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Noi e Voi


Dubbi sì, ma poi?

Egregio direttore, premetto che sono abbonato alla vostra rivista da diversi anni e che la considero una delle più interessanti riviste missionarie. Leggendo l’editoriale di novembre dal titolo «dubbi», sono rimasto poco soddisfatto delle conclusioni. Interessanti le varie osservazioni a eccezione di quella sulle diete dove si domanda chi paga il prezzo. Io sono vegetariano e con me tanti amici. Cosa vuol dire con l’affermazione: «Chi paga il prezzo dell’espansione delle monocolture»?

Ma a parer mio, manca la conclusione con un invito a ogni singolo uomo e alle nostre comunità a una riduzione dei prodotti di origine animale, all’utilizzo di vetture a basso consumo energetico, a ridurre lo spreco in queste festività (sprechi nelle decorazioni …) cene varie, all’utilizzo di prodotti non avvelenati, una riflessione sui regali e così via. Tanti saluti e auguri

Daniele Engaddi Pontida (Bg), 21/12/2019

I dubbi sono dubbi, non affermazioni categoriche. Quanto alla domanda sulle monocolture, non vuole essere una provocazione, ma un invito a riflettere, abbandonando posizioni ideologiche. Su questa rivista abbiamo già espresso alcune riserve in merito nella rubrica Nostra madre terra del giugno 2019 dal titolo «L’altra faccia della soia». Ma si possono trovare altri interventi autorevoli nella stampa internazionale.

Grazie dell’invito alla sobrietà nelle festività (non solo nel periodo natalizio e di fine anno) e in tutto quello a esse correlato. Su questo ci trova completamente concordi. Lo spreco è una grande ingiustizia ed è una realtà che esigerebbe una maggior riflessione da parte di tutti, a cominciare dallo spreco del cibo a quello di energia, illuminazione notturna, imballaggi, vestiario, acqua … una lista infinita.

Finché siamo capaci di dubitare e di porci interrogativi c’è speranza. Se poi siamo anche capaci di «conversione», allora sì che c’è futuro.


«Cattolici» vs Francesco

Ho amici, cattolici, che purtroppo se la prendono con il santo padre Francesco, accusandolo di tutto il male che accade dentro la Chiesa, anche di colpe che storicamente non sono certamente sue, e a me queste loro posizioni dispiacciono molto. Tra le varie accuse, ultimamente si è inserita la vicenda del Sinodo amazzonico. In particolare, per loro «motivo di «scandalo» sarebbero le «cerimonie» di adorazione o comunque venerazione di statuette femminili, considerate dai nativi come vere divinità locali reali e di una maschile raffigurante un uomo in condizioni di erezione sessuale e di altri simboli, tra cui la barca, portati persino, a loro avviso, in processione in San Pietro, presente il papa. Io credo che quanto visto non abbia affatto motivazioni e finalità idolatriche, ma tant’è.

Potete dirmi qualcosa in merito? Oppure dove potrei trovare materiale utile per documentarmi? Vi ringrazio.

Bruno Cellini Follonica (Gr), 03/11/2019

Spero proprio che il dossier «Amazzonie», pubblicato in gennaio, abbia aiutato a chiarire alcuni di questi dubbi e l’infondatezza di tante accuse. Non aggiungo di più. Mi chiedo solo perché questi critici accettino invece come perfettamente coerenti con la nostra religione immagini come la «Madonna del latte» di Jean Fouquet, acclamata opera d’arte che di «Madonna» ha ben poco, oppure – per fare un altro esempio – la grande madre che distribuisce latte a tutti dalla parete della Sala Clementina in Vaticano, la tradizionale sala delle udienze pontificie. Per non dire di tante altre opere d’arte sparse nelle chiese di tutto il mondo o di processioni tradizionali nel Sud del nostro paese, in Spagna e in molti paesi dell’America Latina, che di cristiano hanno solo l’etichetta o la collocazione.

Gli attacchi contro il papa, specialmente – ma non solo – in occasione del Sinodo amazzonico, dimostrano solo una cosa: la lotta è contro una fede viva che interpella e provoca la società umana in tutte le sue dimensioni (politica, giustizia, pace, ambiente, povertà, centralità di Dio) per mantenere invece una religione contenta di se stessa nell’intimo di chiese inondate d’incenso, di arte e di ritualità, che si occupi solo delle anime e del cielo, lasciando ad altri la gestione del «corpo» e del mondo.


Ricordando il Mozambico

Carissimo padre, sono don Carlo Donisotti, ex missionario fidei donum della diocesi di Vercelli. La mia missione in Mozambico iniziò nel 2002 nella diocesi di Inhambane, presso la vostra missione di Santa Ana di Maimelane, fondata nel 1948 da padre Celestino Blasutto e altri confratelli. A causa della guerra in corso, due padri furono sequestrati e quindi i sacerdoti e le suore abbandonarono la missione. Il centro fu trasformato in caserma fino al 1997, quando la missione fu ripresa dai vostri missionari da Vilankulo. Là si stabilirono suor Rita, suor Florentina, suor Elisabetta e suor Clemenzia.

Ora vorrei parlarvi della loro bella testimonianza: suor Rita (Assunta Tessari) fu volontaria nel vostro ospedale, ora nazionalizzato, come infermiera e donna delle pulizie; suor Florentina (Busnello) seguiva le donne nel cucito; suor Elisabetta (Possamai) si occupava della catechesi e in tre anni è riuscita a creare un gruppo di catechisti che la aiutarono a ricostituire cinquanta comunità che si erano disperse durante la guerra; suor Clemenzia (Sicupira), con la sua moto, arrivava ovunque ad assistere ammalati, orfani e persone denutrite. Le sorelle erano seguite da padre Alceu Agarez di Vilankulo e, nonostante la malaria, con enorme fatica e tanto lavoro, riuscirono a dare forma alla missione. L’esempio di queste eroiche suore era sorprendente.

In quegli anni così belli ho apprezzato lo stile di famiglia proprio dei vostri missionari. A Maputo padre Manuel Tavares era una presenza attenta e sempre pronta ad aiutare i missionari in difficoltà. A Guiúa, padre Diamantino Antunes (oggi vescovo di Tete, ndr), con padre Gabriele Casadei, erano molto accoglienti e lasciavano i loro impegni per ascoltare e aiutare chi si rivolgeva a loro, come padre Alceu e padre Carlo Biella a Massinga. A Vilankulo, padre Andrea Brevi e padre Sandro Faedi erano diventati un punto di riferimento per i diocesani. Non si può dimenticare padre Arturo Marques, superiore regionale, che si fermava sempre dai padri e dalle suore consolatine.

Ho viaggiato attraverso le varie comunità, accompagnato da suor Elisabetta e sovente mi confidavo con lei esprimendomi un po’ negativamente sullo stile di alcuni missionari. La suora mi lasciava parlare e poi con garbo e tanta carità mi elencava le virtù e le qualità di ognuno di loro. In breve tempo, ho capito che i gruppi della congregazione avevano fatto proprie le qualità di rispetto, di comprensione e di famiglia di cui il beato Allamano era stato promotore. Anche a Mambone, padre Amadio Marchiol, apparentemente burbero nell’accoglienza, seguiva la stessa filosofia. Infine, fiore all’occhiello, era fratel Pietro Bertoni, anima stupenda, generosa, umile, gioiosa… le qualità di un vero missionario.

Tutti quei valori che padri e suore mi hanno trasmesso quando ero in Mozambico sono stati per me una ricchezza e un grande insegnamento che mi sostengono nella vita quotidiana.

Spero, prego e mi auguro che il beato Allamano e Maria Santissima illuminino il cuore di tanti giovani, affinché possano scoprire, nella vostra istituzione, la bellezza del vivere in famiglia, amandosi con uno stile unico e fraterno.

Grazie per il vostro esempio.

Don Carlo Donisotti 19/01/2020


Museo

Caro Direttore, bellissimo l’articolo sulla comunità di giovani famiglie di Mongreno (MC 12/2019, ndr). Ho trovato invece in un altro articolo un accenno un po’ troppo sbrigativo sul museo etnografico dei missionari della Consolata, che non è una robetta, ma un enorme patrimonio da valorizzare. È difficile trovare in Italia, e forse in Europa, tanta ricchezza che può essere di base a una cultura antropologica, e che ha solo bisogno di essere schedata, classificata e esposta in una sede più degna e più ampia, e non solo in un magazzino..

Certo, non è il compito dei missionari, anche se quelli in ritiro potrebbero essere utili. E tutto si deve a un colpo di genio dell’Allamano che prescrisse di riportare a Torino tracce delle culture e delle colture che i missionari incontravano, ma raccomandò di pagarle e di non farsele regalare. E una comunità che ha visto all’opera per anni un missionario che chiede di portare a Torino un bel ricordo e vuole assolutamente pagarlo il giusto, gli darà quello che ritiene il meglio. Certamente di più di quel che si dà a chi offre perline di vetro, o a chi cerca di razziare qualcosa.

Sono convinto che le fondazioni bancarie torinesi sarebbero felici di programmare la valorizzazione di tanto patrimonio, e anche di far collaborare la cattedra di antropologia dell’Università

Claudio Bellavita 25/12/2019

Effettivamente in una breve notizia si è solo accennato al museo etnografico dei missionari della Consolata custodito ormai da oltre un secolo nei locali della Casa Madre di Torino.

Iniziato ai tempi dell’Allamano, alimentato con competenza e passione da tanti missionari, sopravvissuto ai bombardamenti del 1943, rilanciato negli anni ‘80 e da allora curato con passione da padri come Bartolomeo Malaspina, Achille Da Ros e, ancora oggi, Giuseppe Quattrocchio, un affabulatore che incanta e Angelo Dutto, il museo attende un’esposizione più degna che richiede persone, tempo e mezzi. Aperto solo per visite private, si offre al pubblico – nella sua forma provvisoria – sul web come «Museo etnografico missionari Consolata».

Il successo dell’esposizione sull’Amazzonia nei Musei vaticani, realizzata con molti reperti provenienti dal nostro museo, sta incoraggiando a trovare una sistemazione dignitosa e definitiva, che speriamo possa diventare realtà quanto prima.


Svalutazione

Con riferimento all’articolo «L’euro della discordia» su MC 5/2019, senza prendere in considerazione le osservazioni sul dedito pubblico, ci troviamo assolutamente perplessi per quanto riguarda quanto scritto sull’euro, in particolare per i ragionamenti sulla svalutazione.

Quando si afferma che l’euro avrebbe danneggiato le esportazioni del nostro paese non si tiene conto di alcune questioni importanti.

  1. La svalutazione della moneta nazionale nei confronti delle altre vuol dire che, con una unità di moneta straniera, si comperano più unità di moneta nazionale. Per esempio, un tempo si comperavano più lire con un dollaro, quindi gli americani avevano maggior convenienza a comperare in Italia; di qui la maggior competitività delle nostre esportazioni. Per contro, poiché per comprare un dollaro erano necessarie più lire, tutte le materie prime con prezzi in dollari, a partire dal petrolio, costavano di più agli italiani. Se dunque oggi non avessimo l’euro, con il formidabile aumento dei prezzi del petrolio avvenuto negli scorsi anni – e che è prevedibile perduri – il costo di spese essenziali, quali per esempio il riscaldamento delle abitazioni e dell’energia elettrica, graverebbe ben di più sulle famiglie.
  2. La svalutazione della moneta porta all’inflazione interna e dilapida i risparmi delle persone cioè il valore del loro lavoro accumulato negli anni; di fatto l’inflazione riduce il potere di acquisto delle persone. Riuscire o non riuscire a difendersi dipende dalla più accidentale distribuzione del potere contrattuale tra i lavoratori.

I bei tempi delle svalutazioni spingevano i «semplici» a ritenere di star bene in quanto c’era lavoro, ma non erano in grado di sapere che tale situazione era in buona parte sostenuta artificialmente dalla cosiddetta competitività dei prezzi che era permessa proprio da quelle svalutazioni.

Tornando però all’euro, in questi anni il problema italiano non sono state le esportazioni, aumentate dal 18% del Pil del 2009 a oltre il 25% del 2017. L’errore è nel credere che le nostre imprese debbano competere con la svalutazione della moneta nazionale, mentre ne hanno bisogno soltanto le imprese incapaci di migliorarsi attraverso la qualità dei loro prodotti e l’innovazione.

La vera carenza dell’economia nazionale è l’incapacità di creare un numero sufficiente di imprese che diano lavoro qualificato, soprattutto ai giovani, e siano in grado di competere grazie all’innovazione dei loro prodotti, non attraverso il basso costo del lavoro che permette bassi prezzi.

La carenza di imprese deriva, certamente anche dalla inefficienza della pubblica amministrazione, ma soprattutto dalla insufficiente capacità imprenditoriale. Non possono essere suscitate se non si riesce a cogliere e promuovere l’aspetto nobile dell’attività imprenditoriale: dare lavoro e soddisfare, con l’innovazione e le tecniche, i bisogni reali delle persone.

Grazie per l’attenzione

Piercarlo Frigero e Gian Carlo Picco, Torino, 07/06/2019

Questa email era finita nel dimenticatoio per un disguido. Sollecitato dagli autori, l’ho girata a Francesco Gesualdi, che così ha risposto.

«Ringrazio per le precisazioni che sono incontestabili. La svalutazione inevitabilmente ha effetti di lievitazione sui prezzi interni, specie se il paese dipende dall’estero per le materie energetiche. Ciò non di meno, è altrettanto innegabile che nell’immediato può avere la capacità di rilanciare le esportazioni perché rende le proprie merci più convenienti da un punto di vista valutario. Appurati gli effetti, decidere se svalutare o meno è una scelta politica che dipende da ciò che si ritiene preminente nel momento dato e dalle valutazioni che si fanno sugli effetti di lungo e breve periodo. Trattandosi di obiettivi, ponderazioni e valutazioni, ognuno può giungere a conclusioni diverse, e ciò mi pare più che legittimo. Il problema che si pone nel caso dell’euro è se sia stato vantaggioso sposare una situazione che priva dell’autonomia di svalutare. Ovviamente anche in questo caso non esiste una risposta univoca: più risposte sono possibili in base alle valutazioni sociali, politiche ed economiche, sapendo, comunque, che la storia è l’ultimo giudice di ogni scelta».

Francesco Gesualdi


Banche armate

Buongiorno Direttore e Redazione. Sono abbonato alla rivista Missioni Consolata i cui contenuti a carattere socioeconomico ed etico condivido e sostengo. Segnalo che tra le banche da voi utilizzate, compare Unicredit Banca che Francesco Gesualdi, ancora una volta, annovera tra le «banche con l’elmetto», quindi legate al commercio di armi (vedi MC 12/2019 pag.6). Mi aspetto che abbandoniate quanto prima questo legame e, come in molti hanno fatto e facciamo, intraprendiate rapporti bancari con Banca Popolare Etica, che vuole stare sul mercato in modo etico, responsabile e trasparente. Auguri a tutti Voi,

Alessandro Grando Verona, 21/12/2019

Siamo ben coscienti della problematica e della contraddizione della nostra posizione, nella quale da una parte attacchiamo le banche armate e dall’altra invece le usiamo. È certamente una situazione complessa, spina nel fianco da un bel po’. Grazie comunque per lo stimolo offerto che passo ai miei diretti superiori con speranza.


La lotta degli Yanomami

A Parigi, il 30 gennaio 2020, alla presenza di fratel Carlo Zacquini, Imc, e Davi Kopenawa, è stata inaugurata la mostra di Claudia Andujar «La lotta Yanomami». Promossa dalla Fondazione Cartier, rimarrà aperta fino al 10 maggio prossimo.
Info: www.fondationcartier.com.

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Cari Missionari

Giovane mamma

Suona il campanello e vado a vedere chi c’è.

Trovo una giovane mamma che dal viso sembra molto preoccupata. Tra le braccia, avvolto in un pezzo di stoffa, porta il suo bambino. Non ci vuole molto a capire che il piccolo è denutrito. Mi chiede di aiutarla.

Guardo l’orologio, sono circa le 09.45. Alle 10 precise devo essere in classe. Ho solo un’ora alla settimana di lezione da dare in seminario, e al martedì. Proprio di martedì e a quest’ora doveva venire?

Di corsa l’accompagno in cucina e dico al cuoco di occuparsene e che ritornerò più tardi.

Le mie lezioni sono sulla spiritualità e il carisma dei missionari della Consolata secondo l’insegnamento e il pensiero del nostro fondatore il beato Giuseppe Allamano, affinché i giovani prendano il suo spirito ed entusiasmo missionario e siano degni del nome che porteranno: Consolata, diventando dei veri consolatori delle anime e dei corpi.

Durante la lezione la mia mente corre al volto di quella mamma. I suoi occhi erano lucidi, quasi di lacrime, ma non piangeva. Non mi ha detto molte parole, non riusciva. Mi aveva fatto vedere il volto del bambino con delicatezza e gentilezza quasi per dirmi: «Ho fatto tutto il possibile, ho dato tutto quello che potevo e che possedevo. Ho dato il mio amore. Ora non so cosa fare».

Ma io, come posso aiutarla? Che cosa posso fare?

Terminata la lezione vado in cucina dove hanno preparato una pappetta per il piccolo e dato qualcosa alla madre.

Dopo pranzo porto la mamma al Holy Cross Hospital tenuto dalle suore qui a Morogoro. Mi dicono subito che il piccolo deve essere ricoverato e naturalmente assistito dalla mamma. Tiro un respiro di sollievo. Non sapevo proprio cosa fare.

Dopo due giorni, vado a trovarli. La mamma (nella foto) mi abbozza un sorriso di ringraziamento per il bambino che aveva iniziato le cure.

Mentre esco per lasciare l’ospedale, vengo chiamato in amministrazione. Vogliono sapere chi pagherà il conto, anche per la mamma venuta in ospedale senza una moneta e nemmeno un cambio per se stessa. Chiedo l’ammontare fino a quel momento e saldo il conto. Per le cure successive pagherò più avanti. Dopo una settimana, ritorno all’ospedale e la suora mi dice che il bambino è stato dimesso. La mamma non abita molto lontano e deve venire regolarmente per il controllo, le cure e la crescita del bambino. Per le spese non devo pensarci. Ci pensano loro.

Durante il ritorno mi vengono in testa tante domande e tanti perché. Perché è venuta in seminario? Chi l’ha mandata? Come ha fatto a venire? E poi: come si chiama? E il bambino? Da dove viene, dove vive? Di che religione è?

Torno indietro per avere informazioni. Quando ho pagato non ho voluto la ricevuta, ma che la dessero alla mamma. Così non so nemmeno i loro nomi.

Andando verso l’ospedale altri pensieri mi passano per la mente. Mi chiedo il perché voglio sapere chi è, cosa fa, da dove viene, ecc… Forse che Gesù chiedeva informazioni e dati anagrafici alle persone che aiutava e guariva?

Faccio ancora inversione di marcia e mi dirigo decisamente verso il seminario.

Però ho chiesto al Signore una cosa. Lui dopo le guarigioni diceva: «Va e non peccare». Oppure: «La tua fede ti ha salvato». Ebbene, desidero, o Signore, che quella mamma sappia che è stata aiutata da gente che lo fa per il Tuo amore. Ora fa che quella mamma diventi una persona che ti ama.

Fratel Sandro Bonfanti
Morogoro, Tanzania


«Top 200» edizione 2019

Per il decimo anno consecutivo Wal-Mart mantiene il primo posto, per fatturato, nella graduatoria mondiale delle multinazionali. Lo rende noto Top 200, edizione 2019, il dossier curato dal Centro Nuovo Modello di Sviluppo, sulle prime 200 multinazionali del mondo. Wal-Mart è la più grande catena di supermercati: 11.200 in tutto il mondo sparsi nei cinque continenti. Con 2 milioni e 200mila dipendenti, di cui 1 milione e mezzo negli Stati Uniti, Wal-Mart è anche ai primi posti in termini di multe per violazione dei diritti dei lavoratori. Dal 2000 a oggi, solo negli Stati Uniti, ha collezionato multe per un miliardo e mezzo di dollari.

Al 13° posto della graduatoria delle multinazionali, troviamo un’altra impresa del commercio, che benché più piccola è senz’altro più nota in Europa. Si tratta di Amazon, il cui patron, Jeff Bezos, per il secondo anno consecutivo si è collocato al primo posto della graduatoria stilata da Forbes sulle persone più ricche della terra. E neanche lui passa per essere un buon datore di lavoro. Nichole Gracely, una giovane statunitense che ha lavorato vari mesi come stagionale in un centro logistico di Amazon, ha detto che è meglio essere disoccupata e senza casa piuttosto che lavorare alle dipendenze di Amazon.

Non sappiamo come se la cavino i lavoratori delle altre catene commerciali, ma di sicuro sappiamo che i supermercati costituiscono il gruppo di imprese più numeroso fra le top 200: ben 35 per un fatturato complessivo di 4mila miliardi di dollari e 11 milioni di dipendenti. Solo il settore energetico (le terribili multinazionali del petrolio) riesce ad andare più su con un fatturato complessivo di 4.192 miliardi. Ma al terzo posto troviamo le imprese finanziarie a confermare come banche, assicurazioni e fondi di investimenti rappresentino la spina dorsale del capitalismo moderno. Ed è proprio a questi soggetti che Top 200 riserva alcuni approfondimenti. In particolare «Banche sporche di catrame», richiamandosi alla ricerca condotta da Banking on climate change, mette in evidenza che dal 2015, l’anno in cui venne firmato l’accordo di Parigi, le principali 33 banche mondiali hanno impegnato il 7% di risorse in più a vantaggio delle imprese che estraggono combustibili fossili. Poi non c’è da stupirsi se le emissioni di anidride carbonica hanno continuato a crescere: del 1,6% nel 2017 e del 2,7% nel 2018. Al primo posto per finanziamenti concessi c’è JPMorgan Chase, la banca internazionale guidata da Jamie Dimon, anche presidente della Business Roundtable che nell’agosto 2019 ha fatto credere al mondo che d’ora in avanti il capitalismo terrà conto degli interessi sociali e ambientali, non dei profitti degli azionisti.

E sempre parlando di finanza, un altro servizio si concentra sulle banche con l’elmetto, quelle, cioè, che sostengono le imprese di armi. Fra le banche europee al secondo posto troviamo Unicredit con 4 miliardi di finanziamenti, superata solo da Lloyds Bank. Fra i clienti di Unicredit c’è Northrop Grumman, che è coinvolta nella produzione di armi nucleari. Fra i clienti di Lloyds c’è General Dynamics, anch’essa coinvolta nella produzione di armi nucleari e fornitrice di armi a Egitto e Arabia Saudita. Armi controverse inviate a paesi controversi, laddove per armi controverse si intendono sia quelle illegali che quelle che provocano effetti indiscriminati e sproporzionati. Sotto questa categoria sono ricondotte le armi nucleari, le mine antiuomo, le armi incendiarie. Per paesi controversi si intendono quelli autoritari con un basso tasso di libertà e rispetto per i diritti umani. Un’ulteriore dimostrazione che, al di là delle politiche d’immagine, pur di fare soldi le imprese non si fanno scrupolo a finanziare operazioni di morte e di aggressione contro le persone e la natura. Solo la vigilanza e l’agire critico potranno salvarci. Buona lettura su www.cnms.it

Francesco Gesualdi
21/10/2019


Grazie

Cari missionari,
sono vostra abbonata da non so più quanto tempo. Avevo visitato a Milano la mostra «coca e maloca». Lì presi una copia omaggio della rivista. E, a casa, dopo averla letta, subito decisi di abbonarmi.

Mi piace sempre molto essere portata in giro per il mondo dai vostri articoli e dossier. Mi fanno conoscere popoli nelle loro realtà. Grazie davvero. E se, come dice qualche lettore, «vi schierate», io ne sono contenta, perché siete sempre dalla parte degli oppressi e dei poveri (o meglio impoveriti dal nostro capitalismo senza cuore).

Mi piacciono anche molto gli articoli di Rosanna Novara Topino e sono entusiasta di quelli di Franco Gesualdi: finalmente riesco a leggere articoli che parlano di economia (fino a ora non ci ero mai riuscita, smettevo dopo poche righe). Questi riesco non solo a leggerli ma a capire qualcosa di economia, di Europa, Bce, spread, eccetera eccetera. Fantastico! Grazie a tutti e cordialissimi saluti.

Gabriella Pagani
26/10/2019


Domande

Buon giorno, sono un vostro abbonato da tanti anni e sono contento della vostra rivista per l’attenzione all’uomo. Oggi ho due richieste da fare.

  • Nei giorni scorsi, parlando con un amico che vive in Cameroun, ho sentito parlare del genocidio che sta avvenendo in quel paese tra gli anglofoni e i francofoni anche a causa dell’ingerenza del governo francese. Cosa si può conoscere su questo argomento?
  • A proposito dell’agitazione del mondo sul problema dei cambiamenti climatici (vedi Greta e movimenti vari) e del Sinodo sull’Amazzonia ho l’impressione che non si abbia il coraggio (in particolare negli ambienti cattolici) di proporre un cambiamento del nostro stile di vita con proposte serie e pratiche (vedi proposte degli anni Novanta del movimento Bilanci di Giustizia).

In attesa di leggere una risposta saluto e auguro buon lavoro.

Daniele Engaddi
14/10/2019

Siamo coscienti della realtà dell’Ovest anglofono del Camerun. Ne abbiamo segnalato diverse volte la situazione sulle nostre pagine di Facebook. La rivista Africa, associata con noi alla Fesmi, scrive: «I separatisti sono [accusati di] ribellione [perché] hanno fatto una campagna per la creazione di uno stato indipendente chiamato Ambazonia, composto dalle regioni anglofone del Nord Ovest e del Sud Ovest del Camerun, lamentando la loro emarginazione per decenni da parte del governo centrale e dalla maggioranza di lingua francese.

La crisi anglofona è iniziata nel 2016, quando avvocati e insegnanti hanno scioperato contro il tentativo di imporre il francese nelle scuole e nei tribunali delle regioni del Nord Ovest e del Sud Ovest. Dallo scoppio della crisi, sono oltre 500mila gli sfollati» (Africa, 29/08/2019).

Noi non ignoriamo il problema, e speriamo di dedicarci un servizio presto. Intanto suggeriamo di seguire riviste sorelle come Nigrizia e Africa, molto specializzate sull’Africa.

Su cambiamenti climatici credo di poter dire che l’enciclica «Laudato si’» di papa Francesco sia uno dei documenti più coraggiosi sull’argomento. E il Sinodo sull’Amazzonia ne è una conferma. Sul tema torneremo in gennaio 2020  con un ampio dossier sul Sinodo, per non farlo dimenticare quando già non se ne parlerà più.

 


Auguri al vescovo più vecchio d’Italia

Il 1° novembre 2019 mons. Aldo Mongiano, missionario della Consolata, vescovo di Roraina in Brasile dal 1975 al 1996, e già missionario in Mozambico, ha celebrato i suoi 100 anni nella chiesa del beato Giuseppe Allamano a Torino, presente una bella delegazione da Roraima, guidata dal vescovo Mário Antônio da Silva che rappresentava anche la Conferenza Episcopale Brasiliana.


Una casa per ricominciare

Un progetto di solidarietà degli Amici Missioni Consolata a favore di chi ha perso la casa durante il ciclone Idai nella diocesi di Tete in Mozambico.

Nel marzo scorso il ciclone Idai ha colpito il Mozambico e la regione di Tete, già danneggiata dalla piena del fiume Revubwe che ha portato via tutto nella zona di Nkondezi: ponti, campi, case e persino cimiteri. Attualmente più di 500 famiglie, circa 4.000 persone, vivono in tende nel campo di Chimbondi in condizioni molto precarie. Ricevono aiuti alimentari e poco altro.

Subito dopo la sua consacrazione episcopale (maggio 2019) il nuovo vescovo di Tete, Diamantino Antunes, missionario della Consolata, ha visitato le famiglie nel campo di accoglienza assicurando loro l’aiuto della Chiesa.

Con le autorità locali è stato fatto un un piano per trasferire le famiglie che vivono nelle case distrutte o danneggiate e costruire per loro delle case nuove in muratura in luoghi più sicuri.

Si può aiutare e sostenere il progetto:

  1. con donazioni a «AMC-progetto case Tete» usando il ccp che ricevete con la rivista o con versamento bancario a MISSIONI CONSOLATA Onlus (dati dettagliati a pagina 83)
  1. visitando la Mostra di Solidarietà dell’Immacolata 2019 allestita nella parrocchia Maria Regina delle Missioni, Via Cialdini 20(a Torino, tram: 9 – 16; bus: 55 – 56 – 65; metro fermata Bernini) da mercoledì 4 a domenica 8 dicembre 2019 orario 9,30-13,00 / 15,00-19,00

Nuove case a Tete




Fino al dono della vita

Testo e foto di Anair Voltolini, MdC


La parola missione, pur inflazionata nel linguaggio attuale, continua a indicare un affascinante e intenso dinamismo di vita. Anzi, il suo significato raggiunge una dimensione sempre più ampia e profonda nella vita cristiana di oggi.

Ero una ragazza di 13 anni quando scattò una prima scintilla di vocazione – il desiderio di consacrare la vita al Signore per la missione. Nata in una famiglia di fede semplice ma profonda, ho ricevuto lì e nella comunità cristiana una solida formazione umana ed evangelica che ha aperto la strada per una risposta. Le missionarie della Consolata erano presenti nel mio piccolo paese – Cafelandia nel Sud del Brasile – e con la loro testimonianza di vita consacrata missionaria e con il loro aiuto ho deciso di seguire l’avventura di andare sulle strade del mondo a condividere con altre persone e altri popoli la gioia di credere in un Dio che ci ama e che ha dato la sua vita perché tutti possano avere vita e vita in abbondanza.

Dopo gli anni di formazione e dopo la professione religiosa, l’impegno missionario si è intensificato e ha assunto connotazioni nuove ed esigenti che coinvolgono tutta la vita e per sempre.

Partire per l’Africa in missio ad gentes

Missione ad gentes è dire con la vita e annunciare con la parola il messaggio di Gesù alle genti che ancora non lo conoscono, o non hanno ancora trasformato in vita vissuta la bellezza di credere nel Dio di Gesù. È andare tra la gente dove lui è già presente ma non ancora conosciuto e rendere sempre più visibile ed effettivo il suo mistero salvifico – rivelazione e manifestazione del Dio Amore, appassionato della persona.

Essere missionaria in Mozambico, dove ora mi trovo, o in qualunque parte del mondo, implica coltivare una profonda esperienza di questo amore di Dio, alimentare un forte spirito di fede e ravvivare una sempre viva sensibilità alla brezza dello Spirito, generatore di vita nuova. Implica uno sguardo sconfinato di speranza, anche quando sembra che poco o nulla cambi attorno a te nonostante anni di servizio e dedizione. Implica una carità evangelica che cresce attorno alla Parola e all’Eucaristia, che costruisce la comunione e la fraternità universale, che porta l’evangelizzatore fino al dono della vita.

La vita missionaria, credo di poter dire, si esprime soprattutto in tre dimensioni chiare, concrete e creative: nella testimonianza di una vita profondamente evangelica, nella preghiera costante al Padre con Cristo in favore dell’umanità e nell’annuncio di Gesù Cristo, il figlio redentore, e del suo Vangelo di salvezza.

Missione è gioia

Vivere la missione richiede, a chi è chiamato e inviato, innanzi tutto una testimonianza gioiosa della sequela di Gesù come discepola missionaria del Vangelo. «Gesù vuole evangelizzatori che annunciano la buona Novella non soltanto con parole, ma soprattutto con una vita trasfigurata dalla presenza di Dio» (EG, n. 259).

Papa Francesco nella Evangelii Gaudium, è chiaro e persistente nel presentare l’esigenza di una profonda esperienza di amore per Cristo e di sentirsi da lui intimamente amati, come fondamentale motivazione per una effettiva evangelizzazione.

Anche papa Paolo VI nella Evangelii Nuntiandi è stato molto efficace nell’affermare che l’uomo contemporaneo crede più ai testimoni che ai maestri e se crede in questi è perché sono testimoni (cf. EN n. 41).

La missione vive di una grande passione per Cristo Gesù e allo stesso tempo di una vera passione per le persone, per la gente. Non è il proselitismo trasforma il cuore della persona ma l’attrazione di una vera testimonianza di chi sa «dare ragione della propria fede e speranza» (cf. 1Ptr 3,15). Essere missionaria è esserci, essere presenza, essere con la gente.

Un dono speciale: la consolazione

Per noi missionarie e missionari della Consolata il carisma (dono di grazia specifico) che ci caratterizza è quello di evangelizzare nel segno della consolazione. Essere presenza di consolazione è prima di tutto essere segno della più grande consolazione che è Cristo Gesù. Il modo di essere tra la gente, la relazione di fraternità, la prossimità rispettosa di ogni persona e della sua cultura, la vicinanza all’altro in ogni situazione di gioia o di dolore, l’accoglienza della diversità come ricchezza, l’attenzione ai più poveri e marginalizzati, apre alle persone e ai popoli la strada che conduce all’incontro con il mistero del Regno di Dio.

Preghiera, anima dell’evangelizzazione

Una seconda dimensione missionaria che illumina e facilita il processo di evangelizzazione è la vita di preghiera dell’inviato. Ricordo sempre un principio, che ho ben impresso nel cuore: la missione non consiste soltanto nell’annunciare la Parola di Dio, cioè parlare di Dio alla gente, ma è fondamentale per l’annunciatore parlare della gente con Dio. I missionari sanno che l’opera di conversione e di salvezza non è opera loro, ma viene dallo Spirito di Dio che si muove come, quando e dove vuole.

La missione è di Dio

L’evangelizzatore è mediatore, è ponte, è al servizio della missio Dei. La missione è di Dio. Il Salvatore è Gesù. I missionari hanno un compito prezioso e fondamentale: presentare a Dio, portare davanti a Lui la realtà e la vita della gente e del mondo.

Per questo la sua è una preghiera ora di ringraziamento e di lode, ora di supplica e d’intercessione, ora di lamento e di offerta, di consegna di sé perché la vita raggiunga la sua pienezza.

La missione allarga il cuore e gli orizzonti di chi la abbraccia come suo ritmo di danza quotidiana; fluisce nel suo spirito come respiro vitale e determina ogni scelta del suo cuore. La missione implica la contemplazione.

Il nostro fondatore, Giuseppe Allamano, diceva ai suoi figli e figlie che era indispensabile per il servizio della missione che si formassero uomini e donne contemplativi, uomini e donne di una intensa preghiera. «Il nostro primo dovere – ricordatelo sempre! – non è lo sbracciarsi, ma il pregare» (Così vi voglio p. 234). Su questo punto l’Allamano era molto fermo.

Alcuni pilastri

La mia esperienza di missione tanto in Mozambico come in Brasile percorre questo nuovo processo costruito su alcuni pilastri chiave.

  • L’inserimento nelle culture con grande rispetto, a «piedi nudi e mani vuote» per riconoscere e accogliere la presenza di Dio in esse e l’attenzione a una inculturazione graduale del messaggio evangelico.
  • La formazione di una Chiesa ministeriale, in un impegno non negoziabile di collaborazione e partecipazione dei laici nella diversità di pastorali che costituiscono la comunità-comunione dei discepoli di Gesù.
  • Il dialogo ecumenico e interreligioso che unisce nella fede e nella carità, nel rispetto e nella tolleranza evangelica la diversità di religioni e di chiese.
  • La promozione e formazione integrale della persona, in particolare della donna, in modo che possa conoscere e assumere la sua dignità e vocazione nella Chiesa e nella società.
  • L’attenzione alla persona da evangelizzare e alla formazione di piccole comunità che crescono attorno alla Parola, all’Eucaristia e al servizio della carità fraterna. Sembra di poter dire che l’annuncio del Vangelo tocca il cuore della persona e diventa efficace quando è direttamente fatto a piccoli gruppi e non alle moltitudini.

Gratitudine e gioia

A conclusione di questo discorso, frutto di esperienza e di riflessione sulla missione oggi nel mondo, voglio dire la mia gratitudine e la mia gioia, prima di tutto di essere membro di un istituto missionario, con un carisma specifico di servizio alla missione ad gentes.  Poi di essere in missione in Mozambico, specificamente, in Maúa nella provincia di Niassa.  Sono qui in questa realtà missionaria per la seconda volta. Dopo aver lasciato il Mozambico per una missione diversa in altri lidi, sono tornata tra il popolo Macua, una grande etnia nel Nord del paese. È qui, tra questo popolo, in questa porzione di Chiesa, che mi è offerta l’opportunità di vivere la missione nelle dimensioni che ho cercato di presentarvi e di percepire la bellezza e la grandezza di una vocazione che investe tutto della persona.

E di viverla in una comunità missionaria internazionale, interculturale e intergenerazionale. Mi piace poter dire con chiarezza e convinzione: «Mai più la missione dei navigatori solitari, pur pieni di amore e di ardore per l’evangelizzazione».

L’Allamano così ha pensato, sognato e voluto la sua famiglia missionaria della Consolata fin dalla sua origine: un gruppo di persone consacrate al Signore per la missione per tutta la vita, con lo spirito di famiglia, che si stimano reciprocamente, dove è ben accesa la fiamma di una carità vera; dove si cammina e si guarda all’orizzonte del progetto missionario in unità d’intenti.

Missionari con Maria

Faccio mia la preghiera di papa Francesco: «Stella della nuova evangelizzazione, aiutaci a rifulgere con la testimonianza della comunione, del servizio, della fede ardente e generosa, della giustizia e dell’amore verso i poveri, perché la gioia del Vangelo arrivi fino ai confini della terra e nessuna periferia rimanga privata della sua luce» (EG n. 288).

Suor Anair Voltolini
missionaria della Consolata  in Mozambico




Quei santi sconosciuti: i martiri di Guiúa


Testo di Osório Citora Afonso


Era il 22 marzo 1992, ventitré catechisti furono assassinati da un gruppo di uomini armati. Si trovavano nel centro catechistico di Guiúa per formarsi al loro ministero. Qualche anno prima, nel 1987, un altro catechista aveva subito la stessa sorte nello stesso luogo. Oggi si è conclusa la prima parte del processo di beatificazione che li riguarda.

Il 22 marzo scorso, in un momento nel quale il centro del Mozambico è stato devastato dal ciclone Idai che ha colpito in modo indiscriminato le persone, le città e i loro beni, si è celebrato il 27° anniversario del martirio dei catechisti laici di Guiúa.

Inoltre, si è chiuso in maniera positiva il processo diocesano per la loro beatificazione e si è quindi aperta la fase romana con il trasferimento alla Congregazione per le cause dei santi di tutto il materiale istruttorio raccolto in diocesi.

Vogliamo dunque ricordare i catechisti martirizzati a Guiúa nel 1992 (cfr MC, dossier, 3/2002) e, inoltre, offrire un omaggio ai laici catechisti e missionari del Mozambico che anche oggi spendono la loro vita, spesso in condizioni difficili e pericolose, perché Cristo sia annunciato e tutti gli uomini ricevano la salvezza.

I catechisti in tempo di prova

Dobbiamo sottolineare due caratteristiche importanti della Chiesa mozambicana durante il periodo che va dal 1975, data dell’indipendenza nazionale, al 1992, data dell’accordo di pace.

Da una parte abbiamo una chiesa sotto un regime marxista, una chiesa spogliata dei suoi averi e del suo essere. Dall’altra una chiesa nella guerra civile, una chiesa martirizzata.

Ambedue vivono sotto il segno dell’emergenza e della riscoperta del ruolo fondamentale dei catechisti laici.

Poco dopo la dichiarazione d’indipendenza del Mozambico nel 1975, con l’ascesa al potere del Fronte per la liberazione del Mozambico (Frelimo) e la sua dichiarata posizione marxista leninista, ostile alla Chiesa, inizia un periodo di vera persecuzione, con espropriazioni, restrizioni di ogni genere all’attività pastorale, negazione dei visti d’entrata nel paese ai missionari stranieri. Molte missioni si vedono svuotate dei loro missionari e sacerdoti. Nascono allora piccole comunità cristiane che si radunano non più attorno ai sacerdoti, ma a quelli che vengono chiamati «missionari laici», cioè i catechisti che svolgono un’attività di custodi, di testimoni e di animatori delle comunità cristiane.

Una lunga guerra civile

Negli anni immediatamente successivi all’indipendenza, il Mozambico è teatro di una lunga e sanguinosa guerra civile, durata ben 17 anni, tra il Frelimo al potere, e il movimento di guerriglia anticomunista Resistenza nazionale del Mozambico (Renamo).

Durante la guerra civile varie missioni si trovano coinvolte nel conflitto: molti sacerdoti, religiosi, religiose e laici vengono sequestrati. Alcuni testimoniano l’adesione a Cristo con il martirio.

La «Chiesa ministeriale»

L’Assemblea pastorale nazionale di Beira del 1977 costituisce un avvenimento centrale per la chiesa mozambicana sotto il marxismo e colpita dalla guerra civile. Con una nutrita rappresentanza di laici delle piccole comunità cristiane, la chiesa legge i segni dei tempi e traccia coraggiosamente il progetto di trasformarsi da «chiesa del popolo» in «Igreja ministerial» (chiesa ministeriale), mediante la valorizzazione dei ministri laici.

Le comunità sono chiamate a strutturarsi secondo ministeri, servizi che il Signore va suscitando. Così viene riformulata la formazione da offrire ai catechisti per rendere più facile ed efficiente la presenza viva della chiesa in tutte le comunità diffuse nei vasti territori delle missioni. In queste missioni i catechisti diventano davvero «custodi, testimoni e animatori delle comunità cristiane».

Questa chiesa mozambicana, nel tempo della prova, è in grado di produrre martiri.

Pensiamo anzitutto a quelli che saranno formati nel Centro catechistico di Anchilo per svolgere la loro attività missionaria nella zona di Nampula e che saranno uccisi sul campo di missione e, in secondo luogo, a quelli di Guiúa di cui parliamo qui, che saranno uccisi durante la loro preparazione proprio nelle vicinanze del centro.

I 24 martiri di Guiúa

È il 21 marzo del 1992, il Centro catechistico di Guiúa accoglie quindici famiglie provenienti delle missioni di Maimelane, Mapinhane, Vilankulo, Muvamba, Funhalouro, Morrumbene, Mocodoene, Jangamo, Guiúa e Inhambane, tutte già provate duramente dalla guerra. Si trovano nel Centro formativo di Guiúa per essere preparate al loro ministero.

Già durante il giorno si sentono colpi di arma da fuoco echeggiare da lontano, ma sembra che non ci siano pericoli immediati. Verso le 23, invece, le famiglie, le religiose francescane e i due missionari della Consolata, Andrea Brevi e John Njoroge, presenti nel centro, si rendono conto di essere stati accerchiati da un nutrito gruppo di giovani uomini (alcuni paiono avere tra 10 e 15 anni), forse allo scopo di saccheggiare la struttura.

Visto il pericolo, ogni famiglia si chiude ciascuna nella casetta che gli è stata assegnata per il soggiorno, ma ben presto i guerriglieri iniziano a sparare e a tirare fuori con violenza le famiglie dalle abitazioni. Due catechisti che provano a fuggire venogno uccisi, gli altri vengono radunati. Ad un certo punto si sentono due colpi di mortaio sparati dall’esercito regolare che presidia il vicino acquedotto. Un gruppo di guerriglieri allora si dirige verso i soldati, ma non li trova e ritorna indietro.

Raggruppate le persone che sono riusciti a tirare fuori dalle abitazioni fino a quel momento, i guerriglieri le fanno camminare con loro per 500 metri e si fermano nei pressi di una capanna per interrogare gli ostaggi. Vogliono sapere da dove provengono e perché si trovano lì, poi chiedono informazioni sulla dislocazione dell’esercito e sulla strada libera dalle mine per poter entrare nell’area protetta, ma non ricevono le risposte che vorrebbero.

Dato che comincia ad albeggiare, gli assalitori decidono di inoltrarsi nel bosco con gli ostaggi per circa tre chilometri, poi si fermano, separano una decina di ragazzi dal resto del gruppo per portarli nelle loro basi, e uccidono a sangue freddo tutti gli altri.

Prima di essere uccisi, i catechisti chiedono di poter pregare e gli assassini glielo concedono.

Il bilancio finale dell’assalto e del massacro è di 23 persone uccise, tra cui sei bambini tra uno e 13 anni.

Il ventiquattresimo martire, il catechista Peres Manuel Chimganjo, venne ucciso invece il 13 settembre del 1987, cinque anni prima, sempre a Guiúa, in circostanze simili.

Custodi, animatori, testimoni

I catechisti sono custodi, animatori e testimoni delle loro comunità cristiane. I ventiquattro martiri di Guiúa lo sono stati in modo speciale.

Sono stati custodi, ossia «missionari laici», come già erano definiti i catechisti mozambicani nel 1977, ossia «padri di famiglia trasformati in apostoli» che hanno saputo conservare con cura, difendere e proteggere non soltanto la fede dei loro fratelli, ma anche il patrimonio della Chiesa nel tempo in cui essa era sotto il marxismo e colpita dalla guerra civile.

Padre Cornelio Prandina, comboniano morto nel 1992, descrivendo le attività dei catechisti diceva: «Sono incaricati di dirigere e coordinare la vita di decine di comunità, specialmente dove non c’è il sacerdote. Alcuni arrivano ad avere la responsabilità di più di 50 comunità».

Sono stati testimoni, cioè non hanno avuto paura di testimoniare la loro fede di fronte al pericolo. Uno degli scampati del 21 marzo 1992 ha raccontato l’interrogatorio subito dai guerriglieri:

«Da dove venite?».
«Veniamo da diverse missioni della provincia».

«Per fare che cosa?».
«Noi siamo catechisti: impariamo la Bibbia e i diversi lavori dei cristiani nelle comunità cristiane».

«Dov’è il vostro cibo?».
«Siamo poveri, non abbiamo magazzino e viviamo alla giornata».

«Dove sono i militari che vi difendono?».
«Non lo sappiamo. Non siamo di qui, veniamo da lontano perché qui c’è una chiesa e un Centro che forma i catechisti».

«Voi siete sacerdoti?».
«No. Siamo catechisti».

«Che abbiate risposto bene o male, giusto o sbagliato, per voi la fine sarà la stessa: cioè la morte».

Sono stati animatori di comunità: durante quegli anni alcuni di loro, reagendo alla paura, riunivano piccoli gruppi di cristiani, anche di due o tre persone soltanto. Poco importava se all’ombra di una capanna o sotto una pianta di caju (anacardio). In tutto il Mozambico, scomparsi i quadri organizzativi della chiesa, le piccole comunità cominciavano discretamente a riaggregarsi per pregare e leggere la Bibbia, grazie al lavoro dei catechisti. Progressivamente, si sono formate e rafforzate tante piccole comunità, organizzate attorno alla Parola e alla preghiera al fine di garantire il servizio della fede e l’aiuto ai fratelli in necessità: il catechista svolgeva un ruolo fondamentale. L’essere e l’agire della comunità radunata attorno al catechista o all’animatore, che si trattasse dell’azione semplice di ogni giorno o dell’estremo dono di sé, esprimevano la concezione di una vita messa a disposizione della Parola e della legge del Signore. Era questa la loro prima e radicale espressione. Si trattava di una vera e propria spiritualità del martirio.

Joaquim, Isabel e Carlos

Sul catechista cinquantatreenne Joaquim Marrumula Nyakutoe si dice che fosse uomo coraggioso e pieno d’amore verso la sua gente, e che seppe, con il suo zelo apostolico, formare e animare la sua comunità cristiana di Guissembe. Aveva dieci figli, dei quali tre furono rapiti e tornarono a casa dopo sei mesi.

Sulla catechista quarantacinquenne Isabel Foloco si dice che fu una donna sempre disponibile ad animare la comunità e a collaborare nei diversi impegni. I più bisognosi della comunità trovavano sempre in lei un aiuto. Aveva cinque figli e fu uccisa davanti a loro.

Su Carlos Mukuanane trentaduenne si dice che aveva una buona capacità di leader. Fu scelto per essere catechista e animatore della comunità di Funhalouro che si trovava senza sacerdote. Seppe animare la sua comunità cristiana nella preghiera e lettura della Bibbia. Aveva quattro figli.

Sono tre esempi di custodi, testimoni e di animatori di comunità che hanno dato la loro vita mentre si preparavano per il loro ministero. Il sacrificio delle famiglie di Guiúa non è stato inutile, perché quel luogo oggi è il fulcro della diocesi di Inhambane, dove si può toccare e vedere l’impronta della presenza di Dio nella terra dei Tonga, dei Twas, degli Xopes e degli Ndaus. Voglia Dio aprire gli occhi e la mente di tutti perché possiamo percepire, ricordare e valorizzare debitamente quest’apertura del cuore di Dio per Inhambane.

Osório Citora Afonso

Sui martiri di Guiúa nell’Archivio MC:


È morto monsignor Francisco Lerma  MartÍnez

Missionario, vescovo, amico dei mozambicani

 

Mons. Francisco Lerma Martínez, missionario della Consolata, vescovo di Gurué, è andato alla casa del Padre il 25 aprile scorso. Era ricoverato all’ospedale Istituto del Cuore a Maputo, Mozambico.

Nato a Murcia, in Spagna, il 4 maggio del 1944, mons. Francisco Lerma ha passato quasi tutta la sua vita missionaria in Mozambico, paese che ha raggiunto nel 1971, dopo l’ordinazione sacerdotale.

Dal 1971 al 1974 è stato prima viceparroco e poi parroco a Maúa, quindi dal 1974, per due anni, direttore della scuola per catechisti di Correia. Passati gli anni dell’indipendenza del Mozambico, dal 1976 al 1979 è stato parroco a Cuamba dove ha chiuso il suo primo decennio di missione nella Provincia del Niassa, Nord Ovest del Mozambico, la più povera del paese.

Nel 1979 è stato inviato più a Sud e gli è stato affidato il ruolo di segretario della pastorale nella diocesi di Inhambane, ruolo che ha dovuto interrompere dopo due anni per recarsi in Spagna a causa di una malattia che lo ha fermato per più di un anno.

Nel 1982 è ritornato in Mozambico e ha ripreso il servizio di coordinamento pastorale. Dopo quattro anni gli è stata assegnata la cura pastorale della parrocchia di Massinga dove è rimasto per altri quattro anni.

All’inizio del 1992 è stato mandato a guidare la formazione dei seminaristi al seminario filosofico di Matola, ruolo che ha ricoperto per quattro anni.

issione. Ha saputo stare dalla parte dei poveri, facendo sentire il loro grido, e ha richiamato con coraggio alla pace e riconciliazione dopo i tanti fatti di violenza e ingiustizia

Passati alcuni mesi dall’inizio del 1996, alla parrocchia di Nova Mambone, a giugno è nominato direttore del Centro catechistico di Guiúa, dove quattro anni prima 24 catechisti avevano testimoniato col loro martirio l’amore a Cristo e al Vangelo. È rimasto a Guiúa fino al 2002, ricoprendo allo stesso tempo il servizio di consigliere della Regione Mozambico dei missionari della Consolata.  Dopo un periodo a Roma, dove si è occupato del Segretariato generale per la missione per l’Istituto, nel 2007 è ritornato in Mozambico dove è stato eletto superiore regionale l’anno seguente. Ruolo che ha svolto per due anni fino al 24 marzo 2010, quando Papa Benedetto XVI lo ha nominato vescovo di Gurué.

Mons. Francisco era una persona semplice e amabile, vicina a coloro che il Signore gli affidava nel corso della sua attività missionaria. Nel periodo prima dell’indipendenza del Mozambico, ha condiviso i dolori e le gioie di un popolo che gridava e lottava per la libertà. Poi, nel periodo post indipendenza, ha condiviso la fatica dello stesso popolo di trovare intesa e riconciliazione. Si è interessato profondamente della cultura e all’espressione religiosa di coloro che serviva, scrivendo anche libri e divulgandone la conoscenza.

Persona comunicativa, ha cercato, soprattutto negli ultimi anni come pastore della chiesa di Gurué, di fare conoscere la situazione dei suoi cristiani e anche di coinvolgere tanti amici e conoscenti nella sua stessa m accaduti nella diocesi a lui affidata.

Pedro Louro




Di cicloni in Mozambico

e nuovi dirigenti AICS in Italia


Testo di Chiara Giovetti


Mozambico, alluvioni e cicloni

Prima le inondazioni, poi i cicloni. Il Mozambico colpito dalla violenza della natura cerca di rimettersi in piedi.

Forti piogge hanno colpito il Mozambico centro settentrionale a partire dal 6 marzo scorso. Le regioni più interessate sono state Zambezia, Tete e la regione centrale. I primi bilanci parlavano di sette morti, oltre 32mila persone coinvolte dagli allagamenti e 4.242 sfollati.

Il 10 marzo l’Istituto nazionale di meteorologia del Mozambico ha diramato un’allerta in cui segnalava che la depressione in corso sarebbe diventata una tempesta tropicale, denominata Idai.

Oltre alle zone già colpite sono stati inondati anche parte del Niassa e 83mila ettari di terreni coltivati. Un totale di quasi 55mila piccoli coltivatori danneggiati.

Il ciclone Idai

Il ciclone Idai si è abbattuto sul paese nella notte fra il 14 e il 15 marzo, in particolare sulla città di Beira, provincia di Sofala, nel Mozambico centrale.

Le Nazioni Unite hanno immediatamente lanciato un appello per raccogliere 40,8 milioni di dollari necessari a soccorrere 400mila persone che, secondo le proiezioni sul percorso del ciclone, si stimava sarebbero state colpite.

Dopo una serie di aggiornamenti e verifiche, il 3 aprile scorso il numero ufficiale delle vittime è stato quantificato in 598, più oltre 1.600 feriti. Vi erano 131mila persone ospitate in ricoveri temporanei.

Le case completamente distrutte sono risultate essere oltre 85mila, 97mila erano parzialmente distrutte e quasi 16mila allagate.

Gli ettari di coltivazioni distrutti sono stati più di 715mila.

Idai ha poi continuato la sua corsa verso lo Zimbabwe dove, a fine marzo, si contavano 181 vittime, 175 feriti, circa 330 dispersi e un totale di 270mila persone colpite dagli allagamenti.

La città di Beira

Beira è la quarta città più grande del Mozambico con 500mila abitanti. Capitale della provincia di Sofala, al centro del paese, è affacciata sull’Oceano Indiano. Il suo porto è uno snodo cruciale sia per il Mozambico che per alcuni paesi vicini che non hanno sbocco al mare: Malawi, Zimbabwe e Zambia. Parte della città si trova sotto il livello del mare, «su una costa che secondo gli esperti è una delle zone del mondo più vulnerabili all’innalzamento delle acque dovuto al cambiamento climatico»@.

Mentre il porto ha ripreso le attività poco dopo il ciclone@, l’area circostante deve fare i conti con una devastazione senza precedenti: il 90% della città è infatti stato danneggiato o distrutto@.

La zona di Beira è il granaio del paese con un ruolo cruciale nei periodi di carestia. L’80% della popolazione mozambicana – e la regione intorno a Beira non fa eccezione – basa la propria sussistenza sull’agricoltura; nel 99% dei casi si tratta di piccoli coltivatori@.

Tete e Cuamba

Padre Sandro Faedi, Imc, ha testimoniato il 3 aprile per la rubrica online di Missioni Consolata, «Fuori Carta», la situazione di Tete, capoluogo della provincia omonima, confinante con la provincia di Sofala: «Centinaia di famiglie, si dice 860, sono state prese di sorpresa durante la notte, e hanno salvato a malapena la vita. Casa, oggetti, utensili, tutto alla malora. I morti… non si sa, forse una quarantina».

Oltre a occuparsi di Tete, dove lo stato sta cercando di intervenire, padre Sandro segue anche la situazione nelle più sguarnite Mpenha e Nkondezi, dove le famiglie colpite sono rispettivamente 673 e 12. A Nkondezi, grazie alla generosità di alcuni donatori privati, padre Sandro sta aiutando le famiglie a ricostruire le loro case.

Padre Willhard Kiowi da Cuamba (Niassa) segnala invece che circa ottanta famiglie sono ospiti a Nossa Senhora Aparecida, una delle chiese legate alla parrocchia di San Miguel Arcanjo dove lavorano i missionari della Consolata. Qui i missionari hanno intensificato l’assistenza alimentare, di solito rivolta ai bambini malnutriti del centro nutrizionale, fornendo anche alle famiglie riso, farina di mais, zucchero, sale e olio per cucinare, oltre che materiale per l’igiene personale, coperte e stuoie. Secondo la rivista Africa e Affari, «il Fondo monetario internazionale (Fmi) ha concesso un sostegno finanziario di emergenza al Mozambico per un importo di 118,2 milioni di dollari, in seguito alle gravi conseguenze, anche economiche, provocate dal passaggio del ciclone Idai su alcune zone del paese»@.

Era inoltre prevista per fine maggio una conferenza dei donatori internazionali organizzata dal governo di Maputo per discutere e coordinare la ricostruzione.

Il ciclone Kenneth

Mentre lavoravamo a questo articolo, un altro ciclone, denominato Kenneth, si è abbattuto il 25 aprile sul Nord del Mozambico (tra Pemba e Mocimboa e sulle isole Comore) e ha raso al suolo interi villaggi e provocato decine di vittime. Nei giorni precedenti, nel paese erano state evacuate 30mila persone. Secondo l’Unicef@, dopo l’ultimo disastro, 368mila bambini sono bisognosi di sostegno umanitario.

È rarissimo che due cicloni di tale intensità colpiscano il Mozambico nella stessa stagione, essi riportano la nostra attenzione ai cambiamenti climatici che interessano l’Africa. Il Mozambico, con i suoi 2.400 chilometri di costa sull’Oceano Indiano, è in prima linea nella lotta al cambiamento climatico.

Chiara Giovetti


Aics – Agenzia italiana per la Cooperazione allo Sviluppo

Nuovo direttore, vecchi problemi?

L’Aics ha un nuovo direttore, il candidato della Farnesina Luca Maestripieri. Un diplomatico invece di un tecnico a capo di un’agenzia che dovrebbe essere indipendente dalla politica. Il punto sulle polemiche.

Dal 6 aprile scorso Luca Maestripieri è il nuovo direttore dell’Aics, l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo.
Nato a Viareggio 58 anni fa, laureato in giurisprudenza, ha una carriera diplomatica che lo ha portato a Lubiana, Lisbona, New York e Parigi. Prima della nomina a direttore dell’Aics, Maestripieri ricopriva la carica di direttore centrale per gli affari generali e amministrativi presso la Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo (Dgcs) del ministero degli Affari esteri e della cooperazione (Maeci).

Contestualmente alla nomina di Maestripieri, un’altra figura di rilievo dell’Agenzia, il direttore del Dipartimento per le relazioni istituzionali e internazionali Emilio Ciarlo@, ha rassegnato le proprie dimissioni. La sua reazione alla nomina del nuovo direttore è stata la pubblicazione, il 5 aprile, sul suo profilo Facebook, di un’immagine del processo alle streghe di Derneburg (1555) sovrastata dalla scritta «Controriforma»@.

Due giorni dopo, in una lunga nota tecnica intitolata «Evitiamo titoli», Ciarlo ha più chiaramente argomentato la sua posizione@: «Volevamo che la cooperazione fosse una politica. Il contributo dell’Italia a un’idea di globalizzazione dei diritti e dei rapporti internazionali, un modo per essere “creatori” di sviluppo, non pianificatori, non benefattori, non semplicemente caritatevoli. Per questo doveva essere complementare e non succube della politica estera. Parte integrante non ancillare. Per questo è stata istituita un’Agenzia, autonoma, specializzata […]. A fare una sintesi con le istanze politiche, le preoccupazioni diplomatiche, le considerazioni commerciali ci avrebbe pensato l’altra gamba, quella del ministero, in una dialettica trasparente che sarebbe stata mediata e risolta, a favore dell’una o dell’altra posizione, dal viceministro […]. Questo era l’equilibrio. Questo il disegno, originale, considerato ora dall’Ocse e dai nostri partner europei un’architettura innovativa e promettente. Questo equilibrio ora salta».

A rendere più esplicito il punto ci ha pensato Carlo Ciavoni su la Repubblica, che ha ricostruito la vicenda in un articolo dal titolo Cooperazione italiana: con la nomina di Luca Maestripieri alla direzione dell’Aics vince la diplomazia@.

«La bisbetica maggioranza di governo», scrive Ciavoni, «con tutti i problemi che ha, ha pensato bene di non rischiare e di non superare quel confine sottilissimo che divide la Cooperazione dalla Diplomazia».

Il dibattito sulla «vittoria della diplomazia»

Che cosa significa «vince la diplomazia» e qual è il problema se questo succede?

A contendersi con Luca Maestripieri il ruolo di direttore erano stati, nella fase iniziale, 56 candidati, ridotti poi a una terna di nomi finalisti che comprendeva, oltre al diplomatico poi nominato, anche Emilio Ciarlo e Flavio Lovisolo, il direttore dell’Agenzia a Tunisi. La vittoria della diplomazia dunque consiste in questo: che fra i tre candidati, dei quali due erano tecnici di alto profilo già attivi nell’Agenzia e il terzo un diplomatico del ministero degli Affari esteri, è stato scelto quest’ultimo. Il problema che molti vedono sorgere di conseguenza a questa scelta è che l’Agenzia perda di autonomia e diventi «ancella» del ministero. Di conseguenza, il timore è che la cooperazione diventi non più parte integrante e qualificante della politica estera, come l’ha definita la legge 125 del 2014, ma un’appendice striminzita in balia degli umori e delle decisioni prese alla Farnesina, che a loro volta dipendono da equilibri politici più attenti agli interessi economici e alla pancia dell’opinione pubblica che alla solidarietà internazionale.

Interni contro esterni

Accanto a questo dibattito (chiamiamolo per brevità diplomatici versus tecnici) se ne è poi sviluppato uno parallelo, quello degli interni versus esterni, cioè dei candidati appartenenti all’Agenzia o al Maeci, da un lato, e dei candidati provenienti da altri settori – a cominciare dalla società civile – dall’altro.

La prima fase della selezione ha visto uno dei concorrenti «esterni», l’ex presidente della Ong Vis, organizzazione di ispirazione salesiana, poi sindaco di Gaeta e portavoce del network di Ong Cini, Antonio Raimondi, ricorrere al Tar «contro la totale mancanza di trasparenza e contro le palesi ingiustizie da parte della commissione esaminatrice nel proporre la “lista ristretta” al ministro degli Esteri»@.

Non meno polemico è stato Edoardo Missoni, medico specializzato in medicina tropicale e segretario generale dell’Organizzazione mondiale del Movimento Scout dal 2004 al 2007, che sul blog info-cooperazione così ha commentato@ l’incarico al diplomatico toscano: «Era il candidato della Farnesina. Hanno avuto bisogno di tredici mesi per decidere quello che avevano già deciso». Dato il suo precedente ruolo alla «Dgcs che controlla l’Aics», rincara Missoni, a sua volta candidato alla direzione dell’Agenzia nel 2015, «difficile pensare che non abbia avuto voce in capitolo nell’organizzare il concorso al posto per il quale si era candidato. Conflitto d’interessi? L’Avvocatura dello stato deve aver chiuso un occhio (forse entrambi)». Secondo Missoni, il nuovo direttore ha un’esperienza nella cooperazione allo sviluppo «limitata alla burocrazia […], ma la gestione di una Agenzia di cooperazione allo sviluppo avrebbe richiesto altre competenze (anche di un po’ di “gavetta” nei Pvs). E poi, di quale autonomia (di pensiero e azione) sarà capace nei confronti della “casa madre”?».

Più incline a smorzare i toni è stato Nino Sergi, fondatore di Intersos, organizzazione specializzata nell’intervento umanitario d’emergenza, e policy advisor della rete di Ong Link2007, che definisce fuorviante il titolo dell’articolo di Ciavoni su la Repubblica. Il punto non è, a detta di Sergi, se abbia o meno vinto la diplomazia, ma se la scelta di Maestripieri sia quella giusta per contribuire a far funzionare la cooperazione italiana, a migliorarne la qualità e a renderla più efficace. «Oggi la decisione è stata presa e lo sforzo va tutto indirizzato a sostenere il nuovo direttore nel non facile suo compito. È ciò che ho fatto», conclude il fondatore di Intersos, «quando è stata nominata Laura Frigenti (precedente direttrice dell’Aics, ndr), anche se avrei preferito un’altra scelta».

Infine, arriva da Silvia Stilli, portavoce dell’Associazione Ong Italiane (Aoi), un invito all’esame di coscienza: «Credo che tutta questa vicenda in ogni caso meriti una riflessione su come sia percepita la cooperazione internazionale fuori dai nostri contesti di vita ad essa dedicata». Nel suo commento, Stilli sembra voler suggerire che è mancata una nutrita e credibile rappresentanza di candidati non squisitamente ministeriali: «Chi si è candidato all’uscita dell’avviso pubblico dei vari attori? Chi vuole mettersi in gioco in questo percorso? […[ Mi riferisco senza peli sulla lingua al “mio (?) mondo”. Antonio Raimondi escluso. […] Non sono ottimista e non mi va di dare sempre la colpa ai governi». Come dire: se i candidati qualificati e motivati esterni al recinto della diplomazia non si fanno avanti, è ancor più facile che poi «vinca la Farnesina».

Intanto la cooperazione frena

Il 10 aprile è uscito il rapporto annuale dell’Ocse@ sull’aiuto pubblico allo sviluppo (Aps), che introduce un nuovo metodo per misurarlo@. Sarà pienamente utilizzato solo dal 2019 ma già per il 2018 l’Ocse pubblica i dati preliminari ottenuti utilizzando la nuova misurazione, che si basa non più sul cosiddetto cash flow, cioè il complessivo valore dei prestiti fatti ai paesi, ma sul grant equivalent, cioè la componente di dono contenuta in questi prestiti. Il principio, insomma, è che chi fa un dono (grant) «aiuta di più» rispetto a chi concede un prestito, ed è necessario misurare l’aiuto in modo da evidenziare più chiaramente questa parte di regalo.

Utilizzando il nuovo metodo, nel 2018, i 30 paesi donatori membri del Development Assistance Committee (Dac, in italiano Comitato di assistenza allo sviluppo) hanno fornito aiuti per un totale di 153 miliardi di dollari, con gli Stati Uniti primo donatore (34,3 miliardi) seguiti da Germania (25), Regno Unito (19,4,), Giappone (14,2) e Francia (12,2 miliardi).

Se si guarda la percentuale dell’aiuto rispetto al Pil, a superare la soglia dello 0,7% sono stati solo la Svezia (1,04%), il Lussemburgo (0,98%), la Norvegia (0,94%), la Danimarca (0,72%) e il Regno Unito (0,7%).

Utilizzando invece il metodo del cash flow, il totale dell’Aps per i paesi Dac è stato di 149,3 miliardi di dollari, con una contrazione del 2,7% rispetto all’anno precedente causata principalmente dalla diminuzione dei costi per l’assistenza ai rifugiati nei paesi donatori. L’Italia è passata dai 5,86 miliardi di dollari del 2017 agli attuali 4,9: una diminuzione del 21,3%. La riduzione dei costi per i rifugiati è responsabile di questo calo solo per meno della metà: al netto di questa voce, infatti, l’aiuto italiano è comunque diminuito di oltre 12 punti percentuali e si attesta sullo 0,24% del Pil a fronte di uno sforzo medio dei paesi Dac pari allo 0,38%@.

Chiara Giovetti

 




ORDINATO VESCOVO DI TETE,

Mons DIAMANTINO ANTUNES Imc


Sarà una data da ricordare il 12 Maggio 2019, soprattutto per la diocesi di Tete, in Mozambico. Il Signore lo ha data loro un nuovo pastore nella persona del padre Diamantino Antunes, missionario della Consolata. È il quinto vescovo da quando la diocesi è stata eretta nel 1962. Con la nomina del mons Ignazio Saure, Imc come arcivescovo di Nampula due anni fa, la diocesi di Tete ha avuto il padre Sandro Giancarlo Faedi Imc come amministratore diocesano. Questa mattina nel giardino della cattedrale di Tete, l’arcivescovo di Nampula (mons. Saure) ha ordinato vescovo mons Diamantino alla presenza di Nunzio apostolico, c’era anche la Conferenza Episcopale mozambicana quasi al completo, numerosi preti e religiosi, e autorità civili guidate dal governatore della provincia e una numerosa folla dei fedeli. “Gaudium et Spes”, è il motto del nuovo vescovo. Ispirato dallo Spirito, possa il Signore aiutarlo ad essere un pastore che ha l’odore delle pecore, portando la consolazione e speranza a tante persone che hanno sete di Dio.
Questa ordinazione ha voluto dire tanto per noi missionari della Consolata. Nel lontano 1926, i figli della Consolata toccavano questa terra, arrivando camminando a piedi nella allora missione Milulu, nel distretto di Zumbo, chi si trova nel confine con Zambia. La missione poi è stata interrotta per anni. Oggi, uno dei figli della Consolata diventa vescovo della diocesi. È un onore e rispetto data a noi.
La diocesi ha 12 preti diocesani, 39 preti missionari/religiosi e 65 suore. Buona missione, “avanti in Domino”.

Baba Godfrey Msumange imc

Vedi anche la notizia su Consolata.org (disponibile in diverse lingue)

 




Cari missionari, lettere a MC


Messaggi alienanti?

Gent. direttore
riportare su una rivista missionaria ciò che il sito Raiawadunia, curato dal comunista Montanaro (che ho letto anch’io), gestito da gente che non ha mai fatto niente per gli internati veri dei gulag sovietici, non quelli fasulli girati da blogger nigeriani guarda caso, è alienante. Se fosse vero che Scaroni ha dato tanti milioni per sondare l’esplorazione di greggio in Nigeria, perché il governo non li ha impiegati per far lavorare i maschi nigeriani? In fondo gli africani reclamano tasse per far usare il loro territorio alle multinazionali e questa non è una tassa? Uno stato è libero di chiamare chi vuole o lo devono fare solo le multinazionali americane e olandesi? Che il franco Cfa sia una convenzione vecchia lo sapevano solo gli addetti ai lavori e non le brave persone del parlamento europeo che hanno sfruttato e sfruttano l’Africa senza pagare nulla vedi Belgio nel Congo, ecc. Che questo giornale riduca la sua missione a scagliarsi contro questo governo lo trovo per nulla cristiano. Ogni stato ha diritto di accogliere chi vuole, inoltre con tutto il denaro che viene dato ai governi africani e le ricchezze del loro territorio, dovrebbero essere gli europei ad andare in Africa e non viceversa. L’Italia ha sempre avuto una sola grande ricchezza: la volontà di lavorare. E non dimentichiamo che il cristianesimo ha fondato l’Europa diventata lurida per colpa di atei, protestanti, calvinisti e banche e di finti cattolici che cadono nelle trappole dei relativisti. Riguardate le visioni di Leone XIII e le parole di Pio IX. Saluti.

Emiliano Errico
20/03/2019

Caro sig. Emiliano,
questo direttore o qualche giornalista di MC a volte segnalano su MC(e sullla sua pagina FB) anche degli articoli di Raiawadunia perché trovano che sono ben fatti e documentati. Grazie di avermi dato l’occasione di approfondire chi è Silvestro Montanaro che non conoscevo. I gulag della Libia non sono frutto della fantasia di blogger nigeriani, ma realtà ben documentate da rapporti dell’Onu e aggravatesi ancor prima di questo governo dopo la sciagurata campagna euroamericana contro Gheddafi interessata più a mantenere i nostri privilegi che al bene di quella gente.

I soldi che le multinazionali (petrolifere e non) investono in Africa putroppo non vanno nelle casse di quei paesi, ma nelle tasche dei corrotti per poter portare via a prezzi irrisori le materie prime che interessano al nostro sistema industriale e produttivo. È grazie a questa corruzione che si mantengono dittatori e oligarchie che rimpinguano le proprie casse a spese della loro gente e chiudono gli occhi di fronte ad abusi come smaltimento di rifiuti tossici, estrazione del petrolio e altre risorse energetiche, del coltan e altri minerali strategici (vedi articolo a pag. 12) , disboscamento dissennato di foreste e land grabbing. Questo rende possibile il furto sistematico di risorse strategiche pagate all’Africa «noccioline» in confronto al loro reale valore di mercato. Un esempio: il coltan sul mercato vale almeno 100$ al chilo, mentre ai minatori vanno solo 18 centesimi.

Questa rivista non si scaglia contro il governo, che rispetta come istituzione legittima e necessaria della nostra nazione. L’essere critici di comportamenti, decisioni ed esternazioni di alcuni dei nostri governanti fa parte del nostro diritto di cittadini di questo paese che, grazie a Dio, non è una dittatura ma una democrazia.

Che poi un paese abbia il diritto e dovere di vegliare su chi entra e chi esce, non è in discussione. È anche vero però che un paese non è isolato e come tale accetta tradizioni, usanze e leggi di valore universale codificate da trattati e convenzioni internazionali che sono fatte per proteggere le persone, non per dividere il mondo in buoni e cattivi, amici e nemici.

Denaro dato ai governi africani. Questo riporta a quanto già detto sopra per le multinazionali. Le statistiche dicono impietosamente che quanto abbiamo preso e prendiamo
(italiani, europei, americani, russi e cinesi) dall’Africa è molto ma molto di più di quello che diamo come contributo allo sviluppo, che spesso è ben al di sotto dei parametri che noi stessi ci siamo dati (dovrebbe essere almeno lo 0,7% del Pil di ogni paese; l’Italia dà il 0,26%). Basterebbe che pagassimo all’Africa il prezzo giusto delle materie prime che là prediamo e non ci sarebbe bisogno di alcun aiuto. In realtà oggi è l’Africa che aiuta noi e ci permette di mantenere il nostro livello di vita, e non noi che aiutiamo l’Africa.

Italiani grandi lavoratori. Non metto in discussione questo mantra. Probabilmente è stata questa voglia di lavorare che ha portato milioni di italiani a emigrare nelle Americhe e nei paesi del Nord Europa. O forse sono state anche le guerre. Cinque milioni sono emigrati dal Sud Italia dopo la cosiddetta unificazione. Milioni sono partiti dopo la vittoria della prima guerra mondiale. Altri milioni dopo la seconda. Oggi se ne vanno a decine di migliaia a causa della crisi economica che attanaglia il paese.

Non entro nel merito delle cosiddette radici cristiane dell’Europa, ma dopo papa Leone XIII e papa Pio IX abbiamo avuto molti altri papi e perfino un Concilio ecumenico.

Forse anche leggere criticamente Raiawadunia (che in swahili vuol dire «cittadino del mondo») può aiutare a disintossicarci da un’informazione a senso unico che ci lava il cervello e non ci aiuta a pensare.


Qualche riflessione

Buongiorno padre Gigi,
MC di marzo, appena ricevuto, mi offre l’opportunità di alcune riflessioni, nonché l’invio di un paio di testimonianze raccolte nel mio lungo peregrinare per il mondo alla ricerca di usi, costumi, tradizioni diverse, ma soprattutto di nuovi contatti umani.

Rinnovi e cancellazioni. Condivido pienamente il suo consiglio al signore che preferisce destinare i suoi aiuti a una fra le più conosciute (forse la più conosciuta) e reclamizzate Onlus. Nessuno mette in dubbio quanto questa organizzazione e altre che occupano stabilmente larghi spazi pubblicitari, facciano in positivo. Ma quando le percentuali sotto la voce «spese di rappresentanza» superano a volte il 70% qualche dubbio resta. E quando, viste le mie ripetute esperienze in terre di missione, qualcuno mi chiede consigli, rispondo di controllare sempre i bilanci (normalmente pubblicati) prima di dare il proprio contributo. Le spese non destinate all’obbietivo principale non dovrebbero mai superare il 15-20%.

Migrazioni, Viaggio della speranza.

Ho raccolto la testimonianza che riporto sotto in pieno deserto del Niger nel gennaio 2000 (19 anni fa), quando Gheddafi era ancora saldamente in sella e il sogno di una vita migliore in Europa era già diffuso nei paesi del Nord Africa, mentre da noi se ne parlava pochissimo. Per i politici italiani ed europei era un fenomeno irrilevante destinato a scomparire nel giro di poco tempo viste le difficoltà.

Come sempre, «avevano visto giusto».

© Mario Betrami

«Arriviamo in Libia, faccio un po’ di soldi e poi… via in Italia». Mi guarda e sorride Mohamed. Nei suoi occhi l’entusiasmo di chi sta per aprire un importante capitolo della sua vita, lasciando alle spalle un mondo che gli ha dato la vita, ma che non gli sa offrire i mezzi per continuarla. Dice di avere 18 anni, ma ne dimostra 16. Con lui, una trentina di giovani; suoi coetanei o poco più. Nei pressi, un vecchio autocarro di fabbricazione libica. È il loro Concorde, il loro treno, il loro autobus di linea.

Mohamed è uno dei tanti che lasciano l’Africa per il «viaggio della speranza». Lui è di qui. È nigerino. Ma, sulla pista che da Agadez porta a Bilma e a Dirkou, ne abbiamo incrociati parecchi di questi autocarri, sempre stracarichi, con giovani provenienti da altri stati di questa zona africana. Paesi anche non confinanti direttamente col Niger. Autocarri che, come autotrasportatori, fanno regolarmente la spola con la Libia. Mezzi già carichi di merce, su cui trovano posto 20-30 persone. In equilibrio precario. Appollaiate a grappoli. Aggrappate alle corde che reggono la merce, per non essere sbalzate fuori ogni 10 metri dalle enormi buche. In quelle condizioni viaggiano giorni e giorni. Allegramente. Senza lamentarsi. Tutto è accettato con filosofia africana, che non significa necessariamente rasse-
gnazione.

È solo un modo di vivere di chi, da generazioni, deve aspramente lottare per sopravvivere. Di chi ha la sofferenza come inseparabile compagna di viaggio. E non è che questa scomodissima tradotta venga regalata. È pagata profumatamente. La sola tratta Agadez-Libia costa circa 200mila lire (ca. 100 euro, ndr). E, per chi viene da altri paesi, la cifra è ben maggiore. Cifre spropositate per chi non ha di che vivere.

Arrivati in Libia, dicono, possono trovare qualcosa da fare. Ben pochi, però, hanno intenzione di fermarsi lì. La Libia sembra conceda una sorta di lasciapassare, di salvacondotto, per tentare poi il gran balzo verso l’Europa. L’Italia in particolare. Il paese dei loro sogni. La realizzazione dei loro progetti. La fine dei loro problemi.

È convinto Mohamed nel ribadirmelo in un più che accettabile francese. È l’unico del gruppo a parlarlo, anche se è la lingua ufficiale del Niger.

Stanno per ripartire. Non ho il coraggio di dirgli che, in Italia, le cose non stanno proprio così. Che non è così facile. Soprattutto per chi entra come clandestino. Sarebbe inutile. Sicuramente, non mi crederebbe. E, in ogni caso, il peggio che troverà da noi, potrebbe essere molto meglio di ciò che lascia qui.

Mario Beltrami
19/03/2019


Populismo?

Carissimo padre
ho letto il suo editoriale (agosto-settembre 2018) e sono molto perplesso sul suo contenuto.

Sono Veneto, faccio l’imprenditore, sono sposato con due figli. La nostra terra è sempre stata generosa, qui accogliamo tutti, non c’è alcun populismo, nessuna violenza o traccia di razzismo nei confronti delle persone di colore o verso altri extracomunitari. Anzi loro stessi si sono inseriti nella nostra cultura e sono sul libro paga di molti imprenditori come me che li pagano per il lavoro che fanno. Certo, ci sarà qualcuno che li sfrutta, spero pochissimi. Come facciamo a essere sicuri che tutti i nostri conterranei siano onesti? Se non lo sono non sarà certo per il colore della pelle, la disonestà non guarda al colore della pelle.

Il Veneto è una terra amministrata bene, che insieme alla Lombardia e al Piemonte ha contribuito a fare dell’Italia quella che è, un paese moderno per cui rammarica sentir parlare di populismo perché sappiamo che si parla di partiti politici fortemente radicati qui.

Ma le ripeto, il Veneto è amministrato bene, la sanità funziona, i trasporti funzionano, non è questo quello per cui aleggiano i politici? Venga qui da noi, a parte certe zone di degrado a Padova zona stazione, gli immigrati sono accolti, lavorano, pagano le tasse.

Detto questo, di cosa stiamo parlando quando si parla di populismo? Scandire con fermezza diritti e doveri non è il dovere di ogni buon padrone di casa? A presto

Carraro Francesco
08/03/2019

Caro sig. Carraro,
sono andato a rileggermi l’editoriale che lei cita.

    • Non ho accusato nessuna regione italiana né in particolare né in generale, anche se mi dispiace che proprio nelle regioni in cui sono nato e vissuto, oggi la voce più grossa la faccia una minoranza xenofoba nel silenzio di una maggioranza sana e generosa, ma confusa e un po’ impaurita.
    • Ho un grande rispetto e stima per chi si guadagna il pane col sudore della fronte e pratica la giustizia tirando avanti la carretta con fedeltà, amore e compassione nonostante le difficoltà. Sono queste le persone che rendono bella l’Italia.
    • Quanto alla maggiore o minore simpatia per questo governo, è chiaro che non condivido un modo di governare che si legittima con l’uso smodato di social, che è perennemente in campagna elettorale e usa un linguaggio perlomeno discutibile se non incitatore di odio e discriminazioni. Plaudo a quegli amministratori – come il sindaco di Riace – che davvero hanno a cuore il bene comune, sono attenti all’ambiente, a ogni persona e in particolare ai gruppi più deboli.
    • Scandire con fermezza diritti e doveri è più che giusto. Ma è sicuro che tutti i doveri siano davvero rispettati, anche quelli più onerosi, o invece si applicano solo quelli che fanno più comodo?
    • È vero che la disonestà non guarda il colore della pelle, ma spesso nei media questo è dimenticato e le persone vengono trattate con pesi e misure diverse. Prostituzione, caporalato, consumo di droga, abusi edilizi, evasione delle tasse, inquinamento dell’ambiente, corruzione… sono tutte «cose nostre», non ce le hanno portate i migranti che piuttosto ne sono diventati vittime o capri espiatori.

Non solo perdenti

Carissimo direttore,
ho letto con molto piacere su MC di marzo 2019, «4 chiacchiere con i perdenti» che mi ha stimolato ad inviare questi pensieri per richiamare il valore della memoria storica. Da sempre ne sono un cultore, non tanto per essere diventato «vecchio», ma perché nella memoria, come ricorda papa Francesco, ci sono le radici della nostra fede. Detto questo, voglio sottolineare perché mi ha molto colpito il suddetto articolo. Nel rileggere in questo periodo quaresimale un vecchio libro, «Vivere in Cristo» di Mario Corti S.J. (Edizioni La Civiltà Cattolica, 31/12/1951) nel capitolo «La preghiera è infallibile», a pag. 193 si legge: «Il 17 marzo 1649 tra torture inaudite, S. Gabriele Lallemant S.J., a trentanove anni, consumava l’olocausto della sua vita col martirio nel Canada. Appena caduto in terra, sfigurato con il capo spezzato dall’ultimo colpo di scure, un selvaggio gli spaccò il petto, ne estrasse il cuore palpitante, ne sorbì il sangue e lo divorò, certo di appropriarsi così dell’eroico coraggio del martire». Segue poi la descrizione del martirio così come è riportato fedelmente in MC da don Mario Bandera. Ecco, ho pensato «queste sono più di 4 chiacchiere con i perdenti», e non è solo pura coincidenza se ritroviamo, dopo quasi 70 anni, in un libro pur datato in molte parti per ragioni storiche (in quanto scritto prima del Concilio Vaticano II) dove viene richiamato il valore della preghiera. In questo senso richiamo il valore della memoria storica che ritrovo con piacere in «4 chiacchiere con i perdenti». Chiudo con un augurio a tutti i missionari ed un ringraziamento per don Paolo Farinella.

Pino Cadiani
28/03/2019


Mozambico: Ricardo

Il signor Ricardo è seduto in un angolo all’ombra, nella «Scuola industriale» di Tete, dove con sua moglie e i suoi 5 figli è alloggiato alla meglio con le altre 656 famiglie dopo la grave alluvione che ha colpito la nostra città di Tete, e i comuni di Doa, Mutarara, Angonia, Ikondezi. Ricardo aspetta che i funzionari della protezione civile distribuiscano il pranzo. Dopo una timida presentazione mi parla di sé e della sua storia.

Il suo terreno è lontano dal letto del fiume. Lo ha comprato e il comune lo ha autorizzato a costruire. La sua casa in mattoni aveva tre stanze e una sala grande, costruita con sudore e amore. Lui se la cava come falegname e idraulico. I bambini sono piccoli, il più grande frequenta la 6ª elementare, e la più piccola ha appena 5 giorni: è riuscito a portarli via dalla furia delle acque uno per uno, addormentati. Mezz’ora dopo ha visto la casa cadere, muro per muro, e le sue cose sparire sott’acqua. Letti, vestiti, cucina, frigorifero, sedie… tutto. «Non so come farò nel futuro».

Il caso di Ricardo è simile a quelli di centinaia di famiglie nella nostra diocesi di Tete, che ancora non sanno come e cosa faranno per alzarsi da questa tremenda disgrazia. Alcuni sono tornati alle loro terre, alloggiati in tende, altri ancora nella Scuola industriale; tutti aspettano che il governo assegni loro un terreno in un luogo più sicuro, ma con il timore si essere portati lontano da scuole e ambulatori.

Tutto è iniziato nella notte tra il 7 l’8 di marzo scorso. Le abbondanti piogge cadute nei comuni dell’altopiano di Tsangano e Angónia, dove hanno distrutto campi, villaggi, scuole e sei chiese, si sono riversate sul fiume Rowubwe, a marzo normalmente secco e senza un filo d’acqua. Il Rowubwe, non riuscendo a defluire nel fiume Zambesi già in piena, ha invaso  in poco tempo villaggi e campi, in un crescendo violento e drammatico.

Si parla di una trentina di morti accertati, ma anche di decine di dispersi. Resta ancora da sapere con esattezza la situazione dei comuni di Doa e Mutarara ancora coperti dalle acque, e dove l’accesso per strada è impossibile.

Dopo appena una settimana, le regioni del centro del Mozambico hanno vissuto un dramma ancora peggiore.

Il ciclone Idai (Idai è un nome di ragazza in Hindi, significa svegliarsi o amore, ndr) formatosi nel Canale del Mozambico, con una velocità fino a 220 Km/h ha raso al suolo la grande città di Beira, la città di Dondo, e centinaia di paesi e villaggi, e tutto ciò che incontrava sul suo cammino. Pioggia e venti hanno devastato il centro del paese. Una vera catastrofe per ambiente, persone e strutture.
Una intera regione sommersa dall’acqua. Manca energia elettrica, comunicazioni telefoniche, acqua potabile. Strade interrotte. Villaggi isolati e sommersi. Scuole, ospedali, chiese, fabbriche, università… nulla è rimasto in piedi. Morti? Più di mille. Il colera ne sta mietendo altri.

In mezzo a tanta sofferenza, il paese intero, dal presidente all’ultimo cittadino, vive un momento di bellissima solidarietà. Aiuti da tutte le parti stanno arrivando a Beira perché non manchino cibo, acqua  e il necessario finché le cose possano tornare se non come prima, almeno vivibili e dignitose.

Padre Sandro Faedi,
amministratore apostolico di Tete

 




L’alluvione che ha preparato il ciclone Idai


Dunque, qui è stato un disastro. C’è stato un’alluvione come quello che ho vissuto a Vilanculos nel 2000.

All’inizio di marzo, è cominciato a piovere tantissimo sull’altopiano di Angonia (nella zona montuosa a Nord della città di Tete, verso il lago Niassa), dove ha piovuto per 5-6 giorni continui, con vento forte. Nella parrocchia di Mpenha circa 200 famiglie hanno perso casa e campi. E adesso si stanno aggiustando con capanne alla meglio

Angonia è una zona particolarmente agricola con colline e valli. Le nostre prealpi. Ben 7 cappelle hanno ceduto e sono andate distrutte

L’acqua scesa dall’altopiano di Angonia, si è riversata nei ruscelli. Questi, cresciuti sono sfociati nel Rowubwe, ingrossandolo all’inverosimile. Il Rowubwe è un’affluente dello Zambesi, al quale si unisce proprio qui vicino a Tete. Il Rowubwe  di solito è mezzo secco, ma in quei giorni giorni era in piena e ha cercato di riversarsi nel fiume Zambesi, che pieno a sua volta non ha potuto accoglier quella quantità di acqua.  Per cui, il Rowubwe è straripato, invadendo campi, isolotti e villaggi in riva la fiume. Il grande ponte, ne ha risentito, e tuttora e intransitabile.

Centinaia di famiglie, si dice 860 famiglie, sono state prese di sorpresa durante la notte, e hanno appena salvato la vita. Casa, cose, utensili, tutto… alla malora. I morti… non si sa, forse una quarantina.

Le famiglie da allora accolte nella scuola industriale di Tete, alla belle-meglio.

Governo e privati hanno e stanno soccorrendo alla meglio. Noi pure per tre volte nel centro di accoglienza abbiamo dato viveri e vestiti, frutto di una generosa raccolta tra le parrocchie.

Adesso lo stato sta assegnano un pezzo di terra, in altra zona, per costruire case.  Non so se daranno anche i mezzi… Dal centro di accoglienza li stanno mandando in questo quartiere nuovo. Con tende.

Io aspetto qualche giorno, per vedere come andrà a finire e quali saranno i bisogni, almeno che non manchi il mangiare.

Non so poi come sarà la zona di Doa e Mutarara, lontana 200 e 290 Km rispettivamente dalla città di Tete, dove lo Zambesi, ha invaso tutti i campi.  Tuttora abbiamo una 15 di villaggi che non siamo riusciti a contattare, e il granoturco è a bagno nell’acqua.  Il raccolto non ci sarà per questo anno.

Altra cosa è stato il ciclone che qualche giorno dopo ha colpito Beira e dintorni. Una tragedia, quella che si vede alla TV. Non so quando Beira potrà rialzarsi. Tutto distrutto. Grazie a Dio, anche la ONU sta intervenendo. I danni sono ingenti.

padre Sandro Faedi
amministratore apostolico di Tete




Cari missionari


Ricordi indelebili dal Mozambico

Suor Elisabetta lascia Maimelane

Un anno dopo il mio rientro, voglio dire un grosso grazie ai missionari e missionarie della Consolata. Sono un sacerdote della diocesi di Vercelli e dal 2002 al 2018 ho vissuto con loro in Mozambico, dove ho trovato già formazione ed animazione cristiana. Quando parlo dei missionari della Consolata è come se parlassi della mia famiglia. Ho vissuto a lungo a Maimelane, una missione da voi fondata. Lì ho trovato ancora tre suore della Consolata che dopo la rivoluzione sono ritornate per continuare l’evangelizzazione. E con esse ho appreso ancora meglio il vostro carisma. Sì, perché le suore erano sempre assistite dai padri che vivevano a Villankulo o a Mambone o a Massinga.

Quello che mi ha lasciato sbalordito è l’enorme lavoro fatto per fondare quelle missioni, sia lavoro manuale e che lavoro di evangelizzazione. Nelle due missioni in cui ho vissuto mi ha impressionato l’enorme costruzione della stupenda chiesa. Poi la costruzione delle aule per scuola e catechesi e anche un ospedale che però, appena finito, è stato nazionalizzato dal governo e ora giace abbandonato e cadente.

La presenza delle suore ha dato continuità alla vita della missione. Dopo la guerra tre suore sono rientrate a Maimelane e sr. Elisabetta Possamai ha riaperto le cinquanta cappelle sparse nella foresta formando, in cinque anni, almeno 250 catechisti di cui dodici, i più validi, sono diventati formatori dei futuri nuovi catechisti. L’altra suora, sr. Clemenzia, infermiera, aveva avuto in dono una motocicletta con la quale andava a casa degli ammalati ed aveva fondato un centro nutrizionale (dove i bambini ricevevano cibo e cure mediche).

Poi c’era sr. Florentina, la quale seguiva le donne insegnando a cucire, rammendare e tenere il decoro della chiesa, della loro casa e l’igiene dei figli. Ed al sabato riusciva a dare catechesi in lingua locale alle mamme.

Ho cercato in questi anni di conservare la vostra missione perché in essa vedevo un enorme lavoro fatto con competenza e fatica. I padri a Maimelane avevano pure fatto una piantagione di arance, mandarini e pompelmi. Una scelta fatta con oculatezza, perché non maturavano tutti allo stesso tempo ma a tempi alternati. Siamo riusciti a conservarne solo un centinaio di piante, perché il resto fu distrutto da anni di incuria e abbandono. Abbiamo anche rimesso in ordine un’enorme cisterna che serviva per recuperare acqua piovana per tutta la missione.

Dopo vari anni sono passato alla missione di Mangonha prima sede della missione Massinga. Anche lì era tutto nazionalizzato ed abbandonato. In quel periodo mi ha aiutato molto padre Arturo Marques con i suoi insegnamenti, orientamenti e memorie del passato, essendo stato uno dei tanti ad avervi servito. Lì ho riordinato la chiesa che era alquanto abbandonata, anche se i cristiani continuavano ad andarci per pregare. Ma era proprio ridotta male, diventata la casa dei pipistrelli, senza banchi o arredamento liturgico. Nel ristrutturarla abbiamo constatato che l’intelaiatura del tetto era fatta con enormi travi di palissandro. Parlando con padre Arturo mi disse che furono ricavate dalla foresta di Fughaloro (una delle prime missioni della Consolata in Mozambico). Le travi venivano portate sulle spalle da un centinaio di operai da oltre 120 km di distanza. Avevano costruito anche tre case: una per i missionari e due per le suore. Poi un dispensario e otto casette per la formazione dei catechisti che studiavano a Mangonha per due anni e dopo passavano a Guiúa, alla scuola per catechisti, per altri tre anni. Insomma, hanno dato un’impronta solida e meravigliosa dove essi sono passati. A Mangonha hanno pure fatto una enorme piantagione di palme da cocco, e aranci, limoni e pompelmi, tutto per alimentare se stessi e la popolazione, specie per i bambini. Poi avevano canalizzato l’acqua del fiume. Avevano fatto anche una vasca (che ho trovato ancora funzionante) per disinfettare le mucche, essendo quella una zona di pastori.

L’impronta dell’Allamano io sono riuscito a coglierla nel profondo. Certo erano tutti sacerdoti giovanissimi così pure le suore, per cui le fatiche non le misuravano. Nella gente ho trovato ancora forte la devozione all’Eucarestia e alla SS. Consolata. Tutto questo che vi ho descritto è la minimissima parte delle missioni che la Consolata ha aperto e della grande formazione e devozione che ancora ho trovato. Ringrazio il Signore di aver sperimentato un carisma così meraviglioso e travolgente. Poi non per ultimo lo stile di famiglia che ho scoperto in alcuni padri, come padre Tavares che mi ha seguito paternamente, e i padri Alceu (Agarez), Carlo (Biella), Gabriele (Casadei), Sandro (Faedi) e fratel Pietro (Bertoni) che non passavano mai da queste parti senza entrare nella missione per un saluto.

A me questi esempi umani, cristiani e sacerdotali mi hanno lasciato un grande desiderio di imitazione e di stima. Prometto che porterò sempre in me questi esempi così luminosi e caritatevoli ed umani per il mio apostolato in Italia. Ma devo dire che il cuore è nelle missioni e con i missionari e missionarie della Consolata.

Don Carlo Donisotti
16/02/2019

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La formula padre Lerda

Rev. padre Gigi,

ho raggiunto una età, dove sono maggiori i ricordi, che le nuove aspettative. Nel cuore sono rimasti nove splendidi anni vissuti nell’Istituto Missioni Consolata, prima a Bevera (Co), poi a Varallo Sesia (Vc). Credo di ricordare quasi tutti i volti di padri, suore, assistenti e compagni. Usando le parole di papa Francesco, dette il 1° novembre, posso dire di aver avuto al fianco molti veri «santi poveri», di quelli che non si arrampicheranno mai sulle colonne del Bernini.

Non ebbi il loro coraggio e la loro fede. Sono uscito, ho lavorato, ho formato una bellissima famiglia e, ora, mi trovo nonno a tempo pieno, con una nipotina di tre anni e mezzo e due gemellini di 15 mesi. Ho un nodo di riconoscenza, che vorrei alleggerire.

Per mitigare la lacuna, ho provato a dedicare a padre Attilio Lerda (1929-2011), mio professore di matematica (e con lui, a tutti coloro che hanno cercato di insegnarmi, non solo a usare penna e calamaio, ma anche un modo di vita) la formula principale, almeno così la ritengo, di una ricerca matematica, sia pure modesta, che ho completato dopo otto duri anni di lavoro da pensionato e dopo 45 anni di abbandono dei libri.

Sono tre formule. La prima, che dovrebbe individuare se un numero è numero primo, l’ho dedicata alla mia nipotina Matilde. La seconda, che costruisce e dà ordine logico a tutti i numeri primi, l’ho chiamata «formula padre Lerda» ed è ovviamente dedicata a lui. La terza, che individua i fattori primi di tutti i numeri, l’ho chiamata «procedura Gemelli», dedicandola ai miei nipotini di 15 mesi, gemelli appunto.

Era il minimo che potessi fare.

Non mancherò di inviarle una mia povera preghiera, ma non si dimentichi di ricordare i miei tre piccolini alla Madonna Consolata.

Ferruccio Vitali
Alzano Lombardo (Bg), 20/02/2019

 


Penetrare il mistero di Cristo

Caro padre Gigi, ho letto il primo intervento del nuovo biblista, Angelo Fracchia, padre di famiglia e docente. Sono rimasto ammirato dalla sua capacità di rendere semplici anche le cose più complicate come è la Scrittura, almeno nella sua parte letteraria e quindi anche gli Atti degli Apostoli. Un plauso e una bellissima occasione per i lettori di MC che meritano particolare attenzione. Angelo Fracchia può aprire infinite porte e aiutare tanti a penetrare sempre di più il «mistero di Cristo» che è la Parola/il Lògos.

Leggerò mensilmente con atteggiamento spirituale quanto il servo della Parola «Angelo-Messaggero» e quindi «evangelizzatore» ci proporrà per ispirazione dello Spirito.

In un tempo come il nostro in cui l’Africa, depredata da secoli dall’Occidente, è ripudiata come il Lazzaro del Vangelo (Lc 16,19.31), la rivista MC è la migliore informatrice dell’Africa sull’Africa e del mondo. Essa è in se stessa la forma più vera di evangelizzazione dell’occidente che ha dimenticato il proprio passato e da dove derivano le proprie ricchezze che inesorabilmente perderà perché incapace di condividerle con i figli e le figlie di Dio.

Come lettore attento e fedele, vi sono grato, vi sono vicino e prego con voi e per voi come anche invoco lo Spirito sul nuovo biblista Angelo e sui Lettori e Lettrici ai quali va il mio abbraccio e il mio augurio di una vita nel Signore.

Paolo Farinella, prete
01/02/2019


Padre Giordano Rigamonti

Tre parole per

Tre parole descrivono la vita di padre Giordano Rigamonti: missione, sogno, laici. Parole divenute subito ideali, scelte, fatti.

Missione: sentirsi inviati dalla Provvidenza ad annunciare a tutti un messaggio di speranza, di audacia, di misericordia.

Sogno: «sognare in grande», sapendo che tu sei fatto ad immagine di Dio, da Lui coronato di «onore e gloria».

Laici. No, non si escludono i preti e i frati, né i conventi né gli episcopi. Ma i laici hanno una marcia: la concretezza, l’aderenza alla storia.

Missione, sogno, laici: realtà che si arricchiscono a vicenda, che hanno arricchito padre Giordano e quanti lo hanno avvicinato.

Abbiamo iniziato con i «Convegni Missionari Nazionali», con circa 400 giovani provenienti dall’intero stivale italiano. Poi i «Viaggi di Conoscenza in Missione», le «Mostre Missionarie», le «Campagne» per la «mucca per l’indio», contro la Coca, l’Alcool. Poi, poi… E tu ti trovavi accanto a professori, magistrati, primari, politici. E tanti missionari.

Ti sentivi accanto soprattutto lui, Giordano, missionario della Consolata esigente… perché sapeva che tu potevi dare molto per la missione. Tu, ti sei tirato indietro?

Padre Francesco Bernardi
per gli 80 anni di padre Giordano, 30/04/2018

Con i membri del CAM di Torino a Bevera nel 1983

Carissimo p. Giordano

Mentre mi accingo a scriverti mi vengono alla mente tantissimi ricordi legati a te, d’altra parte per anni abbiamo passato dalle otto ore in su a lavorare fianco a fianco!

Al primo incontro mi eri stato subito «antipatico» … Ero arrivata da te con cinque amici per andare a fare un campo di lavoro in Congo, allora Zaire. Noi (che non sapevamo neanche dell’esistenza dei missionari della Consolata) pieni di energia, grinta ed entusiasmo… tu che subito ci avevi smontato dicendo che le cose andavano fatte bene, con una preparazione lunga e precisa sia a livello individuale che di gruppo con sensibilizzazione missionaria nelle parrocchie, nella città dove vivevo… e di lì è iniziato il tutto.

Campo di lavoro in Congo forte e stupendo, e mille agganci con persone che si appassionarono alla missione e la tua richiesta, a me, di lavorare per il Centro di Animazione Missionaria di Torino (Cam) appena iniziato e che tu dirigevi!

Quante iniziative hai promosso e portato avanti… I mitici Convegni missionari giovanili per tutta Italia, primi nel loro genere, che portavano a Torino 400 e più giovani appassionati alla missione; i campi di lavoro e di formazione in Italia e all’estero nei quali i partecipanti vivevano realmente «il mettersi a servizio».

I viaggi di conoscenza in missione per gruppi di persone che volevano vedere il Kenya, il Tanzania in un modo non turistico. Ricordi il primo che facemmo in Kenya? Avevamo 45 persone da portare di missione in missione e tu con tutti riuscivi a essere disponibile e attento.

I corsi di formazione missionaria, le mostre missionarie, le campagne missionarie, eri un vulcano di idee.

Avevo il terrore quando mi chiedevi «che impegni hai per stasera?», perché già sapevo che non si sarebbero contate le ore che sarebbero passate per organizzare, preparare, pensare a iniziative a favore della missione. Tu con le tue segreterie allargate…

Eppure, in tutto questo bailamme riuscivi ad essere vicino alle persone nella quotidianità e negli eventi della vita, come molte volte hai fatto con me e la mia famiglia nei momenti belli e nei momenti tristi.

Quando al mattino arrivavo in ufficio, da come mi stavano i capelli mi dicevi di che umore ero… Avevi la capacità di entrare in sintonia!

Ricordi? I giovedì comunitari con i giovani, le messe, le cene condivise.

E quando si facevano le macchinate e si partiva all’alba per le giornate missionarie per sensibilizzare la gente e si tornava a sera inoltrata? Noi giovani distrutti e tu che ancora sfornavi idee! Tutto entusiasmante e anche sfinente… non c’era tregua… ma almeno c’era vitalità, vitalità per il sogno in cui credevi di una missione qui e là con un ponte infinito fatto di persone. Non ti fermava nulla. Nessun rifiuto, nessuna problematica, in qualche modo riuscivi a catalizzare le persone attorno a te e farti dire sì nelle attività che volevi portare avanti. Non ti fermava neanche la salute che già all’epoca non era proprio delle migliori. In tutto mettevi la passione per la missione e la Madonna Consolata che sempre hai tenuto presente in ciò che facevi.

Poi sei andato a Roma. Non eri più il mio capo, mentre io ho continuato a lavorare al Cam (e ora Missioni Consolata Onlus) e poi a Rivoli dove hai portato avanti altri mille progetti con l’Associazione Impegnarsi Serve.

Non ho più potuto condividere personalmente le varie iniziative, ma sapevo che nulla era cambiato. Il padre Giordano che conobbi 37 anni fa era uguale: pieno di grinta, carica e passione missionaria.

Ora smetto con i ricordi per non stufarti, ne sto dimenticando tanti e soprattutto mi sta venendo un po’ il magone. Ti ho scritto, caro p. Giordano, per ringraziarti. Sì, per dirti un grazie davvero grande per ciò che sei stato nella mia vita, perché mi hai fatto appassionare alla Missione, mi hai fatto conoscere realtà che mai mi sarei sognata di vedere, perché mi hai aperto gli occhi e il cuore a un mondo senza confini.

Sicuramente ora starai programmando qualche incontro in cielo e qualche riunione… e mi raccomando non dimenticarti di noi!

Ciao p. Giordano

Antonella Vianzone
Torino, 11/02/2019


In Madagascar perché siamo missionari ad gentes

È proprio nel dies natalis dell’Istituto che la Consolata ufficialmente è arrivata in Madagascar, isola rossa, la quarta isola più grande del mondo. Alle ore 13:40, (ora locale) del giorno 29 gennaio 2019, all’aeroporto di Nosy Be, l’aereo è atterrato. E così è iniziata ufficialmente l’avventura dei missionari della Consolata in questa terra.

Ad attendere l’arrivo di padre Godfrey Msumange, consigliere generale della Consolata per il continente dell’Africa, a nome dell’istituto, c’erano rappresentanti di tutta la chiesa locale: il vescovo, il vicario, i sacerdoti, i religiosi ed i laici. Nella santa messa celebrata la sera dello stesso giorno nell’isola di Nosy Be, padre Godfrey ha annunciato ufficialmente l’apertura dell’istituto in Madagascar. «È significativo che questo accada proprio il 29 gennaio. Infatti, esattamente 118 anni fa nasceva l’istituto dei missionari della Consolata. È lo stesso fondatore che oggi vuole che nasca questa avventura missionaria qui nell’isola rossa, Madagascar», ha sottolineato.

La nostra presenza per il momento sarà nella diocesi di Ambanja. Per circa un anno, i tre missionari incaricati di questa apertura impareranno la cultura ed in modo speciale la lingua malgascia, ospiti del vescovo mons. Rosario Vella, salesiano. E lungo l’anno si sceglierà una delle missioni tra le due individuate: Beandrarezina e la periferia della città di Antsohihy. I protagonisti, che per questioni burocratiche non hanno ancora potuto partire per il Madagascar, ma che partiranno a breve, sono di tre nazionalità diverse. Si tratta di padre Kizito Mukalazi, dalla diocesi di Masaka in Uganda, che prima lavorava in Kenya, padre Jean Tuluba, dalla diocesi di Wamba, in RD Congo, che prima lavorava nell’Amazzonia in Brasile, e padre Jared Makori, dalla diocesi di Kisii in Kenya, alla sua prima destinazione.

I tre iniziano questa missione dopo un anno di preparazione, che ha avuto il suo culmine il 27 gennaio presso la parrocchia di Kahawa West, dove hanno ricevuto il loro mandato missionario.

Perché iniziare l’avventura missionaria in Madagascar? È una delle domande che tanti si fanno. Semplicemente perché siamo cristiani, consacrati alla missione, ed alla missione ad gentes secondo lo stile consolatino. La nostra vocazione come cristiani, e ancora di più, come consacrati alla missione, è quella dell’annuncio.

Se la notizia è buona, perché trattenerla per noi stessi? È fondamentale condividerla. È nel nostro Dna condividere, annunciare la buona novella soprattutto in quegli ambienti dove non è ancora arrivata, dove la vita vale meno, dove il donatore della vita Gesù Cristo è sconosciuto. E per noi missionari della Consolata, consacrati alla missione, questo è un dovere assoluto. Guai a noi se non annunciamo il Vangelo (1 Cor 9:16).

La zona dove lavoreremo è un territorio ad gentes. Su 100 persone solo otto sono cristiani. E di più come fanno vedere le statistiche, il Madagascar è uno dei paesi più poveri del mondo.

I missionari della Consolata in Madagascar hanno come loro patrona, la beata Sr. Leonella Sgorbati, suora missionaria della Consolata, martire che nella sua vita ha saputo amare senza misura. È stata beatificata l’anno scorso a Piacenza in Italia.

Baba Godfrey Msumange
da Nairobi, 21/02/2019




Mozambico:

Bwana Cilimba, l’uomo dal cuore forte


I missionari della Consolata arrivano in Mozambico nel 1925 nella provincia del Niassa. Uno dei primi è padre Pietro Calandri, detto «Bwana Cilimba», un cuneese forte, determinato, innamorato della gente e con il cuore pieno di Cristo. Fonda una grande missione, ma soprattutto costruisce una solida comunità cristiana che vive con fedeltà la propria fede in un ambiente musulmano e attraverso le prove di una lunga guerra.

I cattolici e i musulmani del Niassa hanno celebrato a Massangulo con grande affetto e solennità il 50° anniversario della morte di padre Pietro Calandri, il primo missionario della Consolata in Mozambico e il pioniere dell’evangelizzazione della zona. È morto il 12 agosto 1967 a 74 anni dopo una lunga vita missionaria dedicata quasi interamente al servizio dell’evangelizzazione del popolo Ayao e all’educazione dei giovani.

Il suo funerale, partecipato da una moltitudine riconoscente, e la sepoltura in Massangulo, la missione da lui fondata nel 1928, sono stati l’espressione eloquente di quanto fosse considerato e amato da tutti.

Tra i musulmani Ayao del Niassa, si era guadagnato un nome: «Bwana Cilimba», che significa «uomo dal cuore forte e che può gestire tutto». È questo senza dubbio il titolo più adeguato per questo grande missionario della Consolata.

1925: verso la zambesia. Fratel Benedetto, padre Sandrone, padre Calandri, padre Luigi Perlo e padre Peyrani.

Missionario della Consolata

Intenso ritratto del giovane padre Calandri.

Nato il 5 luglio 1893 a Moretta, Cuneo, fin da piccolo mostra curiosità e un temperamento disciplinato e determinato. Intelligente, sviluppa presto quel notevole senso di osservazione che plasmerà l’artista che più tardi si rivelerà in lui. Il sogno di una vita di dedizione e di avventura portano il giovane Calandri verso la vocazione missionaria, che abbraccia nel 1911, quando entra nell’Istituto Missioni Consolata. Conclusa la sua formazione, è ordinato il 3 febbraio 1917. A causa della guerra non può realizzare il suo desiderio di partire subito verso terre lontane. Il sogno diventa realtà solo tre anni più tardi, quando, nel 1920, viene inviato in Africa. Il Kenya è la sua prima missione e vi rimane cinque anni maturando esperienza, rafforzando la sua formazione e forgiando quel senso pratico che gli sarà molto utile in futuro.

Pioniere in Mozambico

Nel 1925 il giovane missionario riceve una nuova destinazione. Un altro paese africano sta emergendo all’orizzonte: il Mozambico. Sbarca nel porto di Beira il 30 ottobre 1925, ma quasi subito deve tornare in Kenya per accompagnare un padre che si è ammalato e ha bisogno di cure. Rientra nel giugno 1926 accompagnato da padre Giuseppe Amiotti. Hanno il compito difficile di sondare la possibilità di stabilirsi nella vasta regione del Niassa, dove non è ancora entrato alcun missionario cattolico.

Calandri e Amiotti iniziano, così, una grande avventura attraverso terre sconosciute, in un’epoca in cui le comunicazioni sono quasi inesistenti e la mancanza di strade e mezzi di trasporto rende tutto più isolato, lontano e difficile. I due giovani missionari sono i primi cattolici a entrare nel Niassa e si stabiliscono a Mandimba il 5 luglio 1926. Per circa due anni la prima preoccupazione è l’inserimento nel contesto sociale della regione.

Per raggiungere al meglio questo obiettivo si dedicano all’apprendimento della lingua Ciyao, cercando di conoscere gli usi e i costumi del popolo Ayao, compito in cui mettono sempre maggior impegno nella misura in cui cresce in loro l’amore per la gente e la sua terra. Mentre sono a Mandimba dedicano il loro tempo allo studio e all’individuazione e preparazione delle strategie future.

1925 La carovana sulle rive del lagp Niassa

Uno stratega della missione

Dopo essersi dedicato all’osservazione e allo studio, padre Calandri sceglie, ai piedi del Monte Massangulo, il terreno adatto alla sede della missione. E lì, in pieno Niassa, nel mese di maggio del 1928, fonda «Nostra Signora della Consolata di Massangulo».

Uomo metodico, padre Calandri non rallenta il ritmo. Intraprendente, inizia a disegnare una mappa precisa della regione di Massangulo dove svilupperà la sua attività. Rapidamente si impegna nella programmazione dei compiti da intraprendere al fine di creare le strutture di base della missione: la bonifica del terreno; la piantagione dei primi alberi; l’apertura di strade; la costruzione delle strutture necessarie. Visionario, progetta e fabbrica gli edifici per l’abitazione e i servizi essenziali a uno sviluppo strutturato e integrato: internati, scuole, laboratori, mulino, dispensario e maternità.

Usa le risorse locali per gli edifici impiegando l’argilla per la produzione di mattoni e tegole. Attraverso un ingegnoso sistema di canali capta l’acqua da una sorgente nel monte Massangulo per la missione, ottenendo così una risorsa essenziale per tutte le iniziative. Investe nell’agricoltura e nell’allevamento di bovini, nei laboratori di falegnameria, carpenteria e di calzature, per l’auto-mantenimento e il commercio, e anche nella stampa e rilegatura di libri.

Coinvolge la gente in tutte le attività. Integra gli alunni della missione nel lavoro e li forma in modo da poter essere autonomi e capaci di sognare e osare una vita diversa e migliore.

Lavora sempre in collaborazione con altri missionari: i padri Angelo Lunati e Luigi Wegher e i fratelli Giuseppe Benedetto, Lorenzo Baroffio e Ugo Versino, e con il sostegno delle suore missionarie della Consolata e dei catechisti locali.

2-X-1927 padre Calandri insegna nelal scuola di Mandimba

Mandimba: prima chiesa dei Missionari della consolata nel Niassa (1926) – padre Calandri e il sig. Regina davanti alal chiesa

Il dialogo e la cooperazione con i musulmani

Nei primi tempi non tutto è facile. Dopo la fondazione di Massangulo, padre Calandri e i suoi compagni sperimentano l’ostilità di due capi Ayao musulmani, che non vogliono un’altra religione nella loro terra.

Sopporta pazientemente in quei primi anni l’atteggiamento ostile della popolazione verso la missione e i missionari. Le relazioni di buon vicinato e il lavoro paziente poco a poco danno frutti e l’ostilità lascia il posto a un buon rapporto di collaborazione e rispetto.

Padre Calandri ha un grande merito nello stabilire questo clima di reciproca comprensione e rispetto che dura ancora oggi. Sono numerosi i gesti di aiuto reciproco vissuti negli anni: la difesa della popolazione contro l’espropriazione delle terre per la coltivazione forzata del cotone; l’accoglienza nella missione di gente ricercata (perseguitata) dai militari portoghesi durante la guerra per la liberazione del Mozambico dal dominio coloniale; le visite alle moschee; la partecipazione alle feste comuni. Padre Calandri rispetta la religione della gente senza imporre a nessuno la conversione al cattolicesimo.

Padre Calandri nel 1964

Una vita missionaria feconda

Le opportunità per evangelizzare la popolazione Ayao sono rare, ma padre Calandri non si lascia scoraggiare e con pazienza pone le basi per un servizio pastorale duraturo. Alcuni giovani musulmani Ayao accettano, dopo l’approvazione delle loro famiglie, di ricevere il battesimo, e non c’è dubbio che a questo ha contribuito anche la sua indiscussa autorità morale, oltre all’eccellente educazione data nelle scuole della missione.

Con pazienza la comunità cristiana cresce. Si formano le prime famiglie cristiane a cominciare dagli alunni educati negli internati (i «collegi» nei quali gli studenti vivevano durante il periodo della scuola, ndr).

Uomo d’azione, pur con pochi mezzi, dota la missione di Massangulo di un insieme di edifici imponenti non solo per rispondere ai bisogni immediati ma anche per preparare il futuro sviluppo. Uomo di scienze e di lettere, dopo alcuni anni di permanenza nel Niassa, senza tralasciare il lavoro che gli era stato affidato, compila un dizionario e una grammatica della lingua Ciyao.

Lo studio, il dialogo e la predicazione in lingua locale avvicinano alla popolazione e rafforzano l’empatia. Questo radicamento nella cultura della gente porta come frutto positivo l’adozione del missionario tra gli Ayao.

Uomo di elevata sensibilità e senso estetico, progetta e dirige i lavori dell’imponente e bellissima chiesa dedicata alla Madonna Consolata, oggi Santuario diocesano di Massangulo. Ci volgliono 10 anni per costruirla. Il cantiere diventa anche centro di formazione di carpentieri, falegami e muratori esperti perché impiega maestranze e operai locali e utilizza i laboratori di arti e mestieri della missione. Questa straordinaria chiesa ancora oggi è motivo di meraviglia per chi la visita. È stata benedetta il 3 gennaio 1964 dal primo vescovo della diocesi, Dom Eurico Dias Nogueira, nel suo primo atto pubblico.

In una delle cappelle laterali dell’imponente santuario è sepolto padre Calandri in attesa della gloria della risurrezione.

Diamantino Guapo Antunes