Heineken in Africa

testo di Chiara Brivio |


Il libro inchiesta del giornalista Olivier van Beemen

Un giornalista olandese alla scoperta degli affari africani, non sempre limpidi, di una delle multinazionali più conosciute e amate del suo paese.

Olivier van Beemen, ha dedicato sei anni a investigare il giro d’affari in Africa di una delle più grandi multinazionali della birra al mondo: l’olandese Heineken. Un’azienda dalla reputazione impeccabile, con 165 birrifici in 70 paesi, i cui profitti nel continente superano del 50% la media dei suoi profitti nel mondo, che considera l’Africa, per bocca del suo stesso amministratore delegato Jean-François van Boxmeer, «il segreto meglio custodito dell’imprenditoria internazionale».

Inviato dal quotidiano olandese «Financieele Dagblad» a seguire la Rivoluzione dei gelsomini in Tunisia nel 2010, van Beemen ha scoperto per caso alcuni legami tra il gigante della birra e un uomo d’affari vicino all’ex dittatore Ben Ali.

Da lì ha avuto inizio una lunga inchiesta che ha portato a risultati sconcertanti: in diversi paesi africani van Beemen ha portato alla luce casi di collusione, corruzione, abusi sessuali, prostituzione, elusione fiscale, violazione dei diritti umani, nei quali sarebbe coinvolta la Heineken. Fino al genocidio ruandese del 1994, nel quale, secondo la ricostruzione fatta dall’autore, la multinazionale della birra avrebbe avuto un ruolo importante.

La sua inchiesta è confluita in un libro, Heineken in Africa. La miniera d’oro di una multinazionale europea, pubblicato recentemente in Italia da ADD editore (Torino 2020, pp. 336, euro 16,00). In esso l’autore solleva molti dubbi sul ruolo di Heineken che dichiara di essere un forte agente di sviluppo in molti paesi africani, ma anche sulle multinazionali che operano nel continente in generale.

Abbiamo intervistato il giornalista in occasione dell’uscita dell’edizione italiana.

Perché ha scelto Heineken per la sua inchiesta?

Foto Dingena Mol

«È stato in Tunisia che è iniziato tutto, quando ho scoperto che lì Heineken aveva intrapreso una collaborazione con un membro del clan familiare dell’allora dittatore Ben Ali. Sono rimasto scioccato dal fatto che una multinazionale di quel calibro potesse mentire così apertamente: Heineken infatti negava di aver mai fatto affari con qualcuno che facesse parte di quel clan, mentre in realtà era il contrario e aveva legami con la dittatura.

Successivamente ho scoperto che Heineken aveva un enorme giro d’affari in Africa e che possedeva birrifici in diversi paesi. Il mio stesso governo negli anni ha elargito a Heineken milioni di euro dei contribuenti olandesi sotto forma di sussidi, perché crede che l’azienda contribuisca allo sviluppo in Africa.

Ho pensato che sarebbe stato interessante approfondire se veramente Heineken aiuta lo sviluppo.

Attenzione agli spoiler: è vero il contrario».

Il consumo di birra in molti paesi dell’Africa è molto elevato. Come mai?

«Molte società africane hanno delle tradizioni birraie che risalgono a tanti secoli fa. Le birre locali hanno una percentuale di alcool del due o tre per cento, e hanno come base il sorgo, la cassava, il miele e altri ingredienti. La birra a volte svolge anche un ruolo importante nei rituali e nelle cerimonie. Ciò significa che l’Africa è un mercato molto allettante per l’industria della birra occidentale, che fa di tutto per spingerne il consumo.

La misura standard di una bottiglia nella maggior parte dei paesi africani è di 60 cc (ad esempio in Nigeria) e di 75 cc (in Sudafrica).

I consumatori bevono facilmente anche cinque, sei, persino dieci bottiglie al giorno.

Senza dimenticare che Heineken e i suoi concorrenti sono riusciti con successo a trasformare le loro birre in uno status symbol. Per esempio, lo slogan del marchio Mützig, di proprietà di Heineken, è «il gusto del successo». Così fa credere agli africani che, bevendo birre occidentali, faranno parte di una nuova classe media. La conseguenza di tutto questo è che molti spendono i loro guadagni comprando birra, invece di prodotti più utili».

Come lei sottolinea nel libro, è molto difficile giudicare il ruolo che le multinazionali hanno nello sviluppo in Africa. Da una parte creano lavoro, costruiscono infrastrutture, collaborano con le Ong. Dall’altra, invece, sono coinvolte con i governi locali, spesso dittature, e sembrano sottrarre risorse a questi paesi già in difficoltà. C’è una via d’uscita?

«Penso che le aziende, incluse le multinazionali, possono ricoprire un ruolo positivo in Africa. Ma è importante anche guardarle con occhio critico, senza sottovalutare i loro slogan.

Queste aziende cercano il profitto, e non c’è niente di male in questo, ma oggi, sempre più, vogliono convincerci che sono loro la soluzione per un mondo migliore. Vogliono farci credere che sono genuinamente preoccupate per l’ambiente e per l’umanità.

Per chi lavora per queste compagnie, può essere vero, ma un’azienda non è la stessa cosa della somma degli individui che ci lavorano. Risponde a delle sue dinamiche interne e, alla fine, si tratta sempre di generare profitti.

Quindi penso che i governi e le Ong non dovrebbero collaborare con loro, perché il ruolo dei governi e delle Ong è quello di stabilire le regole e di controllare che le aziende le rispettino.

Oggi questo non succede. In particolare, nei paesi in via di sviluppo, praticamente non esiste un sistema di controllo ed equilibrio.

Le multinazionali pagano i media locali perché scrivano storie di successo, e sono riuscite a convincere sia i governi che le Ong che siglare delle collaborazioni con loro per un obiettivo comune sia cruciale per il progresso di quei paesi. Penso che questo sia molto pericoloso.

Per fare solo un esempio che riguarda Heineken: l’azienda si è impegnata ad acquistare per 10 anni il 60% delle sue materie prime da produttori e agricoltori africani. A livello di pubbliche relazioni è stata un’incredibile storia di successo, e ha permesso a Heineken di ricevere aiuti sia dal governo tedesco che da quello americano. Ma i progetti agricoli sono falliti, e l’anno scorso Heineken ha comprato solo il 37% da fornitori locali, cioè meno di quello che acquistava all’inizio del progetto.

Normalmente nessuno va a controllare queste cose, e anche dopo che la storia è stata smascherata, l’azienda continua a presentarla come un successo».

Perché Heineken ha risposto alla sua inchiesta solo nel 2018, dopo l’uscita della seconda edizione? Forse perché sapeva che il libro sarebbe stato pubblicato in vari paesi del mondo e temeva per la propria reputazione? Ci sono state delle conseguenze per Heineken a seguito del libro?

«All’inizio Heineken aveva deciso di non cooperare con me in alcun modo. In realtà poteva essere una buona strategia, perché alcuni lettori avrebbero potuto pensare che i miei scritti fossero solo una parte della storia, anche se io ho presentato la versione dell’azienda attraverso interviste e documenti interni.

Invece per il secondo libro (giunto alla quinta edizione nei Paesi Bassi, nda), che è stato tradotto in diverse lingue, Heineken ha adottato una strategia più “seducente”. Sono stato invitato a una cena, la quale sicuramente si sarebbe tenuta in un ristorante di lusso di Amsterdam, ma io ho rifiutato, dicendo che avrei preferito prendere un caffè nella loro sede centrale.

Il libro ha avuto delle serie conseguenze per Heineken: una banca olandese ha deciso di disinvestire dall’azienda e il Fondo globale contro l’Aids, la tubercolosi e la malaria, che ha il supporto anche della Bill & Melinda Gates foundation, ha sospeso la sua collaborazione».




Cari Missionari

Giovane mamma

Suona il campanello e vado a vedere chi c’è.

Trovo una giovane mamma che dal viso sembra molto preoccupata. Tra le braccia, avvolto in un pezzo di stoffa, porta il suo bambino. Non ci vuole molto a capire che il piccolo è denutrito. Mi chiede di aiutarla.

Guardo l’orologio, sono circa le 09.45. Alle 10 precise devo essere in classe. Ho solo un’ora alla settimana di lezione da dare in seminario, e al martedì. Proprio di martedì e a quest’ora doveva venire?

Di corsa l’accompagno in cucina e dico al cuoco di occuparsene e che ritornerò più tardi.

Le mie lezioni sono sulla spiritualità e il carisma dei missionari della Consolata secondo l’insegnamento e il pensiero del nostro fondatore il beato Giuseppe Allamano, affinché i giovani prendano il suo spirito ed entusiasmo missionario e siano degni del nome che porteranno: Consolata, diventando dei veri consolatori delle anime e dei corpi.

Durante la lezione la mia mente corre al volto di quella mamma. I suoi occhi erano lucidi, quasi di lacrime, ma non piangeva. Non mi ha detto molte parole, non riusciva. Mi aveva fatto vedere il volto del bambino con delicatezza e gentilezza quasi per dirmi: «Ho fatto tutto il possibile, ho dato tutto quello che potevo e che possedevo. Ho dato il mio amore. Ora non so cosa fare».

Ma io, come posso aiutarla? Che cosa posso fare?

Terminata la lezione vado in cucina dove hanno preparato una pappetta per il piccolo e dato qualcosa alla madre.

Dopo pranzo porto la mamma al Holy Cross Hospital tenuto dalle suore qui a Morogoro. Mi dicono subito che il piccolo deve essere ricoverato e naturalmente assistito dalla mamma. Tiro un respiro di sollievo. Non sapevo proprio cosa fare.

Dopo due giorni, vado a trovarli. La mamma (nella foto) mi abbozza un sorriso di ringraziamento per il bambino che aveva iniziato le cure.

Mentre esco per lasciare l’ospedale, vengo chiamato in amministrazione. Vogliono sapere chi pagherà il conto, anche per la mamma venuta in ospedale senza una moneta e nemmeno un cambio per se stessa. Chiedo l’ammontare fino a quel momento e saldo il conto. Per le cure successive pagherò più avanti. Dopo una settimana, ritorno all’ospedale e la suora mi dice che il bambino è stato dimesso. La mamma non abita molto lontano e deve venire regolarmente per il controllo, le cure e la crescita del bambino. Per le spese non devo pensarci. Ci pensano loro.

Durante il ritorno mi vengono in testa tante domande e tanti perché. Perché è venuta in seminario? Chi l’ha mandata? Come ha fatto a venire? E poi: come si chiama? E il bambino? Da dove viene, dove vive? Di che religione è?

Torno indietro per avere informazioni. Quando ho pagato non ho voluto la ricevuta, ma che la dessero alla mamma. Così non so nemmeno i loro nomi.

Andando verso l’ospedale altri pensieri mi passano per la mente. Mi chiedo il perché voglio sapere chi è, cosa fa, da dove viene, ecc… Forse che Gesù chiedeva informazioni e dati anagrafici alle persone che aiutava e guariva?

Faccio ancora inversione di marcia e mi dirigo decisamente verso il seminario.

Però ho chiesto al Signore una cosa. Lui dopo le guarigioni diceva: «Va e non peccare». Oppure: «La tua fede ti ha salvato». Ebbene, desidero, o Signore, che quella mamma sappia che è stata aiutata da gente che lo fa per il Tuo amore. Ora fa che quella mamma diventi una persona che ti ama.

Fratel Sandro Bonfanti
Morogoro, Tanzania


«Top 200» edizione 2019

Per il decimo anno consecutivo Wal-Mart mantiene il primo posto, per fatturato, nella graduatoria mondiale delle multinazionali. Lo rende noto Top 200, edizione 2019, il dossier curato dal Centro Nuovo Modello di Sviluppo, sulle prime 200 multinazionali del mondo. Wal-Mart è la più grande catena di supermercati: 11.200 in tutto il mondo sparsi nei cinque continenti. Con 2 milioni e 200mila dipendenti, di cui 1 milione e mezzo negli Stati Uniti, Wal-Mart è anche ai primi posti in termini di multe per violazione dei diritti dei lavoratori. Dal 2000 a oggi, solo negli Stati Uniti, ha collezionato multe per un miliardo e mezzo di dollari.

Al 13° posto della graduatoria delle multinazionali, troviamo un’altra impresa del commercio, che benché più piccola è senz’altro più nota in Europa. Si tratta di Amazon, il cui patron, Jeff Bezos, per il secondo anno consecutivo si è collocato al primo posto della graduatoria stilata da Forbes sulle persone più ricche della terra. E neanche lui passa per essere un buon datore di lavoro. Nichole Gracely, una giovane statunitense che ha lavorato vari mesi come stagionale in un centro logistico di Amazon, ha detto che è meglio essere disoccupata e senza casa piuttosto che lavorare alle dipendenze di Amazon.

Non sappiamo come se la cavino i lavoratori delle altre catene commerciali, ma di sicuro sappiamo che i supermercati costituiscono il gruppo di imprese più numeroso fra le top 200: ben 35 per un fatturato complessivo di 4mila miliardi di dollari e 11 milioni di dipendenti. Solo il settore energetico (le terribili multinazionali del petrolio) riesce ad andare più su con un fatturato complessivo di 4.192 miliardi. Ma al terzo posto troviamo le imprese finanziarie a confermare come banche, assicurazioni e fondi di investimenti rappresentino la spina dorsale del capitalismo moderno. Ed è proprio a questi soggetti che Top 200 riserva alcuni approfondimenti. In particolare «Banche sporche di catrame», richiamandosi alla ricerca condotta da Banking on climate change, mette in evidenza che dal 2015, l’anno in cui venne firmato l’accordo di Parigi, le principali 33 banche mondiali hanno impegnato il 7% di risorse in più a vantaggio delle imprese che estraggono combustibili fossili. Poi non c’è da stupirsi se le emissioni di anidride carbonica hanno continuato a crescere: del 1,6% nel 2017 e del 2,7% nel 2018. Al primo posto per finanziamenti concessi c’è JPMorgan Chase, la banca internazionale guidata da Jamie Dimon, anche presidente della Business Roundtable che nell’agosto 2019 ha fatto credere al mondo che d’ora in avanti il capitalismo terrà conto degli interessi sociali e ambientali, non dei profitti degli azionisti.

E sempre parlando di finanza, un altro servizio si concentra sulle banche con l’elmetto, quelle, cioè, che sostengono le imprese di armi. Fra le banche europee al secondo posto troviamo Unicredit con 4 miliardi di finanziamenti, superata solo da Lloyds Bank. Fra i clienti di Unicredit c’è Northrop Grumman, che è coinvolta nella produzione di armi nucleari. Fra i clienti di Lloyds c’è General Dynamics, anch’essa coinvolta nella produzione di armi nucleari e fornitrice di armi a Egitto e Arabia Saudita. Armi controverse inviate a paesi controversi, laddove per armi controverse si intendono sia quelle illegali che quelle che provocano effetti indiscriminati e sproporzionati. Sotto questa categoria sono ricondotte le armi nucleari, le mine antiuomo, le armi incendiarie. Per paesi controversi si intendono quelli autoritari con un basso tasso di libertà e rispetto per i diritti umani. Un’ulteriore dimostrazione che, al di là delle politiche d’immagine, pur di fare soldi le imprese non si fanno scrupolo a finanziare operazioni di morte e di aggressione contro le persone e la natura. Solo la vigilanza e l’agire critico potranno salvarci. Buona lettura su www.cnms.it

Francesco Gesualdi
21/10/2019


Grazie

Cari missionari,
sono vostra abbonata da non so più quanto tempo. Avevo visitato a Milano la mostra «coca e maloca». Lì presi una copia omaggio della rivista. E, a casa, dopo averla letta, subito decisi di abbonarmi.

Mi piace sempre molto essere portata in giro per il mondo dai vostri articoli e dossier. Mi fanno conoscere popoli nelle loro realtà. Grazie davvero. E se, come dice qualche lettore, «vi schierate», io ne sono contenta, perché siete sempre dalla parte degli oppressi e dei poveri (o meglio impoveriti dal nostro capitalismo senza cuore).

Mi piacciono anche molto gli articoli di Rosanna Novara Topino e sono entusiasta di quelli di Franco Gesualdi: finalmente riesco a leggere articoli che parlano di economia (fino a ora non ci ero mai riuscita, smettevo dopo poche righe). Questi riesco non solo a leggerli ma a capire qualcosa di economia, di Europa, Bce, spread, eccetera eccetera. Fantastico! Grazie a tutti e cordialissimi saluti.

Gabriella Pagani
26/10/2019


Domande

Buon giorno, sono un vostro abbonato da tanti anni e sono contento della vostra rivista per l’attenzione all’uomo. Oggi ho due richieste da fare.

  • Nei giorni scorsi, parlando con un amico che vive in Cameroun, ho sentito parlare del genocidio che sta avvenendo in quel paese tra gli anglofoni e i francofoni anche a causa dell’ingerenza del governo francese. Cosa si può conoscere su questo argomento?
  • A proposito dell’agitazione del mondo sul problema dei cambiamenti climatici (vedi Greta e movimenti vari) e del Sinodo sull’Amazzonia ho l’impressione che non si abbia il coraggio (in particolare negli ambienti cattolici) di proporre un cambiamento del nostro stile di vita con proposte serie e pratiche (vedi proposte degli anni Novanta del movimento Bilanci di Giustizia).

In attesa di leggere una risposta saluto e auguro buon lavoro.

Daniele Engaddi
14/10/2019

Siamo coscienti della realtà dell’Ovest anglofono del Camerun. Ne abbiamo segnalato diverse volte la situazione sulle nostre pagine di Facebook. La rivista Africa, associata con noi alla Fesmi, scrive: «I separatisti sono [accusati di] ribellione [perché] hanno fatto una campagna per la creazione di uno stato indipendente chiamato Ambazonia, composto dalle regioni anglofone del Nord Ovest e del Sud Ovest del Camerun, lamentando la loro emarginazione per decenni da parte del governo centrale e dalla maggioranza di lingua francese.

La crisi anglofona è iniziata nel 2016, quando avvocati e insegnanti hanno scioperato contro il tentativo di imporre il francese nelle scuole e nei tribunali delle regioni del Nord Ovest e del Sud Ovest. Dallo scoppio della crisi, sono oltre 500mila gli sfollati» (Africa, 29/08/2019).

Noi non ignoriamo il problema, e speriamo di dedicarci un servizio presto. Intanto suggeriamo di seguire riviste sorelle come Nigrizia e Africa, molto specializzate sull’Africa.

Su cambiamenti climatici credo di poter dire che l’enciclica «Laudato si’» di papa Francesco sia uno dei documenti più coraggiosi sull’argomento. E il Sinodo sull’Amazzonia ne è una conferma. Sul tema torneremo in gennaio 2020  con un ampio dossier sul Sinodo, per non farlo dimenticare quando già non se ne parlerà più.

 


Auguri al vescovo più vecchio d’Italia

Il 1° novembre 2019 mons. Aldo Mongiano, missionario della Consolata, vescovo di Roraina in Brasile dal 1975 al 1996, e già missionario in Mozambico, ha celebrato i suoi 100 anni nella chiesa del beato Giuseppe Allamano a Torino, presente una bella delegazione da Roraima, guidata dal vescovo Mário Antônio da Silva che rappresentava anche la Conferenza Episcopale Brasiliana.


Una casa per ricominciare

Un progetto di solidarietà degli Amici Missioni Consolata a favore di chi ha perso la casa durante il ciclone Idai nella diocesi di Tete in Mozambico.

Nel marzo scorso il ciclone Idai ha colpito il Mozambico e la regione di Tete, già danneggiata dalla piena del fiume Revubwe che ha portato via tutto nella zona di Nkondezi: ponti, campi, case e persino cimiteri. Attualmente più di 500 famiglie, circa 4.000 persone, vivono in tende nel campo di Chimbondi in condizioni molto precarie. Ricevono aiuti alimentari e poco altro.

Subito dopo la sua consacrazione episcopale (maggio 2019) il nuovo vescovo di Tete, Diamantino Antunes, missionario della Consolata, ha visitato le famiglie nel campo di accoglienza assicurando loro l’aiuto della Chiesa.

Con le autorità locali è stato fatto un un piano per trasferire le famiglie che vivono nelle case distrutte o danneggiate e costruire per loro delle case nuove in muratura in luoghi più sicuri.

Si può aiutare e sostenere il progetto:

  1. con donazioni a «AMC-progetto case Tete» usando il ccp che ricevete con la rivista o con versamento bancario a MISSIONI CONSOLATA Onlus (dati dettagliati a pagina 83)
  1. visitando la Mostra di Solidarietà dell’Immacolata 2019 allestita nella parrocchia Maria Regina delle Missioni, Via Cialdini 20(a Torino, tram: 9 – 16; bus: 55 – 56 – 65; metro fermata Bernini) da mercoledì 4 a domenica 8 dicembre 2019 orario 9,30-13,00 / 15,00-19,00

Nuove case a Tete




Dal protezionismo alle multinazionali

Testo di Francesco Gesualdi |


Il capitalismo fece i suoi primi passi nel 1200 con la comparsa – a Genova – dei banchieri. Si rafforzò con le grandi compagnie commerciali e con le macchine. Poi arrivarono le multinazionali che oggi dominano il mondo (insieme alle imprese finanziarie).

Una caratteristica del capitalismo è la sua dinamicità, la capacità cioè di cambiare continuamente strategia pur di raggiungere l’obiettivo prefisso, che al contrario rimane sempre lo stesso: il profitto. Ed è proprio questa sua costante trasformazione organizzativa a renderlo poco afferrabile. A questo mondo non c’è però niente di indecifrabile se si trova la giusta chiave di lettura. Nel caso del capitalismo, la pista da seguire è l’evoluzione delle imprese: dimmi come cambiano le imprese e ti dirò come cambia il capitalismo.

Banchieri, commercianti, imprenditori, finanzieri

Il capitalismo si struttura attraverso un processo lento che muove i primi passi con i banchieri genovesi del 1200. Ma la sua vera storia possiamo farla cominciare nel 1600, con la strutturazione delle grandi compagnie dedite al commercio internazionale, tra cui una delle prime è la «Compagnia delle Indie orientali» (East India Company). Il secolo successivo, l’avvento delle macchine nel processo produttivo fa entrare il capitalismo in una fase nuova, caratterizzata da un cambio di ruolo dei mercanti. Se prima si limitavano a comprare e vendere prodotti già pronti, con l’avvento delle macchine trovano più vantaggioso organizzare essi stessi la produzione. Così nasce la classe dei mercanti imprenditori che ottengono i loro prodotti all’interno di stabilimenti attrezzati di macchinari fatti funzionare da uno stuolo di lavoratori salariati. Per due secoli il capitalismo sarà dominato dalle imprese produttive e, anche se oggi un nuovo tipo di impresa, quella finanziaria, sta allargando i propri tentacoli, il mondo in cui viviamo è ancora quello modellato da loro. Ciò è particolarmente vero per l’assetto internazionale.

Le imprese, lo sappiamo, sono strutture organizzate per fare profitto attraverso la divaricazione fra costi e ricavi. La battaglia delle imprese avviene sul terreno della riduzione dei costi e dell’aumento delle vendite. E se la questione costi sta alla base di temi come il progresso tecnologico, il colonialismo, il conflitto sociale, la questione vendite sta alla base delle alleanze, delle ostilità e più in generale delle relazioni fra stati.


L’appartenenza delle prime 200 multinazionali del mondo.

Multinazionali:
i numeri (2016)

  • ?Gruppi censiti: 320.000
  • ?Totale società controllate: 1.116.000
  • ?Quota di partecipazione al prodotto lordo mondiale: 35-40%
  • ?Fatturato lordo complessivo: 132mila miliardi di dollari
  • ?Profitti lordi complessivi: 17mila miliardi di dollari
  • ?Quota di commercio estero gestito: 80%
  • ?Occupati: 300 milioni (15% della mano d’opera salariata a livello mondiale)

Fonte:

Cnms, Top 200. La crescita di potere delle multinazionali, Vecchiano 2017; il lavoro è scaricabile – gratuitamente – dal sito del «Centro nuovo modello di sviluppo» (www.cnms.it).

 

 


Perché il libero scambio

Il sogno di ogni impresa è espandere le vendite in maniera infinita, per questo la crescita è un caposaldo del capitalismo. E poiché le possibilità di vendita sono tanto più ampie, quanto più vasto è il mercato, il capitalismo – almeno a parole – ha sempre fatto professione di fede nel libero scambio, nel mantenimento, cioè, di frontiere aperte per permettere a merci e servizi di fluire liberamente tra uno stato e l’altro. In realtà le imprese hanno sempre oscillato fra protezionismo e liberismo in base allo stadio evolutivo in cui si trovano. Un’ambivalenza che appare più chiara se facciamo un paragone con i tori. Quando sono ancora vitelli si sentono più al sicuro in pascoli protetti da staccionate che impediscono ai tori, più forti di loro, di entrare. Crescendo, cominciano ad avvertire la staccionata come un limite perché alzando la testa vedono tanta buona erba di là dalla palizzata: sarebbe bello poterla brucare! Ma poi si guardano nello stagno e, benché cresciuti, si vedono ancora creature acerbe incapaci di fronteggiare i tori adulti che si trovano nel pascolo aperto. Per cui sognano una situazione intermedia: lo spostamento della staccionata un po’ più in là per disporre di un recinto più ampio in cui l’erba sia contesa solo fra tori della stessa età e delle stesse dimensioni. Più tardi, quando hanno raggiunto l’età adulta ed hanno superato ogni paura di confrontarsi con gli altri, rivendicano l’abbattimento di qualsiasi staccionata (anche di quella costruita per proteggere i nuovi vitelli) per scorrazzare liberi nell’infinita prateria.

Fuori di metafora, quando l’industria è ai suoi albori, le imprese chiedono protezione agli stati. Non senza ragione. L’esperienza dimostra che solo in una situazione protetta, l’industria nascente ha garanzia di sviluppo.

In caso contrario rischia di essere sopraffatta dalle imprese straniere che, in virtù della loro forza tecnologica e finanziaria, possono inondare il paese di beni a prezzi così bassi da sgominare l’industria locale. Per questa ragione molte nazioni africane sono riluttanti a firmare l’accordo di scambio alla pari proposto dall’Unione europea. Il famoso Epa, Economic Partnership Agreement, ossia «Accordo economico di partenariato», che propone di applicare tariffe zero sui prodotti del Sud del mondo esportati verso l’Unione europea e tariffe zero per i prodotti europei esportati verso i paesi del Sud del mondo. Il tutto sotto l’ipocrisia della reciprocità dimenticando, come si dice in Lettera a una professoressa, che non c’è niente di più ingiusto che fare parti uguali fra disuguali.

Perché il protezionismo

Tornando alla storia è un fatto che il capitalismo nasce protezionista. Le imprese manifatturiere di ogni nazione chiedevano ai propri governi di metterle al riparo dalla concorrenza estera tramite dazi doganali e ogni altro provvedimento utile a ostacolare l’ingresso di manufatti esteri. Ma il protezionismo a cui le imprese aspiravano era a senso unico: porte chiuse alle merci straniere, ma possibilità di collocare le proprie nei mercati degli altri. Una pretesa non di rado soddisfatta con le armi. Valgano come esempio le guerre dell’oppio di metà Ottocento fra Cina e Gran Bretagna per la pretesa da parte di quest’ultima di commercializzare in Cina l’oppio coltivato in India. La stessa annessione dell’India all’impero britannico aveva come obiettivo non solo quello di impossessarsi delle materie prime indiane, ma anche di garantire un ampio mercato alle manifatture tessili inglesi. Non a caso Gandhi fece dell’autoproduzione tessile uno dei simboli della resistenza contro il dominio britannico.

In principio fu la Singer

È in questo contesto di amore-odio per il protezionismo, che a fine Ottocento le imprese di grandi dimensioni mettono a punto una nuova strategia di espansione. La formula si chiama colonizzazione dall’interno e si basa su un ragionamento semplice: se non si può entrare nei mercati degli altri con prodotti che vengono da fuori, ci si può entrare producendo da dentro. Così nel 1867 l’americana Singer si paracaduta in Gran Bretagna e dopo aver fondato una società, di proprietà sua, ma giuridicamente inglese, apre a Glasgow una fabbrica di macchine da cucire autorizzate ad invadere l’isola perché made in England.

Singer apre ufficialmente il corso moderno delle multinazionali, più propriamente dette gruppi multinazionali dal momento che non si tratta di imprese singole ma di tante società imparentate fra loro per il fatto di appartenere a una medesima società che sta a capo di tutte. Oggi i gruppi multinazionali sono 320mila per un numero complessivo di oltre un milione di filiali. Tutti insieme fatturano 132 mila miliardi di dollari e generano profitti lordi per 17mila miliardi. E se in certi settori, come le sementi, i velivoli, il petrolio, l’auto, l’acciaio, sono i protagonisti esclusivi, non meno importante è il loro peso sull’economia mondiale considerato che contribuiscono al 35-40% del prodotto lordo globale e che alimentano l’80% del commercio internazionale. Solo in ambito occupazionale i loro numeri si fanno più timidi dal momento che impiegano solo 300 milioni di persone pari al 15% dell’intera mano d’opera salariata mondiale.

Famiglie, azionariato e fondi d’investimento

Internazionalizzazione delle filiali, ma anche della proprietà della capogruppo, questa è un’altra caratteristica della maggior parte delle multinazionali. E mentre alcune, come Ikea, Mars, Barilla, Ferrero sono ancora controllate dalle famiglie di origine, tutte le altre appartengono a un azionariato diffuso, sparso a livello mondiale. Spesso è inutile cercare persone in carne e ossa: salvo eccezioni, i proprietari sono banche, assicurazioni, fondi pensione, fondi di investimento, istituzioni che di mestiere raccolgono capitali fra il grande pubblico, dal giovane lavoratore che risparmia per farsi una pensione, al vecchietto che affida i propri risparmi al fondo perché gli è stato promesso un alto rendimento. A livello mondiale 225 istituti finanziari gestiscono una ricchezza pari a 26mila miliardi di dollari e riecheggiano le parole di Louis Brandeis, membro della Suprema Corte degli Stati Uniti dal 1916 al 1939: «Possiamo avere la democrazia o la ricchezza concentrata nelle mani di pochi, ma non possiamo avere entrambe le cose».

Francesco Gesualdi


Geografia delle multinazionali – Chi sono, dove sono

Gli Stati Uniti guidano la classifica delle multinazionali, ma la Cina avanza rapidamente.

Se compiliamo una lista delle prime 100 realtà economiche, includendovi i governi in base ai loro introiti fiscali e le multinazionali in base ai loro fatturati, scopriamo che 66 sono multinazionali. La prima compare al 10° posto ed è Wal-Mart con un fatturato di 485 miliardi di dollari, somma superiore alle entrate governative di paesi come Spagna, Australia, Russia, India
(vedi il grafico Cnms a sinistra).

Le Nazioni Unite definiscono multinazionale qualsiasi gruppo con filiali estere. Ma al di là di questa caratteristica, ognuna differisce dall’altra non solo per attività, ma anche per dimensioni. Al pari dei mammiferi che comprendono sia i topolini che gli elefanti, anche le multinazionali comprendono gruppi che fatturano qualche manciata di milioni di euro e altri che realizzano centinaia di miliardi. Tant’è che i primi 200 gruppi realizzano, da soli, il 14% di tutto il fatturato delle multinazionali. E se un tempo le capogruppo battevano quasi esclusivamente bandiera europea, statunitense o giapponese, oggi battono sempre di più bandiera cinese. Rimanendo alle prime 200, in cima alla lista troviamo ancora gli Stati Uniti con 63 capogruppo, ma al secondo posto incontriamo la Cina con 41 capogruppo. Con la differenza che mentre quelle cinesi sono tali di nome e di fatto perché sono per la maggior parte di proprietà governativa, tutte le altre hanno una doppia personalità: con una patria ben precisa da un punto di vista giuridico, ma apolidi da un punto di vista proprietario perché i loro azionisti sono banche e fondi di investimento di ogni paese del mondo. Tanto per confermare, ancora una volta, che il potere finale è della finanza, considerato che 25 gruppi finanziari controllano il 30% del capitale complessivo di 43mila gruppi multinazionali.

Fra.G.