche in Messico: il Partido Revolucionario Institucional (Partito rivoluzionario istituzionale, Pri) e il Partido Acción Nacional (Partito di azione nazionale, Pan). La parte peggiore è toccata al Pri, che per decenni aveva vinto in quasi tutte le contese elettorali fino a diventare ciò che il peruviano Mario Vargas Llosa, premio Nobel per la letteratura, ha definito (già nel 1990) «una dittatura perfetta». I motivi della sua sconfitta? Lotte interne a vari livelli, l’elezione di José Antonio Meade (una persona grigia e discutibile) come candidato per la presidenza della Repubblica, la corruzione, il clientelismo, il coinvolgimento dell’ex presidente Carlos Salinas de Gortari [nella guerra sporca contro Amlo, ndr], il discredito derivante dal comportamento criminale di diversi governatori, membri di rilievo del partito, ecc.

Al momento delle elezioni, il presidente Peña Nieto aveva appena il 20% di approvazione del suo operato. La peggiore situazione nella storia del Pri, motivata da molte ragioni alle quali va aggiunto un caso estremo: la scomparsa dei 43 studenti di Ayotzinapa (rapiti il 26-27 settembre 2014 e mai ritrovati ndr); una questione che rimane irrisolta fino ad oggi e che, di per sé, sarebbe sufficiente per far cadere molte personalità del mondo della politica e delle forze dell’ordine, incluso il presidente.

La campagna pre elettorale (in senso lato) è stata lunga, costosa, combattuta e logorante. Durante la stessa sono stati usati tutti i mezzi: denaro in quantità industriale, dibattiti, insulti, minacce e violenza. Non possiamo dimenticare, ad esempio, che più di 130 candidati a diverse cariche pubbliche sono stati uccisi nel tentativo di scoraggiare elettori e chi osava presentarsi. C’è stato persino un «processo per frode» nello stato del Messico e in Coahuila da parte del partito al potere.

Il presidente messicano uscente, Enrique Peña Nieto, a una parata militare. Foto: Daniel Aguilar – Presidencia de la Repu?blica Mexicana.

Amlo e una campagna lunga dodici anni

Prima di andare avanti, dobbiamo ricordare che il processo elettorale del 1° luglio ha avuto due livelli: uno federale che includeva la presidenza della Repubblica e il Congresso (128 senatori e 500 deputati della camera bassa) e uno locale per eleggere i governatori degli stati di Chiapas, Guanajuato, Jalisco, Morelos, Puebla, Tabasco, Veracruz e Yucatan, il capo del governo di Città del Messico, congressi locali, municipi e sindaci per un totale di 3.326 posizioni.

Niente e nessuno è riuscito a fermare un processo in cui i cittadini hanno deciso di andare a votare il 1° luglio. Nella gara hanno trionfato in modo schiacciante Andrés Manuel López Obrador e il movimento da lui guidato che ha vinto la maggioranza dei seggi nel Congresso, cinque governatori, i sindaci delle cinque maggiori città del paese e molti altri eletti in posti di minore rilevanza.

Hanno contribuito a questo successo travolgente la tenacia del politico nativo di Tabasco, che ha perseverato in una campagna elettorale durata 12 anni (Amlo si era già presentato nel 2006 e nel 2012, ndr) e le tante situazioni di corruzione, impunità, indegnità morale dei partiti di governo, suoi avversari, che hanno portato alla disintegrazione dello stato, di varie istituzioni e della stessa società civile.

Che paese troverà

A questo punto, è conveniente chiedersi e fare un’analisi del paese che Andrés Manuel López Obrador si troverà a governare. La risposta non è semplice perché c’è un «eccesso di diagnosi» e l’informazione che abbiamo è abbondante e, a volte, contraddittoria. Per evitare di perdersi in un mare di dati, ho scelto di dare un’occhiata a un libro intitolato ¿Y ahora qué? México ante el 2018 («Cosa succede ora? Il Messico prima del 2018»)1. Nel libro, 34 accademici e intellettuali fanno un’analisi sistematica dei fallimenti e delle carenze di questo paese; allo stesso tempo, propongono una serie di iniziative in vista di una radicale trasformazione della realtà.

Tra le questioni affrontate dal libro vi sono la corruzione, l’impunità, l’incompetenza dello stato, le elezioni truccate, il traffico di droga e gli errori compiuti nel combatterlo, l’abbandono della gioventù, la polizia traballante, le carceri come luoghi del crimine, la disuguaglianza, la disconnessione tra il mondo educativo e quello produttivo, le falle del sistema sanitario, il disordine federativo, la debolezza della politica estera, l’inefficienza amministrativa e molte altre piaghe. Tutte situazioni che mantengono il paese in un’arretratezza sistemica. Vediamo di analizzarne alcune.

La violenza

Nel dicembre 2006, Felipe Calderón del Pan, allora neoeletto presidente del Messico, prima delle accuse di brogli elettorali, dichiarò guerra al traffico di droga e lanciò un’offensiva militare e di polizia che non fece altro che peggiorare la situazione. Il presidente sbagliava nelle strategie e non teneva conto che il narcoterrorismo e le organizzazioni criminali a poco a poco erano diventati uno stato all’interno dello stato. In molte occasioni questi gruppi avevano armi più potenti di quelle delle forze dell’ordine ed erano meglio organizzati. A ciò si aggiungeva la complicità dei membri dell’esercito, della marina e della polizia e dei settori della società civile. Le incalcolabili ricchezze delle imprese criminali avevano permesso loro di acquistare il silenzio e la complicità di coloro che avrebbero dovuto proteggere la legalità e la giustizia.

Per quanto riguarda le cifre, in 12 anni di combattimenti contro la criminalità sono state giustiziate, secondo le stime più prudenti, più di 200mila persone senza contare le 35.000 scomparse. Questa situazione supera per la sua portata, la sua modalità e l’estrema crudeltà, quella di alcuni paesi che vivono una guerra dichiarata.

La questione più seria è che il problema è peggiorato invece di migliorare. Per alcune agenzie di stampa, tra cui Animal Político, durante i primi cinque mesi del 2018, ci sono stati più di 13mila omicidi; 2.890 dei quali si sono verificati a maggio, poche settimane prima delle elezioni. Inoltre, in diverse località e stati la percentuale di omicidi è aumentata senza poter fare nulla per evitarlo.

Questo è senza dubbio uno dei problemi più seri che il nuovo governo guidato da Amlo dovrà affrontare.

La corruzione e l’impunità

Su questo argomento, Maria Amparo Casar, nel libro citato, afferma che la corruzione è sistemica e l’impunità una regola che ammette poche eccezioni. I loro costi sono molto pesanti per il paese (p. 24).

Per l’analista, la situazione è aggravata dal fatto che «la lotta alla corruzione è nei programmi di governi e partiti, ma le promesse non sono state seguite da fatti concreti. In altri termini, riguardo alla corruzione, quasi tutto è stato detto e quasi nulla è stato fatto» (p. 33).

La scritta sul cartello ricorda la tragedia dei 43 studenti di Ayotzinapa: «Vivi se li sono portati via, vivi li rivogliamo». Foto di: Daniel Cima / CIDH.

L’illegalità

Collegato al problema precedente è la questione dell’illegalità. Secondo Héctor Raúl Solís, coautore del lavoro sopra citato, c’è una convinzione generale – per lui falsa – che i messicani siano corrotti per natura. «Allo stesso modo tutti – dal taquero dell’angolo che ruba l’elettricità al funzionario che devia milioni di pesos – soffriamo di un’innata tendenza a infrangere la legge» (p. 47). Per Solís questa convinzione è falsa perché «non tiene conto dei moltissimi messicani che ogni giorno si conformano alla legge» e, in ogni caso, la repubblica può essere rinnovata, non attraverso atti spettacolari ma piccole azioni che costruiscano l’istituzionalità necessaria (p.52).

Da parte sua, il famoso intellettuale e diplomatico José Ramón Cossio Díaz, scrivendo delle fratture legali che si verificano nel paese, dice che il Messico non ha uno stato di diritto o almeno esso è seriamente manomesso. In questo caso, ci sono due opzioni (p. 63): «Cercare un nuovo modello o persistere nell’attuale», consapevoli che «l’istituzione di uno stato di diritto in una società anonima, diseguale e ferita come quella messicana non è né semplice né veloce» (p. 65). Senza che tutto questo ci debba far cadere nella disperazione o nel cinismo, la lotta deve continuare. Questo è ciò che il popolo messicano si aspetta dalle persone e dalle istituzioni che governeranno il paese nei prossimi anni.

La povertà

Un altro dei grandi problemi che affliggono il Messico è quello della povertà, in particolare la povertà estrema, perché colpisce, secondo le parole del ricercatore John Scott, coautore del lavoro, «il diritto a risorse minime per la sopravvivenza», che «è il diritto umano più basilare» (p. 309). In effetti, in un paese come il Messico a reddito medio-alto, «la persistenza della povertà estrema è moralmente intollerabile» e rappresenta «un doppio fallimento in due aree: l’inclusione produttiva e la protezione sociale» (p. 310).

Lo sconforto di questo male endemico è stato il vessillo degli ultimi governi, anche se poco o nulla è stato fatto per sanarlo. In effetti, il divario tra ricchi e poveri continua a crescere e finora il capitale dei supermilionari aumenta esponenzialmente a scapito dei milioni di messicani che non hanno il minimo necessario. Il salario minimo è da considerarsi un attentato contro la vita e il benessere della maggioranza. Non è sufficiente (si tratta di circa 123 euro mensili, ndr) nemmeno per il paniere di base, tanto meno per coprire i bisogni di salute, educazione, abitazione e spazi di gioco.

Questo problema è una bomba a tempo che può esplodere in qualsiasi momento. Le persone sono stufe di soluzioni palliative e assistenziali che non fanno altro che perpetuare la povertà. Le risorse, in una nazione con un territorio prodigo e generoso, esistono. Solo che sono mal distribuite e, mentre alcuni nuotano nell’abbondanza, altri non hanno l’indispensabile.

L’offerta di Amlo

Alle 23:00 del 1° luglio, prima che vengano diffusi i risultati degli exit poll del suo trionfo, López Obrador convoca un meeting all’Hilton Hotel della Alameda Central (noto parco pubblico, ndr) a Città del Messico. Da lì tiene un discorso che riassume quello che sarà il suo modus operandi come presidente. Una folla osannante lo ascolta nel quartiere dell’hotel e applaude infervorata dal suo messaggio. Soprattutto quando tocca temi come la lotta alla corruzione e all’impunità, il protagonismo dei poveri e il rispetto delle differenze sessuali.

Il tono di questo primo discorso è cambiato radicalmente rispetto a quello portato avanti negli ultimi anni, specialmente durante la pre-campagna e la campagna elettorale. Il politico litigioso, ironico, creativo nell’arte dell’insulto e della minaccia, lascia il posto alla realpolitik e tende la mano a tutti con uno spirito conciliatorio e umanistico. Non parla più di mafie del potere né attacca il mondo degli affari. Al contrario, chiama tutti al dialogo e alla collaborazione.

Lo stesso tono viene usato nel discorso che rivolge pochi istanti dopo ai suoi seguaci concentrati nello Zócalo (piazza della Costituzione, cuore della capitale, ndr), a pochi metri dal Palazzo nazionale, dalla Cattedrale metropolitana e dal quartier generale del governo di Città del Messico.

La strada sarà lunga

Nelle settimane successive all’elezione, López Obrador ha iniziato una frenetica attività chiamando persone, aziende, istituzioni, media, a dialogare e far conoscere quale sarà la sua metodologia di lavoro, a presentare coloro che formeranno il suo gabinetto, a riferire su questioni fondamentali come gli stipendi dei dipendenti pubblici, la sua politica di austerità e decentramento, il trattamento degli ex presidenti e le proposte per combattere la violenza e la corruzione, tra le altre cose.

Niente ha potuto fermare questo processo verso la democrazia: le campagne di discredito, gli attacchi velati ed espliciti al politico del Tabasco, in particolare sui social network, l’avvertimento che la sua elezione avrebbe portato il Messico a una situazione simile a quella del Venezuela di Chávez e la Bolivia di Evo Morales, hanno prodotto l’effetto opposto.

Nella lunga e difficile strada verso la democrazia, la sconfitta del partito di governo e l’indiscutibile trionfo di Amlo segnano un nuovo modo di fare politica in Messico. Più che per il disgusto, la disillusione e il disprezzo verso la classe dei politici e un sistema marcio dalle radici, la gente ha votato per un uomo e un movimento che ispirano fiducia e speranza che le cose cambino.

Questo è ciò che noi messicani speriamo e desideriamo per il bene di tutti, specialmente per le maggioranze impoverite.

Jorge García Castillo

(fine prima puntata – continua)
Traduzione e adattamento del testo a cura di Paolo Moiola.

Note

(1) Aguilar Camín, Héctor et al., ¿Y ahora qué? México ante el 2018, Debate, segunda edición, Ciudad de México, febrero 2018.

La protesta di una donna che ha perso un proprio caro nella tragedia dei 43 studenti di Ayotzinapa. Foto: Leonardo Gonzalez / Fotografias emergentes


Politica e religione

Voto laico, ma non troppo

Il Messico è un paese a maggioranza cattolica, ma con una crescita esponenziale degli evangelici. Come sono state affrontate dalle Chiese le elezioni dello scorso luglio?

In Messico, come in molti altri paesi dell’America, non si può parlare più della «Chiesa», ma delle «Chiese» perché queste e il numero dei loro seguaci aumentano di giorno in giorno.

Su questo argomento, Leonardo Alvarez, l’11 maggio scorso, ha scritto sul quotidiano El Pais (nella sua versione internazionale): «Il Messico non sfugge al contesto latinoamericano che ha trasformato il culto evangelico in una forza elettorale importante e diffusa».

Cita anche l’esempio del Costa Rica, dove, ai primi di aprile, Fabricio Alvarado era sul punto di ottenere la vittoria elettorale con un programma marcatamente evangelico e, nel 2016, in Colombia, il voto maturato nei templi è stato decisivo per la vittoria del «No» nel plebiscito per la pace con le Farc. Ma, se prendiamo in considerazione la sua dimensione, non possiamo non citare il Brasile dove il gruppo parlamentare evangelico ha provocato la caduta e l’allontanamento della presidente Dilma Rousseff.

Per quanto riguarda il Messico, anche se l’articolo 40 della Costituzione lo definisce come un paese laico e la legge elettorale vieta partiti religiosi, il Partito incontro sociale (Pes) nelle elezioni del 1° luglio si è presentato in coalizione con il Movimento di rigenerazione nazionale (Morena) di Amlo.

Il Pes è stato fondato da Éric Flores, appartenente ad una chiesa evangelica, ed ha tra i suoi obiettivi la difesa dei valori tradizionali e della famiglia tradizionale. Situazione questa che contrasta con l’ideologia di Morena su questioni come il matrimonio di coppie omosessuali, l’aborto e la legalizzazione delle droghe. Per Roberto Blancarte, uno studioso di questo tema, l’unione tra Obrador e il Pes è «più spirituale che strategica», perché le chiese evangeliche, sorte soprattutto tra i settori emarginati, riproducono gli schemi dei cacicchi (cacicchismo, inteso come l’esercizio personalistico del potere, ndr), legati a una cultura autoritaria che trova analogie in López Obrador.

Venditore di lumini votivi per la Vergine di Guadalupe, molto venerata in Messico. Foto: Geraint Rowland.

Per quanto riguarda la Chiesa cattolica messicana, la sua gerarchia non ha mai nascosto le sue preferenze per i candidati di destra e giudica la sinistra partendo da pregiudizi e paure, soprattutto su temi morali considerati non negoziabili. Mi riferisco a questioni quali il matrimonio omosessuale, l’aborto, l’eutanasia. Fino a un recente passato molti hanno collocato la Chiesa cattolica nel campo del conservatore Partito d’azione nazionale, in cui hanno militato cattolici e anche movimenti di estrema destra come Muro e Yunque (gruppi nati negli anni Sessanta, ndr).

Durante l’ultimo processo elettorale, in particolare nelle fasi della campagna, la gerarchia cattolica ha invece evitato di sbilanciarsi.

Più chiare e profetiche si sono dimostrate molte parrocchie, comunità di base, collettivi cattolici, comunità religiose e gruppi di vescovi, in particolare l’arcivescovo di Guadalajara, cardinale José Francisco Robles Ortega, e i vescovi di Veracruz. Tutti questi soggetti hanno accompagnato e guidato il popolo a votare in coscienza.

Jorge García Castillo