Reportage da Mosul: Le bombe non conoscono religione


Dalla famosa moschea di Al-Nuri, oggi distrutta, Al-Baghdadi ha fatto conoscere al mondo l’Isis (il Daesh). Era il 4 luglio del 2014. Mosul è stata liberata tre anni dopo, il 9 luglio 2017. Di quella città oggi è rimasto un gigantesco cumulo di macerie e migliaia di persone senza casa. E senza attenzione mediatica: Mosul ormai è sparita dalle prime pagine.

Testo e foto di Angelo Calianno

Nell’estate del 2014 gli uomini dell’Isis entrano nella città di Mosul, in Iraq. Dalla grande moschea di Al-Nuri, il terrorista Abu Bakr Al-Baghdadi si autoproclama «Califfo dello Stato islamico» e dichiara il jihad contro l’Occidente.

L’occupazione di Mosul dura tre anni. Anni in cui chiunque non rispetti le rigide regole degli uomini dell’Isis, chiunque non sia musulmano sunnita, chiunque non si vesta in modo appropriato o semplicemente abbia un’antenna satellitare o ascolti musica occidentale, viene severamente punito, torturato, a volte ucciso.

Molti fuggono con la famiglia e chi non ce la fa, cerca di uscire il meno possibile da casa, sopravvivendo come può.

Come la città di Kirkuk per il petrolio, Mosul è una città chiave in Iraq per le sue riserve d’acqua. A circa 50 km da qui infatti sorge la diga di Mosul, la più grande del paese e la quarta in tutto il Medioriente. La diga, che sbarra il corso del Tigri, prima dell’occupazione forniva energia elettrica a due milioni di persone, nonché acqua per l’agricoltura in tutta la provincia. Continuamente a rischio crollo fin dalla sua costruzione, dal 2016 vede delle aziende italiane impegnate nella sua riparazione tra cui la Trevi (di Cesena) e la Bdm (di Roma). Nel 2016, dato l’elevato rischio della zona, gli operai lavoravano protetti da 500 bersaglieri del Sesto reggimento di Trapani (sostituiti da altri reggimenti ogni sei mesi).

Dagli Assiri a Saddam Hussein

La città di Mosul viene finalmente liberata il 9 luglio 2017. La liberazione avviene per mano di una coalizione guidata da raid aerei degli Stati Uniti con il supporto terrestre delle milizie curde dei peshmerga e dell’esercito iracheno.

Quella che verrà denominata «la battaglia di Mosul» dura nove mesi, gli ultimi tre in particolare sono quelli più intensi, con gli scontri più aspri e sanguinosi. Questi mesi verranno poi ricordati come i «100 giorni di Mosul».

Il numero dei «danni collaterali» è drammatico. Non si sa con precisione quanti civili rimangano uccisi durante i bombardamenti, ma le stime parlano di oltre 500 persone decedute e oltre 300 mila senza una casa. Gran parte della città, specialmente il suo centro storico, oggi è un cumulo di macerie.

Fondata dagli Assiri sulle rive del Tigri, poi conquistata dagli Arabi, occupata dai Mongoli, dominata dagli Ottomani, a Mosul hanno convissuto per secoli cristiani, musulmani, yazidi, armeni, curdi ed ebrei. Qui, nel 1743, migliaia di uomini di religioni diverse si coalizzarono e combatterono con successo contro lo Shah di Persia che aveva deciso di invadere la città.

Prima dell’occupazione dell’Isis, Mosul aveva 38 quartieri, ognuno con una propria connotazione e un proprio mercato, un’incredibile alternarsi di moschee e chiese a pochi passi l’una dall’altra, come quelle di Al-Tahira e di San Tommaso. Proprio dell’apostolo Tommaso si dice che sia vissuto qui durante il suo viaggio verso l’India. Qu, inoltre, c’erano gli antichissimi mausolei di Giona e San Giorgio, anche questi distrutti dall’Isis. Conosciuta come «la Città dei profeti», è stata meta di carovanieri e viaggiatori come Ibn Jubayr (1145-1217), che nel suo libro Il Viaggio di Ibn Jubayr, scritto nel 1185, ne descrisse la bellezza e particolarità.

La parola Mosul deriva da Al Mawsil che vuol dire «collegamento» o «unione», perché questo è stata per secoli, un ponte tra Iraq, Turchia, Siria e Kurdistan, almeno fino ai giorni nostri.

Mosul comincia a vivere un grande cambiamento durante il regime di Saddam Hussein. Nel 1980 Saddam dichiara guerra all’Iran e attua quello che diventa un processo di «arabizzazione» dello stato, molte famiglie non sunnite scappano in Turchia e Siria. Inoltre, per non essere inviati in guerra, fuggono oltre confine anche moltissimi curdi e yazidi. In due decenni la popolazione sunnita di Mosul raggiunge l’80%. Questa maggioranza renderà la conquista di Mosul, da parte del califfato, ancora più semplice, come vedremo tra poco.

Raccontare Mosul

Entro a Mosul in automobile. Per arrivarci dal Kurdistan supero cinque check point: due dei quali peshmerga, le milizie curde, uno delle forze di sicurezza irachene e uno dell’esercito iracheno.

Il livello dei controlli di sicurezza è ancora molto alto, in uno dei posti di blocco intervisto Mohammed, un peshmerga che ha combattuto contro l’Isis.

Gli chiedo il perché di così tanta sicurezza, visto che Mosul è stata liberata. «Ci sono – mi spiega – ancora molte cellule dormienti da queste parti, non tutti i terroristi sono stati sconfitti, alcuni semplicemente sono scappati e si nascondono».

«Mohammed, tu sei curdo e peshmerga. Hai combattuto in territorio iracheno per liberare delle città. Tra voi e gli iracheni di origine araba c’è sempre stata un po’ di diffidenza, come ti sei sentito in quei giorni a questo proposito? – gli domando -. E poi quanto è stato difficile combattere contro l’Isis?».

«Hai ragione – replica Mohammed -, tra di noi i rapporti non sono stati sempre buonissimi, ma più per ignoranza. Quando ci siamo trovati a combattere fianco a fianco con i soldati iracheni alla fine abbiamo fatto amicizia, poi noi peshmerga combattiamo sempre contro gli invasori. Quando sono arrivati quelli del califfato per difendere le città sono accorsi vecchi peshmerga da tutti i villaggi curdi del paese, tutti pronti ad andare in prima linea, alcuni avevano 70 anni.

Devo dire che i primi mesi di combattimento sono stati difficili, ma solo per il fatto che loro erano davvero ben armati. Avevano armi automatiche e mezzi pesanti, noi spesso ci guardavamo negli occhi e ci chiedevamo da dove venissero tutte quelle armi, chi le aveva date ai Daesh? Le cose sono cambiate quando siamo stati dotati di Milan tedeschi (razzi anticarro, ndr), allora abbiamo cominciato a respingerli e guadagnare terreno. Gli uomini del Daesh non erano poi questi grandi combattenti, molti di loro erano spesso sotto l’effetto di sostanze stupefacenti. Una volta ben equipaggiati e con l’aiuto del supporto aereo, abbiamo combattuto e vinto».

Quando imbocco la strada principale di Mosul si nota subito la devastazione. L’ingresso è una grande discarica di rifiuti dove pascola qualche capra. Più oltre si vedono gli scheletri dei palazzi sventrati dai bombardamenti.

Il prezzo pagato dai civili

Il mio interprete si chiama Sardar Abudlahh, ha lavorato qui con i giornalisti arrivati durante e dopo la liberazione, mi racconta:

«I giorni dopo la liberazione arrivarono qui in tantissimi, Tv straniere e giornalisti. Entravano in città dentro le jeep dell’esercito e posavano facendosi fotografare con elmetti e giubbetti antiproiettile militari. In realtà poi facevano solo qualche minuto di registrazione e andavano via, pochissimi sono andati tra i vicoli a parlare con la gente di questo luogo, chiedendo quale fosse il loro stato d’animo dopo la liberazione.

Le vittime civili sono state tantissime, Mosul è stata liberata sì, ma a che prezzo? Alla gente che ha perso la famiglia per colpa dei bombardamenti, alla gente che non aveva colpa di questa guerra, quasi nessuno ha chiesto che cosa avesse da dire.

C’è stata anche una grande campagna mediatica attorno a tutto questo. In quei giorni sembrava che l’unica cosa importante da dire fosse: siamo degli eroi, abbiamo sconfitto i terroristi del Daesh e riconquistato Mosul! I giornalisti hanno continuato a venire per i successivi due mesi, poi pian piano hanno cominciato a dimenticarsene, come vedrai tu stesso per le strade».

Nessuno qui chiama gli uomini del califfato «Isis» ma «Daesh» (acronimo di Al Dawla Al Islamiya fi al Iraq wa al Sham, Stato islamico dell’Iraq e della Siria). Per la gente del luogo la parola «Isis» risulta offensiva perché la connotazione «Stato islamico» potrebbe far pensare che tutto l’islam sia coinvolto con il terrorismo. Chiunque incontri ci tiene molto a ribadirmi questo concetto.

Camminando per i vicoli distrutti della città vecchia di Mosul vedo tanti ragazzini che scavano tra le macerie: cercano rame, ferro, acciaio, qualsiasi cosa possano poi rivendere per qualche dollaro.

La settimana prima del mio arrivo, mi raccontano, un bambino di 6 anni è saltato in aria per aver calpestato una bomba, fino a quel momento inesplosa. Questi incidenti sono molto comuni, più volte gli agenti di polizia mi ribadiscono di non entrare troppo all’interno degli edifici crollati, per l’elevato pericolo di esplosioni o cedimenti.

Le storie di Mahmoud e Amir

In uno dei tanti vicoli incontro Mahmoud. Nato e cresciuto qui, non ha mai voluto abbandonare Mosul, mi mostra le cicatrici inferte da un coltello e racconta:

«Queste me le hanno fatte i Daesh, dicevano che i miei pantaloni erano troppo corti, così mi hanno portato nella chiesa armena che usavano per le esecuzioni. Pensavo che mi avrebbero ucciso, poi mi hanno picchiato e con un coltello, mi hanno fatto questi tagli sulle caviglie. Così dovrò ricordare per sempre di indossare pantaloni più lunghi».

Mahmoud conosceva tutti in questo lato della città, camminando per le rovine mi racconta porta per porta la storia delle famiglie che ci abitavano, fino ad arrivare a quella che era casa sua. Anche lui ha perso una figlia, l’ultima nata della famiglia, aveva 5 anni. Mi mostra commosso una piscina gonfiabile, unico oggetto rimasto dei giocatoli della piccola. Subito dopo si fa molto serio e comincia a imprecare contro i terroristi e contro l’America. Urlando mi dice:

«I miliziani del Daesh avevano occupato questa che era casa nostra e poi gli americani con le loro bombe hanno distrutto tutto. Le bombe americane hanno ucciso mia figlia e tanti ancora sono sotto le macerie ed è impossibile tirarli fuori. Perché? Cosa abbiamo fatto noi? Io avevo amici cristiani, eravamo tutti amici, vivevamo in pace, noi non siamo terroristi, perché?».

Ci vuole un po’ di tempo per far calmare Mahmoud e continuare a camminare insieme. Dopo ogni vicolo, a noi si aggiunge qualcun altro: sono le persone che vogliono raccontare la propria storia. Vogliono ribadirmi che loro non hanno niente a che fare con i terroristi estremisti, che l’islam è una religione di pace.

Tra le persone che si sono aggiunte al nostro cammino c’è Amir. Ha lavorato per anni come falegname, anche lui ha perso casa e la bottega durante i raid americani. Amir mi mostra le rovine di una scuola e, con le lacrime agli occhi, mi dice che lì ci andava suo figlio, anche lui morto durante i bombardamenti, aveva 8 anni.

Racconta: «In questa scuola ci andavano sia cristiani che musulmani, siamo sempre stati rispettosi delle idee e religioni altrui, poi sono arrivati i miliziani del Daesh e poi le bombe».

Fa un gran sorriso e conclude: «Le bombe non conoscono religione».

Mentre saluto Amir si avvicina un uomo, si chiama Fares Abdurazal. Mi dice che si è sparsa la voce che sto intervistando persone per la città e vuole raccontarmi anche lui qualcosa.

Storia di Fares

Fares lavora per il municipio di Mosul, si occupa di registrare e controllare gli indirizzi di residenza. Gli chiedo perché Al-Baghdadi e i suoi uomini hanno scelto di conquistare proprio Mosul e come hanno fatto a rimanerci così tanto.

Mi risponde: «Non è che gli uomini del Daesh volessero conquistare solo Mosul, loro volevano conquistare quanto più potevano. Ci sono riusciti meglio qui perché la maggior parte delle persone è di fede sunnita, e purtroppo all’inizio hanno trovato molto supporto in questa maggioranza. Vedi, molti sono in disaccordo con il governo iracheno dominato dagli sciiti. All’inizio tanti hanno visto negli uomini del Daesh la speranza di ristabilire un governo sunnita e un islam più tradizionale. Anche durante il periodo di Saddam si verificò la stessa cosa, essendo sunnita, prese tantissimi voti da Mosul».

«E tu durante giorni delle battaglie dov’eri? Cosa facevi?», gli domando. «Io mi sono dovuto nascondere. Ero ricercato dai miliziani del Daesh come tutti quelli che lavoravano per il governo. Insieme a yazidi e cristiani eravamo il primo bersaglio. Sono scappato con la mia famiglia prima sulle montagne e poi in Kurdistan. Sono tornato perché questa è casa mia e spero che un giorno questa città possa essere ricostruita». Gli chiedo ancora: «Mi hai detto che qui i terroristi hanno avuto molto supporto, so che alcune persone di Mosul si sono arruolate nelle loro file, è vero? Tu ne conosci qualcuno?». «Purtroppo è vero, la maggior parte però veniva dai piccoli villaggi di campagna piuttosto che dalla città, era più facile fare il lavaggio del cervello a loro. Molti poi hanno scoperto quali erano le vere intenzioni dei miliziani del Daesh, hanno visto come agivano, ma a quel punto era troppo tardi per tirarsene fuori, ora sono morti o in galera. Io ne conoscevo alcuni, si sono uniti ai terroristi perché erano ignoranti, noi sapevamo che sarebbero stati una disgrazia. Hanno portato anche vergogna alle loro famiglie perché adesso anche loro sono sotto controllo, 24 ore al giorno. Magari sono innocenti, ma il governo teme che si risveglino cellule dormienti e io so che ce ne sono ancora tante».

«Tu lavori per il governo locale, c’è un piano di ricostruzione?». «Una proposta per un piano di ricostruzione venne fatta subito dopo la liberazione ma, come vedi, non è stato fatto nulla. Non penso che il governo iracheno riuscirà mai a ricostruire qualcosa senza un aiuto dall’estero, ma penso che nemmeno quello arriverà. Sembra che si siano tutti dimenticati di Mosul». Poi aggiunge: «Io credo che sia l’America quella che dovrebbe ricostruire Mosul. Io non ce l’ho con gli americani, ma sono loro che hanno distrutto la città con i bombardamenti. È vero: ci hanno aiutato a sconfiggere il Daesh, ma non dimenticarti che hanno anche ucciso più di 500 innocenti e tanti sono ancora sotto le macerie. Le chiamano vittime collaterali, ma erano le nostre famiglie e amici. Non ce l’ho con loro, ma chi distrugge poi dovrebbe ricostruire. Sarebbe un bel gesto e per noi vorrebbe dire tantissimo».

Succo di melograno (ma nessuna ricostruzione)

Mosul oggi versa in uno stato di povertà estrema: non essendoci ricostruzione, non c’è lavoro. Sono circa 300mila le persone che sono scappate da qui. Tanti vanno a Erbil, capitale del Kurdistan, sperando di trovare un lavoro, altri tentano di passare illegalmente il confine con la Turchia.

Le Nazioni Unite hanno stimato che per ricostruire la città sarebbe necessario un miliardo di dollari. Purtroppo, Mosul non è l’unica emergenza che necessita di aiuti umanitari in Iraq. C’è un altissimo numero di rifugiati che arriva dalla Siria, senza contare i cosiddetti «rifugiati interni», cioè tutte quelle persone a cui è stata distrutta la casa o il villaggio durante l’occupazione dell’Isis e che – da quattro anni – vivono nelle tende, nei campi profughi.

Una cosa che non ho incontrato a Mosul, a differenza di molti altri luoghi in guerra, è stato qualcuno che mi chiedesse denaro per strada, cosa molto comune in situazioni del genere. Ho trovato invece nei racconti della gente, insieme alla tristezza, molta fierezza. Ho trovato molta ospitalità, gentilezza e anche i primi segni di speranza.

A gennaio 2019 l’Università di Bologna ha annunciato una campagna di scavo archeologico sulle rovine di Ninive, l’antica capitale Assira che sorgeva proprio nell’odierna Mosul.

La Trevi ha vinto un ulteriore appalto per il prolungamento dei lavori sulla diga di Mosul, fondamentale per l’approvvigionamento idrico ed elettrico della città, che – al momento – continua a essere dipendente dai generatori diesel.

Fuori dal centro storico distrutto un piccolo nuovo centro sta rinascendo, i commercianti hanno trovato uno spazio dove sistemare il bazar, i giovani sono tornati a iscriversi all’Università e i ragazzini salgono in cima alle colline per farsi dei selfie con la valle del Tigri alle spalle. Le giovani coppie sulle panchine bevono succo di melograno fresco comprato dai venditori ambulanti, che piano piano stanno riprendendo a vendere i propri prodotti in giro.

Scene di vita normali in un luogo che, negli ultimi anni, di normale ha avuto pochissimo.

Lasciando Mosul, tra i saluti e le raccomandazioni di chi ho intervistato, mi si chiede di raccontare di come sono stato accolto. Mi si chiede di dire, a chi incontrerò, che qui sognano un giorno di ospitare nuovamente viaggiatori e scambiare con loro due chiacchiere davanti a un bicchiere di tè. Sperando che Mosul possa tornare quello che è stata, un collegamento tra genti e culture diverse.

Angelo Calianno

L’autore

Nato a Cisternino (Brindisi), Angelo Calianno da anni scrive da luoghi in conflitto in Medioriente, Asia e Africa. Per MC ha scritto un reportage dall’Afghanistan pubblicato a maggio 2018 e reperibile sul sito della rivista.


Cronologia essenziale

Mosul, non rimasero che macerie

 

  • 1916, Maggio – Alla dissoluzione dell’Impero ottomano, Francia e Inghilterra si dividono i territori del Medio Oriente (accordi di Sykes-Picot). All’inizio Mosul, praticamente più vicina alla Siria che a Baghdad, è sotto il controllo francese. Il crescente interesse per il petrolio iracheno da parte degli inglesi, porta, dopo una serie di trattative, al passaggio della città sotto il controllo del Regno Unito.
  • 1932 – Il Regno Unito instaura una monarchia sotto il proprio controllo. Nasce lo stato dell’Iraq.
  • 1950 – Dopo la creazione di Israele, le famiglie ebree di Mosul lasciano la città per emigrare nel nuovo stato.
  • 1967 – Mosul fonda la sua Università, la seconda più grande in Iraq dopo quella di Baghdad.
  • 1979, Luglio – Dopo diversi tentativi di colpi di stato sin dalla fine degli anni ‘60, il governo iracheno viene rovesciato da Saddam Hussein, che rimarrà al potere per oltre 20 anni. Di fede sunnita, Saddam riceve molti consensi dalla città di Mosul.
  • 1980, Settembre – L’Iraq dichiara guerra all’Iran (sciita). Molti dei curdi (soprattutto di fede cristiana), sciiti e yazidi, fuggono da Mosul per non essere mandati al fronte. La maggior parte si rifugia in Siria e Turchia.
  • 2003, Marzo – Gli Stati Uniti e gli alleati invadono l’Iraq (seconda Guerra del Golfo). Oltre Baghdad, gli altri punti cardine dello stato sono Kirkuk, per le risorse petrolifere e Mosul per quelle idroelettriche, petrolifere e logistiche. I dintorni di Mosul sono teatro di scontri tra le forze leali a Saddam Hussein e i soldati statunitensi, coadiuvati dalle milizie peshmerga. Nell’aprile 2003 le forze governative irachene sconfitte abbandonano Mosul. Le forze speciali americane tengono sotto controllo la città per poi lasciarla sotto il presidio peshmerga.
  • 2014, Giugno – Gli uomini dell’Isis occupano Mosul e ne fanno la loro capitale simbolica. Rimangono nella città fino alla sua liberazione del luglio 2017. Durante questa occupazione stilano una propria «Costituzione» da far rispettare agli abitanti della città. Per chi si oppone sono previste punizioni fisiche e detenzione; per le violazioni giudicate più gravi, si viene giustiziati.
  • 2017, Luglio – Dopo mesi di assedio, Mosul è liberata. Difficile dare una stima della sua popolazione attuale: un grande numero di persone, registrate come residenti, in realtà si è spostato a Erbil, per cercare lavoro, o illegalmente in Turchia. Le ultime stime del 2017 contavano 1 milione e 377 mila abitanti; altri 700 mila sono scappati o sono stati uccisi durante la guerra contro l’Isis. Oggi la maggior parte della città e della sua economia sono da ricostruire.

Angelo Calianno

Fonti: BBC World, Washington Post.


I protagonisti della battaglia di Mosul

Al-Baghdadi, i Peshmerga e gli altri

Al-Baghdadi – Il suo vero nome è Ibrahim Awwad Ibrahim Al-Badri, nato a Samarra in Iraq nel 1971. Al-Baghdadi nasce da una famiglia della classe media irachena di fede sunnita. Cresce in un sistema sociale tribale diviso in clan, il suo in particolare si dichiara direttamente discendente del profeta Maometto. Per la sua stretta osservanza delle regole islamiche viene soprannominato dai suoi familiari «il credente». Prosegue poi gli studi della fede islamica fino a prendere una laurea con specializzazione sugli studi coranici all’Università di Baghdad. Dopo la laurea insegna in alcune moschee attorno Baghdad, ma nel 2003 Al-Baghdadi diventa a tutti gli effetti un militante combattente. Viene successivamente arrestato a Falluja e imprigionato per 10 mesi a Camp Bucca, prigione irachena gestita dagli Usa.

Durante la prigionia predica il Corano con lunghi sermoni sull’islam e la guerra contro l’Occidente, proprio in carcere comincia ad avere i primi seguaci. Durante la detenzione conosce anche alcuni di quelli che successivamente saranno i suoi uomini in Siria. Una volta libero, combatte in Siria a fianco del gruppo terrorista Al-Nusra. Fonda l’Isis, che, dopo varie divergenze, viene espulso da al-Qaeda.

Il nuovo gruppo comincia a conquistare territori nell’Est della Siria e nell’Ovest dell’Iraq, fino a Mosul, dove – nel luglio del 2014 – Al-Baghdadi, davanti alle telecamere, si auto proclama Califfo dello Stato islamico.

Nell’estate del 2017 la Russia dichiara la morte di Al-Baghdadi, ucciso in un raid aereo a Raqqa, in Siria. Tuttavia, non ci sono prove evidenti. Il 23 agosto 2018 viene divulgato un audio con la voce del leader dell’Isis che incita alla lotta contro gli infedeli. Anche se l’audio non è mai stato autenticato, molti pensano che Al-Baghdadi sia ancora vivo e si nasconda tra Siria e Iraq.

Peshmerga – I peshmerga sono dei combattenti e guerriglieri curdi. Il loro gruppo pare si sia formato dopo il crollo dell’Impero ottomano agli inizi del 1900. Per anni gruppo di guerriglieri indipendenti sono diventati, di fatto, l’esercito della regione indipendente del Kuridstan in Iraq. I peshmarga annoverano tra le proprie file anche diverse donne che hanno combattuto, oltre che contro l’Isis, anche a fianco degli Stati Uniti contro Saddam Hussein nel 2003. La parola peshmerga vuol dire letteralmente «prima morte» e sta a significare la volontà di essere sempre i primi a combattere, a sacrificarsi e pronti a morire.

Italia in Iraq – Il totale delle forze di coalizione anti-Daesh, tra Iraq e Siria, è di 74 nazioni. La presenza italiana è la seconda come numero, subito dietro a quella degli Stati Uniti. Oggi l’Italia ha 700 soldati e 100 carabinieri dislocati su 11 basi. Il contingente italiano si occupa dell’addestramento e formazione delle truppe locali, nonché dello sviluppo e installazione di sistemi di sicurezza. Molti dei peshmarga curdi sono stati addestrati dagli italiani nella base di Erbil.

Coalizione anti Isis – La coalizione per la liberazione di Mosul fu guidata dagli aerei statunitensi con la partecipazione dell’aviazione australiana, il supporto delle forze armate irachene e quelle curde dei peshmerga. Il primo febbraio 2019 l’Australia ha ammesso alla BBC, pubblicamente per la prima volta, che durante l’attacco di Mosul le bombe della coalizione hanno ucciso diversi civili. Amnesty International ha accusato l’esercito iracheno e gli Stati Uniti, per l’enorme numero di civili uccisi durante i bombardamenti e di gravi violazioni dei diritti umani. A oggi non è stato designato alcun responsabile.

Angelo Calianno

Fonti: BBC, The Guardian, difesa.it, Tolo News, The Atlantic.




Iraq: Il ritorno dei cristiani nella piana di Ninive, ricostruire dopo l’Isis

Testi di Marta Petrosillo, foto ACS |


Estate 2014: centinaia di migliaia di cristiani fuggono da Mosul e dalla piana di Ninive. L’Isis ha iniziato la sua avanzata con distruzioni e massacri. Quando la zona viene liberata più di due anni dopo, molti decidono, con coraggio, di tornare. Vogliono ricostruire una presenza cristiana vecchia di duemila anni. In prima fila a sostegno delle popolazioni le Chiese cristiane.

Ritornare a vivere a casa propria dopo l’Isis, dopo l’orrore, dopo aver visto tanti, familiari e amici, abbandonare per sempre il paese, è possibile. Ce lo dimostrano i cristiani iracheni che, nonostante il dolore e l’incertezza, non si sono arresi a chi voleva cancellare la loro presenza da queste terre e oggi sono tornati in gran numero nella piana di Ninive dalla quale erano dovuti fuggire in massa.

Quando è stata liberata tra fine 2016 e inizio 2017, e quando si sono potute constatare le distruzioni compiute, nessuno sperava in un simile miracolo.

Iraq Ninive area Qaraqosh/Bakhdida – ritorno a casa

Tornare in città distrutte

A Qaraqosh, piccolo centro urbano a circa 30 km a Sud Est di Mosul, nel Nord dell’Iraq, noto per essere la roccaforte della cristianità nel paese, si stima che siano ritornati 25.650 cristiani: il 46 per cento di quanti abitavano la cittadina prima dell’invasione dell’Isis nell’agosto 2014.

Notevoli risultati si sono registrati anche in altri villaggi della piana: a Karemlesh, distante 5 km da Qaraqosh, sono rientrati il 26 per cento dei cristiani fuggiti nel 2014, mentre a Telskuf, 60 km più a Nord, i rientri sono stati ben 5.313, ossia il 73 per cento, la quota più alta della zona. Proprio nel villaggio di Telskuf è stata riconsacrata la prima chiesa della piana di Ninive, quella di San Giorgio, danneggiata e profanata dall’Isis. «Un messaggio di speranza e di vittoria. Lo Stato islamico voleva cancellare la presenza cristiana e invece i jihadisti se ne sono andati, mentre noi siamo tornati», ha detto monsignor Bashar Matti Warda festeggiando la riconsacrazione della chiesa l’8 dicembre 2017.

Le Chiese unite per ricostruire

Il processo di ricostruzione ha visto le Chiese irachene in prima linea. L’opera di ripristino e di riedificazione delle oltre 13mila abitazioni bruciate, distrutte e danneggiate dallo Stato islamico, è stata ed è coordinata, infatti, dal Comitato per la ricostruzione di Ninive (Nrc, Nineveh Reconstruction Committee), istituito il 27 marzo 2017 dalle tre Chiese dell’Iraq: caldea cattolica, siro cattolica e siro ortodossa, con la collaborazione della fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre.

Ognuna delle tre Chiese ha due suoi rappresentanti nel comitato. Monsignor Timothaeus Mosa Alshamany, arcivescovo della Chiesa siro ortodossa di Antiochia e priore del monastero di San Matteo, dopo la firma dell’accordo ne ha sottolineato la duplice, storica portata: da un lato lo spirito ecumenico, dall’altro la reale possibilità per migliaia di cristiani di tornare alle loro radici e a una vita dignitosa. «Oggi – ha affermato – siamo una Chiesa davvero unita; unita per la ricostruzione delle case nella piana di Ninive, per infondere fiducia nei cuori delle persone che vivono in quei villaggi e per invitare quelli che li hanno lasciati a tornare».

Iraq, Bartela, 10/09/017, distribuzione di piantine di palma alla chiesa della Vergine Maria della Chiesa ortodossa siriaca. © ACS

Ripristinare la dignità

Molti sacerdoti si sono trasformati in ingegneri, architetti e geometri. Don Georges Jahola è uno di loro: è il sacerdote siro cattolico che ha coordinato la ricostruzione di Qaraqosh. Non appena celebrata la messa, don Jahola smette i paramenti e prende il cellulare per seguire i lavori. Gli abbiamo parlato a fine gennaio scorso: «Dopo 2 anni di occupazione dello Stato islamico, al nostro rientro abbiamo trovato quattro chiese bruciate, due siro cattoliche e due siro ortodosse. Abbiamo trovato una chiesa totalmente distrutta, mentre altre erano gravemente danneggiate. Abbiamo celebrato la messa in chiese bruciate. Ora stiamo costruendo e ristrutturando edifici dove poter svolgere catechesi e altre attività pastorali».

La priorità è quella di ristabilire una presenza cristiana, per fare in modo che anche altre famiglie decidano di tornare. «Vogliamo creare spazi per i bambini e per il tempo libero degli adulti e dei giovani», continua don Jahola che ricorda anche le drammatiche condizioni in cui ha trovato Qaraqosh: «Abbiamo visto una città distrutta. Da un lato a causa di oltre due anni di abbandono, dall’altro per via della furia dell’Isis. Il 35% delle case era stato distrutto. Ci siamo spaventati, ma non ci siamo persi d’animo. Abbiamo mappato tutte le case, le abbiamo fotografate, assegnato loro un codice ed elencato i danni di ciascuna. Qui in Iraq se non ci pensa la Chiesa a far fronte alle necessità di questa povera gente non lo farà nessuno».

Oggi, laddove un tempo sventolavano le bandiere nere dell’Isis, sono tornate le famiglie cristiane. «Quasi tutte le parrocchie hanno riaperto – continua don Jahola -. Soltanto due anni fa era impensabile poter ritornare a Ninive. Ma questo significa per noi riacquistare le nostre radici e poter vivere la nostra fede in unione con quella dei nostri antenati».

«Qui c’è il nostro futuro»

Ritornare a casa non è stato semplice per i cristiani. «È stata una ferita al cuore quando ho visto cosa rimaneva della mia abitazione e della mia città», ci confida Wisam, rientrato a Qaraqosh assieme alla sua famiglia dopo aver vissuto da rifugiato a Erbil, capoluogo del Kurdistan iracheno, per oltre due anni.

Ad aiutare Wisam e gli altri cristiani desiderosi di tornare a casa vi è anche Amjeed Tareq Hano, un giovane di 28 anni che aiuta il team di 70 ingegneri al lavoro nella sola Qaraqosh. Sulla sua scrivania un’alta pila di richieste. «Per poter ricevere un sostegno i proprietari devono contribuire personalmente alla ricostruzione o al ripristino – spiega il giovane ad Acs -. Soltanto così possiamo contenere i costi e aiutare altre famiglie».

Amjeed sottolinea come il governo iracheno non abbia affatto sostenuto l’opera di ricostruzione. «Sconfiggiamo l’Isis armati di intonaco e mattoni».

Dopo la presa della piana di Ninive da parte dell’Isis, anche Amjeed ha vissuto con la sua famiglia a Erbil. Non ha mai rimpianto la decisione di rimanere nel proprio paese, in Iraq. «Dobbiamo bollire l’acqua, l’elettricità è prodotta dai generatori e le strade sono piene di buche. L’Iraq è tutto fuorché sicuro, ma questa è la nostra casa e qui è il nostro futuro. E la nostra patria ha estremamente bisogno della presenza di noi cristiani».

Iraq, Qaraqosh, giugno 2018, padre Georges Jahola mostra figure e dati del piano di ricostruzione. © ACS

Un nuovo vescovo per i Caldei

Ma se nella piana di Ninive il ritorno dei cristiani dopo la liberazione dallo Stato islamico è stato a dir poco sorprendente, a Mosul, seconda città dell’Iraq, la situazione è ben diversa.

«La nostra più grande sfida è quella di restituire la fiducia ai fedeli, così che possiamo lavorare insieme per costruire il futuro dei cristiani in Iraq», ci dice monsignor Michaeel Najeeb Moussa, domenicano, poco dopo la sua ordinazione episcopale come vescovo dei caldei di Mosul avvenuta il 25 gennaio. Dopo quasi cinque anni da quando lo Stato islamico aveva costretto il suo predecessore monsignor Emil Shimoun Nona a lasciare la città, la comunità caldea di Mosul e della piana di Ninive ha nuovamente un pastore.

Vi sono molti funzionari governativi e anche studenti universitari cristiani che si recano a Mosul ogni giorno, ma nessuno ha il coraggio di rimanere stabilmente a vivervi. Il timore è che permangano in città cellule nascoste di jihadisti e, in ogni caso, che l’Isis possa tornare. In più i cristiani ora faticano a fidarsi anche dei loro ex vicini di casa musulmani che in molti casi hanno aiutato i combattenti islamisti. «Preferiscono percorrere anche 85 chilometri per tornare a dormire nei villaggi della piana di Ninive, perché qui non si sentono al sicuro», ci spiega il presule.

Al momento neanche lui può tornare a risiedere in città: «L’85 per cento delle chiese di Mosul è stato distrutto così come l’arcivescovado». Ma monsignor Najeeb spera di tornarvi presto ed è sicuro che la presenza di un vescovo in città donerà di nuovo speranza anche agli altri. «Credo che il ritorno dei cristiani a Mosul sia possibile, e credo che tutto cambierà quando si tornerà a celebrare stabilmente la messa, come si è fatto per duemila anni, prima dell’arrivo dell’Isis».

Convertirsi, fuggire o morire

Monsignor Najeeb ha avuto un ruolo essenziale nella salvaguardia delle radici cristiane. Quando è fuggito a Erbil, dopo l’arrivo dell’Isis nel 2014, ha salvato decine e decine di manoscritti antichi che catalogava e digitalizzava da decenni per preservare il patrimonio storico del popolo cristiano e di tutti gli iracheni.

Esattamente come il suo predecessore, l’arcivescovo emerito dei caldei di Mosul, Emil Shimoun Nona, anche monsignor Najeeb ha affrontato lo stesso destino dei cristiani di Mosul e della piana di Ninive.

Nella notte tra il 9 e il 10 giugno del 2014, l’Isis ha preso possesso della città, costringendo alla fuga oltre metà della popolazione. Ai pochi cristiani che, nelle prime settimane dopo l’arrivo dell’Isis, sono rimasti a Mosul, è stata imposta inizialmente la jizya, la tassa, cosiddetta «di protezione», riscossa ai non musulmani ai tempi dell’impero ottomano. Ma il piano per trasformare l’Iraq e la Siria in un unico Califfato islamico non poteva prescindere dall’eliminazione delle minoranze religiose. Così a metà luglio i jihadisti hanno marchiato le case cristiane della città con la lettera araba «ن», iniziale della parola nasara: nazareni. Quindi i fondamentalisti hanno obbligato i cristiani rimasti a scegliere se convertirsi, fuggire oppure essere uccisi. Nelle ore seguenti code interminabili di auto e di persone si sono dirette verso il Kurdistan iracheno e la piana di Ninive. Ma chi ha optato per la seconda scelta si è visto costretto a fuggire di nuovo nella notte tra il 6 e il 7 agosto 2014, quando lo Stato islamico ha preso possesso di 13 villaggi cristiani della piana.

In una sola notte, oltre 125mila fedeli hanno dovuto abbandonare le proprie case senza poter prendere nulla. Molti di loro hanno camminato per ore in pigiama prima di giungere a Erbil o alla vicina città di Duhok. Sfuggiti alla crudeltà dei miliziani, gli ultimi cristiani in Iraq hanno dormito per giorni nelle chiese, nelle scuole, all’ombra di palazzi fatiscenti per poi trovare «finalmente» una casa in tende asfissianti in cui le temperature, nella calda estate del 2014, sfioravano i 44 gradi.

Poi, fortunatamente, grazie alle Chiese locali e alla generosità di molti benefattori, le famiglie hanno trovato alloggio in case prefabbricate o in appartamenti in affitto dove hanno vissuto almeno fino alla metà del 2017.

Iraq, Qaraqosh, giugno 2018, madre e figli davanti alla loro casa ricostruita a Qaraqosh. © ACS

Una storia di persecuzioni

Quella perpetrata dallo Stato islamico non era tuttavia la prima persecuzione subita dai cristiani iracheni. Il loro numero complessivo nel paese era già diminuito da un milione e 200mila fedeli nel 2003 ai poco più di 300mila del 2014.

L’instabilità del paese, in seguito all’inizio della guerra nel 2003 e alla caduta del regime di Saddam Hussein, ha significato l’inferno per la minoranza cristiana, schiacciata nel fuoco incrociato tra sunniti e sciiti e direttamente perseguitata.

In città come Baghdad, Bassora, Kirkuk, Mosul, tante famiglie cristiane si sono viste recapitare messaggi minatori sull’uscio delle proprie case e, col passare del tempo, hanno dovuto rinunciare alla Messa di Natale nella sera del 24 e a fare l’albero e il presepe se non all’interno delle proprie case. Alcuni cristiani hanno dovuto pagare la jizya, sono stati espropriati delle loro terre e le donne si sono abituate a coprire il capo con un foulard, per confondersi tra le musulmane.

Numerosi rapimenti e uccisioni di fedeli, sacerdoti e perfino vescovi hanno segnato gli ultimi anni della vita dei cristiani in Iraq.

Uccisi in odio alla fede

A Mosul, uno dei simboli del martirio cristiano in Medio Oriente, dopo la caduta di Saddam sono stati uccisi in odio alla fede oltre mille cristiani. La persecuzione non ha risparmiato né l’arcivescovo caldeo monsignor Faraj Rahho, rapito e poi ucciso nel 2008, né il suo segretario, padre Ragheed Ganni.

Padre Ragheed non aveva voluto arrendersi alle minacce di chi gli intimava di chiudere la sua chiesa dello Spirito Santo a Mosul. È stato ucciso il 3 giugno, al termine della Messa. «Ti avevo detto di chiudere la chiesa. Perché non l’hai fatto?», gli ha domandato uno dei suoi assassini. «Come posso chiudere la casa di Dio?», ha risposto lui prima di soccombere al fuoco dei proiettili.

Non vi è dunque da stupirsi se nei lunghi mesi tra il 2014 e il 2017, molti cristiani hanno lasciato il paese in preda allo sconforto e a causa della mancanza di prospettive future.

Poi però con la liberazione della piana di Ninive e la ricostruzione delle case cristiane è avvenuto un vero e proprio miracolo. Lo stesso che oggi si attende a Mosul.

Marta Petrosillo

Iraq, dicembre 2014, bambini al centro “Werenfried” creato per accogliere persone forzate a lasciare le loro case dall’Isis. © ACS


La solidarietà del papa viaggia in Lamborghini

«Ci lasciano increduli e sgomenti le notizie giunte dall’Iraq: migliaia di persone, tra cui tanti cristiani, cacciati dalle loro case in maniera brutale». Così papa Francesco all’Angelus del 10 agosto 2014. Sono passati soltanto tre giorni dalla presa dei villaggi della piana di Ninive, ma il santo padre nomina già come suo inviato speciale nel paese il cardinal Fernando Filoni, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, e già nunzio in Iraq dal 2001 al 2006. È il primo di molti gesti di vicinanza del pontefice ai cristiani iracheni e alle altre minoranze schiacciate dall’Isis.

«Cari fratelli e sorelle, siete nel mio cuore», dirà poi il santo padre in un videomessaggio registrato il 6 dicembre 2014 per i cristiani di Mosul ricordando l’importanza della loro testimonianza di fede, «la vostra resistenza è martirio, rugiada che feconda».

Segni concreti di vicinanza

Sin dall’inizio della tragica avanzata dell’Isis il papa esprime il desiderio di visitare i suoi fedeli iracheni. Le precarie condizioni di sicurezza non rendono possibile la visita, anche se il viaggio del cardinal Parolin in terra irachena, dal 24 al 28 dicembre 2018, fa ben sperare per il futuro.

Tuttavia i cristiani d’Iraq percepiscono forte la vicinanza del pontefice, attraverso le sue parole, la sua preghiera e i suoi gesti concreti.

Già nel 2016 papa Francesco, attraverso la fondazione Aiuto alla Chiesa che soffre, ha finanziato con 100mila euro la Saint Joseph Charity Clinic che a Erbil offre assistenza medica gratuita.

Poi il 15 novembre 2017, Francesco ha deciso di devolvere al progetto Acs per la ricostruzione dei villaggi cristiani della piana di Ninive, parte del ricavato della vendita all’asta della Lamborghini Huracan da lui ricevuta in dono dalla casa automobilistica.

I fondi ricevuti sono stati impiegati nella ricostruzione di due strutture della Chiesa siro cattolica distrutte dalla guerra nel villaggio di Bashiqa: l’asilo intitolato alla Vergine Maria e il centro polivalente dell’omonima parrocchia, che sarà a disposizione di oltre 30mila abitanti di diverse etnie e fedi.

M.P.

Iraq, Qaraqosh, giugno 2018. Cristiani che ricostruiscono le loro case con l’aiuto di ACS. © ACS