L’auto migliore è quella che non si ha


Dal 2035 nei paesi dell’Unione europea si potranno vendere soltanto auto elettriche. Si tratta di una vera rivoluzione?

Con 339 voti a favore e  24 astenuti, l’8 giugno 2022 il Parlamento europeo ha approvato la proposta della Commissione europea tesa a vietare la vendita di auto a motore a partire dal 2035. Per diventare operativo il provvedimento necessita di un’ulteriore ratifica da parte del Consiglio europeo, l’organo che rappresenta i capi di governo,  ma tutti la danno per certa dal momento che il 30 giugno è già stato dato un parere positivo di massima.

Cina, Stati Uniti e Ue

La decisione di mettere definitivamente al bando, seppur fra 13 anni, la vendita di auto a motore termico si iscrive nella più ampia battaglia contro le emissioni di anidride carbonica che l’Unione europea ha dichiarato di voler perseguire. Scelta che va ad aggiungersi alle misure già varate nel 2021 attraverso il provvedimento denominato «Fit for 55» che si pone l’obiettivo di ridurre le emissioni di anidride carbonica del 55% entro il 2030.

Con emissioni annuali pari a 3,5 giga tonnellate, ossia il 7,5% del totale mondiale, l’Unione europea è il terzo produttore al mondo di gas a effetto serra. Prima di lei c’è la Cina che ne emette 12 giga tonnellate e gli Stati Uniti che ne emettono 5,7 giga tonnellate. Ma, pur risultando fra i primi tre inquinatori mondiali, l’Unione europea si ritiene la più impegnata nella lotta contro l’anidride carbonica. Tant’è che, nel 2020, aveva livelli di emissioni ridotti del 34%  rispetto a quelli del 1990, benché organizzazioni come
Climate works foundation sostengono che il dato è falsato dal fatto che il calcolo comprende solo le emissioni prodotte internamente, mentre esclude quelle incorporate nei prodotti che importiamo dall’estero. Non solo beni finali come smartphone, auto, elettrodomestici, ma anche semilavorati come metalli, semiconduttori, pellami. Dato di non poco conto considerato che, negli ultimi anni, molte produzioni nocive sono state esportate in altri paesi consentendoci di alleggerire la nostra impronta di carbonio. Con il risultato che gli inquinatori risultano altri, magari la Cina o l’India, ma i veri beneficiari siamo noi, potendoci pure spacciare per virtuosi. Climate works foundation calcola che, se tenessimo conto anche delle emissioni incorporate nelle importazioni, la nostra quota di anidride carbonica risulterebbe più alta dell’11%.

Un ambito nel quale le nostre emissioni sono decisamente cresciute è quello dei trasporti. L’aumento più marcato si è avuto nel settore aereo dove le emissioni sono più che raddoppiate fra il 1990 e il 2019. Ma anche le emissioni su strada hanno visto un aumento del 20% nello stesso periodo. La conclusione è che oggi auto e furgoni contribuiscono al 15% di tutta l’anidride carbonica emessa nell’Unione europea. Ammontare che le autorità europee vogliono eliminare mettendo al bando l’auto a motore. Ma con quale prospettiva futura di mobilità?

Un autobus a idrogeno a Bolzano. Foto Sasa – Provincia autonoma di Bolzano.

Auto (bus) a Idrogeno

Di risposte possibili ce ne sono varie, ma quella verso la quale il sistema sembra orientarsi è una sola: il cambio di tecnologia. L’idea, insomma, è di continuare a concepire la nostra mobilità basata sull’auto privata, la quale invece di funzionare a benzina, funzionerà a elettricità. Ma con quale tecnologia e a quale costo economico, sociale e ambientale?

Ci sono due modi per fare funzionare automobili dotate di motori elettrici: con celle a combustibile e con batterie. Le prime dispongono di un serbatoio di idrogeno che alimenta un dispositivo elettrochimico (la cella combustibile) capace di produrre energia elettrica grazie a una particolare interazione fra   idrogeno e ossigeno. Il secondo tipo di auto, invece, funziona con batterie a ioni di litio che si ricaricano collegandosi alla rete elettrica. Entrambi i sistemi presentano le loro problematiche.

Nel caso delle celle a combustibile, il primo problema è come procurarsi l’idrogeno, un elemento abbondante in natura, ma non allo stato libero. Per cui va estratto da altri composti, in particolare acqua o metano. E qui arrivano i primi nodi. Per cominciare, i processi di separazione richiedono una grande quantità di energia elettrica che, se dovesse essere ottenuta bruciando combustibili fossili, tanto varrebbe continuare a viaggiare nelle auto a benzina. A maggior ragione se l’idrogeno venisse estratto dal metano perché, durante il processo, si accumulerebbe altra anidride carbonica come prodotto di scarto. In conclusione, l’idrogeno potrebbe essere annoverato fra i combustibili senza impatto climatico, solo se fosse estratto dall’acqua con energia elettrica ottenuta da sole, vento o altra fonte rinnovabile. Ma quanti impianti eolici, solari, idroelettrici, servirebbero per alimentare a idrogeno il miliardo e passa di auto oggi in circolazione? Del resto, una volta prodotto, l’idrogeno andrebbe distribuito in maniera capillare e questo è un altro scoglio perché, essendo molto leggero, non può utilizzare le tubature di metano oggi esistenti. Se poi si pensasse di trasportarlo con autocisterne, bisognerebbe prima comprimerlo utilizzando ulteriore energia elettrica. Senza dimenticare che, per caricarlo sulle auto, va messo in bombole addirittura in forma liquida, ossia raffreddato a 253 gradi sotto lo zero. E poi c’è la questione dei materiali utilizzati per le celle a combustibile. Un elemento chiave è il platino che però non è così abbondante, per cui si potrebbero porre problemi di approvvigionamento qualora l’auto a idrogeno dovesse diventare di massa.

Stante i molti nodi ancora irrisolti, il mercato dell’auto a idrogeno è ancora molto ristretto. A oggi, le uniche grandi case automobilistiche che ne producono sono Toyota e Bmw. Un certo sviluppo, invece, si registra nel settore dei grandi veicoli: camion, furgoni, autobus. In Italia, la Provincia autonoma di Bolzano già dal 2013 dispone di una flotta di autobus a idrogeno (in foto) che, nel maggio 2021, è stata arricchita di altri dodici esemplari. Quanto all’idrogeno, il rifornimento è  garantito grazie a un progetto di produzione locale cofinanziato con fondi europei.

Auto a batteria

Mentre l’auto a idrogeno stenta a partire, l’auto a batteria ricaricabile alla presa elettrica ha invece ingranato la marcia ed oggi occupa già l’1% del mercato mondiale. Ma, visti i costi di produzione, al momento i modelli in circolazione sono quasi solo di fascia alta. Tuttavia, l’industria confida di riuscire ad abbattere i costi e di potersi inserire, in tempi brevi, anche nei modelli più popolari. E basandosi sulla rapidità con la quale ai primi del Novecento scomparvero carrozze e cavalli, molti analisti scommettono che, nel 2040, a livello mondiale ci saranno due auto elettriche ogni tre nuove auto vendute. Oggi, il paese con il maggior numero di vendite di auto elettriche è la Cina. Nel 2021 ben 3,3 milioni, su un totale mondiale di 6 milioni di nuovi esemplari, sono stati venduti in questo paese. Ma non si sa con quali benefici reali per il clima dal momento che la Cina, in media perfetta col resto del mondo, ottiene solo il 30% dell’energia elettrica da fonti rinnovabili. Da questo si evince che, se il superamento delle auto a scoppio non va di pari passo con il superamento delle centrali elettriche funzionanti con combustibili fossili, forse ci guadagna l’industria automobilistica (che per vendere ha bisogno di continue novità), ma non il clima.

Fame di energia elettrica

Del resto, la questione climatica è solo uno dei problemi ambientali che stiamo vivendo, e per evitare di risolvere un problema creandone di nuovi, dovremmo affrontare il tema dell’auto elettrica in una prospettiva più ampia. Un tema centrale è quello del limite delle risorse, a sua volta intimamente connesso con quello dell’equità. La transizione elettrica, ossia il passaggio dalle centrali a combustibili fossili a tecniche di produzione di tipo rinnovabile, richiede apparecchiature costruite con minerali non così abbondanti sulla crosta terrestre. Due esempi sono il rame e il molibdeno. La loro richiesta futura è prevista in rapida crescita, ma non la loro estrazione. Il rischio è un collasso da scarsità che potrebbe essere evitato solo con una programmazione a livello mondiale. Attribuendo, cioè, a ogni nazione un massimale di assorbimento possibile tenendo conto dei bisogni di tutti. Ma da questo orecchio nessuno ci sente, meno che mai il Nord del mondo che continua ad avere livelli stratosferici di consumo di energia elettrica come se a questo mondo esistessimo solo noi.

In realtà, il pianeta è popolato da oltre otto miliardi di persone, molte delle quali in condizioni di vita subumana. Ad esempio, in Africa 700 milioni di persone non dispongono ancora di energia elettrica. Avrebbero diritto almeno a un pannello solare, ma rischiano di non poterlo avere finché noi non accetteremo di mettere un freno alla nostra insaziabile sete di energia elettrica per elettrodomestici, condizionatori, attività industriali e ora anche auto elettriche. Semplicemente perché c’è competizione per le risorse scarse.

In altre parole, bisogna scegliere se le risorse limitate esistenti sul pianeta le vogliamo utilizzare per i diritti di tutti o per i privilegi di pochi. Per entrambe le opzioni ormai non c’è più posto.

I costi delle batterie

Per trasportare cinque persone per un paio di ore su un’auto che viaggia a 150 chilometri all’ora, serve una batteria di quattro quintali, piena zeppa di grafite, alluminio, nichel, rame, manganese, cobalto, litio. Minerali presenti in maniera limitata sul pianeta, che per essere estratti e raffinati richiedono grandi quantità di energia e non solo. In Argentina, dove si estrae il 7% del litio mondiale, le comunità locali sono in lotta contro le imprese minerarie per il loro esagerato prelievo di acqua che mette a rischio le riserve di tutta la zona. In Congo, intanto, l’estrazione di cobalto è diventato tristemente famoso per le gravi condizioni di lavoro a cui sono sottoposti i minatori.

Le ondate di calore, la siccità, gli incendi, la perdita di raccolti agricoli, i mari pieni di plastiche, la perdita di biodiversità, l’esplodere di malattie virali inedite, le migrazioni massicce, dovrebbero farci capire che non possiamo proseguire lungo la strada della crescita infinita di produzione e consumi.

Come rispettare ambiente e diritto alla mobilità

Dobbiamo ritrovare il senso del limite che, applicato al tema della mobilità, significa adattare il mezzo alla distanza, usare per quanto possibile strumenti che potenziano la nostra muscolatura, usare mezzi condivisi sulle lunghe distanze, accettare di spostarci di meno e a velocità contenuta. L’invito, insomma, è a coprire a piedi i piccoli percorsi, a usare la bici per i medi tragitti, a usare mezzi pubblici e condivisi sulle lunghe percorrenze, a concepire il grande viaggio come un evento eccezionale della vita. Cambiamenti possibili che, pur non compromettendo il nostro diritto alla mobilità, possono garantire a tutti spazi di dignità nel rispetto del pianeta.

Francesco Gesualdi