Noi e Voi, dialogo lettori e missionari


Chi è al top

«Eat the rich» è la scritta posta su una scatoletta di cibo con il disegno di un ricco che viene «cotto» sopra un fuoco. È questa l’immagine provocatoria che fa da copertina alla 13ª edizione di «Top200», il report annuale (basato sui dati relativi al 2022) sulle principali multinazionali curato dal «Centro nuovo modello di sviluppo» (www.cnms.it), curato da Francesco Gesualdi. Il motto provocatorio richiama una celebre frase di Jean-Jacques Rousseau: «Quando il popolo non avrà più da mangiare, allora mangerà i ricchi». Così si capisce chiaramente da che parte stia chi ha predisposto il dossier.

Nel merito si tratta – come nelle precedenti edizioni – di uno studio puntuale, sia perché i dati riportati forniscono un quadro preciso della ricchezza delle imprese multinazionali, sia per l’attualità della problematica in un mondo che presenta enormi disuguaglianze.

Il sottotitolo – «la crescita del potere delle multinazionali» – sintetizza il risultato che emerge dal report. Anzitutto i profitti delle prime 200 imprese internazionali sono raddoppiati in dieci anni, passando da 1.089 a 2.054 miliardi di dollari. Nella classifica delle «top 200» società troviamo 62 multinazionali con sede principale negli Usa e 61 in Cina, che insieme rappresentano il 64,1% del fatturato: 17.770 miliardi su un totale di 27.722 miliardi di dollari. Al terzo posto si colloca il Giappone con 18 imprese e al dodicesimo l’Italia con tre società (Assicurazioni Generali, Eni e Enel).

Assai significativo per comprendere il potere delle imprese è il confronto tra le entrate degli stati e i fatturati delle multinazionali. Al primo posto ci sono gli Usa con 8.010 miliardi di dollari di introiti, al decimo troviamo l’India con 682 miliardi, seguita dalla prima delle multinazionali – la Walmart – con un fatturato di 611 miliardi. In questa classifica ibrida (stati e multinazionali insieme), ai primi 100 posti ci sono 72 multinazionali.

Il dossier, oltre a numerose classifiche sulle top 200 imprese mondiali, contiene quattro approfondimenti relativi ai finanziamenti pubblici alle imprese private, agli affari delle società che producono programmi di intrattenimento, alla crescita dei privati nel settore della sanità e alla presenza di mercenari nei teatri di guerra nel mondo. Proprio questi quattro focus rappresentano la parte più attuale e originale del report. Da non perdere.

Rocco Artifoni
17/09/2023

Meno Cpr più umanità

Complimenti per la rivista. A mio modesto parere per quanto riguarda gli immigrati che vengono in Italia via mare occorre trovare una soluzione in Africa, visto che il numero di affamati è enorme. Si può creare punti mensa nelle zone con maggiori problemi utilizzando i canali delle missioni e ong. Meno Cpr in Europa e più aiuti diretti in Africa. Cordiali saluti,

Giorgio Tagliavini
23/09/2023

Grazie signor Giorgio per le brevi parole che hai scritto alla vigilia della giornata mondiale dei migranti e rifugiati, a cui abbiamo dedicato il nostro editoriale del mese di agosto-settembre.

Su questo tema le parole di papa Francesco sono sempre di una profondità e chiarezza unica, che spesso però trovano resitenze incredibili e cuori duri come pietre. Più grave ancora è la strumentalizzazione dei drammi dei migranti a uso elettorale e la chiusura totale nel nome della propria identià culturale da difendere. È decisamente penosa l’impocrisia di chi grida contro certe parole denigranti, come «tribù», perché ritenute umilianti, ingiuste e discriminatorie, da sostituire quindi con altri lemmi più rispettosi della dignità di tutti, e poi di fatto ha idee, atteggiamenti e comportamenti decisamente tribalisti nella pseudo difesa della propria superiorità e soprattutto dei propri interessi.

Come già scritto e riscitto, non è con la chiusura delle frontiere e l’incolpare i trafficanti e scafisti che si risolvono i problemi, ma con una vera rivoluzione sociale ed economica nelle relazioni tra stati e popoli, soprattutto da parte dei paesi più ricchi.

 

Opinioni post Lisbona

Egregia Redazione,
leggo da tempo il vostro interessante giornale e sentendomi quasi in famiglia ho pensato di condividere con voi queste riflessioni, benché modeste.

La giornata della gioventù a Lisbona ha radunato molti giovani. Bello vederli attenti e in silenzio ad ascoltare le parole del Papa. Il messaggio di verità del Vangelo attira sempre ed è indispensabile per l’umanità. I media hanno sintetizzato il discorso del Papa con le parole «tutti inclusi nella Chiesa». Va benissimo tutti inclusi, ma ciò non vuol dire che si debbano accettare e avallare gli errori e i grandi peccati che si fanno. Bisogna distinguere la persona dall’errore. Va bene tutti inclusi nella Chiesa ma i pedofili per esempio sono stati fin troppo inclusi. Il Vangelo richiede verità; bisogna dire chiaramente ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. I giovani devono sapere ciò che è sbagliato e chi compie tali errori deve essere invitato a correggersi. La pedofila è stata per molti la madre dell’omosessualità. A 14/15 anni i giovani sono ancora ragazzini e avrebbero bisogno di essere lasciati crescere serenamente in pace senza caricare sulle loro giovani spalle pesi così grandi come quelli dei dubbi sulla propria identità sessuale, come invece è di moda in questi tempi.

Personalmente ho visto il nascere di un atteggiamento gay in un ragazzo che aveva avuto esperienza di pedofilia. Nella scuola dove lavoravo c’era un quindicenne che si vantava con i compagni di sapere cose particolari sulla sessualità, gli altri rispondevano alle sue vanterie deridendolo. Alcuni invece lo ascoltavano perplessi e incuriositi. Lui voleva farsi vedere più emancipato e sperava così di attirarsi tanti amici, di essere più stimato ma a volte finiva col prendersi spintoni e insulti. Convocati i genitori, ignari di tutto, era emerso che, quando dovevano uscire di casa per il lavoro o per spese, mandavano il figlio da un loro vicino che sembrava affidabile ma che invece intratteneva questo ragazzino facendogli vedere video sulla omosessualità e rischiando così di creare nel giovane la «forte distorsione cerebrale e psichica che comporta l’omosessualità» (parole di un importante psicologo membro dell’Associazione internazionale di psicologia applicata). In seguito a queste esperienze subite questo ragazzo a 15/16 anni risultava quindi volersi indirizzare verso l’omosessualità. Un comportamento gay derivato da una pedofilia.

Purtroppo, la pedofilia risulta essere veramente all’origine di tanti casi di comportamenti gay. La chiesa ha il dovere di proteggere e salvaguardare ogni persona specie i giovani e per farlo deve dire ciò che è errore e danno e quindi peccato. La pedofilia e l’omosessualità che in genere ne è una derivazione sono un errore, un peccato, un danno più o meno cosciente per sé e per la società. Il normale bisogno di amicizia e affetto viene confuso con comportamenti sbagliati e contro natura.

Nella parabola sulla indissolubilità del matrimonio, a Pietro che di fronte all’impossibilità del divorzio dice che allora è meglio non sposarsi, Gesù risponde che non a tutti è dato di capire e che a volte occorre farsi eunuchi per il regno dei cieli. È però un linguaggio figurato. Non intende dire che occorre veramente farsi eunuchi ma che in certe situazioni bisogna comportarsi come se non sentissimo attrazione sessuale per l’altro sesso. Per rimanere fedeli a volte occorre veramente farsi eunuchi, cioè non ascoltare l’attrazione verso la donna che non è la propria moglie o viceversa verso l’uomo che non è il proprio marito.

Nella Chiesa invece sembra che alcuni abbiano preso alla lettera il farsi eunuchi traducendolo anzi in farsi omosessuali, per cui ci sono preti gay che continuano a svolgere il loro ministero pur comportandosi da omosessuali. Altri prelati sono sommessamente favorevoli ai rapporti gay causando così grande scandalo. Va bene accogliere tutti nella Chiesa ma non accogliere l’errore. Accogliere l’errante, ma dirgli chiaramente che deve impegnarsi a cambiare vita, non comportarsi più da gay ma vivere l’astinenza e non praticare rapporti sbagliati e contro natura.

[…] La chiesa anziché avallare i comportamenti omosessuali dovrebbe piuttosto rivedere l’ordine di celibato per i preti. Accettare anche preti sposati ma con una fede sincera, forte e disinteressata economicamente.

Certo, essere liberi da impegni familiari per poter andare ovunque ad annunciare il Vangelo è più generoso ed eroico ma si potrebbe accogliere anche chi desidera sposarsi. Meglio questo anziché accettare i comportamenti omosessuali. Non è assecondando le persone nei loro grandi errori che si guadagnano i fedeli. Cordiali saluti

Enrica B.
18/09/2023

Onestamente non credo che il messaggio centrale della Gmg di Lisbona fosse «Tutti inclusi», soprattutto nella sua interpretazione, come se papa Francesco avesse avvallato pedofilia e omosessualità. Lo slogan «Maria si alzò e andò in fretta» (Lc 1,39), ha una portata molto più vasta e missionaria ed è un forte invito a non chiudersi, a non fare una vita da «seduti sul divano» e diventare concreti testimoni di amore in questo nostro mondo dilaniato da guerre, ingiustizie sociali, cambiamento climatico, povertà, disciriminazioni e intolleranza di molti tipi.

La sua lettera rivela comunque una sofferenza vissuta sulla sua pelle di fronte a fatti nei quali sono coinvolti anche dei sacerdoti dagli atteggiamenti certamente non evangelici. E questo mi richiama il dialogo che ho avuto pochi giorni fa con una catechista che mi raccontava della perplessità di una famiglia a mandare i suoi bambini al catechismo dopo aver sentito e letto di episodi di pedofilia da parte di sacerdoti.

Vorrei solo confermare che su omosessualità e pedofilia di persone religiose, la presa di posizione di papa Francesco e della Chiesa intera è senza equivoci. Occorre però tanta vigilanza e intelligenza per non cadere nella trappola della generalizazzione che conduce dalla colpa di un singolo sacerdote, o vescovo, o religioso o religiosa a mettere sotto accusa tutto e tutti.

Probabilmente nel futuro vedremo anche i preti sposati nella nostra Chiesa, ma non certo come soluzione alla pedofilia. Le statistiche dicono che gran parte degli abusi sessuali sui minori avviene tra le mura di casa.

Credo che per affrontare seriamente la situazione occorra smettere di cercare il capro espiatorio e di puntare il dito, ma impegnarsi a vivere con maggior coerenza, tutti e in fretta, l’insegnamento del Vangelo, consci che tutti siamo fragili e peccatori.

Per quanto riguarda il legame causa effetto tra pedofilia e omossesualità, non mi trova d’accordo. Non penso sia un caso particolare (da lei conosciuto), a dare la regola generale. Preferisco quindi separare le due situazioni.

Se la pedofilia è senza dubbio sempre un «errore, un peccato», come lei la definisce, più complesso è il discorso per l’omossessualtà, che può essere un «sentire» differente, un voler vivere i propri sentimenti sulla base di quello che si prova davvero, senza ipocrisia. In questo caso non è un «errore, un peccato». Papa Francesco ha detto infatti: «Essere omossessuali non è un crimine» e, inoltre, «Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, ma chi sono io per giudicarla?».

In visita a un luogo sacro dei Kikuyu (tempio sacro dei Gekoyo) sull’Aberdare, Kenya: padre Delfino Bianciotto (seduto), can. Giacomo Camisassa (in piedi), coad Umberto Rosso, padre G. Cavallero e padre Panelatti, suor Maria Bonifacia e suor Cristina del Cottolengo

Ricordando Don Delfino

Gent. Direttore,
vorrei ringraziarvi per quanto realizzate, in particolare sono stato molto sorpreso dall’articolo del 12 giugno 2023 «La grande avventura». Sono pronipote di don Delfino Bianciotto, da lui battezzato nel suo 49° anno di sacerdozio. Era lo zio e il padrino di battesimo di mio padre che portava il suo nome. Io fin da piccolo venivo premiato con dei favolosi soggiorni presso don Delfino. Il missionario Delfino era un mito di saggezza e di fede. Lo ammiravo passeggiare per ore nel giardino in preghiera leggendo il Vangelo. Quando si accorgeva di me, mi avvicinava facendomi ammirare Dio nel creato, in un fiore, un’ape, nel volo di un uccello. Mi diceva che la preghiera si svolge in ogni luogo e in ogni istante.

Avevo 11 anni quando don Delfino, il 2 aprile 1961, festeggiò i 60 anni di sacerdozio. Fu felice che in quell’occasione molti si ricordassero di Lui: (tra questi) padre Carlo Masera, suo coadiutore in Abissinia (così era chiamata allora l’Etiopia, ndr) nel Kaffa, il vice superiore generale dell’Istituto, padre Giuseppe Caffaratto, il provicario della diocesi (di Pinerolo) don Giovanni Barra. Gli arrivò anche il telegramma d’auguri di papa san Giovanni XXIII (io gli recitai una breve poesia).

La mia curiosità ed ammirazione di bambino per don Delfino era immensa. Chiedevo che mi raccontasse le sue straordinarie avventure e venivo accontentato.

Mi raccontava dei suoi viaggi favolosi e pericolosi, dei bambini felici come me, ma dal destino tragico che aveva conosciuto e soccorso, chi aveva perso i genitori per incidenti con animali della foresta, chi era stato rapito dai predoni ed era venduto schiavo dagli stessi. Si rammaricava di non aver potuto riscattare tutti quegli innocenti che aveva consolato avvicinandoli a Gesù. Salì al cielo il 27 luglio 1962. Il 16 agosto 2023 don Delfino sarà stato molto felice, per l’elezione a superiore generale dei Missionari della Consolata di padre James Bhola Lengarin del Kenya (un «pronipote» dei bambini che lui aveva incontrato e soccorso in Kenya). Cordiali saluti

Franco Bianciotto
02/09/2023

Padre Delfino Bianciotto nacque a Frossasco (To) il 27 marzo 1874. Ordinato sacerdote il 23 marzo 1901, dopo aver esercitato per alcuni anni il ministero nella diocesi di Pinerolo, il 4 agosto 1906 entrò nell’Istituto. Partì per il Kenya il 10 dicembre dello stesso anno e là lo troviamo quando il canonico Giacomo Camisassa compì la sua visita nel 1910/1911. Il 15 ottobre 1917 entrò avventurosamente in Etiopia come commerciante e si unì a monsignor Gaudenzio Barlassina aprendo una prima casa a Ghimbi, nel Kaffa. Nel 1922 tornò in Italia come rappresentante dei missionari d’Etiopia per il primo capitolo generale dell’Istituto. Nel 1932, scaduto il periodo per il quale si era legato all’Istituto, ritornò nella sua diocesi di Pinerolo.

 




Etica e affari, un matrimonio difficile


Ben&Jerry’s, azienda Usa di successo, non vuole più vendere i propri gelati nei territori palestinesi occupati da Israele. Ne è nato un intricato conflitto politico e legale. È possibile tenere insieme ricerca del profitto e principi etici?

Nella storia del capitalismo, di dispute fra imprese se ne sono viste tante, ma che una filiale portasse in tribunale la propria capogruppo, questo no, non era mai capitato. È quanto è successo negli Stati Uniti per una vicenda che riguarda addirittura il conflitto israelo-palestinese. Il dilemma è se vendere o non vendere nei territori occupati da Israele. Non riuscendo a trovare un accordo sul piano politico, le due parti stanno cercando di spuntarla tramite sofisticate battaglie legali. Mentre scriviamo, il contenzioso è ancora in corso, ma qualunque sarà il suo esito vale la pena raccontarlo per i molteplici aspetti che solleva.

Dal vermont al mondo

Le due parti in gioco sono Unilever e Ben&Jerry’s. La prima è una potente multinazionale inserita nel settore dei prodotti igienici, cosmetici e alimentari. La seconda è un’impresa di gelati nota soprattutto al pubblico americano. In effetti, Ben& Jerry’s nacque negli Stati Uniti per iniziativa di due piccoli imprenditori, Bennet Cohen e Jerry Greenfield, che, nel 1978, decisero di aprire una gelateria in una località del Vermont, loro città natale. L’iniziativa ebbe successo e in breve Ben&Jerry’s divenne una catena di gelaterie con punti vendita in tutta la nazione. L’attività andava così bene che attirò l’attenzione dei giganti del settore, tanto che, nell’anno 2000, Unilever se la comprò. L’assorbimento fu totale, ma i vecchi proprietari riuscirono a porre come condizione che l’azienda continuasse a essere gestita da loro secondo i propri principi etici.

Nel panorama del mondo degli affari i due imprenditori rappresentavano senz’altro un’eccezione perché erano convinti che obiettivo dell’impresa debba essere non solo il perseguimento del profitto, ma anche il rispetto per l’ambiente, dei lavoratori e delle comunità in cui l’attività è svolta. Un filone di pensiero che più tardi diede origine a particolari imprese denominate «B Corporation» (vedi MC giugno 2022), dove «B» sta per «benefit», a indicare che sono organizzate per portare vantaggio a tutti. Dagli Stati Uniti, l’idea approdò anche in Europa, Italia compresa, dove la B Corporation ha trovato spazio nella legislazione, sotto il nome di «società benefit». Una denominazione che può essere utilizzata da tutte quelle realtà imprenditoriali che oltre ad avere «lo scopo di dividere gli utili, perseguono una o più finalità di beneficio comune e operano in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni ed altri portatori di interesse».

Un tratto del muro divisorio tra Israele e Palestina. Foto Olaf-Pixabay.

Una forza per il bene?

Nel mondo, le B Corporation sono qualche migliaio, tutte convinte di poter cambiare il mondo, come si legge in un pieghevole del loro movimento: «Insieme stiamo costruendo un movimento di persone che usano il mondo degli affari come una forza per il bene». Che sia un po’ esagerato? I toni da crociata religiosa sono sempre un po’ inquietanti.

Personalmente ritengo che eleggere le imprese a «forza per il bene» sia un tentativo (maldestro) per giustificare il capitalismo fondato su presupposti ideologici che conducono allo sfruttamento del lavoro, all’esaurimento delle risorse, all’accumulo di rifiuti, alle guerre per il controllo delle risorse e l’espansione dei mercati. In una parola a tutte le situazioni di crisi che oggi affliggono l’umanità. Tuttavia, fatta questa precisazione, sicuramente le società benefit rappresentano un passo avanti sulla strada della sostenibilità, della trasparenza, della dignità personale. Un risultato attribuibile a un mix di conversioni personali e di pressione decennale esercitata dalla società civile tramite azioni di investimento etico e di consumo critico.

Nel 2006 nacque anche un sistema di certificazione che dà la patente di società «per il bene» a tutte quelle imprese che dimostrano di rispettare regole stringenti in ambito sociale e ambientale. Certificazione che Ben&Jerry’s ottenne nel 2012 impegnandola a «essere economicamente sostenibile e nello stesso tempo capace di un cambio sociale positivo […] finalizzato a garantire il soddisfacimento dei bisogni umani ed eliminare ogni forma di ingiustizia». Per di più nella sua carta dei valori si legge: «Sosteniamo le vie nonviolente per l’ottenimento della pace e della giustizia. Crediamo che le risorse pubbliche siano utilizzate in maniera più produttiva quando sono messe al servizio dei bisogni umani piuttosto che spese in armamenti».

Nonostante queste precise prese di posizione, Ben&Jerry’s non aveva avuto problemi a catapultarsi in Israele dove approdò nel 1987, concedendo la licenza d’uso del proprio marchio all’impresa israeliana Avi Zinger. Così i gelati a marchio Ben&Jerry’s si vendevano in tutti i territori occupati da Israele, compresi quelli colonizzati dopo il 1967 in aperta violazione con le ripetute risoluzioni Onu secondo le quali «tali occupazioni sono illegali e rappresentano un ostacolo alla realizzazione dell’obiettivo dei due stati, l’unica soluzione che può garantire una pace duratura».

La presenza nei territori occupati non era vissuto da Ben&Jerry’s come un tradimento dei propri valori, ma l’incoerenza non era sfuggita a un gruppo del Vermont che agisce a sostegno del popolo palestinese in collaborazione con il movimento Bds («Boycott, divestment, sanctions», boicottaggio, disinvestimento, sanzioni).

La Puma, nota azienda produttrice di scarpe sportive, è oggetto di un boicottaggio internazionale per essere sponsor di squadre israeliane. Foto BDS Movement.

BDS e danno economico

Sorto nel 2005, il Bds è un movimento che intende costringere Israele al rispetto delle leggi e delle convenzioni internazionali attraverso il danno economico. La stessa strategia utilizzata negli anni Ottanta del secolo scorso nei confronti del regime del Sudafrica che fu costretto a capitolare di fronte alla fuga delle imprese straniere e alle sanzioni economiche messe in atto contro il paese. In effetti, il movimento Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni si propone l’obiettivo di fare pressione sul governo di Israele tramite l’isolamento economico. Una delle strategie consiste nel prendere di mira le imprese che conducono i propri affari nei territori occupati a vantaggio esclusivo o prevalente dei coloni occupanti.

Alcuni esempi sono Puma (vedi foto), Axa, Hewlett Packard su cui è esercitata ogni forma di pressione per convincerle a ritirarsi da Israele o quanto meno dai territori occupati dopo il 1967.

Nei confronti di Ben&Jerry’s la prima iniziativa di pressione venne assunta nel 2011 tramite una lettera inviata dal gruppo del Vermont che però non ricevette risposta. Per cui vennero assunte iniziative sempre più incisive, fino a dichiarare un vero e proprio boicottaggio nel 2015. Lo scrollone finale si ebbe nel maggio 2021 quando davanti alla sede centrale di Ben&Jerry’s, si presentò una folla concitata che con una sola voce gridava «Vergogna!». Erano lì per commemorare ciò che i palestinesi chiamano «Nakba», ossia l’evacuazione forzata di centinaia di migliaia di palestinesi avvenuta nel 1948, per fare spazio allo stato di Israele.

Questa volta, Ben&Jerry’s accusò il colpo e, dopo due mesi, il 19 luglio 2021, annunciò di avere deciso di rivedere la propria presenza in Israele, cominciando con il non rinnovare il contratto di licenza stipulato con Avi Zinger in scadenza a fine dicembre 2022.

Gelati antisemiti?

Un barattolo di gelato di Ben&Jerry, azienda Usa che, per problemi etici, non vuole vendere a Israele.

In un primo momento la capogruppo Unilever si era schierata a fianco della propria controllata appellandosi anch’essa a motivazioni etiche. Ma poi la ragione economica ebbe il sopravvento e madre e figlia finirono per vie legali. Il governo israeliano aveva bollato la scelta di Ben&Jerry’s come antisemita e subito le azioni di Unilever avevano cominciato a perdere valore. Sui social israeliani circolavano filmati di ministri nell’atto di gettare nella pattumiera i gelati di Ben&Jerry’s ancora integri. In America, invece, su alcuni quotidiani comparvero annunci a tutta pagina firmati dall’organizzazione ebraica Simon
Wiesenthal Center
, che invitavano negozi e supermercati a cessare la vendita dei gelati Ben&Jerry’s colpevoli di antisemitismo. Iniziative che ebbero il loro effetto sul piano finanziario: vari fondi pensione e altri investitori istituzionali annunciarono di voler vendere le quote che avevano in Unilever sostenendo che cedendo alle richieste di Bds la multinazionale aveva violato la legislazione americana. Sul versante opposto si diffuse la notizia che un pacchetto importante di azioni era stato comprato da Nelson Peltz, niente po’ po’ di meno che presidente del Simon Wiesenthal Center. Una scelta compiuta con lo scopo evidente di condizionare Unilever dall’interno.

Etica e affari

Intanto, nel marzo 2022, Zinger, il licenziatario israeliano, si era rivolto alla magistratura statunitense affinché impedisse a
Unilever di sospendere il contratto di licenza, come preannunciato dalla direzione di Ben&Jerry’s. Ma la contesa non venne mai discussa in tribunale perché, nel giugno 2022, Unilever annunciò di essersi accordata con Zinger per venderle la proprietà del marchio Ben&Jerry’s, e questa era valida per tutti i territori controllati da Israele. Una decisione che irritò la direzione di Ben&Jerry’s che reagì denunciando la capogruppo per abuso e violazione contrattuale.

Ora la parola è di nuovo agli avvocati, ma comunque vada a finire, crescono i dubbi che etica e affari possano davvero unirsi in matrimonio come sostiene il movimento delle B Corporation.

Francesco Gesualdi

 

I siti dei protagonisti:




Quel barattolo di latte in polvere

Il latte materno è migliore del latte in polvere. Eppure, soltanto il 44 per cento dei neonati è allattato al seno. Le colpe delle multinazionali e il ruolo delle nuove forme di pubblicità.

Nel febbraio 2022, la Food and drug administration (Fda), l’agenzia statunitense addetta alla vigilanza sanitaria, sospende la produzione di latte in polvere in uno stabilimento del Michigan appartenente alla multinazionale farmaceutica Abbott. La decisione è presa a seguito della morte per infezione batterica, negli Stati Uniti, di quattro neonati nutriti con latte artificiale proveniente dallo stabilimento posto sotto sequestro. Nel corso dell’indagine, durata alcune settimane, emergono numerose criticità, compresa la contaminazione dei macchinari con batteri pericolosi. In seguito, lo stabilimento viene riportato a norma, ma ci vogliono mesi prima che possa riprendere la produzione. Un periodo durante il quale il latte in polvere scarseggia, mandando in apprensione moltissime mamme che hanno deciso di nutrire i propri piccoli con latte artificiale piuttosto che al seno.

Latte in polvere. Foto silverson.com.

I pericoli del biberon

Eppure, le autorità sanitarie e pediatriche di tutto il mondo sostengono che il latte materno è il miglior alimento per i neonati. Avviato entro le prime ore di vita e continuato fino ai due anni di età, prima come alimento esclusivo, poi come alimento aggiuntivo, l’allattamento materno costituisce una potente linea di difesa contro tutte le forme di malnutrizione infantile compresa l’obesità. Inoltre, protegge i piccoli contro le infezioni più comuni mentre riduce nelle madri il rischio di diabete, obesità e certe forme tumorali. Per non parlare degli effetti benefici di tipo psichico e affettivo che l’allattamento al seno produce nei piccoli per lo stretto contatto con la madre. Ciò nonostante, nel mondo solo il 44% dei bambini sotto i sei mesi è allattato al seno. Lo sostiene l’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità. Il grande concorrente è il biberon che però non si impone spontaneamente, ma come conseguenza di una potente macchina di persuasione occulta, che una recente indagine dell’Oms ha messo sotto la lente. Una pressione inaccettabile perché nelle famiglie più povere del Sud del mondo, l’allattamento artificiale espone i bambini addirittura al rischio di morte. Ogni anno muoiono 520mila bambini per complicanze dovute al biberon. Per assurdo la prima causa di morte è la denutrizione che si instaura quando le esigenze nutrizionali del bambino richiedono quantità di latte fuori dalla portata economica delle famiglie. E subito dopo vengono le complicanze igieniche per l’impossibilità di bollire i biberon e conservarli al riparo da contaminazioni. Mamme con pochi soldi, poche comodità, poche conoscenze igieniche, somministrano ai propri bambini latte eccessivamente diluito, in biberon a malapena sciacquati, con tettarelle esposte all’aria su cui si posano nugoli di mosche. L’inevitabile conseguenza sono infezioni intestinali che si rivelano mortali, non per la particolare gravità dei germi, ma per la perdita di acqua, sali e zuccheri dovuti alla diarrea. E molti dei bambini che sopravvivono mantengono per tutta la vita deficit cognitivi dovuti alla denutrizione infantile. Alcuni studiosi, amanti dei termini monetari, hanno stimato che le perdite cognitive dei bambini sottonutriti a causa dell’allattamento artificiale provocano alla comunità una perdita pari a 285 miliardi di dollari, lo 0,3% del Pil mondiale.

Nestlé e gli altri

Il latte in polvere della Abbott, multinazionale Usa.

La prima denuncia sulle conseguenze catastrofiche del biberon fra i bambini delle famiglie più povere fu fatta nel 1973 da parte della rivista britannica New Internationalist. All’inizio la reazione dell’opinione pubblica fu di sconcerto. Ma quando si scoprì che l’allattamento al biberon era indotto da una pubblicità ingannevole e da una macchina promozionale che, al momento di lasciare l’ospedale, regalava campioni di latte alle mamme, scoppiò l’indignazione che sfociò in campagne di boicottaggio verso le imprese più coinvolte. Famosa quella verso Nestlé che si protrasse per qualche lustro. Vista la gravità della situazione, nel 1981 l’Oms decise di intervenire, approvando un Codice di comportamento da fare rispettare alle ditte produttrici di latte in polvere. Il codice composto da una decina di punti è riassumibile in due concetti essenziali: «no» alla distribuzione di campioni gratuiti e «no» a qualsiasi tipo di comunicazione scritta, vocale o visiva che possa indurre le mamme a preferire l’allattamento artificiale a quello materno. Ma, nel corso degli anni, l’Ibfan (International baby food action network) e altre associazioni a difesa dell’allattamento materno, hanno denunciato numerose violazioni in tutto il mondo. Violazioni che, con l’avvento dell’era digitale, si sono fatte al tempo stesso più subdole e aggressive perché le donne sono raggiunte da messaggi pubblicitari non riconoscibili come tali. Ed è proprio per capire in quale misura le imprese del latte in polvere stiano utilizzando le tecnologie digitali e con quali effetti, che l’Oms ha condotto una ricerca in Bangladesh, Cina, Messico, Marocco, Nigeria, Sudafrica, Gran Bretagna, Vietnam, su un campione di 8.500 donne e 300 operatori sanitari.

Allattamento

Allattamento al seno. Foto Grisguerra – Pixabay.

Nel maggio 2022 sono stati pubblicati i risultati della ricerca e il primo dato emerso è che, in tutte le nazioni prese in esame, le donne nutrono una forte attrazione per l’allattamento materno, dal 49% in Marocco al 98% in Bangladesh. Nel contempo, però, hanno scarsa fiducia nella loro capacità di nutrire adeguatamente i propri piccoli per i dubbi insinuati dalla valanga di messaggi che circolano in rete: quasi tutti a favore dell’allattamento artificiale. Messaggi che consolidano credenze assurde come la necessità di somministrare latte in polvere nei primi giorni di vita, l’incapacità del latte materno di rispondere a tutti i bisogni nutrizionali dei neonati in crescita, la superiorità del latte in polvere integrato di tutti gli ingredienti che servono per una crescita equilibrata dei piccoli. Il rapporto conferma anche che la via digitale è il canale privilegiato utilizzato dalle industrie del latte in polvere come mezzo di persuasione. In alcuni paesi, oltre l’80% delle donne intervistate ha confermato di essere stata raggiunta dalla pubblicità sui sostituti del latte materno attraverso canali online. Del resto il 97% della popolazione terrestre gode di una qualche forma di connessione tramite telefonia mobile. Globalmente più di 3,6 miliardi di persone (all’incirca l’87% di chi naviga in internet) usa social media, una cifra destinata a salire a 4,4 miliardi per il 2025.

Spiate e sedotte

Le piattaforme digitali stanno diventando i canali pubblicitari più importanti. Nel 2019 più del 50% della spesa pubblicitaria globale si è diretta verso i canali digitali. Per il 2024 si prevede che la quota salirà al 68%, per un valore di 645 miliardi di dollari.

Le piattaforme digitali consentono alle aziende di diffondere i loro messaggi tramite più canali contemporaneamente: email, social media, siti specializzati in filmati, motori di ricerca, app. Per di più permettono agli inserzionisti di individuare con estrema precisione i loro possibili clienti. Ad esempio, quando le donne chattano via facebook con le loro amiche o parenti, possono essere spiate da algoritmi che, dal tenore delle conversazioni, possono stabilire se si tratta di donne incinte, magari per le informazioni fornite sulla propria salute, o per la richiesta di vestiario e altri oggetti necessari per l’arrivo di un nuovo bambino. Nel qual caso i dati sono immediatamente passati all’impresa di prodotti per l’infanzia che ha commissionato il servizio, affinché possa intraprendere l’attività di seduzione personalizzata via facebook, o altro canale comunicativo. Di solito l’approccio è soft e può basarsi sull’invio di messaggi affabulatori del tipo: «Vogliamo costruire una relazione con te in quanto madre, vogliamo sostenerti, vogliamo che tu ci veda come tuoi alleati, come degli amici che ti sostengono affinché tu possa avere una gravidanza felice e un parto sicuro». Poi può giungere l’invito a fare parte di un gruppo d’incontro, una sorta di club per mamme che si danno appuntamento per scambiarsi informazioni, consigli, sostegno. Così almeno viene presentata l’iniziativa. In realtà, si tratta di ciò che gli esperti chiamano «community marketing»: l’aggregazione di persone affini, per condizione ed esigenze di consumo, che, mentre interagiscono fra loro, sono bombardate da continui messaggi promozionali. Per di più, mentre chattano, ciascuna di esse è analizzata in dettaglio in modo da farne un bersaglio di proposte commerciali personalizzate.

Gli «influencer»

Altre volte la strategia commerciale è fondata sugli influencer, persone di spicco del mondo dello spettacolo, dello sport, della moda, della scienza, in contatto con migliaia, addirittura milioni di follower. Le imprese li ingaggiano affinché postino ai loro follower messaggi comprendenti riferimenti ai marchi che intendono reclamizzare. E poiché l’influencer invita i propri seguaci a rispedire essi stessi i messaggi ai propri conoscenti, si può ottenere una copertura pubblicitaria di milioni di persone. L’Oms ha appurato che le multinazionali del latte in polvere fanno largo uso degli influencer in particolare in Cina, Malaysia, Stati Uniti, Francia, Russia. E, dopo avere esaminato numerosi messaggi, è emerso che il marchio di latte in polvere che compare più frequentemente è quello di Danone (32%) seguito da Mead Johnson (15%) e
Abbott (6%).

Il rapporto ha appurato che un’altra formula molto utilizzata è quella che va sotto il nome di «promozione tra utenti», un metodo che prevede la partecipazione attiva del pubblico. In pratica, l’impresa promotrice chiede a chiunque accetti di far parte della sua rete promozionale di inventarsi messaggi pubblicitari che poi l’interessato invierà al proprio ventaglio di conoscenti. Il tutto stimolato da premi estratti a sorte fra i partecipanti. Il rapporto dell’Oms cita l’iniziativa di una multinazionale di prodotti per l’infanzia che ha indetto l’estrazione di smartphone di lusso fra tutti coloro che avessero accettato di inviare la foto dei propri bambini associate ai marchi da reclamizzare. E, allettandoli con la promessa di sconti, i partecipanti sono anche stati invitati a iscriversi a dei marketing club per l’approvvigionamento online di prodotti per l’infanzia. L’iniziativa è stata lanciata da diciassette influencer che hanno anche sollecitato i partecipanti a utilizzare hashtag affinché l’azienda promotrice potesse seguire più agevolmente l’andamento della campagna e, quindi, censire la presenza di nuovi utenti da ricontattare.

In conclusione, il rapporto dell’Oms dimostra che le multinazionali del latte in polvere ricorrono in maniera massiccia alla pubblicità online per fare crescere un settore che già vale 55 miliardi di dollari. È proprio arrivato il tempo di fare applicare regole minime affinché la vita non sia più sottomessa al profitto. Almeno nei primi mesi dell’esistenza.

Francesco Gesualdi

Gemelli (foto Gigi Anataloni)




Chi paga la guerra del grano


La guerra in Ucraina ci ha fatto scoprire le vie dell’export-import del grano. Il suo blocco nei porti e la sua minore produzione stanno generando gravi problemi. E, se l’Europa rischia la recessione, milioni di africani rischiano la fame.

Il conflitto in Ucraina ci ha insegnato che le guerre, oltre a seminare morte dove divampano, producono sofferenza anche a distanza per le loro conseguenze commerciali ed economiche. E se l’Europa rischia la recessione per la riduzione delle forniture di gas, milioni di africani rischiano la fame per la riduzione delle forniture di grano.

Analizzando i dati di produzione e commercio, si scopre che il grano è uno dei prodotti più commercializzati a livello mondiale perché ci sono paesi che ne producono più del proprio fabbisogno e altri che non ne producono abbastanza. Da un punto di vista quantitativo, il primo posto spetta alla Cina, che però non ne produce abbastanza per cui è un importatore netto. Il secondo grande produttore è l’India che, al contrario, non lo consuma tutto e compare fra gli esportatori netti. Una notizia che non ti aspetteresti dal momento che, in India, il 13% della popolazione, 189 milioni di persone, è sottonutrita. Dimostrazione di come la fame non sia sempre un problema di produzione, ma di ingiusta distribuzione della ricchezza che priva milioni di famiglie dei mezzi necessari per acquistare il cibo che nei negozi abbonda.

Lo scandalo del blocco

Il terzo produttore mondiale di grano è la Russia che però è anche il primo esportatore perché ne consuma internamente soltanto la metà. Andando avanti, fra i primi dieci produttori troviamo Stati Uniti, Canada, Francia, Pakistan, Ucraina, Germania, Turchia. Tutti paesi, che, a eccezione di Pakistan e Turchia, compaiono anche fra i primi dieci esportatori. Un gruppo, quest’ultimo, di cui fanno parte anche Argentina e Australia che, pur non producendo quantità astronomiche di grano, ne raccolgono oltre il proprio fabbisogno.

Quanto all’Ucraina, si trova all’ottavo posto come produttore e al quinto come esportatore. Nel 2020 il suo contributo alle esportazioni mondiali è stato del 10%, quello russo del 20%. Grano che, in gran parte, salpa dai porti del Mar Nero. Per questo, con lo scoppiare della guerra in Ucraina, il mercato mondiale del grano ha registrato ammanchi importanti.

The Odessa Journal del 2 maggio 2022 titolava che, nei porti ucraini, erano bloccate quattro milioni e mezzo di tonnellate di grano. Cifra che, secondo le Nazioni Unite, saliva a 25 milioni di tonnellate se si allargava la visuale a mais, orzo, segale e altre derrate alimentari.

Russia e Ucraina sono importanti esportatori di grano. Foto Polina Rytova – Unsplash.

Multinazionali e prezzi

Le imprese transnazionali che commerciali cereali hanno subito approfittato della situazione per innalzare i prezzi.

Giova ricordare che, a livello mondiale, il commercio di cereali è controllato da un pugno di multinazionali di varia nazionalità: Cargill (Usa), Dreyfus (Francia), Bunge (Brasile), Adm (Usa), Glencor (Svizzera), una pattuglia che, nel caso del grano ucraino, è integrata da imprese a capitale locale come Kernel e Nibulon. Colossi in concorrenza fra loro per strapparsi qualche acquirente, ma sempre pronti ad accordarsi quando si tratta di fare lievitare i prezzi. E siccome un fondamento dell’economia di mercato è che il prezzo scende quando l’offerta supera la domanda e sale quando la domanda supera l’offerta, basta un qualsiasi segnale che possa essere interpretato come contrazione dell’offerta per fare impazzire i prezzi. Lo dimostra il fatto che i prezzi del grano sono in movimento dal 2016 quando si vendeva per 4 dollari al bushel (30 kg). Ma nel gennaio 2022, dunque prima dell’attacco russo all’Ucraina, si vendeva quasi al doppio: 7,85 dollari per bushel. E non si capisce bene il motivo dal momento che produzione e riserve (salvo un lieve calo nel 2019) si sono mantenuti pressoché costanti. Quando è scoppiata la guerra in Ucraina, è bastata la sola ipotesi di blocco dei porti per portare subito il prezzo del grano a 12 dollari per bushel. Un aumento del 200% rispetto al 2016 e del 50% rispetto al gennaio 2022, con conseguenze particolarmente gravi per tutti quei paesi che usano come alimento base il grano proveniente dall’estero.

Nel mondo si contano oltre 50mila piante commestibili, ma il 90% del fabbisogno alimentare dell’umanità è soddisfatto da appena quindici di esse. Fra le principali, il riso rappresenta l’alimento di base per il 50% della popolazione mondiale, soprattutto in Asia, America Latina e alcuni paesi africani. Quanto al grano, esso è l’alimento di base del 35% della popolazione mondiale, all’incirca due miliardi e mezzo di persone distribuite in 89 paesi appartenenti a tutti i continenti, con una maggiore concentrazione in Europa, Africa, Asia. Non a caso i maggiori importatori di grano si trovano in questi tre continenti con l’Egitto che, nel 2021, ha fatto da capofila seguito da Indonesia, Cina, Turchia, Algeria, Bangladesh. Altri paesi con forti importazioni di grano sono l’Iran, la Nigeria, il Marocco, il Giappone. Per completezza d’informazione, va detto che solo il 70% del grano prodotto a livello mondiale ha come destino l’alimentazione umana: un 20%, infatti, è utilizzato per l’allevamento animale, e il restante 10% per altri usi industriali. Una precisazione necessaria perché fra le ragioni che, ad esempio, fanno della Cina uno dei principali importatori di grano, c’è proprio l’esplosione degli allevamenti, in particolare di suini e pollame.

La crisi ucraina è destinata ad avere conseguenze su tutti i paesi importatori di grano, ma con effetti diversificati a seconda del grado di dipendenza dalle importazioni e soprattutto di dipendenza dal grano russo e ucraino. La Fao indica una cinquantina di paesi con percentuali di importazione dall’Ucraina e dalla Russia superiori al 25%. La lista si apre con l’Eritrea che copre il 100% delle proprie importazioni con grano proveniente dai due paesi e si chiude con il Bangladesh che copre il 25% delle proprie importazioni.

Chi rischia di più

Per capire quanto il blocco dei porti del Mar Nero possa davvero rappresentare una minaccia alimentare per i diversi paesi, bisogna tenere conto di altri due elementi. Il primo riguarda il posto detenuto dalla farina di grano nelle abitudini alimentari dei singoli paesi. Il secondo riguarda il grado di dipendenza dalle importazioni di grano. Se un paese importa il 100% del proprio grano, che però gioca un ruolo trascurabile nella dieta nazionale, non ci sarebbero rischi alimentari significativi neanche in caso di sospensione totale. Diverso il caso di un paese nel quale la gente mangia prevalentemente pane e pasta: se importa anche solo il 50% del proprio grano, e questo dovesse venire a mancare, il danno sarebbe notevole. Uno studio condotto dall’istituto francese Cirad su una sessantina di paesi d’Africa e del Medio Oriente, per un totale di 1,3 miliardi di persone, ha evidenziato che, pur dipendendo tutti dalle importazioni di grano per percentuali importanti, non tutti subirebbero le stesse conseguenze in caso di gravi turbolenze sul mercato mondiale del grano. Di fatto «solo» una porzione formata da 400 milioni di individui residenti in una quindicina di paesi subirebbe conseguenze gravi perché fa grande uso di pane e di pasta. Un secondo gruppo, formato da altri 400 milioni di persone, subirebbe conseguenze medie perché pane e pasta rappresentano cibi complementari. Infine, un terzo gruppo formato dai restanti 500 milioni di persone subirebbe conseguenze lievi perché per loro pane e pasta sono alimenti marginali. A conti fatti, in caso di riduzioni significative di grano sul mercato internazionale, i paesi a maggior rischio alimentare sarebbero soprattutto Egitto, Algeria, Marocco, Tunisia, Turchia. In questi paesi, i minori approvvigionamenti dall’estero potrebbero provocare una reale crisi alimentare, come succede là dove il cibo scarseggia per guerre o siccità. Una situazione, quest’ultima che, secondo il World food programme, coinvolge una cinquantina di nazioni per un totale di 193 milioni di persone con aspetti particolarmente drammatici in Etiopia, Madagascar meridionale, Sud Sudan,

Yemen, paese quest’ultimo dove mezzo milione di persone richiede interventi urgenti per evitare la morte per fame.

Raccolta del grano. Foto Robert Wiedemann – Unsplash.

la spesa delle famiglie

Vada come vada, la guerra in Ucraina è destinata a lasciare un segno profondo in tutti i paesi grandi importatori di grano perché, oltre alle conseguenze immediate, ci sono quelle di lunga durata che si faranno sentire negli anni a venire, per tre ragioni di fondo. La prima è la riduzione dei raccolti 2022 e 2023 causata dal dirottamento di mano d’opera dall’agricoltura all’esercito e dall’insicurezza provocata dal conflitto, fatti che impediscono di raccogliere ciò che arriva a maturazione e di effettuare nuove semine. La Fao stima che fra il 20 e il 30% della terra agricola ucraina non sarà utilizzata per la prossima semina. La seconda ragione di crisi è dovuta al prezzo dell’energia. L’agricoltura ne assorbe grandi quantità, sia in forma diretta che indiretta: diretta, per l’uso di corrente elettrica e carburante; indiretta per l’uso di fertilizzanti. Le sanzioni imposte alla Russia e le contromisure assunte da quest’ultima, hanno già provocato importanti aumenti di prezzi nel settore energetico e dei fertilizzanti, e altri potrebbero arrivare con inevitabili ripercussioni sul prezzo finale delle derrate alimentari. Con due conseguenze: minor cibo sulle tavole di milioni di famiglie e aumento della povertà. In Europa, il cibo assorbe mediamente il 15% della spesa familiare, mentre nei paesi a reddito medio basso assorbe attorno al 50%. In Nigeria, ad esempio, si attesta al 44%. Nel Sud del mondo, dunque, le famiglie sono molto sensibili ai prezzi dei prodotti alimentari, in particolare di quelli di largo consumo come il pane. Se quote crescenti di reddito familiare debbono essere utilizzate per mangiare, ne rimane di meno per le altre spese, determinando un impoverimento generalizzato.

Guerre, fame, debito

Non va dimenticato che, nel 2011, l’aumento del prezzo del pane provocò varie rivolte nei paesi del Nord Africa, fino ad assumere i connotati di una rivolta politica che prese il nome di «primavera araba». Ciò spiega perché, in molti paesi africani, i governi intervengano con sovvenzioni pubbliche per mantenere basso almeno il prezzo del pane. Fra questi l’Egitto dove il 70% dei 102 milioni di abitanti vive acquistando pane a prezzo calmierato dalle integrazioni statali. Questo fa capire perché l’aumento di prezzo dei cereali o dei prodotti oleari, sia non solo un problema delle famiglie, ma anche dei governi che ogni volta subiscono aggravi di spesa pubblica. E non è certo un caso se, poco dopo l’avvio delle ostilità in Ucraina, l’Egitto ha fatto ricorso al Fondo monetario Internazionale e all’Arabia Saudita per discutere nuovi prestiti. La chiusura perfetta del cerchio formato da guerre, fame e debito.

 Francesco Gesualdi

 




I profitti del Covid, tanti e per pochi


A oltre due anni dall’inizio della pandemia che ha sconvolto l’esistenza dell’umanità, ci sono pochissimi vincitori. In prima fila, le multinazionali del web e quelle farmaceutiche. Con tanti soldi pubblici e le consuete ingiustizie.

La conta definitiva dei danni provocati dal Covid si potrà fare solo a pandemia superata. Per ora i numeri raccontano che, a fine 2021, si contavano più di cinque milioni di morti a livello mondiale e una perdita economica stimata in 3mila miliardi di dollari dovuta agli arresti produttivi, i famosi lockdown decretati in molti paesi industrializzati nel corso del 2020. Con inevitabili contraccolpi anche per i paesi più poveri che, nel 2020, hanno registrato un crollo delle loro esportazioni fino al 40%.

Detto questo, il Covid non è stata una sciagura per tutti. Al contrario, per qualcuno è stata una vera manna. Ad esempio, la riduzione della vita sociale ha provocato un boom delle attività online che hanno permesso ai giganti del web di ottenere profitti da nababbi. Tipico il caso di Amazon che, nel 2020, ha realizzato un fatturato pari a 386 miliardi di dollari, il 38% in più dell’anno precedente, mentre i suoi profitti sono aumentati dell’84% passando da 11,5 a 21,3 miliardi di dollari.

Nei primi mesi di pandemia non ci sono state altre imprese vincenti quanto quelle informatiche, ma di lì a poco anche per le imprese farmaceutiche il Covid si sarebbe dimostrato una gallina dalle uova d’oro. In particolare, per quelle dedite alla produzione di vaccini. Con i virus il problema è che ancora non si sono scoperti farmaci antivirali ad ampio spettro come invece è successo per gli antibatterici. Per cui, quando si presenta un nuovo ceppo (il virus originale modificato per alcune piccole varianti), siamo praticamente disarmati. Per questo assumono

particolare importanza i vaccini, perché la sola cosa che funziona sono gli anticorpi, siano essi prodotti a seguito di contagio o di vaccino.

I produttori di vaccini

Il termine «vaccino» deve la sua origine a «vacca» perché le prime forme di stimolazione intenzionale di anticorpi si sono realizzate a fine 1700 nei confronti del vaiolo mediante l’inoculazione in soggetti sani di siero proveniente dalle pustole presenti sulle mammelle delle vacche malate. Col tempo la vaccinazione è diventata una pratica abituale nei confronti di numerose malattie, per cui sono tantissime le industrie che si dedicano a questo genere di attività, non solo nel vecchio mondo industrializzato, ma anche in Cina, India, Brasile, Thailandia e molti altri paesi del Sud del mondo, anche se l’Africa si presenta come il continente meno attrezzato. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), nel 2019 il mercato globale dei vaccini valeva 33 miliardi di dollari, ma rappresentava solo il 2% del mercato farmaceutico complessivo. Inoltre, benché in termini di volumi produttivi i più grandi fossero le società indiane Baharat biotech e Serum institute of India, che assieme contribuivano al 37% dell’intera produzione, in termini di valore la situazione era dominata dalle multinazionali occidentali. In particolare, quattro – Gsk, Merck, Pfizer e Sanofi -, che da sole esprimevano il 90% del valore globale dei vaccini, realizzato per il 68% nelle nazioni più ricche. Ma oggi la situazione sta cambiando perché il Covid ha rimescolato tutte le carte.

Fiala di vaccino mRna di Moderna. Foto Mufid Majnun – Pixabay.

Il sostegno pubblico

Per cominciare si è assistito a un massiccio sostegno finanziario delle imprese farmaceutiche da parte dei governi, anche se va detto che il settore farmaceutico è sempre stato assistito dalla mano pubblica. Ma, in tempi normali, l’aiuto viene dato in forma mascherata. La formula utilizzata, infatti, è quella della collaborazione con le università che passano alle imprese i risultati delle loro ricerche. In altre parole, le università spendono per studiare e ricercare, mentre le imprese godono gratuitamente del loro lavoro con notevole risparmio di spese. Questa formula è così collaudata che è stata la prima soluzione a cui  AstraZeneca ha pensato, quando ha deciso di dedicarsi a un vaccino anti Covid (del tipo a vettore virale). Essendo di nazionalità britannica, ha stretto un accordo di collaborazione con l’Università di Oxford che, da oltre un decennio, stava studiando un vaccino contro gli adenovirus presenti negli scimpanzé. L’ipotesi era che, a partire da quegli studi, si potesse ottenere un vaccino contro il Covid, come poi è avvenuto. Il costo sostenuto dall’Università di Oxford per le proprie ricerche non è stato rivelato, ma secondo una ricostruzione effettuata da alcuni accademici, fra cui Samuel Cross e Sarai Keestra, l’esborso complessivo ha superato i 250 milioni di euro, finanziati in gran parte dal governo britannico, dall’Unione europea e da alcune fondazioni private.

L’intervento del governo britannico si è concretizzato in particolare nel 2020, in linea con l’azione di molti altri governi. Non appena hanno capito che la soluzione della pandemia stava nel vaccino, questi hanno cercato di garantirsene l’approvvigionamento tramite contributi alla ricerca e contratti di preacquisto con le case farmaceutiche per una spesa complessiva che la fondazione Kenup ha stimato in 88 miliardi di dollari. Il solo governo degli Stati Uniti ha stanziato 18 miliardi di dollari e ancora non si sa quanti siano stati concessi a fondo perduto e quanti come pagamento anticipato di dosi concordate. L’iniziativa, battezzata Operation warp speed (operazione a tutta velocità), è stata strutturata in modo da poter evitare la trasparenza, ad esempio delegando l’esercito a stipulare i contratti con le case farmaceutiche come se si trattasse di operazioni militari. Tuttavia, nel marzo 2021 il Congresso ha prodotto un documento che rivela le somme elargite alle singole imprese e il corrispondente numero di dosi da consegnare a produzione avviata.

Una rapida realizzazione

I finanziamenti pubblici hanno avuto il loro effetto: nel marzo 2021 erano già disponibili 12 diversi vaccini prodotti non solo in Europa e Stati Uniti, ma anche in Cina, Russia, India, e ora anche a Cuba. Alcuni ottenuti secondo metodiche più tradizionali, altri con tecnologie all’avanguardia, ma tutti accomunati dalla rapidità di realizzazione. Basti dire che, prima del Covid, i tempi medi per la messa a punto di un vaccino variavano da 10 a 15 anni. Il record era stato battuto negli anni Sessanta dal vaccino contro la parotite che aveva richiesto soltanto quattro anni.

Stante la situazione, la rapidità   va salutata con favore, anche se qualcuno l’ha pagata e la mente va ai morti per trombosi provocata dal vaccino AstraZeneca. Incidenti che hanno nuociuto gravemente alla reputazione di questo vaccino fino a farlo accantonare definitivamente nei paesi più ricchi. Perfino, il governo della Gran Bretagna, suo paese natio, gli ha girato le spalle preferendo i vaccini di Pfizer e Moderna, tecnologicamente più avanzati, i cosiddetti vaccini mRna.

Lo scandalo profitti

Pur essendo molto diverse fra loro, le due aziende sono i veri vincitori della partita vaccinale, almeno in Occidente.

Pfizer è una grande multinazionale statunitense che, nel 2020, si posizionava all’ottavo posto mondiale, per fatturato, fra le imprese farmaceutiche. Fino al 2020, più che i vaccini, la sua specialità erano i farmaci per malattie rare e oncologiche, ma quando è comparso il Covid, ha incassato quasi 6 miliardi di dollari di contributi pubblici e si è buttato nella ricerca di un vaccino mRna. Mossa vincente.

Nel 2021, Pfizer ha quasi raddoppiato il proprio fatturato rispetto all’anno precedente, un balzo dovuto interamente alla vendita dei vaccini anti Covid la cui quota sul fatturato è passata dal 15% nel 2020 al 50% nel 2021. E i profitti di Pfizer sono più che raddoppiati giungendo a 20 miliardi di dollari. Del resto, a fronte di una ricerca interamente finanziata dalla mano pubblica, i suoi vaccini sono venduti a 19,50 dollari a dose benché Oxfam abbia calcolato che il costo di produzione si fermi a 1,2 dollari a dose. Moderna, anch’essa superfinanziata dalla mano pubblica, fa ancora peggio vendendo lo stesso tipo di vaccino per 25,50 dollari a dose.

Al pari di Pfizer, anche Moderna è statunitense, ma le sue dimensioni sono di gran lunga inferiori. La prima è un gigante, la seconda un nanerottolo. Per giunta più che farmacologica, Moderna è un’industria di tipo biotecnologico. Durante il primo semestre 2020 ha dichiarato introiti uguali a zero, mentre nello stesso periodo del 2021 ha dichiarato un fatturato di 6,2 miliardi di dollari. Praticamente da azienda moribonda è diventata miliardaria, con profitti dichiarati pari a 4,3 miliardi di dollari, un’incidenza del 70%. E quando ha aperto il suo mercato in Europa, ha pensato bene di domiciliarsi in Svizzera in modo da convogliare in un paradiso fiscale tutti gli introiti incassati dalle sue vendite ai governi europei. Così siamo all’assurdo che la collettività spende per la ricerca, le imprese si arricchiscono, poi quelle stesse imprese gabellano la collettività evitando le tasse. Ed hanno pure il permesso di mettere il brevetto sulle scoperte realizzate con i soldi pubblici, arrecando così un danno alla salute pubblica mondiale, perché sono loro a decidere a chi concedere le licenze di produzione e a che prezzo.

I brevetti dei ricchi

Fin dal sorgere della pandemia i paesi del Sud del mondo hanno invocato lo stato di emergenza per chiedere la sospensione dei trattati internazionali a protezione dei brevetti o, per dirla con l’eufemismo usato dai potenti, a tutela dei diritti di proprietà intellettuale. Invano. La lobby delle multinazionali farmaceutiche è così potente da aver ottenuto un «no» compatto da parte di tutti i paesi del Nord, prima fra tutte l’Unione europea. Il risultato è un mondo diviso in tre: i paesi ricchi dotati di vaccini e farmaci all’avanguardia, quelli a ricchezza media con vaccini di qualità più bassa e nessun farmaco antivirale, infine quelli poveri sprovvisti di tutto. Situazione confermata dai tassi di vaccinazione.

Secondo One world data, al 1° dicembre 2021, la percentuale di popolazione che ha avuto almeno una dose di vaccino era del 75% nei paesi a ricchezza elevata, del 44% nei paesi a ricchezza media, del 6% nei paesi a ricchezza bassa.

Eppure, tutti sanno che in un mondo globalizzato come è quello di oggi, non esiste più la possibilità di proteggersi da soli: o ci si salva tutti o non si salva nessuno. Le nuove varianti che continuano a imperversare ne sono una chiara dimostrazione.  Ma di fare qualcosa che una volta tanto sia per le persone, anziché per le imprese, questo sistema non vuole proprio saperne. Il massimo che sa fare sono promesse non mantenute.

Invio di vaccini nell’ambito del programma Covax.

La delusione Covax

Nell’aprile 2020 sotto l’egida dell’Organizzazione mondiale della sanità venne istituito il
Covax (Covid-19 vaccines
global access
), un organismo che aveva il compito di coordinare gli acquisti dei vaccini a livello mondiale in modo da evitare che i più ricchi facessero la parte del leone lasciando i più poveri a bocca asciutta.
L’organismo doveva anche raccogliere fondi per permettere ai paesi più poveri di poter comprare le dosi necessarie ai loro bisogni.

Sappiamo com’è finita: i paesi ricchi hanno acquistato i loro vaccini tramite contratti diretti  con le case farmaceutiche fino ad assorbire il 49% dei quali prodotti dalle imprese occidentali. Più precisamente, nel 2021 Moderna ha venduto ai paesi ricchi il 93,5% delle sue dosi, Pfizer (con BioNTech) il 67%, Johnson & Johnson l’87%, AstraZeneca il 32,5%. Eppure i paesi ricchi ospitano appena il 16% della popolazione mondiale.

In conclusione, all’agosto 2021 le dosi transitate per il Covax, a beneficio di 140 paesi, erano appena 205 milioni su un totale auspicato di due miliardi. Quanto ai fondi per assistere i paesi più poveri, il fabbisogno era stato stimato in 34 miliardi di dollari, ma la cifra realmente raccolta al dicembre 2021 si era fermata a 18 miliardi. Un’altra occasione mancata per avere giustizia e solidarietà.

Francesco Gesualdi

 




Lavoro, globalizzazione e un salario senza dignità


La competizione esasperata tra multinazionali costringe a ridurre i prezzi di merci e servizi. Per mantenere i profitti, i datori di lavoro diminuiscono i salari. Ecco perché i lavoratori sono sempre più vittime del sistema. In Italia, si stima che gli occupati poveri siano 5,2 milioni.

Da qualche tempo anche in Italia si parla della necessità di istituire il salario minimo legale, una soglia salariale fissata per legge al di sotto della quale nessun rapporto di lavoro può scendere (1). L’esigenza nasce dalla constatazione che ormai anche da noi i rapporti di lavoro sono diventati una giungla dove ognuno fa ciò che vuole. O meglio dove i forti, ossia i datori di lavoro, possono imporre le condizioni che vogliono.

La cronaca riporta casi limite di operai pagati anche due euro l’ora come è stato scoperto presso la Venus Ark, un’impresa di confezioni di Prato, i cui titolari sono stati arrestati per sfruttamento nel settembre 2021. Ma senza arrivare ai casi di totale illegalità, più vicini alla schiavitù che allo sfruttamento, si possono prendere come riferimento le paghe dei rider (2) che, secondo una ricerca della Banca d’Italia del 2018, si aggirano attorno ai 6 euro l’ora.

Sempre meno tutele

In Italia, come nel resto d’Europa, il numero di lavoratori con un alto tasso di tutele si sta assottigliando sempre di più. A cominciare dal tipo di assunzione. Negli anni Ottanta del secolo scorso, l’assunzione abituale era a tempo indeterminato senza possibilità di licenziamento in assenza di giusta causa determinata dalla legge. Tutto ha cominciato a sgretolarsi con la globalizzazione, quel processo avviato negli anni Novanta teso a trasformare il mondo intero in un unico grande mercato nel quale merci e capitali possono spostarsi da una nazione all’altra senza vincoli o limitazioni di sorta. Un traguardo fortemente voluto dalle multinazionali che, per le dimensioni raggiunte, non potevano più accontentarsi di rimanere confinate nelle loro nazioni di origine.

La prima grande vittoria l’hanno ottenuta nel 1995 con l’istituzione dell’Organizzazione mondiale del commercio, una sorta di super governo mondiale che regola i rapporti commerciali fra paesi tenendo conto dei soli interessi delle grandi imprese. Tuttavia, proprio quando la globalizzazione ha cominciato a diventare realtà, le multinazionali hanno scoperto che il grande mercato mondiale che sognavano non esiste. Semplicemente perché le persone capaci di comprare i loro prodotti non vanno oltre il 30-40% della popolazione mondiale. Tutti gli altri sono solo zavorra, persone che a causa della loro povertà non entrano mai in un supermercato.

Così, tante multinazionali (all’incirca un milione) si stanno contendendo un mercato, tutto sommato, limitato che non ha possibilità di espansione immediata. Ne è venuta fuori una concorrenza all’ultimo sangue giocata essenzialmente sulla diminuzione dei prezzi. Ma ogni volta che questi vengono ritoccati, bisogna trovare il modo di ridurre anche i costi di produzione, altrimenti i profitti soffrono. Ecco perché, nell’epoca della globalizzazione, il lavoro è finito sotto assedio. Finché le economie erano organizzate su base nazionale, la via classica di riduzione del costo del lavoro era l’automazione, ma, in un sistema totalmente aperto, le imprese hanno scoperto anche la via della delocalizzazione, il trasferimento delle attività produttive in paesi dove la povertà morde così tanto da rendere i lavoratori disponibili a svolgere le stesse mansioni dei loro colleghi europei o nordamericani per salari anche trenta volte più bassi.

Sono sempre di più i «working poor», i lavoratori senza un salario «vivibile». Foto John R.Perry – Pixabay.

Il lavoro secondo l’Ocse

Nessuno sa quanti posti di lavoro siano stati persi nei paesi di prima industrializzazione, a causa dei trasferimenti produttivi nei paesi a bassi salari. Ma è un fatto che molti settori continuano a perdere addetti. I recenti casi di Gkn e Whirpool in Italia lo testimoniano. Già nel 1994, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), il centro studi dei paesi industrializzati incaricato di elaborare strategie economiche, suonò il campanello d’allarme con la pubblicazione del Jobs study, un rapporto sullo stato dell’occupazione nei paesi industrializzati. Fin dalle prime righe non faceva mistero della gravità del problema: «La disoccupazione è il fenomeno del nostro tempo che mette più paura. Ci sono 35 milioni di disoccupati nei paesi aderenti all’Ocse, mentre altri 15 hanno smesso di cercare lavoro oppure hanno accettato, contro la loro volontà, un lavoro part time. Almeno un terzo dei giovani è senza lavoro». Ma lungi dal voler rimettere in discussione la globalizzazione, la ricetta dell’Ocse si chiamava riforma del lavoro. Il ragionamento era semplice. I paesi di nuova industrializzazione attirano le imprese perché offrono costi di produzione più bassi. Dunque, se vuole fare tornare le imprese in casa propria, il Nord deve creare condizioni altrettanto allettanti. È la legge della competitività, bellezza. Ed ecco i suggerimenti: ridurre le tasse sui profitti, ridurre il peso per oneri sociali, rendere il lavoro più flessibile, ossia più disponibile ad adattarsi alle esigenze della produzione.

Lavoratori vulnerabili

Ancora oggi tutti i governi, siano essi di destra o di sinistra, usano queste misure come stella polare. E per farle digerire ai cittadini, la mettono sempre sul piano del meno peggio: «Preferite essere disoccupati che non guadagnano niente o sottoccupati che almeno 500 euro al mese li prendono?». E ponendoci sempre di fronte al dilemma della sopravvivenza, alla fine ottengono non solo il consenso dei cittadini, ma anche i loro ringraziamenti.

Secondo i calcoli dell’Organizzazione mondiale del lavoro (Oil), i lavoratori «vulnerabili», ossia precari, malpagati e in situazioni a rischio, nel mondo sono quasi un miliardo e mezzo, il 42% di tutti gli occupati. La metà di loro sono definiti working poors, lavoratori poveri, perché percepiscono compensi al di sotto dei tre dollari al giorno, la soglia limite della povertà.

Lavoratori, ma poveri

La novità è che ora i working poors abitano anche fra noi. I loro tratti distintivi sono paghe basse, discontinuità lavorativa, scarse ore di lavoro. A seconda che si prenda in considerazione un solo criterio o la combinazione di più elementi, si ottengono risultati diversi sul numero dei working poors di casa nostra. Prendendo a riferimento la sola  paga oraria, l’Istat preferisce parlare di sperequazione retributiva piuttosto che di povertà. Posta la mediana nazionale a 11,21 euro l’ora, l’Istat definisce a bassa paga chiunque riceva meno di 7,47 euro l’ora, che corrispondono a due terzi della media nazionale. Il Cnel stima che i lavoratori a bassa paga siano oltre tre milioni, il 17,9% di tutti i lavoratori dipendenti, principalmente lavoratori domestici, dell’agricoltura, delle costruzioni. Ma anche della piccola industria considerato che in settori come l’abbigliamento si applicano contratti collettivi di comodo che, per le categorie più basse, prevedono salari orari al di sotto dei 7 euro.

Un caso è rappresentato dal contratto 2015-2018 firmato fra Fedimprese e Snapel per le aziende façon (operanti per conto terzi). Un settore a prevalente presenza femminile che conferma come l’ingiustizia retributiva colpisca soprattutto le donne.

Se moltiplichiamo la paga oraria per le ore lavorate, otteniamo i compensi mensili e annuali che ci danno un’idea più compiuta delle disponibilità monetarie dei lavoratori e quindi della loro condizione economica. Ed è proprio il reddito annuale il parametro utilizzato per stabilire chi sono i lavoratori poveri, ricorrendo ancora una volta al confronto, piuttosto che ai concetti assoluti. Il valore preso a riferimento è il reddito familiare mediano che, in Italia, corrisponde a 25mila euro. Per convenzione, si definisce lavoratore povero chiunque guadagni meno del 60% di tale importo, ossia meno di 15mila euro l’anno. Quanti siano con esattezza è difficile dirlo. Secondo il Cnel (anno 2018) sono 5 milioni e 247mila, il 31% di tutti gli occupati.

Costituzione italiana e dichiarazione

Ora, però, il gioco al ribasso si sta mostrando pericoloso per il sistema stesso, e la politica, da sempre al servizio dell’economia, sta cercando un exit strategy. Ed ecco il salario minimo come via d’uscita, che però è vera soluzione solo se rispetta certi criteri. Altrimenti si trasforma in farsa come succede in molti paesi dove è fissato addirittura sotto la soglia della povertà assoluta. Valgano come esempio Haiti o il Burkina Faso dove esso si trova a meno di 50 centesimi di euro l’ora. E non va certo meglio in alcuni paesi dell’Unione europea, come la Romania dove è fissato a 2,8 euro l’ora o la Bulgaria dove si trova a 2 euro l’ora. Per contro in Germania è fissato a 9,50 euro l’ora, mentre in Lussemburgo varia dai 9,50 euro per gli apprendisti ai 15,27 per gli specializzati. Il punto è che il salario minimo non è un elemento neutro: a seconda di dove viene posizionato avvantaggia i lavoratori o le imprese, riduce le disuguaglianze o le acuisce, colma le lacune sociali o le aggrava. E poiché anche nelle democrazie, il potere è detenuto dalle classi agiate piuttosto che da quelle umili, difficilmente il salario minimo è definito secondo criteri di dignità e rispetto. Piuttosto è concepito come strumento di contenimento dell’esasperazione sociale. Prova ne sia che anche nell’Unione europea l’orientamento dominante è di fissarlo al 60% del salario mediano nazionale che è la linea di confine del lavoro in povertà.

L’alternativa è prendere sul serio l’articolo 36 della Costituzione italiana che recita: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Affermazione che fa il paio con l’articolo 23 della Dichiarazione universale dei Diritti umani, secondo il quale il lavoratore «ha diritto ad una rimunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale».

Sono sempre di più i «working poor», i lavoratori senza un salario «vivibile». Foto Brian Odwar – Pixabay.

Il salario «vivibile»

È proprio a partire da questi principi che sta avanzando l’idea di un salario minimo inteso come salario vivibile. Un salario, cioè, che con 40 ore di lavoro settimanale permetta al singolo lavoratore e ai suoi familiari di far fronte ai bisogni di base individuati in cibo, alloggio, vestiario, sanità, energia, trasporti, istruzione. Un conteggio sicuramente non facile perché, oltre alla composizione del nucleo familiare, la vivibilità del salario dipende anche dal tipo di clima in cui si vive, dal livello degli affitti, dalla quantità di servizi gratuiti offerti dallo stato. Tuttavia, alcune organizzazioni, fra cui la Clean clothes campaign, rappresentata in Italia dalla «Campagna abiti puliti», stanno mettendo a punto dei metodi di calcolo di salario vivibile che, pur  nella loro parzialità, offrono buoni livelli di affidabilità.
Per l’Italia i calcoli sono ancora in corso, ma si profilano cifre ben al di sopra degli attuali minimi contrattuali, almeno in alcuni settori. Del resto i contratti non sono il frutto di ciò che è giusto, ma di ciò che è possibile in base alla forza di cui si dispone. E in un momento in cui la forza sindacale è in calo a causa di alti tassi di disoccupazione e di una legislazione accomodante per le imprese, sarebbe estremamente utile per i sindacati poter contare su un salario minimo legale fissato secondo criteri di vivibilità. Non tutti, però, la pensano così, e anzi c’è chi interpreta l’intervento del legislatore   come un’indebita intromissione in un ambito di esclusiva competenza sindacale. E forse hanno ragione, ma nella storia bisogna anche saper rivedere le proprie strategie in base al mutare dei rapporti di forza: dove non possono la morale e l’etica, sono i fallimenti a indicare la strada più giusta da intraprendere.

Francesco Gesualdi

(1) Questo articolo va ad aggiornare «Per un salario dignitoso (nell’era della disoccupazione)», pubblicato su MC a novembre 2019.

(2) Sui riders si legga «Il capitalismo delle piattaforme digitali», MC, luglio 2020.




Dietro la bontà del capitalismo

testo di Paolo Moiola |


Da tempo la globalizzazione neoliberista ha ridotto l’influenza delle organizzazioni multilaterali. Lo stiamo vedendo anche con la gestione della pandemia da Covid-19. Sono le organizzazioni private che tirano le fila, in primis quelle facenti capo a Bill Gates. Cosa c’è dietro questa filantropia che muove montagne di soldi? Siamo sicuri che la definizione di «ricchi e buoni» sia corretta?

La copertina di «Ricchi e buoni? Le trame oscure del filantrocapitalismo» (Emi, 2020).

È inusuale dare a un libro un titolo in forma di domanda. Lo fa Nicoletta Dentico, giornalista e attivista, con il suo «Ricchi e buoni?».

Che la sua domanda sia retorica lo si intuisce immediatamente dal sottotitolo: «Le trame oscure del filantrocapitalismo» (Emi, 2020). L’economia è da sempre tematica ostica e fortemente divisiva. Lo vediamo quotidianamente nella politica, ancora di più di questi tempi, a causa della pandemia. Il libro è un atto d’accusa duro e circostanziato che potrebbe irritare coloro che amano ritenersi o definirsi «moderati». «Il mio è un libro di denuncia rigorosa, ma sempre denuncia è. Io penso che questo non sia un tempo per essere sfumati: le cose vanno dette».

Miliardari filantrocapitalisti

I ricchi di cui scrive Nicoletta Dentico sono miliardari, quelli appartenenti al «Mondo Nuovo dell’1 %», come li definisce, con una punta di sarcasmo, Vandana Shiva nella sua prefazione. Ieri si chiamavano Andrew Carnegie, John Rockefeller, Henry Ford, oggi Ted Turner, Mark Zuckerberg, Warren Buffett e, soprattutto, Bill e Melinda
Gates.

«Non dimentichiamoci – ci ricorda l’autrice – che i miliardari di oggi sono figli di un’economia senza freni, giocatori di una partita senza regole che si sono arricchiti in maniera strabiliante attraverso una globalizzazione che ha prodotto la diseguaglianza che abbiamo sotto gli occhi. Persone che sono riuscite ad arricchirsi con i monopoli brevettuali, con evasione ed elusione fiscali. E portando molto delle loro ricchezze nei paradisi fiscali».

La loro «bontà» (le virgolette sono necessarie) è riferita alle elargizioni benefiche in favore della collettività mondiale, in particolare nel campo della salute. Tutto sarebbe lodevole se non si basasse su fondamenta errate (il sistema economico neoliberista) e non finisse per frenare ogni possibile cambiamento. È il filantrocapitalismo e, più precisamente, il suo lato oscuro.

«Il filantrocapitalismo – spiega Nicoletta – è quella forma particolare di filantropia che usa modelli, strumenti, valori del mercato e dell’impresa per spingerli, promuoverli e imporli anche nell’agenda sociale, nell’agenda dei diritti. Business e filantropia diventano dunque un tutt’uno e la filantropia diviene la continuazione del business con altri mezzi. Nel filantrocapitalismo si annulla pertanto il confine tra profit e non profit».

Dal dono alla filantropia del sistema

«La mia è una denuncia di chi fa della filantropia una forma di esercizio egemonico. Di chi è riuscito a impossessarsi anche dell’ultimo fortino rimasto indenne dalla logica capitalista: quello del mondo della solidarietà e del dono. Quelli cioè che riescono a capitalizzare da un territorio che è fondativo dell’essenza umana. Dono e solidarietà fanno infatti parte di tutte le culture. Invece, queste persone sono riuscite a cambiarli geneticamente, facendone prolungamenti del loro potere economico e imprenditoriale. Su questi soggetti io rivolgo la mia attenzione. Li chiamo “sacerdoti” perché costoro portano avanti una religione di mercato vera e propria. Quando costoro intervengono, non guardano mai all’origine del problema, loro trovano sempre una soluzione tecnica, biotecnologica, imprenditoriale. La loro idea è di creare mercati per i poveri, cosa che non tocca le cause dei problemi. Sono dei dirottatori e agiscono – appunto – con un fare religioso. E attorno a loro c’è un’aura di venerazione da parte di molti governi, soprattutto del Nord del mondo».

Osserviamo che filantropia sarebbe un termine positivo fin dalla sua etimologia: «amore verso l’uomo» o, per usare la definizione del dizionario Treccani, «disposizione d’animo e sforzo atto a promuovere la felicità e il benessere degli altri». «Occorre – precisa Nicoletta – distinguere tra filantropia e questa forma filantrocapitalista. C’è una filantropia che fa cose meravigliose, vocata magari ad azioni più piccole, sostenendo realtà che afferiscono ai diritti umani. C’è della filantropia che è stata fatta con della ricchezza meramente imprenditoriale. Penso ad alcune organizzazioni tedesche come la Rosa Luxemburg Foundation o la Heinrich Böll Foundation. Il mio non è un attacco a tutta la filantropia. Tutt’altro. C’è molta buona filantropia, anche negli Stati Uniti».

Una sede della fondazione di Bill e Melinda Gates. Foto Marc Smith.

 

I passaggi storici

Per arrivare all’attuale mutazione genetica della filantropia, ci sono state tappe storiche abbastanza delineate: negli anni Ottanta, la fase di massima espansione della globalizzazione; tra il 1999 e il 2001 (con le manifestazioni a Seattle e Genova) un tentativo di reazione da parte della società civile; dal 2000 al 2019 la progressiva perdita di centralità delle organizzazioni multilaterali (Onu, Who, ecc.); nel 2020 l’arrivo della pandemia che ha rovesciato il tavolo e che può ridisegnare il mondo (in peggio o in meglio).

«Per me il problema è la fragorosa assenza di regole del gioco che invece c’erano prima degli anni Ottanta. Veniamo da quattro decenni di cultura dell’idea che il pubblico non funziona, che è inefficiente. Ci pensano i privati, perché privato è meglio. Quattro decenni di spinta verso una privatizzazione senza regole».

Questo processo raggiunge il proprio apice quando arriva alle Nazioni unite, la più grande organizzazione pubblica sovranazionale. «I nostri miliardari filantropi capiscono che fare i buoni giocando l’agenda della solidarietà è una strategia utile per entrare nelle organizzazioni internazionali più deboli portando con sé tutti gli attori economici propri».

Nel 2000 viene così approvato lo United nations global compact, un patto tra Nazioni unite e aziende. L’accordo si trasforma «nel cavallo di Troia del settore privato, ormai dentro la pancia delle istituzioni internazionali». Un anno dopo nasce il «Fondo globale contro l’Aids, la tubercolosi e la malaria», organizzazione di natura privata che risponde a logiche di diritto privato.

Si è così passati dal multilateralismo (coordinamento tra più stati attorno a un obiettivo) al multistakeholderismo (coordinamento tra attori diversi, da stakeholder, soggetto interessato). «Sì, in italiano il termine è orrendo – spiega Nicoletta -, ma utile per indicare che siamo tutti attorno a uno stesso tavolo a gestire un determinato problema. Senza però considerare che non siamo tutti lì per lo stesso motivo. Abbiamo ragioni diverse e anche profondamente divergenti. Ed anche missioni diverse e divergenti perché il settore privato e soprattutto le multinazionali, alla fine, hanno l’obbligo statutario di fare profitti».

Oggi i bilanci dell’Organizzazione mondiale della sanità mostrano che la fondazione di Bill e Melinda Gates è, in termini assoluti, il secondo finanziatore dopo gli Stati Uniti: 531 milioni di dollari nel biennio 2018-2019. E al quarto posto c’è la Gavi Aliance, organizzazione pubblico-privata nella quale sempre la Fondazione Gates ha un ruolo di preminenza (17% dei fondi totali). «Quando Bill Gates parla all’Oms, non fiata nessuno! E nessuno si azzarda a fare un’obiezione».

Questo è vero a tal punto che il New York Times (23 novembre 2020) ha parlato di un «Bill chill», un brivido di freddo che percorre chi teme di far arrabbiare Gates e, per questo, si autocensura.

Nicoletta Dentico è molto dura verso il fondatore di Microsoft, principale esponente del filantrocapitalismo di oggi. «Critiche motivate – spiega lei – . Gates è particolarmente pericoloso. Ormai è ovunque. Ovunque. Non c’è settore della vita umana in cui lui non abbia deciso che ha ricette da somministrare: agricoltura, finanza, cambiamento climatico, salute. In questo momento Bill Gates è il kingmaker, lo zar della ricerca sul Covid-19. Il problema è: lui può spendere un sacco di soldi, ma non c’è un processo democratico rispetto alla sue decisioni. Risponde unicamente a se stesso. Vige una specie di trinità: lui, la moglie Melinda e Warren Buffet, il quale nel giugno 2006 all’uomo (Gates, in quel momento) più ricco del mondo regalò 36 miliardi di dollari. Aveva speculato fino a quel momento, ma aveva capito che sarebbe scoppiata la bomba finanziaria. Pertanto, diede tutti quei guadagni fatti con la speculazione alla fondazione di Gates, che – va ricordato – è un’organizzazione potentemente defiscalizzata e che dà reputazione».

L’Oms e il Covid

Dagli anni Ottanta, l’Oms ha visto la riduzione dei contributi obbligatori degli stati membri e l’aumento delle contribuzioni volontarie. Non è la stessa cosa: è la vittoria del privato sul pubblico, la vittoria del filantrocapitalismo.

Si obietta che l’Oms non si merita i finanziamenti, che anche la sua gestione dell’emergenza Covid-19 è stata fallimentare. «In realtà – precisa Nicoletta -, la situazione è ben più complessa. Di questa organizzazione ci sarebbe un gran bisogno. Se in questo momento è debole – ed è vero -, occorre sostenerla. Riflette le debolezze degli stati che sono i suoi peggiori nemici, come ha dimostrato Trump».

Nonostante le minacce dell’ormai ex presidente, stando al bilancio ufficiale dell’Oms per il biennio 2020-2021, per quanto concerne i finanziamenti pubblici, gli Stati Uniti sono primi, seguiti (a distanza) dalla Cina. Tuttavia, la pandemia ha spinto quest’ultima e soprattutto la Germania a offrire finanziamenti aggiuntivi.

«Un tempo – precisa Nicoletta Dentico – anche l’Italia era un grande finanziatore. Oggi sembra preferire il Gavi, il Fondo globale e iniziative similari».

L’autrice di Ricchi e buoni? ha una lunga esperienza nel campo della salute. È stata infatti direttrice di Medici senza frontiere Italia durante la presidenza di Carlo Urbani (amico e collaboratore di questa rivista). Ha lavorato per la campagna sull’accesso ai farmaci essenziali.

«Il Covid – dice – è un segno dei tempi che va colto. La devastazione della pandemia arriva da Sars-Cov-2, ma anche dall’arroganza e dall’inefficienza del mondo. E dalla riluttanza a capire che occorre cambiare le regole del gioco. Mi pare ci sia tanta gente che aspetta che “passi la nottata” per tornare a fare quello che faceva prima. Ma il Covid ci dice che non dobbiamo tornare dove eravamo prima. La seconda ondata della pandemia ci ha detto che dobbiamo cambiare rotta».

Nicoletta Dentico, autrice di «Ricchi e buoni?» (Emi, 2020). Foto: archivio Dentico.

Francesco, il leader

Nicoletta Dentico ha iniziato il suo lungo percorso di lotta per la giustizia come volontaria di Mani Tese, storica organizzazione cattolica.

«Rivendico la mia appartenenza al campo cattolico – spiega -. Il discorso evangelico “Non sono venuto a portare pace ma contraddizione”, mi ha molto ispirata nella mia vita di cristiana». E pure per le pagine di Ricchi e buoni?, aggiungiamo noi.

«La mia critica è molto dura perché io penso che Bill Gates e gli altri siano il risultato di un disimpegno, di una cessione di sovranità mostruosa da parte della politica. Io denuncio l’insipienza e la connivenza dei governi. Credo che un mondo in cui realtà private governano la cosa pubblica sia un mondo distopico».

A questa ritirata degli stati, pare si sottragga il Vaticano, che è nell’Organizzazione mondiale del commercio come osservatore permanente. Lo scorso ottobre si è schierato a fianco di India e Sud Africa per chiedere la sospensione delle norme sui brevetti allo scopo di affrontare la pandemia.

Chiediamo a Nicoletta la sua opinione rispetto al pensiero e alle azioni di Francesco, un papa a cui certamente non mancano gli avversari, anche nella propria squadra d’appartenenza.

«Lui è l’unico che si sia preso la briga di ascoltare i movimenti sociali in ben tre incontri mondiali (nel 2014, 2015 e 2016) e quella spinta diversa che viene dal basso. A iniziare dalla Evangelii gaudium (2013) – cioè prima della Laudato si’ (2015) –  quando ha cominciato a scrivere che “esta economia mata”, questa economia uccide. È lì che si è giocato, soprattutto in America, la sua reputazione. È con la Evangelii gaudium che hanno iniziato ad attaccarlo in quanto anticapitalista, in quanto comunista. Se non dice lui certe cose, non le dirà nessun altro. Se lui parla della sospensione della proprietà intellettuale per la lotta al Covid, ne parlerà tutto il mondo. Per fortuna, c’è papa Francesco che capisce come nessun altro queste problematiche. Per questo è, in assoluto, il leader di riferimento».

Paolo Moiola


Le organizzazioni principali

Filantropia made in Usa

  • Chi: Bill & Melinda Gates (Usa)
    Organizzazione (2000): Bill & Melinda Gates Foundation
    Sito: www.gatesfoundation.org
  • Chi: Bill & Melinda Gates, Wto, Unicef, World Bank, ecc.
    Organizzazione (2000): Global Alliance for Vaccines and Immunisation – Gavi, The Vaccine Alliance
    Sito: www.gavi.org
  • Chi: Bill & Melinda Gates, Norvegia
    Organizzazione (2017): Coalition for Epidemic Preparedness Innovations
    Sito: cepi.net
  • Chi: Bill & Melinda Gates, Catholic Relief Services (Usa), governi, ecc.
    Organizzazione (2002): The Global Fund to Fight Aids, Tuberculosis and Malaria
    Sito: www.theglobalfund.org
  • Chi: Bill & Melinda Gates, Francia, Gran Bretagna, Spagna, Brasile, Corea, Cile
    Organizzazione (2006): Unitaid – Innovation in Global Health
    Sito: unitaid.org
  • Chi: Bill & Melinda Gates
    Organizzazione (2003): Foundation for Innovative New Diagnostics – Find
    Sito: www.finddx.org
  • Chi: Bill & Melinda Gates e Warren Buffett (Usa)
    Organizzazione (2010): The Giving Pledge
    Sito: givingpledge.org
  • Chi: Ted Turner (Usa)
    Organizzazione (1998): Un Foundation e Better World Fund
    Siti: unfoundation.org; www.abetterworldfund.org
  • Chi: Bill & Hillary Clinton (Usa)
    Organizzazione (1997): Clinton Foundation – Clinton Global Initiative
    Sito: www.clintonfoundation.org
  • Chi: Mark Zuckerberg & Priscilla Chan (Usa)
    Organizzazione (2015): Chan Zuckerberg Initiative
    Sito: chanzuckerberg.com
  • Chi: George Soros (Usa)
    Organizzazione (1979): The Open Society Foundations
    Sito: www.opensocietyfoundations.org

Bill Gates durante una conferenza della Gavi Alliance, una delle sue numerose creature. Foto Ben Fisher – Gavi Alliance.

LE PIÙ ANTICHE

  • Chi: Andrew Carnegie (Usa)
    Organizzazione (1905): Carnegie Foundation for the Advancement of Teaching
    Sito: www.carnegiefoundation.org
  • Chi: John D. Rockefeller (Usa)
    Organizzazione (1913): The Rockefeller Foundation
    Sito: www.rockefellerfoundation.org
  • Chi: Henry e Edsel Ford (Usa)
    Organizzazione (1936): The Ford Foundation
    Sito: www.fordfoundation.org

GLI ALTRI

L’imprenditore di Amazon, Jeff Bezos (Usa), l’uomo più ricco del pianeta, non ha ancora una propria fondazione.

Pa.Mo.


Alcune date.

La società, dal pubblico al privato

  • 1948 – Nasce l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms – Who, World health organization).
  • 1995 – Nasce l’Organizzione mondiale del commercio (Oms-Wto) ed entrano in vigore gli accordi «Trips» sulla proprietà intellettuale.
  • 1999 – 2001 – A Seattle (dicembre 1999) e a Genova
    (luglio 2001) movimenti della società civile protestano contro la globalizzazione neoliberista.
  • 2000 – Viene ufficialmente lanciata la Bill and Melida Gates Foundation.
  • 2000, luglio – Sotto lo slogan «Uniting business for a better world», nasce lo «United nations global compact», che apre le Nazioni unite alle imprese private.
  • 2020, 11 marzo – L’Oms dichiara la pandemia globale da nuovo coronavirus.
  • 2020, aprile – Donald Trump ordina di bloccare i finanziamenti Usa (che sono i più consistenti) all’Oms, colpevole di una pessima gestione della pandemia e di essere succube della Cina. Per parte sua, Pechino decide di versare un contributo extra.
  • 2020, 2 ottobre – In una lettera all’Organizzazione mondiale del commercio (Omc-Wto), India e Sud Africa chiedono di derogare alle norme sulla proprietà intellettuale per rendere più facile per i paesi in via di sviluppo la produzione o l’importazione di farmaci contro il Covid-19.
  • 2020, 17 ottobre – A Ginevra, alla riunione dell’Oms, il Vaticano chiede che la proprietà intellettuale non ostacoli l’accesso al vaccino.
  • 2020, novembre – In rapida successione tre aziende occidentali annunciano la produzione di vaccini contro il virus Sars-CoV-2.

Pa.Mo.

 




Noi e Voi

Mwereria

Carissimo, se ben ricorda, verso l’inizio dell’anno 2020,
abbiamo avuto un incontro con il padre superiore generale. Tra le altre cose ci ha fatto un appello perché qualcuno di noi «ricordasse» in modo particolare qualche bella figura di missionario defunto.

Mi son permesso di rispondere a questo appello. Questo libretto ne è il frutto. Pregate per me,

padre Giuseppe Quattrocchio
Torino, 30/10/2020

Riceviamo con riconoscenza questo libro dall’intramontabile padre Giuseppe Quattrocchio che dopo tanti anni passati in Kenya ha ancora il cuore tra i monti e le valli del Njombene in Meru.

Il libro racconta di padre Franco Soldati, detto Mwereria, che ha passato 53 anni della sua vita tra gli Ameru. E parlando di Mwereria non può non ricordare Mukiri, il silenzioso fratel Giuseppe Argese che ha dato acqua agli assetati di quella regione. Potete richiedere il libro (offerta libera) contattando il nostro ufficio spedizioni. Grazie.

Top 200 edizione 2020

In un mondo dove c’è una vera e propria ossessione per la rilevazione dei dati, c’è invece un ambito dove i dati scarseggiano. È quello delle multinazionali che finisce per essere addirittura avvolto in un’aura di mistero. Perfino sulla loro definizione non c’è accordo preciso, il che spiega perché esistano stime le più varie perfino sul loro numero.

In questo contesto, assume particolare importanza lo sforzo del «Centro nuovo modello di sviluppo» di monitorare le prime 200 multinazionali, corredandole di una serie di articoli di approfondimento che ogni anno danno luogo a un dossier intitolato Top 200.

Essendo un’attività che si protrae ormai da una diecina di anni, sono possibili anche confronti che permettono di seguire l’evoluzione delle top 200. Tendenzialmente si nota una loro crescita su tutti i fronti, ma fatturati e profitti crescono più di quanto non crescano gli occupati. Più precisamente, fra il 2005 e il 2019 il loro fatturato complessivo è aumentato del 69% e i profitti del 62%, mentre l’occupazione solo del 35%.

Un dato che conferma un assetto produttivo in rapida trasformazione. Infatti, mentre un tempo le imprese tendevano a integrarsi verticalmente, in modo da controllare tutte le fasi della produzione, oggi preferiscono appaltare il più possibile all’esterno, possibilmente in paesi con bassi salari, per ridurre i loro costi di produzione.

Un altro dato di rilievo è come stia cambiando la nazionalità delle top 200. La novità principale è rappresentata dall’avanzata della Cina che da 19 multinazionali nel 2009, è passata a 50 nel 2019, e non a detrimento degli Stati Uniti, che anzi avanzano anch’essi passando da 59 a 60, ma degli stati europei.

Di particolare interesse anche la composizione delle principali economie mondiali mettendo insieme multinazionali e stati, le prime per il loro fatturato e le seconde per il Pil. Il risultato è che fra i primi cento posti siedono 42 multinazionali, precisando che la prima compare al 25° posto, prima del Venezuela. La situazione cambia radicalmente se anziché in base al Prodotto interno lordo, gli stati sono elencati in base agli introiti governativi. Rappresentazione più reale perché basata su criteri più omogenei. Osservando questi dati, fra i primi cento posti siedono 69 multinazionali, con la prima multinazionale che compare al 13° posto, prima dell’Australia.

Il dossier, scaricabile dal sito www.cnms.it, è formato da due parti. La prima dedicata a considerazioni e classifiche sulle top 200, la seconda ad approfondimenti su tematiche di particolare importanza per il tempo che stiamo vivendo: gli assetti proprietari delle imprese quotate in borsa, le imprese della carne, gli effetti del lockdown sul mondo del lavoro e i diversi settori produttivi, i profitti non tassati, il crescente divario fra gli stipendi degli alti dirigenti e gli altri lavoratori.

Dal 1978 al 2019, la paga dei dirigenti delle grandi imprese americane è cresciuta del 1.167%. Per contro nello stesso periodo la paga di un lavoratore medio è cresciuta solo del 13,7%. Nel 2019 il rapporto fra la paga di un grande dirigente e quella di un lavoratore medio è stato 320 a 1. Nel 1965 il rapporto era 21 a 1. Poi ci si sorprende per la crescita delle disuguaglianze.

Francesco Gesualdi
www.cnms.it

Laura Bauducco insegnante e missionaria

Caro padre Gigi,
martedì 6 ottobre 2020, nella parrocchia Regina delle Missioni,  è stata ricordata con una santa messa la collega Laura Bauducco, deceduta nel mese di luglio, attiva collaboratrice dei missionari della Consolata.

Le mie modeste parole solo in parte riescono non tanto a tratteggiarla quanto ad onorarla per quanto si è spesa, prima del pensionamento, a favore di una attenta e rinnovata didattica nella scuola dell’infanzia.

È stata per molti anni, infatti, una dirigente di circolo didattico con la responsabilità del funzionamento di diverse scuole dell’infanzia in un territorio, quello delle Vallette, che si era costituito negli anni Sessanta a Torino. Probabilmente pochi sanno che gli edifici di due di tali scuole erano stati progettati da un architetto che aveva tenuto presenti, tra gli altri, due criteri importanti: la scuola doveva avere le caratteristiche di una casa con la presenza di un caminetto vero nelle classi e doveva essere, per la Città di Torino, un valore destinato ad accrescersi nel tempo sia dal punto di vista sociale e pedagogico e sia dal punto di vista economico; esse erano state dotate quindi di tre opere d’arte ciascuna, quadri e opere scultoree di autori importanti.

Laura Bauducco ha sicuramente contribuito all’incremento del capitale relativo alla didattica, avendo ideato, in collaborazione con il direttore dei servizi educativi del comune, dottor Walter Ferrarotti, la «vicenda organico-unitaria», una strategia di apprendimento interessante per i bambini e le insegnanti, per superare i modelli tradizionali ripetitivi e spesso lontani dalla realtà. I bambini diventavano artisti del circo, atleti di una manifestazione sportiva, venditori di un mercato, interpreti di uno spettacolo teatrale, assumendo i ruoli propri di tali contesti non per far finta, ma per vivere in modo giocoso ed autentico tali ed altre realtà del mondo.

Laura Bauducco ha sollecitato ed accompagnato tantissime insegnanti a rinnovare con passione ed entusiasmo il loro modo di insegnare, realizzando con i bambini delle storie indimenticabili, soprattutto per le emozioni forti vissute e per le motivazioni così profonde da indurli ad affrontare anche fatiche e sforzi per imparare. Tali insegnanti erano diventate così competenti e operose che il dottor Ferrarotti affermava che, quando all’improvviso arrivavano in visita a Torino delle insegnanti da altre parti d’Italia e del mondo, non poteva non mandarle nelle scuole di Laura Bauducco sia per l’originalità della metodologia che per la capacità delle insegnanti di organizzarsi, insieme ai bambini, in breve tempo, per l’accoglienza e l’ospitalità al fine di offrire spunti pedagogici e didattici.

Ella ha saputo essere un dirigente responsabile che aveva a cuore i bambini con le loro famiglie e tutto il personale, un dirigente autorevole in quanto capace di sostenere ed indurre dei progressi nelle insegnanti in modo amorevole, un dirigente competente in quanto impegnato nella ricerca e nell’innovazione, una cittadina attiva, brillate e gioiosa, capace cioè, di trasmettere passione per il lavoro in cui era coinvolta e per la vita, tanto da prodigarsi, anche dopo il pensionamento, per le necessità dei missionari.

Milva Capoia
Collegno, 08/10/2020

Accolto dalla Beata Irene

Padre Gottardo Pasqualetti il 20 ottobre scorso è andato in Cielo. Sono convinta che la Beata Irene lo abbia accolto sulla porta, a braccia aperte.

23/05/2015 Nyeri, Kenya, padre Pasqualetti alla beatificazione di suor Irene

Padre Gottardo è stato per noi missionarie della Consolata un fraterno compagno di viaggio. Ha accompagnato per lunghi decenni, quale postulatore (colui che segue tutto il processo che porta alla beatificazione o canonizzazione di qualcuno, ndr), non solo la causa di canonizzazione del nostro padre Fondatore, ma anche quella della nostra sorella suor Irene Stefani.

Lo ha fatto non solo con competenza, precisione, attenzione, costanza e dedizione, ma con vero amore, passione e tanta, tanta fraternità. Ha aiutato i due Istituti a riscoprire e valorizzare la figura di Irene e l’espressione del nostro carisma in lei, con tratti così propri e originali. Ha non solo studiato Irene, ma ha camminato con lei, l’ha incontrata e da lei si è lasciato trasformare. Era evidente la relazione di autentica prossimità tra padre Pasqualetti e sr Irene: quando lui la nominava, si illuminava, si appassionava e non avrebbe mai finito di parlarne. La fede, la tenacia, la convinzione di padre Pasqualetti hanno contribuito grandemente e in modo decisivo al riconoscimento sia delle virtù eroiche della Beata Irene, sia dell’autenticità del miracolo di Nipepe, che ha aperto la porta alla sua beatificazione. Lo abbiamo visto, padre Pasqualetti, durante la beatificazione a Nyeri nel maggio 2015: felice, radioso, commosso, grato… contagiava gioia a chi lo incontrava.

Quando già la malattia faceva sentire i suoi effetti, ricordo un incontro con lui in Casa generalizia del missionari della Consolata a Roma. Al nominargli suor Irene, padre Gottardo si animava tutto, cominciava a parlarne, a ricordarne le parole, i gesti, l’evento della beatificazione… e lo faceva con viva partecipazione e gioia: Irene era nel suo cuore e lui, certamente, nel cuore di Irene.

Grazie, padre Pasqualetti. Grazie per ciò che hai donato ai due Istituti, grazie in particolare per averci accompagnato nel cammino di approfondimento della vita e dell’esperienza della beata Irene. Grazie per ciò che sei stato e ancora sei per noi: siamo certe che dal Cielo, con il Fondatore e suor Irene a fianco, continuerai a volerci bene, a pregare per noi, ad accompagnarci da vero fratello.
Con tanta gratitudine,

suor Simona Brambilla
a nome di tutte le missionarie della Consolata

 




Tanti profitti, zero tasse (senza la «digital tax»)

testo di Francesco Gesualdi |


È un fatto che Google, Apple, Facebook, Amazon («Gafa») incamerino profitti senza pagare il dovuto. Un’elusione fiscale enorme e intollerabile a cui da tempo alcuni governi cercano di porre rimedio. Inutilmente, viste le minacce di ritorsioni (e l’arroganza) di Donald Trump.

In tempi di pandemia e di elezioni statunitensi (a novembre), è difficile trovare un accordo con Donald Trump sulla tassazione («digital tax» o «web tax», con sottili differenze tra l’una e l’altra) delle multinazionali del digitale.

Lo scorso 20 giugno è stata pubblicata una lettera datata 12 giugno nella quale il segretario al Tesoro degli Stati Uniti, Steven Mnuchin, minaccia di ritorsioni commerciali (dazi) Italia, Francia, Spagna e Gran Bretagna se non rinunceranno alla «web tax» a carico dei colossi del digitale.

Anche a livello globale i negoziati in seno all’Ocse – chiamati «Inclusive Framework on Beps» (Piano d’azione sull’erosione della base imponibile e lo spostamento dei profitti) – sono in stallo a causa degli Stati Uniti. Trump considera qualsiasi tassazione un atto di ostilità verso gli Stati Uniti perché colpirebbe in particolar modo Google, Apple, Facebook, Amazon e altre multinazionali del web con casa madre statunitense. In realtà, la web tax è solo un timido tentativo di recupero fiscale verso imprese esperte, oltre che in tecnologie digitali, anche in tecniche di elusione fiscale.

Nell’agosto 2016 la Commissione europea decretò che, dal 2003 al 2014, Apple aveva evitato il pagamento di 13 miliardi di imposte, grazie alla legislazione compiacente dell’Irlanda. L’aspetto interessante è che, a mettere la pulce nell’orecchio, era stata una Commissione d’indagine del Senato americano che, nella seduta del 13 maggio 2013, aveva ricostruito per filo e per segno le strategie utilizzate da Apple per evitare di pagare le tasse. Un sistema che le aveva permesso di accumulare più di 100 miliardi di dollari nei paradisi fiscali, con un danno per l’erario statunitense calcolato in 12 miliardi di dollari per il solo 2012.

Lotta tra Sistemi fiscali

Secondo uno studio del Fondo monetario internazionale (Fmi) del 2015, ogni anno l’elusione fiscale sottrae agli stati 650 miliardi di dollari. Un vero crimine contro l’umanità considerato che 200 di essi sono sottratti a paesi molto poveri che, per mancanza di soldi, non riescono a fornire neanche i banchi di scuola. Il punto è che le imprese sono riuscite a globalizzarsi, mentre le nazioni continuano a gestire i sistemi fiscali in maniera separata, ciascuna per conto proprio, a volte addirittura in concorrenza fra loro per attrarre investimenti e capitali. Per cui abbiamo paesi come le Isole Cayman e un’altra decina di paradisi fiscali, senza alcun tipo di imposta sui profitti, fino agli Emirati Arabi con una tassazione del 55%, passando per l’Ungheria che applica un’imposta del 9%, l’Irlanda del 12,5%, gli Usa del 21%, l’Italia del 24%, la Germania del 30-33%.

In uno scenario tanto variegato, molte imprese sono tentate di mettere in atto strategie, formalmente legali, di fatto fraudolente, per contabilizzare i loro profitti in paesi a bassa fiscalità. Una di queste si basa sulla creazione di società fantasma che fanno da cerniera fra imprese dello stesso gruppo. Tipico il caso di una multinazionale calzaturiera con stabilimenti produttivi in Indonesia e negozi di vendita in Europa. La logica vorrebbe che le scarpe fossero vendute direttamente dagli stabilimenti indonesiani alle filiali europee che poi, una per una, dovrebbero dichiarare al fisco del proprio paese quanto hanno guadagnato. In una logica di elusione, invece, può essere utilizzato come intermediario una società fantasma domiciliata in Ungheria che finge di comprare e vendere con metodi di fatturazione che puntano a trattenere il massimo del valore in Ungheria dove vige uno dei sistemi più bassi di tassazione dei profitti. È stato accertato che un meccanismo del genere è stato utilizzato dal gruppo Kering, proprietario fra gli altri del marchio Gucci, che nel maggio 2019 ha patteggiato col fisco italiano il pagamento di oltre un miliardo di euro a sanatoria di ricavi non dichiarati per un valore di 14,5 miliardi di euro. Secondo gli investigatori, il gruppo utilizzava la Svizzera come cerniera di intermediazione fra Gucci, che produce in Italia, e i negozi del gruppo che vendono nei vari paesi europei. Verosimilmente la società svizzera acquistava fittiziamente beni sottocosto dalla società italiana e li rifatturava a prezzi gonfiati ai negozi europei per accrescere artificiosamente i profitti dichiarati in Svizzera, che nel caso specifico erano sottomessi a un regime fiscale inferiore al 9%. E, a conferma del meccanismo occulto, le Fiamme gialle avevano accertato che la maggior parte delle funzioni di commercializzazione dei prodotti non avveniva in Svizzera, ma a Milano, dove ha sede l’unità locale di Gucci. Meccanismo riconosciuto da Kering che, a conclusione del patteggiamento, ha diffuso una nota in cui ammette «la sussistenza di una stabile organizzazione in Italia nel periodo 2011-2017», come sostenuto dalla Procura di Milano.

Foto William Iven – Pixabay.

L’utilizzo del marchio

Un altro metodo di elusione si basa sul trasferimento di prezzo tramite licenze d’uso. Si prenda come esempio Ikea. Nessun punto vendita può esporre l’insegna se prima non ha stipulato un contratto di licenza con la società che risulta formalmente proprietaria del marchio. E annualmente tutti i punti vendita Ikea versano una parte dei loro ricavi alla società proprietaria del logo, anch’essa facente parte del gruppo, che però è domiciliata in Liechtenstein dove i redditi da capitale sono tassati al 12,5%. Più alto il compenso pattuito per l’uso del marchio, più alti i profitti trasferiti in Liechtenstein. E se giochetti del genere sono possibili a imprese commerciali vecchio stile, ancora di più lo sono per imprese che gestiscono servizi informatici.

Un tipico servizio informatico è la creazione di piattaforme commerciali, luoghi virtuali concepiti come punti di incontro fra imprese che offrono beni e consumatori (ne abbiamo parlato su MC di luglio). Alcuni esempi sono Amazon Marketplace, Ebay, Leboncoin, Alibaba, Apple Appstore. Altre piattaforme, invece, sono organizzate per permettere l’incontro fra chi offre un servizio e chi lo richiede. Alcuni esempi sono Uber per il servizio taxi, Booking per le prenotazioni alberghiere, Deliveroo per la consegna di pasti a domicilio. In cambio del servizio di visibilità e connessione le piattaforme pretendono delle commissioni dai loro inserzionisti, magari il 15% sull’intero volume di transazioni che effettuano sulla piattaforma.

Algoritmi e pubblicità

Un’attività che si è sviluppata enormemente in internet è quella delle inserzioni pubblicitarie che, a differenza della vendita di beni e servizi, non viaggiano solo su piattaforme dedicate, ma su ogni pagina web. Per esperienza, tutti sappiamo che, se consultiamo un qualsiasi sito on line, prima dobbiamo sorbirci un video pubblicitario. E lo stesso accade sia che si entri in una pagina Facebook, che si guardi un film o che si ascolti della musica. Per cui i veri re delle riscossioni pubblicitarie sono i gestori dei grandi motori di ricerca, come Google, o i gestori di social network come Facebook, che oltretutto utilizzano sofisticati algoritmi per spiare i nostri interessi e propinarci la pubblicità su tutto ciò che ruota attorno ad essi: libri piuttosto che utensili, cibo piuttosto che viaggi. Non a caso la vendita di dati è diventata un’altra attività fiorente delle imprese del web, spesso condotta in maniera totalmente occulta, e quindi totalmente estranea al fisco, come insegna il caso di Cambridge Analytica.

Ad oggi la pubblicità rappresenta la maggiore fonte di incasso per molti operatori internet. Per Google rappresenta l’85% del suo giro d’affari: 116 miliardi di dollari su 136 miliardi nel 2018. Nel caso di Facebook, la pubblicità rappresenta addirittura il 98,6% degli introiti: 55 miliardi di dollari su 55,8 nel 2018. Dedotte le spese, Facebook nel 2018 ha ottenuto profitti lordi per 25 miliardi di dollari su cui ha pagato solo 3 miliardi di tasse, un’aliquota media del 12%. Idem per Google che, detratte le spese, ha avuto un profitto lordo di 35 miliardi di dollari su cui ha pagato solo 4 miliardi di tasse. Eppure negli Stati Uniti, l’imposta sui redditi di impresa è del 21%. Però, sia Facebook che Google hanno eletto domicilio fiscale nel Delaware, paradiso fiscale statunitense dove l’imposta sui redditi da capitale è dell’8,7%. Inoltre, approfittano della diversità fiscale fra stati, della loro mancanza di collaborazione e della virtualità di internet per convogliare gli incassi verso i paesi a più bassa fiscalità. Talvolta, tramite strategie talmente creative da essersi guadagnate appellativi fantasiosi come «doppio sandwich irlandese imbottito all’olandese», una metodica che permette di trasferire i profitti alle Bermuda passando per l’Irlanda e l’Olanda. E se, alla fine, i paradisi fiscali qualche briciola la intascano, a rimetterci in maniera pesante sono i paesi in cui i profitti si realizzano, ma non compaiono per i trucchi contabili attuati dalle imprese. Lo dimostra il fatto che, per il 2018, Google ha dichiarato introiti in Irlanda pari a 38 miliardi di euro, pur disponendo solo di 3,6 milioni di utenti, in Italia solo per 106 milioni di euro, pur disponendo di 30 milioni di navigatori.

Uno studio di Mediobanca rivela che, fra il 2014 e il 2018, le prime 10 imprese digitali del mondo hanno risparmiato 49 miliardi di dollari, a livello globale, grazie al ricorso massiccio ai paesi a fiscalità agevolata. Lo studio ci dice anche che, in Italia, le prime 25 multinazionali del web (non solo statunitensi, ma anche cinesi) hanno dichiarato un fatturato 2,4 miliardi di euro, ma hanno versato al fisco solo 64 milioni, il 2,7% del fatturato. Il rapporto non indica quanto sarebbe dovuto essere il gettito dovuto, ma specifica che, a seguito di accordi con le autorità fiscali italiane, le imprese del web hanno pagato sanzioni per 39 milioni nel 2018 e 73 milioni nel 2017. Ed è sempre del 2017 il patteggiamento di Google col fisco italiano che ha accettato di versare 306 milioni di euro a sanatoria di mancati pagamenti relativi al periodo 2002-2015.

L’arroganza di Trump

Il rapporto di Mediobanca insiste anche sul fatto che, in una maniera o nell’altra, le imprese del web riescono a travasare gli incassi verso altre filiali estere facendoli passare come spese per servizi, commissioni su licenze o brevetti e altre fantasie contabili. In gergo la distribuzione degli incassi fra filiali del gruppo è definita «cash pooling» e, nel caso delle imprese del web, è gigantesca. Mediobanca stima che, in Italia, rimane solo il 14% della liquidità totale realizzata, l’altro 86% finisce come cash pooling nei paesi a fiscalità agevolata. E non va certo meglio in Francia, dove solo le «Gafa», le quattro grandi multinazionali Usa (Google, Apple, Facebook, Amazon), nel 2017 hanno avuto un giro d’affari di un miliardo e mezzo di euro, ma hanno versato al fisco solo 43 milioni. È così che, in Europa, si è cominciato a chiedere come fare per arginare questa mostruosa perdita.

Tuttavia, stentando ad arrivare una soluzione condivisa, alcuni paesi hanno deciso di muoversi autonomamente con provvedimenti fiscali propri. Fra questi Francia e Italia, con provvedimenti che, accogliendo le indicazioni della Commissione europea, hanno introdotto una tassa del 3% sui ricavi generati da alcune attività digitali prodotte da imprese con un fatturato mondiale superiore ai 750 milioni di euro.

Tutto sommato una misura piuttosto modesta, ma sufficiente a innervosire Trump che, tacciando l’iniziativa francese e italiana come provvedimenti discriminatori verso le imprese del web statunitensi, ha minacciato ritorsioni sui vini francesi e i prosciutti italiani se le misure non saranno ritirate. Ancora una volta si scrive protezionismo, ma si pronuncia arroganza.

Francesco Gesualdi




Il capitalismo delle piattaforme digitali

Testo di Francesco Gesualdi |


L’intermediazione è sempre esistita, ma è cambiata con l’avvento di internet. Oggi dominano e-Bay, Airbnb, Uber e le varie piattaforme per la consegna del cibo a domicilio. Avvantaggiate anche dalla pandemia.

Gli inglesi, che in fatto di lingua sono piuttosto fantasiosi, l’hanno battezzata «gig economy», l’economia dei lavoretti. Si riferisce a tutte quelle attività che, un tempo, erano svolte da studenti desiderosi di procurarsi qualche soldo per le proprie spese personali, ma che, in tempi di disoccupazione, sono effettuate anche da chi deve mantenere una famiglia.

Fino a una ventina di anni fa, poteva essere il servizio occasionale reso come baby sitter o come manovale nei traslochi, ma oggi è un’attività strutturata che ruota attorno alle cosiddette «piattaforme».

Prima di internet, la parola piattaforma evocava una struttura da utilizzare come base d’appoggio di un carico o di una costruzione. È piattaforma la pedana di legno allestita per la realizzazione di uno spettacolo, come è piattaforma il carrello elevatore su cui salgono i vigili del fuoco per raggiungere i piani alti da soccorrere. E ancora sono piattaforme le imponenti strutture costruite in mare per ospitare le trivelle deputate alla perforazione del fondale marino alla ricerca di petrolio. In epoca digitale, la parola piattaforma ci porta invece in ambito virtuale, nei luoghi evanescenti di internet creati per mettere in comunicazione chi richiede qualcosa e chi lo offre.  In fondo si tratta di mercati che invece di svolgersi di persona nelle piazze o nelle borse, avvengono per via telematica tramite luoghi virtuali: le piattaforme online.

I mercati virtuali

La prima piattaforma online venne allestita nel 1995 da un iraniano naturalizzato statunitense, tale Pierre Omidyar, che fondò e-Bay. Laureato in scienze informatiche, si era reso conto che internet era diventato un formidabile canale di comunicazione che la gente utilizzava non solo per scambiarsi foto, saluti e opinioni, ma anche per darsi appuntamenti, concordare iniziative e aiutarsi a risolvere piccoli problemi  quotidiani tramite lo scambio di oggetti o la condivisione dell’auto e altre apparecchiature domestiche. Insomma, internet aveva fatto emergere il lato collaborativo delle persone e qualcuno azzardò la nascita di una nuova economia che il mondo anglosassone battezzò «share economy», l’economia dell’amicizia e della condivisione. Però, come era già successo a molte altre iniziative solidali nate dal basso, anche la share economy attirò l’attenzione del mondo degli affari che aveva fiutato odore di soldi. L’attività intravista come via di guadagno era quella di intermediazione, un mestiere fra i più antichi dell’umanità. Anche nel vecchio mondo contadino esisteva il sensale, un personaggio che girava per le campagne in cerca di chi aveva bestie da vendere e di chi voleva comprarne. E, dopo avere fatto incontrare le due parti interessate, le aiutava a condurre le trattative con l’obiettivo di intascare una percentuale sul prezzo di vendita. Un’attività simile è tutt’oggi svolta dalle agenzie immobiliari che fungono da intermediari nella compravendita di case. Nella stessa categoria si collocano le borse valori, i luoghi in cui si contrattano titoli e materie prime e che devono il proprio nome al palazzo Ter Buerse, la prima sede commerciale costruita a Bruges a fine 1300 dalla famiglia veneta Della Borsa. Per certi versi perfino le banche possono essere catalogate fra le agenzie di intermediazione, per il ruolo di cerniera che svolgono fra chi risparmia e chi è in cerca di prestiti. Per cui le attività di intermediazione sono tante, sempre uguali per finalità, sempre diverse per substrato e modalità di svolgimento.

Uber e gli altri

Una caratteristica del capitalismo è la capacità di adattamento. Grazie ad essa, il sistema è riuscito non solo a garantirsi lunga vita, ma perfino a   trasformare le catastrofi in opportunità. Tipiche le guerre e i terremoti che dopo la distruzione hanno bisogno di ricostruzione. La stessa crisi climatica è vissuta come occasione di rilancio economico perché per passare dai combustibili fossili  alle energie rinnovabili serve una tale quantità di investimenti da rimettere in moto una massiccia attività produttiva. Ma il principale spirito di adattamento il capitalismo l’ha dovuto sviluppare verso la tecnologia. Angosciato dalla necessità di aumentare la produttività, ossia la quantità di produzione in rapporto al tempo e alla spesa, la tecnologia è sempre stata la sua alleata principale. Tuttavia, non senza contraccolpi, considerato che talvolta i cambiamenti sono così profondi da costringere le imprese non solo a rinnovarsi, ma addirittura a reinventarsi. Chi ci riesce sopravvive, chi non ce la fa soccombe. Ciò spiega perché nell’era del computer si siano affermate imprese create dal niente da parte di giovani con grande inventiva. Il riferimento è  a personaggi come Larry Page e Sergey Brin, fondatori di Google, Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook, Jeff Bezos, fondatore di Amazon, ormai appartenenti tutti all’olimpo dei miliardari. Ma oltre a loro ce ne sono molti altri, non meno ricchi anche se meno appariscenti, che hanno costruito il loro  impero economico sulle opportunità offerte da internet. Fra essi gli opportunisti delle intermediazioni. Cominciò la già citata e-Bay, pensata per facilitare il commercio di beni usati fra privati. Una sorta di bacheca online dove chiunque può esporre ciò che desidera vendere, delegando alla piattaforma le funzioni di pagamento e di trasferimento del prezzo, ben inteso lasciandole una percentuale sull’incasso. Nel 2019 il valore complessivo dei beni transitati per e-Bay è stato di 22 miliardi di dollari, due dei quali trattenuti dalla piattaforma come corrispettivo del servizio reso. Più tardi, tale Brian Chesky e altri amici applicarono lo stesso modello all’affitto di camere, crearono Airbnb, un portale online che mette in contatto persone in cerca di camere per brevi periodi, con persone che dispongono di spazi extra da affittare. Ma benché rivoluzionarie sul piano commerciale, tali iniziative non hanno però avuto effetti di rilievo rispetto al lavoro. Queste piattaforme dispongono senz’altro di dipendenti, ma presumibilmente tutti assunti secondo i canoni classici del lavoro salariato.

Le novità arrivarono nel 2009, quando alcuni informatici, fra cui Travis Kalanick, si concentrarono sui trasporti. Avendo notato che in internet si stavano sviluppando contatti fra chi chiedeva passaggi e chi era disposta a darli, Kalanick, assieme ad altri amici, creò una piattaforma dedicata ai trasporti, che battezzò Uber. Quanto alla sua gestione avrebbe potuto seguire il modello e-Bay, ma si rese conto che lasciato allo spontaneismo le possibilità di guadagno erano piuttosto ridotte perché il passaggio era concepito più come servizio che come attività commerciale. I passaggi, infatti, venivano dati da chi avrebbe comunque effettuato il viaggio, chiedendo tutt’al più un contributo alle spese da riscuotere in forma diretta durante il passaggio. Perciò Kalanick capì che, se voleva guadagnarci, doveva industrializzare l’iniziativa.

La soluzione che si inventò fu quella di trasformare i normali conducenti proprietari di un’auto in tassisti. Detto fatto, sperimentò il suo piano a San Francisco agendo su due livelli. Da una parte lanciò un appello per chiedere a chiunque volesse effettuare trasporti a pagamento di iscriversi a una lista di disponibilità. Dall’altra creò Uberpop, un’applicazione a disposizione del grande pubblico per permettere a chiunque volesse un passaggio di poterlo richiedere.  Un’apparecchiatura retrostante avrebbe passato la richiesta a un conducente che avrebbe provveduto al servizio. Quanto al pagamento della corsa, il cliente avrebbe pagato direttamente a Uber tramite carta di credito, mentre il conducente avrebbe ricevuto da Uber un compenso stabilito da un tariffario interno, previa decurtazione di una percentuale a titolo di commissione d’ingaggio. A San Francisco l’esperimento funzionò e oggi Uber è presente in 700 città sparse in 80 diverse nazioni, con una  isponibilità complessiva di tre milioni di conducenti. Per un certo periodo è stato presente anche in alcune città italiane, ma nel maggio 2015 il tribunale di Milano dichiarò l’attività illegale perché in contrasto con le leggi nazionali che regolano il servizio taxi.

Sul piano finanziario, nel 2018 Uber ha incassato 50 miliardi di dollari, ma i conducenti lamentano coralmente compensi ridotti all’osso a fronte di alti costi  a loro carico.

I fattorini del cibo

Il modello ha fatto scuola e qualcuno l’ha applicato alla consegna di cibo a domicilio (anche Uber stessa con Uber Eats). Il primo a pensarci fu Will Shu, un analista bancario che, nel 2013, fondò Deliveroo, un’applicazione che permette di ordinare cibo a una serie di ristoranti inseriti nella sua lista. Il cliente ordina, Deliveroo incassa tramite carta di credito e paga il corrispettivo al ristorante decurtato di una commissione. Il prezzo complessivo richiesto al cliente comprende anche una quota per pagare il fattorino che esegue la consegna. Fattorino attinto da una lista interna formata da persone che si sono dichiarate disponibili a effettuare le consegne con mezzo proprio, solitamente la bici o la moto, per questo detti riders. Per cui, quando il cliente chiama, scattano due richieste contemporaneamente: una al ristorante affinché prepari il piatto, l’altra a un fattorino affinché effettui la consegna.

Oggi in tutto il mondo si contano decine di società che fanno consegna di cibo a domicilio tramite ordinazioni online (in aumento anche a causa della pandemia). In Italia, le principali sono le britanniche Deliveroo e Just Eat, la spagnola Glovo, l’italiana Foodys. Secondo una stima della Fondazione De Benedetti del 2018, tutte assieme ingaggiano 10mila fattorini. Milena Gabbanelli – Corriere della Sera, 18 giugno 2018 – descrive così la loro condizione: «Il lavoro è organizzato da un algoritmo, e punta su un continuo turn over. Le condizioni e i compensi cambiano continuamente e variano anche da città a città. Non sono previste maggiorazioni per lavoro festivo, notturno, pioggia o neve. Mediamente le piattaforme “ingaggiano” il 20% di lavoratori più del necessario per tutelarsi rispetto alle defezioni dell’ultimo minuto. Foodora (non più presente, ndr) assume Co.co.co., li paga 4 euro lordi a consegna che vuol dire 3,60 netti. Deliveroo ingaggia collaboratori occasionali, li paga 4 euro netti a consegna. Glovo ha collaboratori occasionali pagati 2,00 euro netti a consegna più 60 centesimi per chilometro percorso più 5 centesimi per ogni minuto di attesa al ristorante o in negozio oltre i primi cinque minuti».

I nuovi lavoratori

I riders sono solo la punta dell’iceberg dei cosiddetti gig workers. Oltre a chi pedala in bicicletta, c’è chi fa babysitteraggio, chi effettua pulizie per camere in affitto, chi svolge lavoro informatico occasionale. Complessivamente si stima che in Italia il pianeta gig economy occupi fra 700mila e un milione di persone, prevalentemente giovani. Eppure di loro non c’è quasi traccia nell’anagrafe dell’Inps, segno che non godono né di versamenti pensionistici, né di copertura assicurativa. Da un’indagine condotta dall’Inps nel 2018 su 50 imprese di servizi on line, si apprende che 22 di esse non hanno posizione contributiva, 17 risultano avere solo lavoratori dipendenti, 11 sia lavoratori dipendenti che collaboratori iscritti alla gestione separata. In conclusione, poco più di 2.700 lavoratori. Tutti gli altri sono considerati lavoratori autonomi, a cui non è pagato nient’altro che il servizio reso secondo un tariffario stabilito dalla piattaforma. Questo significa: niente ferie, niente indennità di malattia, niente assicurazione contro gli infortuni, niente versamenti pensionistici. Per mettere fine a questa totale mancanza di tutele, nel 2017 alcuni fattorini al servizio di Foodora, si appellarono al Tribunale di Torino per essere riconosciuti lavoratori dipendenti. Il tribunale rigettò la richiesta, facendo propria la tesi di Foodora che voleva i rider lavoratori autonomi in quanto proprietari dei  mezzi di produzione: bicicletta e smartphone non sono dell’azienda, ma dei fattorini stessi. I lavoratori ricorsero in appello e ottennero una vittoria parziale: i giudici non li riconobbero lavoratori subordinati ma neppure lavoratori totalmente autonomi, bensì una via di mezzo, lavoratori «etero-organizzati», ossia organizzati da altri e in quanto tali aventi diritto ad alcune garanzie tipiche dei lavoratori dipendenti: «sicurezza e igiene, retribuzione diretta e differita, limiti di orario, ferie e previdenza». Sentenza confermata in Cassazione e quindi pienamente esecutiva. Un buon passo avanti per la dignità del lavoro, anche se la politica deve fare la sua parte per colmare le lacune legislative che permettono ai profittatori del terzo millennio di spadroneggiare.

Francesco Gesualdi

Rider a Tokyo. Foto di Yuya Tamai.