Libri: Superare i Confini

Testp di Chiara Brivio |


Tre volumi scritti con tre stili, metodi, culture di provenienza differenti. Da una giornalista cattolica, un antropologo e un eclettico intellettuale. Tre testi che parlano di confini: quelli attraversabili dei missionari, quelli sempre in fase di assestamento delle comunità in cerca di identità, quelli che vengono di volta in volta aperti e poi ricostruiti dal tiremmolla tra il potere e la libertà.

Ci sono diversi modi di descrivere i «confini»: possono essere fisici, psicologici, emotivi, immaginari o reali. Abitualmente si tracciano per separare un fuori da un dentro, un di là da un di qua, per fermare dall’altra parte quello che non vogliamo con noi, ad esempio quelle persone che preferiamo non avere nella nostra comunità, nel nostro paese.

I tre libri di questo mese affrontano il tema dei «confini» da punti di vista diversi: da quello di una chiesa, quella missionaria, che aspira all’universalità, e per questo i confini li valica; da quello delle nuove «comunità», altrimenti dette community, che sembrano ignorare completamente i confini in un’epoca nella quale stanno rifiorendo le comunità chiuse; infine da quello di chi vede nei confini creati dal potere un ostacolo alla libertà umana e creativa.

Dove solo l’anima arriva

La giornalista Monica Mondo, conduttrice della fortunata trasmissione Soul su Tv2000, ha raccolto 15 interviste a missionari e missionarie che negli anni sono stati ospiti del suo programma. Le testimonianze sembrano convergere su una domanda chiave: «Che cosa vuol dire fare missione oggi, soprattutto in territori dove la chiesa va completamente rifondata?».

Tra essi c’è chi costruisce interi villaggi, come Pedro Paolo Opeka – vincenziano «carpentiere» che è stato visto a fianco di papa Francesco nella sua recente visita ad Antananarivo, capitale del Madagascar -; chi porta avanti una «intifada dei rosari» tra Israele e Cisgiordania, come suor Donatella Lessio; e c’è chi, come il missionario Fabio Mella, ha portato il cantautore Enzo Jannacci a visitare i boat people, persone senza diritti che vivono su imbarcazioni di fortuna nella baia infestata dai liquami di Hong Kong.

Ma ci sono anche intellettuali e teologi – dal domenicano inglese Timothy Radcliffe al neo cardinale e poeta portoghese José Tolentino Mendonça -, a testimonianza del fatto che la missione si può fare sia «stando là», anche a rischio della propria vita, sia stando «qua», cercando di instaurare un dialogo con laici, non credenti e coloro che si sono allontanati dalla chiesa.

Forse la cosa più curiosa che emerge da questi racconti, a tratti coloriti e divertenti, spesso tragici e commoventi, preceduti dalla prefazione di Paolo Ruffini, prefetto del dicastero vaticano per la Comunicazione, è il ruolo del film di Franco Zeffirelli sulla figura di Francesco d’Assisi, simbolo di povertà radicale. Molti degli intervistati hanno, infatti, dichiarato che fu proprio quella pellicola a confermare e rafforzare la loro vocazione.

Quelli raccontati da Monica Mondo sono uomini e donne che costruiscono ponti, superando ogni confine, come dice uno dei protagonisti: «Dobbiamo essere ponti e non muri. Ponti fra popoli, ponti fra chiese, ponti fra culture».

Comunità

Marco Aime è uno degli antropologi più famosi in Italia, nonché uno dei più prolifici. Questo suo breve e agile saggio, pubblicato dalla casa editrice bolognese Il Mulino, esplora il concetto di comunità dal punto di vista sociologico, antropologico e storico, spiegando come si sia passati dalle «antiche» comunità alle community online del nostro tempo.

Se la caduta del muro di Berlino nel 1989, era forse stato l’emblema della dissoluzione dei confini, oggi, con l’avvento dell’epoca dei Trump e dei Salvini con i loro «prima noi» (americani o italiani che siano), c’è stato un pericoloso ritorno alla paura del diverso, dell’altro, all’ansia generata dall’apparente disgregazione di antiche comunità, spesso puramente immaginarie (à la Benedict Anderson).

Aime fa notare che il paradosso odierno risiede proprio nel rafforzamento di quell’idea di «comunità chiuse» nell’era della globalizzazione e della rete, dove i confini sono stati virtualmente cancellati. L’antropologo ne rintraccia le cause nel passaggio dalla società contadina a quella industriale, con l’avvento del capitalismo che ha monetizzato e commodificato il tempo, fino all’arrivo delle società liquide della rete dove la tecnologia ha annullato questo concetto, rendendoci sempre reperibili e contattabili, nonché sempre più soli.

Il problema fondamentale è che non esiste più il luogo «fisico» dell’incontro, anima dell’essere umano come animale sociale, ma spesso solo quello virtuale. Quanto ha influito questo sulle relazioni sociali? Molto, secondo l’antropologo. Il quale teorizza una fine alquanto funesta per le comunità di oggi, se non saranno in grado di rimettere al centro le relazioni umane, a partire dalle famiglie stesse. «Forse sarà proprio dal nostro spirito di sopravvivenza che nasceranno nuove forme di convivenza, capaci di abbattere e superare certi confini», chiosa l’autore. Non abbiamo quindi che da sperare.

Smurare la libertà

Wole Soyinka è un intellettuale nigeriano, drammaturgo, scrittore, poeta e saggista premio Nobel per la letteratura nel 1986. Il suo volume L’uomo è morto? Smurare la libertà, edito da Jaca Book, raccoglie tre dei suoi testi scritti in diversi momenti sul tema della libertà. I primi due sono il discorso dello scrittore al Nobel del 1986 e un saggio del 1988 sul teatro nelle culture tradizionali africane. Entrambi già pubblicati negli anni ’80. Il terzo, invece, è un inedito intitolato Smurare la libertà, inizialmente scritto del 2004 e successivamente rimaneggiato.

Il filo rosso che lega le parti del libro è quello della libertà:

  • la libertà dal razzismo e dall’apartheid nel discorso di Stoccolma, dedicato a Nelson Mandela;
  • la libertà di espressione artistica scevra da ogni «colonizzazione della mente» nel secondo testo sul teatro;
  • la libertà contro il potere nel terzo testo che contiene una forte critica anche alle religioni cristiana e islamica.

In Smurare la libertà, fulcro della riflessione di Soyinka è il rapporto tra Potere e Libertà (entrambi maiuscoli nel testo): «Il Potere ama i confini. Il Potere si manifesta all’interno di confini, viene esercitato nell’ambito di territori in qualche modo delimitati». Un potere che lotta per la conquista di tutti i territori, spirituali, fisici e corporei, secondo una logica di assoggettamento e asservimento, in un chiaro richiamo all’epoca coloniale. Per il drammaturgo nigeriano ci sono state due cadute negli ultimi decenni che simboleggiano la lotta tra potere e libertà: quella del muro di Berlino nel 1989, che ha visto trionfare la libertà, e quella delle torri gemelle nel 2001, che ha visto prevalere il potere facendo ripiombare il mondo nella paura, dividendolo tra «credenti infedeli» e tra «alleati o terroristi», tra i Bin Laden e i Bush dell’epoca.

Come uscire dalla paura? Come liberarsi dal dominio del potere, esercitato con terrore e violenza? Soyinka non ha una risposta, se non quella di continuare a lottare contro il sistema che vuole «riabilitare questa mentalità fanatica […] dell’Altro violento, dell’Altro suprematista, intollerante, fascista, apocalittico».




Cari Missionari


Battezzati e inviati

La Chiesa di Cristo in missione nel mondo

Preghiera ispirata dal messaggio del santo padre Francesco per la 93ª giornata missionaria mondiale che si celebra domenica 20 ottobre 2019.

O Dio, Padre e Figlio e Spirito Santo,
dalla comunione con te nasce una vita nuova che viviamo come fraternità battesimale, ricchezza da donare, da comunicare, da annunciare gratuitamente, senza escludere nessuno.

O Dio Padre tenerissimo,
tu vuoi che tutti gli uomini siano salvi arrivando alla conoscenza della verità e all’esperienza della tua misericordia grazie alla Chiesa. Tu non ti sottrai mai al dono della vita, destinando ogni tuo figlio, da sempre, alla tua vita divina ed eterna, che ci viene comunicata nel battesimo. Questo sacramento della nostra salvezza ci dona la fede nel tuo figlio Gesù Cristo vincitore del peccato e della morte, ci rigenera a tua immagine e somiglianza, ci inserisce nel corpo di Cristo che è la Chiesa, ci fa tuoi figli e figlie adottivi nel tuo figlio unigenito.

O Signore nostro Gesù Cristo,
con la tua passione, morte e risurrezione ci salvi dal peccato e dalla morte, rompendo gli angusti limiti di mondi, religioni e culture. Tu ci chiami a crescere nel rispetto per la dignità dell’uomo e della donna, e a conversione sempre più piena a te, verità che dona la vita a tutti. Come il Padre ha mandato te, anche tu, con il dono dello Spirito Santo, hai mandato la tua Chiesa per la riconciliazione e la salvezza del mondo.

O Spirito Santo, vero protagonista dell’evangelizzazione,
tu ci conduci a Gesù verità, ci rendi Chiesa in uscita fino ai confini della terra e ci rendi capaci di essere dono gli uni per gli altri. Tu fai di noi la Chiesa che annuncia, celebra e testimonia il vangelo della salvezza nel rispetto della libertà personale di ognuno, in dialogo con le culture e le religioni dei popoli a cui Gesù ci invia. Fa’ che non manchino mai uomini e donne che, in virtù del loro battesimo, rispondano generosamente alla chiamata a uscire dalla propria casa, dalla famiglia, dalla patria, dalla propria Chiesa locale per essere missionari delle genti.

O beata vergine Maria, nostra madre,
ti affidiamo la missione della Chiesa. Unita al tuo figlio, fin dall’incarnazione ti sei messa in movimento, ti sei lasciata totalmente coinvolgere nella sua missione, che ai piedi della croce divenne anche la tua: cooperare come madre della Chiesa a generare nello Spirito e nella fede nuovi figli e figlie di Dio.

Amen. Alleluia!

Don Francesco dell’Orco
Università Cattolica – Gemelli, 22/06/2019

Grazie e addio

Carissimi missionari della Consolata,
il mio nome è Bruno Bersani e molti anni fa ero uno di voi e ho passato dieci anni in Kenya, Meru, come fratello.
Là ho conosciuto una missionaria laica canadese, e fatto sta che dopo tanto pensare ho lasciato l’istituto e sono venuto in Canada.
Sono sempre stato molto attaccato all’istituto, alla Consolata e al beato fondatore Giuseppe Allamano.
Ho sempre ammirato i missionari della Consolata, padri, fratelli e suore. Credo di aver fatto di più per l’istituto da fuori che quando ne ero membro e ne sono orgoglioso.
Ero in contatto con uno di voi e fu lui ad abbonarmi a MC.
Ora ho novant’anni e siccome non ho nessuno in famiglia che conosce l’italiano, ho pensato di sistemare le cose prima che sia troppo tardi.
Decido di fermare la spedizione ora, piuttosto che continuare a riceverlo e nessuno lo leggerà e penserà a farvelo sapere quando non ci sarò più.
Tutti i giorni prego per voi missionari e missionarie della Consolata.
Mi sento orgoglioso di aver appartenuto all’istituto che ho amato e continuo ad amare. Ad un istituto che per me è il migliore.
Vi saluto tutti, con promessa di continuare a pregare per tutti i missionari e missionarie della Consolata e per il beato fondatore che presto sarà venerato come santo. Con affetto

Bruno Bersani
New Westminster,  Canada, 10/07/2019

Ricercando nei nostri archivi abbiamo trovato la foto del giovanissimo Bruno Bersani (sopra) insieme agli altri fratelli missionari a Meru negli anni ‘60: (da sinistra) Comaron Giovanni, Bersani Bruno, Bottaro Dino, Argese Giuseppe e Costardi Francesco.

 

Falsità sul debito estero

Egregio Direttore,
con riferimento all’articolo di Francesco Gesualdi di MC 5/2019 pag. 27, non sono riuscito a capire quali «falsità si sono raccontate rispetto al nostro enorme debito pubblico». Non è forse vero che abbiamo una cronica e sempre più sorprendente evasione fiscale, che i costi della nostra politica sono i più alti del mondo, che abbiamo le pensioni d’oro, abbiamo più auto blu degli Stati Uniti? Io apprezzo questa rivista, ma mi sembra che la responsabilità del nostro debito sia tutta nostra, frutto bacato di tanti governi mediocri che abbiamo eletto noi. Altro che azzerare il nostro debito «buttandolo sulle spalle della Bce».
Cordiali saluti,

Angelo Guzzon
Cernusco Lombardone, 22/06/2019

Abbiamo naturalmente girato la questione a Francesco Gesualdi. Ecco la sua risposta.

Gli anni Ottanta furono catastrofici per lo stato
italiano perché si continuò a espandere la spesa sociale a debito, con soldi ottenuti esclusivamente dalle banche a tassi di interesse esorbitanti. I numeri confermano: il debito complessivo che nel 1980 ammontava a 114 miliardi di euro, 58% del Pil (Prodotto interno lordo), a fine 1991 lo troviamo a 755 miliardi, 95% del Pil. È abitudine misurare il debito anche in rapporto al Pil per avere un’idea più chiara della sua grandezza. Eppure il nuovo debito contratto per garantire maggiori servizi ai cittadini era stato solo di 140 miliardi. Gli altri 596 miliardi furono debito contratto per pagare gli interessi.

Il 1991 rappresenta uno spartiacque nella storia del debito pubblico italiano, perché fu l’ultimo anno in cui venne fatto nuovo debito per servizi a vantaggio dei cittadini. Nel 1992 si insedia il governo Amato e annuncia al popolo italiano che per aderire al progetto di moneta unica programmato dall’Unione Europea bisognava entrare nell’ordine di idee di ridurre il debito. Detto fatto, innalzò le tasse e ridusse le spese ottenendo un avanzo, fra quanto incassato e quanto speso al netto degli interessi, di 15 miliardi di euro. Eppure il debito crebbe anche quell’anno, per la semplice ragione che il risparmio realizzato non fu sufficiente a coprire la spesa per interessi che obbligò ad accendere altro debito. Anno dopo anno, quello stesso meccanismo si è protratto fino ai giorni nostri (ad eccezione del 2009) portandoci all’assurdo che nonostante 825 miliardi di risparmio realizzati nel periodo 1992-2018, il debito pubblico ha continuato a crescere per l’incapacità di tenere la corsa con gli interessi che nello stesso arco temporale sono ammontati a 2.160 miliardi, di cui 1.320 coperti con nuovo debito.

Tutto questo dimostra quanto sia falso affermare che lo stato italiano è indebitato perché abbiamo voluto vivere al di sopra delle nostre possibilità. L’Italia si trova nell’attuale livello di indebitamento perché è stata consegnata mani e piedi alle banche.

Francesco Gesualdi
06/08/2019

A questo punto la domanda più logica è: sono banche o strozzini e usurai? Si è preso un prestito di 254 miliardi in tutto e ora il debito è di 2.160 miliardi perché si sono fatti altri debiti per pagare quel debito? Di questo passo questo debito non sarà mai estinto. Quanto ci vogliono guadagnare gli usurai che hanno prestato i soldi?

Passaggio al Messico

[Cari amici che mi avete accompagnato in questi anni di vita africana],
la data [della mia partenza dalla Costa d’Avorio verso la mia nuova missione in Messico] si avvicina e voglio cogliere l’occasione per ringraziare Dio per il tempo vissuto in Costa d’Avorio. Sono arrivato qui il 16 gennaio 2001. Ho avuto l’opportunità di vedere bambini e bambine crescere; vedere i giovani sposarsi e accompagnarne alcuni al riposo eterno. È stata una vera grazia.

Mi scuso se ti ho fatto del male o a volte ti ho deluso. Sono consapevole di aver vissuto situazioni in cui non sono stato in grado di essere all’altezza di ciò che ci si aspetterebbe da un uomo di Dio.
Il Signore sa anche che ho vissuto questo tempo con passione.
Ho vissuto con passione l’incontro con Dio e la celebrazione dell’Eucaristia.
Ho vissuto con passione l’accompagnamento dei missionari, la costruzione della fraternità, della comunità e di uno stile di stare con persone di diverse religioni del quartiere.
Infine, ho vissuto con passione la visita alle famiglie e ai villaggi, l’inserimento tra la gente senufo, la presenza tra giovani e bambini, la promozione delle donne e la consolazione nell’istruzione, nella salute e nell’igiene.
Ho sperimentato con voi la gioia del Risorto.

Gli anni bui della guerra (civile – dal 2002 al 2011, ndr) hanno approfondito la mia fede. È diventata più matura, più forte, più teologale. E dal 2012, la speranza e la gioia sono stati i tratti fondamentali della mia presenza in questa terra.

Il 2 settembre andrò ad Abidjan e la notte tra martedì e mercoledì ho l’aereo per tornare in Spagna. Voglio andare a rivedere i miei genitori ormai invecchiati, con quasi 80 anni a testa. Vi chiedo di pregare per loro. Hanno appena accettato la mia missione in Messico, ma sanno anche che questa è la vocazione missionaria e la vivono con un misto di tristezza e orgoglio. Pregate per loro, per favore. Farò diversi mesi in Spagna con loro e in gennaio e febbraio farò un corso di rinnovamento in Italia per prepararmi a inserirmi in Messico, dove arriverò solo a marzo. Grazie per tutto quello che abbiamo passato insieme.

Tutto è stato un dono di Dio e per lui continuo ad offrire la mia vita per il bene della missione tra tutti i popoli. Alla prossima, wàa pye cangàa fáala.

Ramon Lazaro Esnaola,
da San Pedro, Costa  D’Avorio, 27/08/2019

Oltre il sovranismo

Cari missionari,
la decisa presa di posizione del papa sul tema del sovranismo – vedi «La Stampa» del 9 agosto – mi sembra una cosa molto importante.

L’amore per la patria, per la lingua, la musica, l’arte, la religione, il territorio nazionale, non può portare al respingimento di chi viene soccorso in mare e alla criminalizzazione di chi presta soccorso. A dircelo non sono solo le sacre scritture, ce lo dice anche lo scioglimento dei ghiacciai, ce lo dice il cambiamento climatico, ce lo dice la logica naturale, prima ancora che trascendentale.

Quello di patrimonio dell’umanità, prima ancora che un concetto biofisico, biologico o storico-archeologico, è un concetto filosofico e dovrebbe riguardare anche quei luoghi che ancora non sono riconosciuti come depositari di un particolare pregio artistico, architettonico o paesaggistico.

Il no netto alle ideologie sovraniste e la difesa della proprietà privata come diritto naturale non sono in contraddizione: se è contro natura negare il diritto alla casa – con gli stipendi da fame, con la speculazione immobiliare, con la sperequazione impositiva, con un sistema fiscale criminale – lo è anche rifiutare il soccorso alle donne gravide e ai bambini di pochi mesi in nome della difesa del nostro suolo, del nostro mare, della nostra casa, delle nostre risorse.

Lo è anche rifilare o minacciare multe pazzesche alle navi delle Ong che hanno accolto dei naufraghi a bordo.

L’Italia non è solo degli italiani ma del mondo intero, l’Adriatico non è solo di Venezia, il Mediterraneo non è solo degli italiani, dei francesi, della Spagna, della Libia o del Marocco.

La Russia non è solo dei russi, il Brasile – checché ne dica Bolsonaro – non è solo dei brasiliani, le foreste, i fiumi e i ghiacciai del Sud America non sono solo dei sudamericani esattamente come le foreste (per esempio quelle di sequoie o quelle degli alberi arcobaleno delle Hawaii),
i fiumi, i laghi (piccoli e grandi) e i ghiacciai del Nord America, non appartengono solo ai nordamericani, ma al mondo intero.

Il lago Aral non è solo dei kazachi e degli uzbeki, e se la parte kazaka recupera e quella uzbeka continua a ridursi, il problema è politico, ma politico vuol dire che, oltre ad Alma Ata e Taskent, anche le altre grandi città dell’Asia e del mondo hanno voce in capitolo, perché la rigenerazione di questo bacino sarà una vittoria per tutta l’umanità, mentre la sua scomparsa sarà una sconfitta per tutti.

Quello che si scioglie o si ricompatta sul Kilimanjaro, sugli Aberdare o in Groenlandia, riguarda anche Londra, Parigi, Roma, Washington, Berlino, Copenaghen, non solo Nairobi, i Masai e gli Inuit.

La Cina, intendendo anche Hong Kong, Macao, Taiwan, e quella inserita nel Progetto riserve della biosfera dell’Unesco, non è solo dei Cinesi, non è solo del Partito comunista cinese, ma patrimonio della comunità mondiale.

Non dico di non diffidare dell’ecologismo facile, del terzomondismo da salotto e dell’ipercatastrofismo, ma non dimentichiamo che l’atto virtuoso del singolo individuo, del singolo comune, e del singolo stato sovrano (per esempio la piantumazione di un albero, una buona raccolta differenziata, la lotta al caporalato) ha ricadute positive sul mondo intero, mentre i comportamenti viziosi (la dipendenza da alcol, tabacco e droga, il disprezzo del cibo, lo spreco di acqua…) ha ricadute che possono essere devastanti.

Francesco Domenichelli
email 12/08/2019




Con Puat Subyz nella Raposa Serra do Sol

testo e foto di Dan Romeowww.iviaggididan.it


Incontro fratel Francesco Bruno, detto Cico, classe 1946 di Pinerolo (Torino), a Boa Vista, in Roraima, Brasile. Arrivato là nel ‘76, è un uomo d’altri tempi, con un umorismo contagioso e una manualità in grado di passare dalla riparazione di un carburatore alla realizzazione di chilometri di acquedotti. Lo definisco un eroe, capace di amore, dedizione, passione, tenacia e coraggio. Trascorro con lui pochi giorni alla scoperta delle missioni tra i popoli indigeni e dei progetti realizzati.

A bordo del suo camioncino Chevrolet raggiungiamo le missioni di Maturuca e Camarà. Le lunghe ore trascorse insieme mi aiutano a comprendere, attraverso i suoi racconti, le questioni che lo preoccupano maggiormente e che affliggono i territori indigeni minacciati da fazendeiros e garimpeiros (allevatori di bestiame e cercatori d’oro).

Questi ultimi stanno sfruttato da tempo le terre ancestrali occupandole abusivamente e attentando con ogni mezzo alla stessa esistenza delle popolazioni indigene della Raposa Serra do Sol: Macuxi, Wapichana, Taurepang, Ingarikó e Patamona.

Per i popoli indigeni la terra è tutto, è la vita stessa. Soddisfa tutti i loro bisogni materiali e spirituali. Fornisce cibo e riparo ed è il fondamento della loro identità e del loro senso di appartenenza.

Le invasioni e la situazione dei territori indigeni

L’invasione dei territori indigeni si protrae da oltre 500 anni ed è stata da sempre attuata attraverso la violenza sulle popolazioni, la distruzione degli ecosistemi, il furto delle conoscenze e la schiavitù fisica e spirituale. Una guerra che sembra non avere fine.

Il decennio che volge al termine rivela quanto il colonialismo rimanga vivo e operativo. Un’offensiva orchestrata da potenti interessi finanziari, corporazioni neo-estrattive e megaprogetti di sviluppo, continua a minacciare vite, culture e territori.

L’avanzare dei governi di destra e autoritari in Brasile rafforza la strategia di colonizzazione che va contro i diritti delle popolazioni indigene della Raposa Serra do Sol, attraverso meccanismi istituzionali che favoriscono quelli che alcuni definiscono etnocidio ed ecocidio.

Nonostante le violenze subite, le popolazioni indigene resistono e vogliono essere soggetti del proprio destino. La causa indigena appartiene a tutti, indigeni e non. I processi come la perdita di biodiversità e il cambiamento climatico rappresentano, infatti, una minaccia crescente per il mondo intero.

L’intervista

Dopo il nostro primo incontro a Raposa Serra do Sol, ho occasione di incontrare Puat Subyz, questo il nome indigeno di fratel Cico (sarebbe Chico, pronunciato scico in brasiliano, ndr), varie volte. Puat Subyz significa scimmia urlatrice, ma, come precisa lui stesso, l’origine del soprannome deriva dalla barba che all’inizio portava bella folta e fluente.

Mi racconti l’origine della tua vita da missionario in Roraima?

«Tutto è nato quando ho saputo che i missionari in Brasile avevano bisogno di un meccanico riparatore.

Quando sono arrivato a Boa Vista, nel 1976 e, più precisamente, a Calungà, dopo soli tre giorni, un missionario mi ha invitato ad andare con lui in moto in un villaggio indigeno. Un viaggio sotto la pioggia e segnato da numerose cadute nei profondi banchi di sabbia fine. Arrivati nella chiesetta del villaggio, il missionario, in abito talare bianco, durante la sua predica ha puntato il dito verso l’esterno della chiesa dicendo ai fedeli, cinque donne e sei bambini: “Voi non dovete fare questo”. Indicava gli uomini del villaggio che dormivano tra le alte erbacce dove erano caduti durante la sbornia della sera precedente.

Da quel giorno, iniziai a chiedermi come fare per evangelizzare e riparare le persone in panne (e non più solo gli automezzi)».

Quali sono state le tappe della tua lunga esperienza?

«Da quel lontano 1976, ho vissuto 14 anni a Calungà nel Centro Educativo della Consolata, insegnando e lavorando a riparare macchinari e automezzi della diocesi e della popolazione locale. Il fine settimana, partivo alla volta dei villaggi di lingua indigena Wapixana nella regione di Serra da Lua, per il lavoro di evangelizzazione e assistenza religiosa.

Dal 1991 al 1996, sono stato animatore missionario nelle scuole e nelle parrocchie di Erexim, nel Rio Grande do Sul. Ho poi trascorso 18 mesi nella missione di Catrimani nella terra yanomami, un anno alla missione parrocchiale di Alto Alegre, tre anni alla missione della Barata nella regione Taiano, sei anni all’area missionaria di Caranà a Boa Vista, un anno a Maturuca, sei anni nella missione di Camará nella regione Baixo Cotingo. Dal 2016 sono tornato a Maturuca».

Quali le maggiori difficoltà che hai incontrato in questi anni?

«In primo luogo, la malaria. I numerosi incidenti e le cadute con la mia motocicletta, i viaggi lunghi su strade e sentieri sconnessi e disseminati di pietre, crateri, pantani, torrenti da guadare; imboscate da parte di garimpeiros e fazendeiros evitate solo grazie alla protezione degli stessi indigeni; le incomprensioni e, in ultima istanza, i miei limiti personali e la poca preparazione per lavorare con popoli e culture molto differenti da me».

Quali e quante sono le etnie che hai incontrato in questi anni nella Serra do Sol?

«Nella Regione Baixo Cotingo, ho lavorato con i Macuxi e con gli Irian, due etnie con lingua simile che oggi convivono ma che in passato erano sempre in lotta tra loro. In misura minore ho anche interagito con individui di lingua Wapixana. Nella regione Serras invece, ho lavorato solo con Macuxi e poche persone di altre etnie presenti nelle nostre assemblee periodiche. In generale, i Macuxi, costituiscono la maggioranza insieme a minoranze di Ingarikó, Taurepang, Patamona, Maiongong e qualche Wapixana. Gli Irian, nella Regione Baixo Cotingo, sono al secondo posto come numerosità. Da notare che i Wapixana sono del gruppo linguistico Aruak. Tutti gli altri del gruppo linguistico Carib».

Quali sono le tue maggiori preoccupazioni legate ai problemi che da sempre affliggono le terre indigene?

«Al momento nella Regione Serras, ci sono invasioni di turisti con vari tipi di distrazioni. C’è una forte presenza di venditori ambulanti, che offrono mercanzie di ogni sorta, tra cui bevande alcoliche e droga, senza nessun controllo da parte del governo. Al contrario, il paradosso è che gli indigeni non possono portare i loro prodotti in città a causa della “mosca della Carambola” e il controllo del governo da questo punto di vista è molto severo.

Fortissime le incursioni dei politicanti che offrono di tutto, soprattutto la realizzazione di fantomatici progetti che non sono in sintonia con l’ecosistema della regione e la stessa cultura indigena. Molte le promesse mai mantenute, per fortuna degli indigeni, i quali spesso si lasciano ingannare da questi uomini in malafede e senza scrupoli.

Nella Regione Serras c’è poca vegetazione, tipica dei climi semi aridi. Gli indigeni hanno iniziato da qualche tempo a organizzare fiere di sementi e piante con relativo scambio di prodotti del territorio; stanno così crescendo gli scambi e il commercio di beni che generano lentamente un aumento della produzione alimentare locale.

La televisione è purtroppo il mezzo più distruttivo nelle comunità indigene: è comune vedere nelle capanne di legno e foglie, televisori con grandi schermi alimentati da piccoli generatori o dallo stesso generatore del villaggio, quando questo funziona.

Nella terra yanomani, sono presenti oltre ventimila invasori garimpeiros e questo comporta malattie, morte e annientamento sociale e culturale per gli indigeni.

Il furto delle conoscenze e la distruzione dell’ecosistema sono piaghe secolari.

Purtroppo sono pochi gli indigeni che si preoccupano di queste tematiche che affliggono la loro società e il loro ambiente naturale».

Esistono ancora le condizioni per il pieno esercizio del diritto all’autodeterminazione delle popolazioni indigene?

«Ci sono molti indigeni e giovani impegnati che partecipano a incontri su questi temi, ma la lotta è durissima. Sono drammatici gli eventi recenti che vedono precipitare la situazione delle terre indigene e peggiorare le condizioni di vita dei popoli nativi a seguito dell’insediamento del nuovo governo di Jair Bolsonaro. Il nuovo presidente ha promesso, durante la campagna elettorale, di permettere l’estrazione dei minerali nelle riserve degli indigeni. Questo ha incoraggiato i cercatori d’oro a continuare le devastazioni per l’estrazione del prezioso metallo violando deliberatamente la legge e inquinando i fiumi.

Dal punto di vista dei diritti umani la situazione peggiora di giorno in giorno. Gli indigeni denunciano gli invasori finanziati dall’agrobusiness di violenza, terrorismo e guerriglia allo scopo di raggirare la legge, calpestando quanto affermato nella stessa Costituzione».

Credi sia possibile arrivare a una fine della violenza, della criminalizzazione e della discriminazione nei confronti delle popolazioni indigene e dei loro territori, garantendo la punizione dei responsabili?

«È il grande sogno indigeno ma anche di moltissimi brasiliani. Purtroppo, la realtà delle cose in Brasile peggiora di giorno in giorno. Impunità totale dei colpevoli ricchi e potenti, punizioni severe per gli indigeni e la povera gente».

Dan Romeo




Missione è Gioia

Testimonianze di missionari e missionarie della Consolata

A cura di Gigi Anataloni – foto Archivio fotografico MC


Nel mese missionario straordinario.
La gioia della Missione

Stefania Raspo: Bolivia – Per sempre con la mia gente.
Accanto ai «rifugiati climatici».

Nicholas Muthoka: Italia – missione in barriera a Torino.
Camminare in mezzo alle «due città».

Mary Agnes Njeri Mwangi: dal Kenya a Roraima.
Respiri di cuore missionario.

Giorgio Marengo: Mongolia – sotto i cieli infiniti
Sussurrare il Vangelo.

José Luis Ponce de Leon: Eswatini – Missionario e vescovo.
Arrivare senza farsi annunciare.

Ramón Lázaro Esnaola: Costa d’Avorio – missionario oggi è
Essere itinerante per il Vangelo.

Rinaldo Do: Dalla Valle Camonica al cuore della RD Congo.
A servizio della pace in realtà di guerra.

Angelo Casadei: Caquetà – nel posto più bello del mondo.
La missione ti cambia e ti fa camminare.

Sandra Garay: dall’Argentina alla Mongolia
Dio è al cuore della missione.

Hanno firmato questo Dossier

 

La semplice gioia dei cristiani di Luacano, in Angola, che vedono il ritorno dei missionari dopo troppi anni di guerra e abbandono.

Nel mese missionario straordinario

La gioia della Missione

«La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù» (EG).

Nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium del 2013 (EG), la scelta di papa Bergoglio appare chiarissima: l’insistenza sulla gioia. Il termine ricorre 59 volte, ha il carattere del «lieto annuncio» che dà vita alla Chiesa, e costituisce il contenuto di ogni azione evangelizzatrice (vecchia o nuova). Intende cioè riconnettere la Chiesa con l’esperienza fondamentale da cui ha origine, quella della Pasqua.

Difficile immaginare una comunità in uno smarrimento più profondo di quella dei discepoli due giorni dopo la morte di Gesù in croce. Impossibile immaginare una gioia più grande di quella provata scoprendolo risorto. Una gioia che fa persino paura, ma che mette le ali ai piedi perché venga annunciata. Se non si riprende oggi contatto con questa esperienza sorgiva e non se ne apre l’accesso a coloro ai quali ci si rivolge, qualunque iniziativa di evangelizzazione rimarrà nell’ambito delle tecniche di comunicazione pastorale, senza incidere davvero nella vita delle persone. Per questo la scelta della gioia come filo conduttore è pertinente al tema del Sinodo per l’Amazzonia.

Certo, la Chiesa tutta intera si fonda sull’esperienza pasquale, ma un conto è saperlo, un conto è metterlo in pratica. È quindi particolarmente efficace il suggerimento di Francesco che indica la gioia del Vangelo come criterio di verifica di quanto si vive. Questo vale a livello individuale, ma anche per la Chiesa nel suo insieme: il papa ce lo ricorda, con espressioni tanto sorprendenti quanto inusuali, nei paragrafi di EG dedicati a «Il piacere spirituale di essere popolo» (nn. 268-274).

Bisogna chiarire subito, a scanso di facili equivoci, lo spessore della gioia di cui egli parla: non un sentimento superficiale ed effimero di euforia o piacevolezza, è piuttosto l’atteggiamento di chi sa che la sofferenza e la morte esistono, ma li ha attraversati sperimentando che la vita è più forte. Il papa fa alcuni esempi presi dalla sua esperienza: «Posso dire che le gioie più belle e spontanee che ho visto nel corso della mia vita sono quelle di persone molto povere che hanno poco a cui aggrapparsi. Ricordo anche la gioia genuina di coloro che, anche in mezzo a grandi impegni professionali, hanno saputo conservare un cuore credente, generoso e semplice». Qui ognuno è invitato a introdurre le proprie esperienze personali: stupisce sempre vedere persone che nelle situazioni più difficili e impensabili riescono ad accogliere, affrontare e vivere in profondità quello che sono.

Il contrario di questa gioia non è il dolore, ma «una cronica scontentezza», «un’accidia che inaridisce l’anima», un «cuore stanco di lottare» che «non ha più grinta» (n. 277 passim). Questa tristezza avvelena la vita di molte persone e soprattutto è agli antipodi di quello che Dio desidera per ogni uomo. Aver gustato la vera gioia, che è il contenuto più profondo dell’esperienza di fede, permette di smascherare l’insoddisfazione profonda di ogni chiusura in se stessi, per quanto sembri a prima vista confortevole.

Da questo punto di vista, il messaggio dell’esortazione riposa su una verità fondamentale della fede cristiana, spesso ripetuta, ma ancor più spesso incompresa o presa poco sul serio, quando non addirittura temuta per il suo carattere insopprimibilmente rivoluzionario: Dio vuole la gioia e la felicità dell’uomo, e la vuole per tutti. Non c’è motivo per cui qualcuno possa pensare che questo invito non è per lui, perché «nessuno è escluso dalla gioia portata dal Signore» (n. 3). Ciò richiede effettivamente un atto di fede che sfida tante consuetudini e convinzioni profonde, per lo più implicite, in particolare nel nostro disincantato mondo postmoderno.

Ma senza questa fede, qualunque annuncio evangelizzatore suonerà falso e mancherà di attrattiva. Per questo Francesco non teme di ricordare che proprio coloro che hanno la missione di evangelizzare sono i primi a rischiare di non vivere l’Evangelii gaudium. Il capitolo sulle «Tentazioni degli operatori pastorali» (nn. 76-109) è molto concreto nel dare indicazioni in questa direzione, sempre nel registro del sostegno e dell’accompagnamento spirituale.

Stefano Camerlengo,
superiore generale dei missionari della Consolata

Condividiamo in queste pagine la gioia della missione attraverso alcune testimonianze di missionari e missionarie che abbiamo un po’ obbligato a uscire dal loro riserbo.
Il missionario non è un supereroe, ma una persona normale che per amore «si mette in movimento, è spinto fuori da se stesso, è attratto e attrae, si dona all’altro e tesse relazioni che generano vita».
(dal messaggio di papa Francesco per la GMM 2019)


Stefania Raspo: Bolivia – Per sempre con la mia gente

Accanto ai «rifugiati climatici»

Suor Stefania Raspo, piemontese, classe 1977. È entrata tra le missionarie della Consolata nel 2001. Ha fatto la sua prima professione nel 2008. Dopo gli studi teologici a Roma, è stata destinata alla missione della Bolivia, dove vive dal 2013 con il popolo quechua.

Basilio è un personaggio un po’ speciale in Vilacaya. Quando ci trova per strada esprime sempre tutta la stima che nutre per le hermanitas (sorelline). Ma è interessante come questo uomo semplice ha interpretato la mia professione perpetua, che si è tenuta nel paesino andino il giorno della Consolata del 2016.

«Tu, hermanita Stefania», mi dice spesso, «hai voluto essere hermanita per sempre in Vilacaya». Se da una parte mi fa sorridere che Basilio abbia unito l’aggettivo «perpetua» con la mia presenza in Vilacaya, dall’altra è il più bell’augurio che mi si possa fare: poter vivere tutta la mia vita missionaria con la mia gente contadina di lingua quechua.

Sì, perché nella vocazione missionaria si mette l’accento sull’andare, ma il restare è una parte fondamentale. È vero che ho viaggiato molto e ho vissuto in vari paesi (dapprima il Brasile per il noviziato, quindi l’Argentina e poi la Bolivia). È vero che c’è tutto lo sforzo del mettere radici in una realtà, entrare in una nuova cultura e società, così come c’è l’altra faccia della moneta: il dolore dello sradicarsi per andare altrove. Il restare è la cosa più bella ed arricchente. E non è scontato. Alle volte, in quanto missionari e missionarie, non disdegniamo un certo nomadismo che non ci lascia affondare le radici in un luogo, qualunque esso sia.

Sono ormai 7 anni che vivo in Vilacaya (Bolivia), un piccolo villaggio contadino che ha mantenuto molte tradizioni millenarie del popolo andino. La gente parla quechua ed io, purtroppo, non lo domino ancora, anche se lo capisco abbastanza. Ci hanno accolte a braccia aperte, quando abbiamo aperto la comunità nel 2013, e continuano ad accoglierci e a volerci bene.

Il popolo nativo quechua di Vilacaya mi ha permesso di recuperare valori che un po’ avevo messo da parte: l’accoglienza e il saper condividere (se arriva un ospite inatteso, c’è sempre un piatto di cibo per lui), il saper chiedere permesso, perdono e il dire grazie alla Madre Terra, con cui si vive una relazione vitale. Una spiritualità semplice però profondissima. Il sapermi «sprogrammare» e accogliere il giorno così come viene, senza chiudermi in orari e tabelle di marcia.

La gente di Vilacaya (e in generale della regione di Potosì) è una vittima del cambio climatico: la desertificazione avanza, l’imprevedibilità del clima rende quasi impossibile l’agricoltura. La conseguenza è la migrazione e lo spopolamento. Ormai ci sono poche famiglie giovani, la maggior parte sono anziani o ragazzi fino ai 18 anni. Questi, finite le superiori, si mettono in marcia anche loro per cercare un’altra possibilità di vita nelle città, o all’estero. Ci ritroviamo accanto ai poveri, ai «rifugiati climatici» come dice la Laudato Si’. Quelli che pagano più degli altri le follie di un clima impazzito, alla mercé delle grandinate devastatrici, delle gelate fuori stagione, che ormai da 4 anni non danno un raccolto soddisfacente. I peccati contro la natura hanno ripercussioni forti sui poveri.

Ma se c’è una cosa che ho sperimentato in Vilacaya, è dove sta Dio: al fianco del povero. L’ho visto, l’ho sentito: lui è lì, perché i poveri sono i suoi preferiti. Allora lo stare qui è anche una profonda esperienza di Dio.

Rimane l’impegno di saperlo annunciare, con la vita e con le parole. Un Dio Amore, che non è responsabile delle pazzie del clima, come forse la visione indigena tende a credere. Un Dio che piange per i colpi inferti alla Pachamama (la Madre Terra) e si china a consolare i suoi figli. Anche attraverso di me.

Suor Stefania Raspo, mc


Nicholas Muthoka: Italia – missione in barriera a Torino

Padre Nicholas Muthoka alla Professione perpetua di Fumo Célio Joao.

Camminare in mezzo alle «due città»

Padre Nicholas Muthoka Nyamasyo, nato in Kenya nel 1981, ordinato sacerdote nel 2011, è stato responsabile del Centro di animazione missionaria in Torino e dal 2013 è nella parrocchia Maria Speranza Nostra in Barriera di Milano, quartiere multietnico di Torino, dove ora è parroco.

Al calar del sole, le strade di «barriera», quartiere Nord di Torino, si riempiono di giovani e giovani adulti in cerca di svago e anche di un po’ di soldi: chi beve sulla strada, chi chiacchiera, chi spaccia, chi si prostituisce. È un mix di gente «di ogni tribù, lingua, popolo e nazione», stavolta non radunati sul monte Sion per il banchetto di «grasse vivande, cibi succulenti e di vini raffinati» (Isaia 25,6), ma per sopravvivere. Ognuno risponde alle domande della vita a modo suo. Spesso sono storie di vita e situazioni molto difficili e depravate, tra droga, microcriminalità e miseria. E il missionario cammina in mezzo a loro salutando e facendo due chiacchiere. Anche lì c’è bisogno di salvezza, della parola buona e salvatrice di Gesù. In fondo «quei ragazzi all’angolo della strada» hanno la stessa umanità, le stesse domande, gli stessi sogni di tutti.

La percentuale dei migranti residenti nel quartiere tocca il 35%, tra disagio, povertà e disoccupazione. Tra di essi, c’è un alto numero di non cristiani: gente di altra fede, quelli che si sono allontanati dalla fede, gli agnostici e gli atei.

C’è un’altra umanità però, quella che cammina sulle strade di barriera durante il giorno. Per andare a scuola, al lavoro, al bar, a far la spesa, a messa, ecc. Un’umanità, anche questa, angosciata, affannata e distratta per le faccende della vita. Anche qui, c’è un po’ di tutto: precarietà lavorativa, solitudini, soprattutto quelle dei giovani e degli anziani, rapporti difficili nelle famiglie tra divorzi, separazioni e violenza… insomma, «due città», come le chiama l’arcivescovo di Torino Cesare Nosiglia, ambedue bisognose di salvezza.

In mezzo a tutta questa umanità, c’è lo svettante campanile di rame che troneggia: ogni ora batte come per ricordare di guardare in alto. È la chiesa, la parrocchia, con tante attività e proposte, rivolte a tutti indistintamente. Un cortile d’oratorio di medie dimensioni che spesso si presenta colorato di bambini, ragazzi, adulti e anziani, e anche questa volta «di ogni lingua, tribù, popolo e nazione». Un’altra città in mezzo alle altre due? Una mediazione tra le due?

Cosa significa la missione in quest’angolo della città di Torino, dove in 2 km2 vivono/convivono quasi 19mila abitanti?

Quasi il 30% della gente è coinvolta, in un modo o nell’altro nella vita della parrocchia, tra catechesi, carità, liturgia, giovani, il sociale.

Cos’è la missione per me in questo contesto dinamico, bello e complesso? Me lo chiedo spesso.

È camminare in mezzo agli uomini e alle donne, raccogliere le lacrime di gioia e di dolore, e depositarle sull’altare di Cristo. È ascoltare le intime speranze dei giovani e la realtà spesso dura degli adulti e cercare di illuminarle con la Parola di Cristo. È accompagnare le ginocchia vacillanti degli anziani, cercando di individuare insieme a loro il senso delle fatiche dei loro giorni e rallegrare la loro solitudine.

La missione è aprire la porta a chi bussa in cerca di un «porto sicuro»: il viandante senza casa, il povero senza riscaldamento nei duri inverni, il disperato in cerca di una buona parola.

La missione è anche la fatica di tenere insieme un tessuto sociale che rischia di strapparsi, cercando di creare un clima umano in un contesto difficile di contrapposizioni e pregiudizi tra etnie e individui attraverso iniziative che facciano risplendere la bellezza di ogni persona e di ogni popolo.

Tutto questo è annuncio della potenza della grazia di Cristo e della sua opera redentrice. Far apprezzare ai non cristiani e ai «lontani» l’amore di Cristo e la bellezza della sua famiglia, la Chiesa. Naturalmente, sostenere il cammino dei fedeli cattolici nella ricerca del volto di Dio attraverso i sacramenti, le celebrazioni liturgiche e l’ascolto della Parola, fa parte dell’impegno di ogni buon parroco e viceparroco. Infatti, è propedeutico alla missione la formazione e accompagnamento di una comunità cristiana bella e forte, un laicato che assuma anch’esso la missione dell’annuncio, per far brillare il volto bello di Cristo in mezzo agli uomini e alle donne di questo pezzettino di mondo.

Padre Nicholas Muthoka


Mary Agnes Njeri Mwangi: dal Kenya a Roraima

Respiri di cuore missionario

Suor Mary Agnes Njeri Mwangi, è missionaria della Consolata nata in Kenya. È in Roraima dal 2000, da allora presta il suo servizio nella missione del Catrimani. Vedi l’intervista «Attorno al fuoco nella casa comune» in MC 3/2019.

Arrivai a Boa Vista, in Roraima, all’estremo Nord del Brasile, nell’anno 2000, anno del giubileo. Mi sentivo una missionaria del terzo millennio, disposta a tutto per esserela ad gentes (tra le genti) e tra la gente.
Finalmente tutto quello che sognavo quando in Kenya mi ero sentita chiamata a essere missionaria della Consolata, diventava vero.
Essere missionaria nel contesto della chiesa locale di Roraima, era una grande sfida.

La lotta per i diritti e la vita dei popoli indigeni, per l’omologazione della terra indigena della Raposa Serra do Sol (ottenuta finalmente nel 2005), e l’impegno per migliorare i servizi per la salute («perché abbiano la vita, e la vita in abbondanza») specialmente per gli Yanomami, richiedevano tanto lavoro, tenacia e creatività da parte delle suore, per lanciarsi verso orizzonti di missione più ampi. E per me, le sfide che vivevo si trasformavano in domande, tante domande, aggiunte a quella più significativa che il nostro padre fondatore ci esortava a farci sempre: «Ad quid venisti?» (per quale motivo sei venuta qui?).

Con gratitudine ricordo suor Aquilina Fumagalli, arrivata a Boa Vista nel 1950, e suor Leonilde Dal Pos, nel 1953. Le due sorelle, nel tentativo di rispondere alle mie domande, mi hanno trasmesso il respiro del loro cuore missionario maturato insieme al popolo amazzonico. Le loro condivisioni animavano e sviluppavano in me la speranza.

Così, quando, appena arrivata, condividevo con loro qualche problema di relazione con la gente, suor Aquilina mi rispondeva sorridendo che non c’era niente di nuovo. Anche lei e le altre suore, all’inizio, dopo che erano appena andati via sia i benedettini che le benedettine, avevano sperimentato accoglienza e rifiuto. «L’unico mezzo che avevamo a disposizione (per vincere i cuori) era la carità».

E suor Leonilde, una suora di età avanzata e fragile, ma molto serena e gioiosa, mi spiegava come era riuscita a incarnarsi in questa realtà così difficile e complessa. Ricordava che i primi tempi aveva sofferto molto, soprattutto a causa della scarsità e della qualità del cibo, ma «davanti alle difficoltà non ho mai pensato di ritornare in Italia, perché il mio obiettivo era morire in terra di missione. Ho preferito rimanere qui, visto che c’erano tutte le opportunità per formarmi alla santità, che è lo scopo finale della vita di ogni missionaria della Consolata».

Grazie a loro mi sono inserita nella realtà dei popoli dell’Amazzonia brasiliana. Certo che quando le cose vanno bene e si vivono momenti di allegria e di consolazione è più facile essere una missionaria che annuncia la gloria di Dio incarnata, ma è il modo nel quale si vivono i momenti di scoraggiamento, dolore e fatica, che è determinante nella vita e nella missione.

Suor Leonilde mi insegnava a cercare parole di forza e ripeteva molte frasi significative. «Dio non si ripete mai nelle sue opere. Si comunica per mezzo di persone, e ogni persona ha qualcosa da seminare. Dobbiamo essere vigilanti per cogliere la grazia di Dio. Essere umili. Al tempo opportuno Dio si rivela. Per chi non sta attento invece il tempo fugge».

I 19 anni che ho trascorso finora in Amazzonia, sono di vita donata. Condividendo, ho imparato – e lo credo fortemente – che il cammino più lungo comincia sempre con un primo passo, e alle volte il primo passo è fare una domanda.

Suor Mary Agnes


Giorgio Marengo: Mongolia – sotto i cieli infiniti

Sussurrare il Vangelo

Padre Giorgio Marengo. Nato a Cuneo nel 1974, dopo il liceo classico a Torino è entrato nei missionari della Consolata. A Roma per la formazione teologica, è stato ordinato sacerdote nel 2001. Assegnato al primo gruppo diretto in Mongolia, nel 2003 ha raggiunto la sua destinazione insieme a un confratello e a tre consorelle.

Dal 2006 vive in una zona rurale a 430 km dalla capitale (Ulaanbaatar), dove in questi anni è nata una piccola comunità cristiana di cui è parroco, condividendone la responsabilità con gli altri missionari e missionarie con i quali vive. Nel 2016 ha conseguito il dottorato in missiologia alla Pontificia università urbaniana con una ricerca sull’evangelizzazione in Mongolia. Segue i primi passi di un piccolo centro per il dialogo interreligioso e la ricerca culturale che i missionari e le missionarie della Consolata hanno avviato a Kharkhorin, l’antica capitale dell’impero mongolo.

Per me essere missionario è aiutare le persone a incontrare Cristo, in particolare quelle persone che vivono in situazioni nelle quali tale incontro è obiettivamente difficile, a motivo dell’assenza della Chiesa o di una sua presenza limitata e parziale. Questo è ciò che la Chiesa chiama missione ad gentes ed è la nostra vocazione di missionari della Consolata, quella di offrire la vita a Cristo per la prima evangelizzazione laddove non ci sono altri cristiani a poterlo fare.

La Mongolia è una delle situazioni esistenziali dove – per vari motivi storico culturali – Cristo è ancora poco conosciuto. Essere al servizio di questo incontro è per me il dono più grande e ringrazio tanto il Signore di poter vivere in prima persona questa vocazione. Certamente questo è un mistero che ci supera e ci avvolge, ma è anche molto concreto, perché se Dio per raggiungerci ha scelto di farsi uomo, l’incontro con lui passa ancor oggi attraverso la nostra umanità. Questo secondo me è il cuore della missione. Tutto il resto è subordinato e finalizzato a questo cuore. Anche la promozione umana, che da sempre accompagna l’azione evangelizzatrice della Chiesa, si comprende alla luce di questo amore più grande e di questo desiderio che le persone incontrino concretamente la misericordia di Dio in Cristo.

Il nostro specifico, come missionari, è proprio offrire la possibilità di instaurare un rapporto personale ed ecclesiale con il Risorto. Non in forza di una qualche strategia di espansione o attraverso un’azione di convincimento simil-pubblicitario, ma come puro dono, in continuità con quanto i cristiani hanno sempre fatto: «Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo dò», diceva san Pietro (Cfr. At 3,6). E quel dono da lui offerto era precisamente il nome di Gesù Cristo, cioè la fede in Lui.

Questa è la nostra chiamata. Mi pare evidente che noi missionari dovremmo essere trasfigurati in prima persona dall’incontro con Cristo: non si può favorire l’incontro con una persona che noi stessi non frequentiamo. La fede non si comunica come un oggetto qualunque, si può solo contribuire a generarla, mettendo in conto anche il rifiuto. Per questo la missione non è la diffusione di un’idea, ma ha a che fare con la gestazione di una vita. Essa richiede una profonda conversione innanzitutto in noi missionari. Se il Vangelo non ci attraversa profondamente è difficile che riusciamo a condividerlo. Essere missionari è innanzitutto lasciarsi raggiungere personalmente dal Vangelo stesso, facendoci plasmare da esso; allora sì, questa luce si effonderà intorno a noi. E lo farà attraverso quella moltitudine di coinvolgimenti che da sempre caratterizza la vita del missionario: la carità, il dialogo interreligioso, la ricerca culturale, lo studio, l’accompagnamento nel cammino di fede. Proprio come succede qui in Mongolia, dove tentiamo di «sussurrare il Vangelo al cuore dell’Asia».

Padre Giorgio Marengo


José Luis Ponce de Leon: Eswatini – Missionario e vescovo

Arrivare senza farsi annunciare

Mons. José Luis Gerardo Ponce de León. È nato in Argentina, a Buenos Aires, nel 1961, dove ha conosciuto i missionari della Consolata. Dopo la formazione di base nel suo paese e in Colombia, è stato ordinato sacerdote nel 1986. Tornato in Argentina per alcuni anni di animazione missionaria, nel 1994 è stato mandato in Sud Africa, dove, nel 2009, è diventato vescovo di Ingwuavuma (ai confini con il Mozambico) e poi vescovo di Manzini in quello che un tempo era lo Swaziland e oggi è lo Eswatini.

Vescovo da 10 anni. In due nazioni diverse: Sud Africa prima e, da cinque anni, nel Regno di Eswatini, ex Swaziland. In tutti e due i posti sono partito allo stesso modo. Non conoscevo la zona che mi era stata affidata e così ho deciso di visitare ogni singola comunità, piccola (piccolissima) o grande. Qui, in Eswatini, ce ne sono 120. Arrivavo senza farmi annunciare. Non volevo che la gente fosse lì «per il vescovo» ma per il giorno del Signore (la domenica).

Non è stato semplice che loro accettassero questo «mio» modo di farmi presente, perché avrebbero voluto potermi accogliere diversamente, ma… non hanno avuto scelta. L’impatto è stato forte perché in diversi posti era la prima volta che vedevano il vescovo fra di loro. «Oggi noi siamo la cattedrale», dicevano con un grande sorriso.

C’è stato qualche posto dove sono stati contenti di vedere un volto nuovo ma non avevano idea che fosse proprio il loro vescovo a essere fra di loro.

La missione è sempre un andare all’incontro dell’altro e, in modo particolare, all’incontro di colui/colei che non si sente degno di tale visita. Infatti, il mio motto episcopale (diventato «saluto» nella diocesi) è: «La Parola si è fatta carne» (Gv 1:14), espressione di quel Dio venuto al nostro incontro nella nostra fragilità.

Di questo incontro nella fragilità la diocesi è testimone con delle iniziative che sono uniche in questa nazione.

Eswatini è la nazione con la percentuale più alta al mondo di malati di Aids. Da quasi 20 anni, la diocesi porta avanti una casa di cura per adulti e bambini. Nata nei tempi nei quali l’Aids era una sentenza di morte, ha accompagnato tanti all’incontro con il Padre. Oggi, invece, è il posto dove ritrovano la loro dignità per poter tornare a casa. La sfida è farli tornare in case nelle quali non si sono mai trovati bene come da noi. La cura dei disabili (bambini, giovani e adulti) è un’altra espressione di questo amore che innalza. Qualche settimana fa è stato consegnato un riconoscimento a un missionario Servo di Maria che 50 anni fa aveva introdotto il braille per l’educazione di coloro che hanno difficoltà con la vista (visullay challenged). Lui, morto qualche anno fa, mi diceva sempre: «Sono riuscito a fare tanto per i disabili ma non sono riuscito a cambiare il modo nel quale le loro famiglie e la società li guarda». Per questo i nostri centri sono diventati espressione dell’amore del Padre.

Ma anche la realtà dei rifugiati è una chiamata a guardare al di là del nostro piccolo mondo nel quale abbiamo la tentazione di rimanere chiusi. Da tanti anni la Caritas Swaziland guida, come soggetto che attualizza gli accordi tra il governo e l’agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr), il centro di rifugiati nato al tempo della guerra civile in Mozambico. Oggi sono famiglie (marito, moglie e diversi figli) che arrivano dalla regione dei grandi laghi (Rwanda, Burundi, Congo). Attraversano tutto il continente con il sogno di un futuro diverso. In risposta all’appello di papa Francesco, e per iniziativa dei laici della diocesi, tutte le parrocchie convergono una volta all’anno nella cattedrale per la celebrazione della messa e per portare i loro doni.

La missione è tutto questo… cultura dell’incontro, aprire gli occhi, imparare a vedere, amore gratuito e sempre la buona notizia di Gesù che ci dà vita in abbondanza.

Luis Ponce de Léon, vescovo


Ramón Lázaro Esnaola: Costa d’Avorio – missionario oggi è

Essere itinerante per il Vangelo

Padre Ramón Lázaro Esnaola. Nato nel 1967 in Spagna, nel 1997 è stato ordinato prete a Zaragoza. Nei primi tre anni di ministero è stato destinato in Spagna all’animazione missionaria e vocazionale, alla formazione di base e alla pastorale con le persone migranti. Nel 2001 ha cominciato la sua Odissea nello spazio – come la chiama lui – ed è arrivato in Costa d’Avorio. Dal 2008 al 2012 è stato incaricato della formazione di base nella RD Congo. Poi è tornato in Costa d’Avorio fino a oggi. Quando leggerete queste righe avrà appena cominciato una nuova tappa di vita in Messico (vedi lettera).

Il missionario d’oggi ha una forte esperienza personale di Dio. Conosce Dio ed è conosciuto da Lui. Ha un rapporto quotidiano con Lui secondo il momento che sta vivendo. A volte questa relazione sarà più profonda, a volte più superficiale, a volte più biblica, a volte secondo il vissuto. La cosa più importante è la perseveranza in questa relazione. Non abbandonare Dio ma abbandonarsi a Lui per vivere la vera gioia. Sono convinto che questa relazione ha mantenuto la mia passione per la missione ad gentes, per la costruzione della fraternità, la mia passione per i poveri e la mia voglia d’ascoltare le persone ed essere vicino a loro.

Il missionario d’oggi ama il popolo al quale è inviato. S’informa, studia la storia, ascolta la musica, guarda il cinema. In definitiva, cerca d’impregnarsi della cultura che l’accoglie. Tutta questa scoperta oggi è molto più facile grazie a internet perché tutto è alla portata d’un click. L’amore nasce dalla conoscenza, dal capire, dal comprendere. L’amore è anche critico e scopre le rotture che provoca il Vangelo. Il missionario oggi cerca di cogliere il momento culturale che vive il paese dal quale è accolto per riuscire davvero a diventare parte di quel mondo senza essere perpetuo forestiero.

Il missionario d’oggi è un esperto comunicatore e accompagnatore. Deve imparare a comunicare la Parola di Dio non solo nelle omelie ma anche attraverso le relazioni sociali e i media. Deve avere la pedagogia per comunicare la Buona Novella, non la Buona Vecchiaia. È una persona creativa.

Le persone che hanno sete di Dio, hanno anche sete di una parola che sia davvero come quella di Gesù. Una parola che dà speranza, che apre orizzonti, che propone, che invita, che accompagna. Accanto a questo, il missionario d’oggi è un buon accompagnatore nella vita. È una persona facile all’empatia, accetta senza condizioni l’altro ed è una persona autentica, cerca di vivere onestamente la propria vocazione.

Il missionario d’oggi è un artista della fraternità. Un artigiano della comunione. Un appassionato della vita comunitaria e delle relazioni interpersonali. La comunità è il microcosmo del Regno di Dio. Un’utopia. Un luogo liberato dove il perdono, la festa, la gioia e il discernimento sono costanti.

Abbiamo bisogno di referenti e di una comunità unita nella diversità: è un segno contro culturale nel nostro mondo che tende verso l’uniformità.

Il missionario d’oggi agisce con fermezza. Appassionato della riconciliazione, della pace, della giustizia, dell’ecologia e della diversità, cerca di costruire un mondo degno per i più poveri e un mondo migliore per tutti. Quello che si chiamava «la pastorale» non è più un tempo dedicato agli altri, perché, come dice papa Francesco, «siamo missione, non facciamo la missione».

Padre Ramón Lázaro Esnaola


Rinaldo Do: Dalla Valle Camonica al cuore della RD Congo

A servizio della pace in realtà di guerra

Padre Rinaldo Do. Nato a Darfo (Bs) nel 1956, dopo il seminario minore ecco le sue tappe principali: 1975-78 filosofia prima a Torino e poi a Sassuolo (Re), lavorando anche quattro ore al giorno in una fabbrica di piastrelle; 1978-79 noviziato in Certosa Pesio (Cn); 1979-80 anno di servizio nel seminario di Rovereto (Tn); 1980-82 teologia a Madrid (Spagna) e 1982-84 licenza in Missionologia. Ordinato nel 1984 a Boario, è stato animatore in Spagna fino al 1990 e dal 1991 al 2005 è stato missionario nell’Alto Zaire (RD Congo). Nel 2006-08 è rientrato in Italia per l’animazione missionaria e poi è tornato in RD Congo, prima a Kinshasa e dal 2014 a Neisu.

«No, Rinaldo no! È troppo birichino!». Queste le parole del mio parroco, don Ilario, a p. Antonio Lasaponara quando lo saluto e gli dico che voglio essere missionario, entrando nel seminario di Bevera (Lecco, allora Como).
Eravamo nel 1965 quando i missionari passavano facilmente nelle scuole della Valle Camonica per animare ragazzi e giovani alla missione.

Fin da piccolo mi piaceva ascoltare suore e preti missionari che ci entusiasmavano ad avere un cuore grande e generoso.

Sono cresciuto in una famiglia normale e operaia, un po’ troppo birbantello (aveva ragione don Ilario) ma, penso, con cuore buono.

Diventato prete nel 1984, non per le mie capacità, ma per bontà di Dio, ho vissuto 6 anni a Malaga e poi dal 1991 in Congo.

Gli anni in Congo sono stati belli anche se preoccupanti; difficili, ma ricchi di amore, di fede, di preghiera e di tanti esempi ricevuti dalla mia gente.

Dalle periferie immense di Kinshasa alla savana di Doruma e alle foreste di Neisu, gli anni sono passati velocemente e mi hanno fatto maturare.

Essere missionario oggi in Congo non è facile. Voglio continuare a essere segno di consolazione infondendo coraggio, togliendo paure, evidenziando nel discernimento i valori della cultura ngbetu (del popolo Mangbetu), annunciando così che Dio che abbiamo conosciuto in Gesù ha un progetto di amore e di fraternità per tutta l’umanità.

Purtroppo, siamo ancora lontani da questo progetto di amore, sono troppe le guerre, lo sfruttamento, le ingiustizie, le divisioni tra i popoli e le culture… per questo vale la pena di donare la vita per essere missionario.

Viva la Consolata, viva il Congo, viva tanta gente dal cuore buono che, con me e con tanti altri missionari, è missionaria!

Padre Rinaldo Do


Angelo Casadei: Caquetà – nel posto più bello del mondo

La missione ti cambia e ti fa camminare

Padre Angelo Casadei. È di Gambettola (Fc), classe 1963. La sua famiglia da sempre profondamente cristiana ha trasmesso ai figli i valori della solidarietà verso i poveri vicini e lontani. Sono quattro fratelli. Il maggiore è Tarcisio, con il quale ha conosciuto, quando aveva 11 anni, i missionari della Consolata che hanno una casa nel suo paese. Tarcisio in seguito si è sposato e ha una bella famiglia con quattro figli e una brava moglie. C’è poi suo fratello minore, Gabriele, anche lui missionario della Consolata ora in Mozambico, e Giovanna che con molto amore accudisce i loro anziani genitori.

Quando facevo la 5ª elementare, un missionario che operava nella selva amazzonica ci ha raccontato episodi della sua vita in quei luoghi, ne sono rimasto affascinato e immaginavo che la missione fosse una grande avventura.

Sono entrato quindi nel seminario minore di Gambettola dove, sperimentando la vita comunitaria e leggendo la Parola di Dio, ho scoperto come la missione sia l’annuncio di Gesù Cristo.

Proseguendo, per terminare gli studi di teologia sono stato inviato in Colombia e ho scoperto che la missione non è solo «un dare» ma anche cercare di scoprire i valori evangelici presenti nelle culture dei popoli dove Cristo è arrivato prima di noi.

In America Latina ho capito che la missione non è solo dei consacrati, ma di tutta la Chiesa, di ogni battezzato. Ho imparato a lavorare con i laici missionari, che hanno collaborato in tutti gli impegni di servizio che l’Istituto mi proponeva. Credo nella comunione e partecipazione dei laici nella missione della Chiesa.

Oggi la missione la vivo nel posto più bello del mondo: nella selva amazzonica colombiana, un tempo considerata «la periferia del mondo», oggi «piazza centrale». Molti occhi sono puntati su questo giardino stupendo: chi per proteggerlo, chi per sfruttarne l’abbondante acqua e le immense ricchezze del suolo e sottosuolo.

Noi missionari della Consolata siamo arrivati nella selva amazzonica colombiana nel 1951 accompagnando la colonizzazione e le comunità indigene sfruttate e spesso maltrattate, mentre oggi la nostra presenza consiste nell’ascoltare il grido di una selva in agonia, imparare dagli stessi popoli originari che per millenni hanno saputo convivere in un perfetto equilibrio con la creazione, chiedendo «permesso» alla Madre Terra quando per alimentarsi, vestirsi, costruire la maloca (la casa comunitaria) la «feriscono».

La missione è come un corpo vivo in continua evoluzione, che ti pone delle domande, ti cambia e ti fa camminare.

Spetta a ciascuno di noi lasciarsi guidare. La strada è lunga, a volte faticosa, sembra di non vedere l’orizzonte ma fino adesso ne è valsa la pena.

Chiedo al Signore che mi doni la salute e la forza di continuare. Nel mio cuore sono contento. Dopo 45 anni da quando ho conosciuto il primo missionario della Consolata che veniva dall’Amazzonia brasiliana, oggi mi trovo nell’Amazzonia colombiana.

A volte ho paura di essere svegliato da questo bellissimo sogno: la missione in mezzo a persone semplici, con le loro difficoltà, però con tanti valori evangelici che mi animano nel continuare in questo cammino missionario, che non è mio ma è la strada (qui dove le strade sono rare) che ho ricevuto dal Signore fin dal seno di mia madre.

Grazie Dio Padre per questa grande vocazione che è la stessa che hai dato a tuo Figlio Gesù: annunciare al mondo il tuo Regno di giustizia, pace, solidarietà e rispetto della creazione.

Padre Angelo Casadei


Sandra Garay: dall’Argentina alla Mongolia

Dio è al cuore della missione

Suor Sandra Garay, nata a Mendoza in Argentina. Dopo la sua formazione religiosa in Italia per diventare missionaria della Consolata, ha studiato negli Stati Uniti e poi lavorato con i migranti ispanici nel Michigan. Nel 2004 è partita per la Mongolia. Attualmente lavora nella nuova missione di Chingiltei alla periferia della capitale Ulaanbaatar.

Definitivamente posso dire che missione è condividere la vita con fratelli e sorelle del mondo. Dio mi ha regalato pure la possibilità di vivere in posti e culture affascinanti in America, Europa e Asia. Come non sentirmi benedetta da così grandi doni? Mi sono arricchita tanto e porto nel cuore i volti di tanti amici e gli spazi di tante terre. Ma tutta questa bellezza è solo la copertina di un cammino segnato da ricerche a volte tanto lunghe, da incontri non sempre lunghi abbastanza, da desideri parzialmente soddisfatti.

La bellezza, scoperta a volte così facilmente in persone e luoghi, non si sostituisce mai a quella ricerca, a quel desiderio profondo di Qualcuno. Ed è per questo che per me la missione vera è il cammino del cuore alla ricerca di Dio.

Sì, la vera missione è su Dio, sul come trovarlo e poi imparare a vivere con Lui. È un passare dalla ricerca di me alla ricerca di Lui, dal cercare di capire me al cercare di capire Lui, dall’accogliere la mia complessità all’accogliere la Sua semplicità. E così, negli anni, la mia preghiera è passata dall’aiutami all’usami, dal perché al grazie, dal vorrei al sì. La cosa più bella in assoluto della missione è che pian piano ci si addentra nel mistero di Dio. Ed è tanto affascinante. Mi piacerebbe condividere tre piccole scoperte.

Prima: Dio è come un Gps

Al centro della tecnologia del Gps (Sistema di posizionamento globale) sta la capacità di rilevare attraverso gli orologi atomici dei satelliti, l’esatta posizione di un oggetto. Di conseguenza il Gps può guidare perché può localizzare con precisione. Il Gps trova, e guida partendo dal quel che trova. Non potremo seguire un Gps se non fosse il Gps stesso a trovarci per primo. Analogamente, nel nostro cammino di fede, ci rendiamo conto che non siamo noi a cercare Dio ma è Lui per primo a cercare noi. Con cuore sollevato scopriamo che Dio, quasi come un Gps, sa sempre in quale punto della nostra vita ci incontriamo e le circostanze in cui camminiamo. Poi Lui parte da lì, offrendoci buone alternative per arrivare alla destinazione scelta. E se per qualsiasi ragione ci allontaniamo dai percorsi proposti, assume la nostra nuova strada e ci offre ancora altri percorsi. Dio è un Padre che non vuole perderci e ci lascia provare le nostre strade nell’attesa che un giorno ci renderemo conto che le sue strade sono le migliori per noi. Vuole essere parte della nostra vita e fa suoi i nostri cammini, le nostre scelte, per rimanere sempre con noi. Perché sa come siamo fatti e sa che un giorno impareremo a seguire Lui, avremo perso la voglia di resistergli. Nel frattempo avremo imparato che l’amore vero perdona, spera e non si arrende mai.

Seconda: l’agire di Dio è multiscopo

Sì, quando Dio interviene tocca la vita di tante persone, fa in modo che il bene realizzato sia il miglior bene per tutti quelli coinvolti in una stessa situazione. Quando Dio agisce non si limita a fare del bene a una singola persona lasciando gli altri a mani vuote, e non agisce mai a favore degli uni contro gli altri. Il bene, la grazia data a una persona implica sempre che anche altri ricevano dei doni. Anche nel nostro mondo relazionale a volte così complesso e con spruzzi di inimicizia, Dio fa il bene che è il meglio per tutti. Forse questo può spiegare perché la maggioranza delle nostre richieste sono esaudite in modo diverso dallo sperato. È il mistero dell’amore di Dio per noi, del suo cuore di Padre che si prende cura di tutti e sa dare a tutti quello di cui hanno bisogno anche quando i nostri bisogni sembrano di essere così diversi.

E l’ultima: Dio non fa miracoli

Dio interviene sempre, o, per dirlo in un altro modo, i miracoli, intesi come interventi soprannaturali, sono un’eccezione pure per Dio. Lui agisce soprattutto attraverso la nostra umanità, con le nostre complessità, i nostri limiti, le nostre resistenze, i nostri rifiuti. Fa miracoli con quello che noi siamo, perché ci accoglie, ci fa crescere, ci fa suoi. Lui che ci ha creati, sa quanta capacità di bene c’è in noi e vuole che venga alla luce. Qui bisogna fare attenzione perché molte volte, per mancanza di attenzione, ci può sembrare che siamo noi a fare un certo bene. Persino potremmo pensare che Dio non c’è. Invece è opera sua.

A capire questo mi ha aiutato tanto la missione in Mongolia. Sono così certa che in diverse situazioni non sarei mai riuscita da sola. Sono sicura che tanto del bene fatto è venuto da Dio. Sono i miracoli con la natura. Dio interviene sempre.

Con la missione Dio mi ha dato il privilegio di presenziare ai suoi miracoli, ai suoi interventi, in prima fila. Il vedere come Dio cambia la vita degli altri e soprattutto la mia, mi ha riempito sempre di grande gioia. Ma il più bel regalo che ho ricevuto dalla missione è Dio stesso, il poterlo sentire tanto vicino, il sapere che cammina accanto a me, l’imparare a lasciarmi guidare da Lui. Sì, la missione è prima di tutto contare su Dio.

Suor Sandra Garay

Hanno firmato questo Dossier

Missionari e missionarie della Consolata:

  • Angelo padre Casadei dal Caquetà, Colombia
  • Giorgio padre Marengo dalla Mongolia
  • José Luis Ponce de Léon, vescovo, da Eswatini
  • Mary Agnes suor Mwangi Njeri da Roraima, Brasile
  • Nicholas padre Muthoka dall’Italia
  • Ramon Lázaro padre Esnaola dalla Costa d’Avorio
  • Rinaldo padre Do dalla RD Congo
  • Sandra suor Garay dalla Mongolia
  • Stefania suor Raspo dalla Bolivia
  • Stefano padre Camerlengo (superiore generale)




Cooperazione e missione, gemelle diverse

testo di Chiara Giovetti


Nel mese missionario proponiamo una riflessione sulle differenze fra cooperazione e missione, ma anche sullo stimolo reciproco che hanno rappresentato l’una per l’altra nel corso degli ultimi cinquant’anni. Tentiamo di fare il punto sulla situazione attuale.

Tanta parte del mio lavoro come responsabile dell’Ufficio progetti di Missioni Consolata Onlus è lavoro di traduzione. Non solo e non tanto da una lingua a un’altra, ma soprattutto da un linguaggio a un altro. Si tratta cioè di tradurre nel linguaggio della cooperazione allo sviluppo concetti missionari e, in quanto missionari, profondamente e autenticamente cristiani.

Con una battuta che suscita sorrisi nei missionari più spiritosi e alzate di sopracciglia in quelli più austeri, mi trovo spesso a dire che il mio incarico più delicato è tradurre in «sviluppese» concetti espressi in «pretesco», cercando di far emergere nel modo più chiaro possibile che i nostri missionari fanno cooperazione già da molto prima della fondazione della Onlus (2001) o del riconoscimento come Ong (2007). Solo che, mentre alcuni la fanno conoscendo il «ciclo di progetto» e il suo linguaggio, altri la fanno chiamando le cose con un altro nome.

Così, progetti che arrivano sulla mia scrivania con un titolo come «Promozione della donna», vengono reindirizzati ai donatori con il titolo «Empowerment femminile». «Pace, perdono e riconciliazione» diventa «Gestione e risoluzione del conflitto», «aiuto alle mamme incinte e ai loro bambini», si riformula in «miglioramento della salute materna e infantile».

Le attività sono le stesse, ma le parole rimandano a valori non completamente sovrapponibili.

Fra il linguaggio dello sviluppo e quello della missione c’è, sì, un’ampia intersezione di concetti simili, se non identici benché detti con parole diverse, ma anche un confine di intraducibilità che non può – e nemmeno deve – essere forzato.

 

Cooperazione: una parola, due significati

Nella maggioranza dei casi, all’orecchio di un missionario cattolico la parola «cooperazione» arriva come l’abbreviazione dell’espressione «cooperazione missionaria fra le Chiese».

Per un operatore della cooperazione fuori dal mondo ecclesiale, viceversa, la stessa parola sottintende l’espressione «cooperazione allo sviluppo» o «cooperazione internazionale».

Il fatto che per un religioso la cooperazione sia prima di tutto missionaria, significa che la vede come un modo per realizzare la missione della Chiesa, che – si legge nel decreto Ad Gentes del Concilio Vaticano II del 1965@ -, a sua volta, è la crescita «nella storia della missione del Cristo, inviato appunto a portare la buona novella ai poveri».

L’annuncio della buona novella è l’evangelizzazione, e la cooperazione missionaria ne è uno degli strumenti, non il fine.

Già nel 1990, in una Nota pastorale della Conferenza Episcopale Italiana dal titolo I laici nella missione ad gentes e nella cooperazione fra i popoli@, emergeva una preoccupazione: «Spesso», recita la nota, «l’attenzione è assorbita dalle esigenze tecniche dei progetti a scapito dell’ispirazione cristiana che deve essere sostenuta in modo costante». Detto in modo più rozzo ma immediato, la Cei raccomanda ai laici cristiani che vanno in missione di ricordare sempre che scavare un pozzo non è il fine ultimo del loro mandato. Il pozzo è solo lo strumento. Sono stati mandati a scavare un pozzo perché la povertà dei fratelli privi di acqua grida vendetta al cospetto di Dio, e contraddice il messaggio di salvezza e liberazione che suo Figlio ha portato agli uomini a costo della sua stessa vita, un messaggio di cui è nostro dovere di cristiani farci portatori, anche – ma non solo – attraverso le opere concrete.

La stessa nota sottolinea, richiamando l’enciclica Sollicitudo Rei Socialis del 1987, che «gli insuccessi degli ultimi decenni negli sforzi di accrescere il benessere dei popoli mostrano che lo sviluppo non si può basare su una semplice accumulazione di beni e di servizi». Lo sviluppo autentico, per la Chiesa, è lo sviluppo integrale, «volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo» (Populorum progressio), anche della sua sfera spirituale e morale.

Se per i cristiani la cooperazione è uno degli strumenti per continuare la missione del Cristo che parte da Dio e si irradia nella relazione fra le Chiese locali; per il mondo non ecclesiale è, invece, una relazione che parte dalle comunità umane definite a partire dalla loro organizzazione statale, e che ha come obiettivo lo sviluppo, pur con tutte le declinazioni e riformulazioni che il concetto ha attraversato nell’ultimo cinquantennio.

Non potrebbe essere più chiara la direzione divergente delle spinte che muovono queste due idee di cooperazione.

Dalla teoria alla pratica: la cooperazione come punto di incontro

Queste due visioni della cooperazione sono posizioni irriducibili l’una all’altra, dal punto di vista filosofico. Ma questa irriducibilità non ha impedito che si sia trovato un punto di mediazione nel campo del fare, del trovare soluzioni a problemi condivisi.

Per realizzare il raccordo, è stato fondamentale l’incontro fra religiosi innovatori, a volte addirittura rivoluzionari, da un lato, e volontari laici, dall’altro. La parola «laico» in questo caso significa il contrario di quello che potrebbe sembrare a un lettore esterno al mondo ecclesiale: non rimanda al laicismo ma al laicato, il complesso dei fedeli che non appartiene al clero.

Un esercizio interessante per dare la misura di questo incontro è prendere la lista delle Ong riconosciute dal ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale e scavare un po’ nella sezione Chi siamo dei rispettivi siti. Il risultato è abbastanza illuminante: su 217 organizzazioni, una su tre circa ha per fondatore, ispiratore o dirigente, un religioso, e quasi una su cinque è vicina al mondo missionario. Alcune Ong sono nate per sostenere il lavoro di uno specifico missionario, di un Istituto o di una Congregazione, altre sono emanazione di un Centro missionario diocesano, altre sono talmente missionarie di ispirazione che inseriscono la parola anche nel nome.

Gli anni Sessanta e Settanta sono stati una grande incubatrice per queste realtà: erano gli anni della decolonizzazione, delle crisi in Biafra e in Congo, delle campagne di Raoul Follereau; la Chiesa affrontava il cambiamento epocale del Concilio Vaticano II e assisteva al sorgere, in America Latina, della teologia della liberazione.

In Italia erano anni drammatici, di scontri politici e sociali, di forti ineguaglianze, evidenti in particolare nelle grandi città.

Solo per citare alcune di queste realtà nelle quali missione e cooperazione allo sviluppo hanno iniziato ad andare a braccetto, ricordiamo che nel 1961 è nata la Cisv@ «al servizio dei poveri nella Torino allora meta degli immigrati dal Sud Italia». Nel 1973, raccontava qualche anno fa Stefania Garini del Cisv alla nostra rivista, la stessa organizzazione ha inviato i primi volontari in Burundi anche su stimolo dell’allora arcivescovo di Torino, monsignor Michele Pellegrino, «che auspicava una missione animata anche da laici, ritenuti in grado di creare maggior vicinanza con la gente»@. Nel 1964 è nata Mani Tese, nel 1966 la Lvia, che l’anno dopo ha inviato la prima volontaria in Kenya ospite dei missionari della Consolata.

La Focsiv, che federa gli organismi italiani di ispirazione cristiana (Ong e non), è nata nel 1972 e ad oggi raggruppa 86 organismi.

Negli anni Ottanta e fino a tutti gli anni Novanta l’incontro fra missione e cooperazione allo sviluppo era ormai una realtà consolidata e strutturata grazie all’impegno di tanti missionari e al coinvolgimento dei volontari laici cristiani: l’invio di questi ultimi in missione era regolare, i riconoscimenti dello status di Ong da parte del ministero degli Esteri sono cominciati ad arrivare, la disponibilità di fondi – sia pubblici che privati – ha dato un’ulteriore spinta, e le campagne di sensibilizzazione in Italia sono state numerose e molto partecipate.

Anche la nostra rivista, che parla di cooperazione e di sviluppo sin dagli anni Settanta, ha inserito per gran parte del decennio 1980 – 1989 l’argomento fra i temi fissi trattati nelle rubriche. La lettura degli articoli sulla cooperazione di quegli anni è un tuffo più nel futuro che nel passato, tanto raffinata era già l’analisi delle cause delle diseguaglianze e tanto forte era il richiamo, oggi molto di moda, al cambiamento negli stili di vita.

La nota della Cei su laici, missione e cooperazione citata sopra è arrivata nel 1990 proprio per mettere ordine in questa relazione tanto vivace e animata da rischiare di diventare caotica. La Cei infatti, oltre al richiamo a non perdere di vista l’ispirazione cristiana, insisteva sull’importanza di migliorare la preparazione sia spirituale che professionale dei volontari ed esortava a evitare permanenze troppo brevi e mal programmate. La cooperazione missionaria non è una parentesi, un periodo circoscritto nella vita dei cristiani: è una scelta di vita che continua anche al rientro dalle missioni.

Cooperazione e missione oggi

L’ultimo ventennio ha visto un’impennata nella professionalizzazione della cooperazione. È nata la figura del cooperante, sono sorti corsi di studi a livello universitario, la gestione del ciclo di progetto si è fatta più complessa, l’obbligo di trasparenza nella gestione dei fondi è oggi, giustamente, un imperativo.

Quanto questo processo sia legato, in positivo, a un bisogno di affrontare in modo rigoroso una crescente complessità del mondo o, in negativo, agli obiettivi non raggiunti – e agli errori – di cinquant’anni di cooperazione internazionale, è un dibattito aperto.

Il dato di fatto è che le organizzazioni di origine missionaria, come tutte le altre, si sono attrezzate e dotate di personale formato e contribuiscono a quella parte della missione che, per brevità, si può definire sociale.

I fondi dei donatori pubblici non costruiscono chiese né comprano Bibbie per i catechisti (ci sono donatori cattolici per questo); ma certamente possono essere un sostegno fondamentale per scavare un pozzo e dare acqua pulita a un dispensario, formare infermieri, dare assistenza a migranti in fuga da un paese sull’orlo del disastro che arrivano stremati e disperati nel paese confinante.

Da questo punto di vista, il rapporto fra missione e cooperazione allo sviluppo continua a godere di ottima salute una volta che ci si accorda su uno spazio comune in cui una può essere funzionale alla realizzazione degli obiettivi dell’altra senza snaturarla. Si può dire, per semplificare, che la missione continua a «ospitare» la cooperazione allo sviluppo nella parte sociale della cooperazione missionaria e che la cooperazione allo sviluppo ricambia «ospitando» i missionari in tutti i suoi settori, a patto che oltre al collarino ecclesiastico indossino lo stetoscopio del medico, il casco antinfortunistico dell’ingegnere, il grembiule del maestro di scuola.

Senza avere una struttura professionalizzata che lo affianchi per gli aspetti tecnici, per il singolo missionario diventa impossibile realizzare interventi complessi come quelli previsti da un progetto di cooperazione allo sviluppo istituzionale. Il progetto, senza un aiuto adeguato, rischia di essere percepito dal missionario come un male necessario, uno strumento di cui non si può fare a meno ma che porta via tempo al resto. E per un missionario, il resto, spesso, è il grosso: «Ecco, Chiara», mi ha detto una volta il padre responsabile di una impresa sociale del settore alimentare gestita dalla Consolata in un paese africano, «con il progetto che ci aiuterai a scrivere potremo finalmente aumentare la produzione; per il resto, con i proventi delle vendite già manteniamo la biblioteca, facciamo i corsi di alfabetizzazione per i nostri lavoratori, contribuiamo all’allevamento di polli delle loro mogli. Poi, a tempo perso, diciamo messa, facciamo le confessioni, prepariamo i catecumeni… Ogni tanto riusciamo anche a stare in silenzio, pregare un po’ e dormire».

In questi anni di lavoro nell’ufficio progetti mi sono trovata spesso a scherzare con i missionari con cui lavoro sul fatto che è una lotta impari cercare di far appassionare a un quadro logico e a un cronogramma qualcuno (il missionario) che ha per logica il Verbo e per orizzonte temporale la vita eterna.

Al di là delle battute, però, probabilmente il punto è proprio questo: il rapporto fra missione e cooperazione allo sviluppo è stato ed è proficuo proprio perché sono due attività non completamente sovrapponibili: negli anni, oltre a non capirsi mai del tutto e, a volte, a criticarsi, si sono anche ascoltate e ciascuna ha fatto a se stessa delle domande che non si sarebbe mai fatta se l’altra non l’avesse stimolata. E non smette di sorprendermi quanto le domande che i missionari della Consolata si fanno da oltre un secolo, ispirandosi al loro fondatore, Giuseppe Allamano, – «stiamo capendo i segni dei tempi? Stiamo davvero facendo uomini e non beneficiari, assistiti, bisognosi?» – somiglino alle domande che si fa il mondo dello sviluppo.

Chiara Giovetti




Cari missionari

Un sabato di ordinaria missione

Dal 6 febbraio mi trovo con mia moglie Roberta a Dianra, in Costa d’Avorio (foto in basso), presso la missione della Consolata dove vive e svolge il suo servizio mio figlio Matteo insieme a padre Raphael Ndirangu dal Kenya e padre Ariel Tosoni dall’Argentina.

In genere il sabato si stabilisce che ogni missionario vada a celebrare la messa in un villaggio delle varie parrocchie: Dianra, Dianra Village e Sononzo. Il sabato 30 marzo si era così stabilito: p. Raphael a Dianra, p. Matteo a Dianra Village e p. Ariel a Sononzo. Considerando che la comunità di Sononzo è la più lontana dalla «base» – circa 45 km – e che per andarci si passa per Dianra Village, siamo partiti con una sola macchina. Con noi c’era una bimba nata il 18 marzo, la cui mamma era deceduta poco dopo il parto, da portare ai nonni in un villaggio lungo il tragitto.

Matteo p Pettinari con mamma e papà a Dianrà

Siamo partiti verso le ore 16.00 e sull’auto eravamo in 8: p. Ariel, p. Matteo, Roberta ed io, la bimba, la nonna ed altre due persone della famiglia. Dopo circa 20 minuti siamo arrivati al villaggio della bimba. Siamo scesi tutti dall’auto. Varie persone ci hanno accolto sulla strada e ci hanno fatto accomodare nel cortile della casa che era poco lontana. Dopo averci offerto dell’acqua ed aver adempiuto ai saluti e riti convenzionali, lasciata la neonata e la famiglia, siamo ripartiti.

Verso le 17.30 siamo arrivati a Dianra Village. Padre Ariel è subito ripartito per passare la serata con i giovani di Sononzo e potervi poi restare per la messa domenicale. Io, con Roberta e Matteo, sono rimasto a Dianra Village. Matteo, che è l’amministratore del dispensario ivi esistente, ha dovuto sbrigare degli impegni prima di partire in moto per il villaggio di Bébédougou. Poiché tutti e tre non potevamo andare, mi ha chiesto se volevo accompagnarlo, mentre Roberta sarebbe restata a Dianra Village. Ho accettato volentieri. Il villaggio dove eravamo diretti era a una ventina di km. Indossato il casco e messo in spalla lo zaino, siamo partiti. Erano le 19.30. Prima di uscire dal villaggio, Matteo ha chiesto a un giovane che conosce la zona quali fossero le condizioni della strada. Joseph lo ha rassicurato dicendo che era percorribile, raccomandandoci però di fare attenzione in alcuni tratti perché avremmo trovato molta sabbia accumulata… e così siamo partiti.

Detto fatto. Poco dopo ci siamo resi conto che la «strada» era in realtà una pista sconnessa con cumuli di sabbia che formavano dei solchi… pista che si snodava attraverso piantagioni di anacardo e di cotone. Nel buio della notte, le luci della moto non facilitavano molto il percorso. Prima di arrivare a destinazione, avremmo dovuto attraversare tre villaggi. Dopo il primo, Pétérikaha, ed il secondo, Chontanakaha, eccoci arrivare al terzo, Nadjokaha, dove ci doveva attendere il catechista Emile. Purtroppo, arrivati al punto di incontro stabilito, non abbiamo trovato nessuno. Matteo ha provato a telefonare, ma non c’era connessione. Nel villaggio, non essendoci l’illuminazione, si vedeva circolare qua e là qualche persona con la pila. Poco distante, davanti a una casa, c’erano due bambini dall’apparente età di otto-dieci anni che con dei bastoni battevano dentro un mortaio circolare in legno per frantumare delle granaglie. Più in là, seduti a terra intorno ad una scodella, ve ne erano altri quattro, dai due ai quattro anni, che stavano mangiando con le mani. Ed ecco che si avvicina un giovane, Basile, amico di Emile e membro della piccola comunità cattolica del villaggio. La notizia non è affatto buona: Emile non era venuto all’appuntamento perché lo avevano chiamato per cercare un bambino in un villaggio vicino, che poi sarebbe stato trovato morto in un pozzo.

Via Crucis quaresimale

A questo punto, Matteo decide di continuare senza accompagnamento per raggiungere il villaggio di Bébédougou. Non sapeva dove era il cortile scelto per la celebrazione, ma una volta arrivati si è fermato nella casa del capo villaggio al quale ha chiesto se sapeva dove si svolgeva la celebrazione religiosa. Questi, che era sdraiato su un lettino nella veranda davanti casa, ha riconosciuto Matteo (infatti, pochi mesi prima, il centro sanitario di cui Matteo è responsabile aveva inaugurato una casetta della salute nel suo villaggio); gentilmente si è alzato e ci ha accompagnati nel luogo richiesto che era a non più di 50 metri dalla sua abitazione. Giunti sul posto alcune donne hanno portato delle sedie, ci hanno fatto accomodare e secondo la tradizione hanno offerto dell’acqua e chiesto le notizie. Dopo una decina di minuti, abbiamo accompagnato il capo villaggio nella sua abitazione e siamo ritornati indietro. Le donne stavano già preparando per la celebrazione e per la cena. Erano già presenti una decina di persone e altre stavano affluendo dai villaggi vicini, chi a piedi e chi su motofurgone. Nel frattempo queste avevano preparato nel cortile un piccolo tavolo come altare e davanti, in modo circolare, sedie e panche. La messa è iniziata verso le 21.45 e le persone erano più di 50, senza contare quelle alle spalle che osservavano incuriosite. La celebrazione è stata bella perché molto partecipata, con canti e preghiere individuali, anche se – come mi ha detto Matteo – la maggior parte dei partecipanti non erano ancora battezzati. La messa è terminata intorno alle 23.20. Subito le donne hanno portato la cena con grandi recipienti ricolmi di riso ed una tipica salsa verde come condimento. A me e Matteo hanno portato del riso con salsa di pesce e dei pezzi di radice di ignam lessati. In pochi minuti i commensali avevano già mangiato tutto! A questo punto, vista l’ora e la tanta strada da percorrere per raggiungere Dianra Village, Matteo ha chiesto il permesso di ripartire, come si usa qui (si chiede la strada), e ce lo hanno concesso. Ho indossato il casco, ripreso lo zaino contenente gli arredi per l’altare e siamo partiti. La strada era molto insidiosa a causa della solita gran quantità di sabbia e, pur proseguendo a bassa velocità, ci è voluta tutta l’abilità di Matteo per mantenere l’equilibrio. Più volte ha dovuto mettere i piedi a terra per non cadere tenendo conto dell’oscurità e delle insidie nascoste dietro ogni curva. La temperatura era gradevole e soffiava un vento leggero. Contrariamente all’andata, nel tragitto di ritorno abbiamo incrociato poche moto e furgonette, anche loro tutte in precario equilibrio. La cosa che mi sorprendeva era che, non essendoci l’illuminazione, ci trovavamo al centro dei villaggi senza neanche accorgercene, anche perché – vista l’ora – non c’erano più persone in giro con la pila. Attraversando il villaggio di Nadjokaha Matteo mi ha indicato il pozzo fatto realizzare dai missionari poiché in quella zona non c’era acqua. Il punto più vicino per attingerne si trovava a 9 km, quindi la gente era obbligata a percorrerne 18 per avere acqua potabile disponibile.

Siamo arrivati a Dianra Village verso mezzanotte e mezzo. Che dire? Per me è stata un’esperienza molto bella dove ho potuto vedere persone semplici e piene di fede che pregano con tanto fervore. Matteo mi dice che in questi villaggi il missionario lo vedono due o tre volte l’anno e la domenica si celebra solo la liturgia della Parola con l’aiuto del catechista.

Siamo andati a letto che era l’una passata. Questo è il sabato del missionario.

La domenica ha poi celebrato a Dianra Village e incontrato i vari gruppi: giovani, corali, catecumeni, Caritas, catechisti, ecc. Il pranzo è stato offerto da una famiglia della comunità. Questo è il mio resoconto di un tipico, «ordinario», fine settimana vissuto dai missionari in questa terra.

Pietro Pettinari
Senigallia, 20/04/2019


Cambiamenti climatici

Anche tu puoi fare parte del tam tam

Ormai anche i governi hanno capito che dobbiamo impedire alla temperatura terrestre di innalzarsi ulteriormente. Dal 1880 ad oggi è aumentata appena di un grado centigrado e già si vedono gli effetti. I cambiamenti climatici non riguardano solo il futuro dei nostri figli e nipoti, sono realtà già oggi. Si verificano tempeste sempre più violente, incendi sempre più frequenti, penuria d’acqua per riduzione dei ghiacciai, innalzamento dei mari per scongelamento delle calotte polari. Nessuno ha più certezza del destino del proprio territorio: l’alterazione delle piogge può trasformare ridenti paesaggi in deserti, città costiere in un intreccio di canali per l’avanzare del mare, ampi territori in distese d’acqua per lo straripamento dei fiumi. Con ricadute sociali inimmaginabili. Dal 2008 al 2018, nel mondo si sono avuti 265 milioni di sfollati per disastri naturali, molti di loro per l’instabilità del clima.

Chi ha provocato il danno lo sappiamo. La colpa è del sistema economico tutt’oggi dominante che avendo fatto dell’espansione della ricchezza il proprio idolo, ha spolpato la terra e prodotto rifiuti in maniera sconfinata. E non per la dignità di tutti, ma per il privilegio di pochi, e tuttavia quanto basta per avere messo il pianeta a soqquadro. Per definizione la produzione esige energia, la sua scarsità è il motivo per cui in passato la produzione era pressoché costante. Limite che il capitalismo ha superato con l’accesso ai combustibili fossili (carbone, petrolio, gas) e l’invenzione di macchine capaci di trasformare il loro enorme potenziale energetico in movimento, calore, elettricità. Peccato che attraverso questa operazione si siano messe in libertà miliardi di tonnellate di anidride carbonica, in misura ben superiore alla capacità di assorbimento di oceani e sistema vegetale. Di qui l’accumulo di anidride carbonica in atmosfera con conseguente intrappolamento dei raggi solari, aumento della temperatura terrestre e cambiamento del clima che porta con sé calamità, alterazione della piovosità e quindi riduzione della produzione di cibo e migrazioni.

Gli scienziati ci dicono che per arginare la situazione bisogna dimezzare le emissioni di anidride carbonica da qui al 2030 e annientarle entro il 2050. Un’operazione titanica che il sistema pensa di poter affrontare solo con cambiamenti tecnologici. Invece non ha capito che la vera sfida è la riduzione, che a sua volta chiama in causa un altro modo di organizzare l’economia. Se vorremo salvare la nostra umanità dovremo riorganizzarci in modo da permettere a tutti di vivere dignitosamente utilizzando poche risorse, producendo pochi rifiuti e garantendo a tutti l’inclusione lavorativa. Di sicuro il mito della crescita infinita è al tramonto, ma ancora non si è sviluppato un dibattito adeguato per discutere come va riorganizzata l’economia in una logica di stazionarietà orientata al benvivere. Un nuovo pensiero economico costruito non più attorno all’interesse dei mercanti, ma della buona vita per tutti, è ciò di cui abbiamo urgente bisogno.

Ma nell’attesa che questo dibattito divampi, ognuno di noi deve fare tutto ciò che è nelle sue possibilità per arginare l’incendio. Tanti lo vogliono fare, ma non agiscono perché non sanno. Per questo il Centro Nuovo Modello di Sviluppo (www.cnms.it) ha prodotto una serie di infografiche per spiegare in maniera comprensibile le cause dei cambiamenti climatici e i rimedi possibili a partire da noi. Visita il sito, scarica il documento, e invita i tuoi amici a fare lo stesso.

Francesco Gesualdi
17/06/2019


Il papa in ginocchio

L’11 aprile 2019 papa Francesco, dopo una giornata di riflessione con i due vice presidenti del Sud Sudan, s’inginocchiò con molta fatica per baciare loro i piedi e per supplicare per la pace del popolo del loro paese. La pace è il dono più grande che Gesù offre ai suoi discepoli.

Vorrei provare leggere questo avvenimento con gli occhi e il cuore della cultura dell’Etiopia, il mio paese.

La tradizione culturale etiopica è una tra le tradizioni più antiche, ricche e significative dell’Africa. Da noi le persone anziane, scimaghile – così sono chiamate in amharico -, sono coloro che hanno un grandissimo valore nella società e vengono rispettate in un modo speciale.

Nella nostra cultura una persona diventa scimaghile verso i sessant’anni, quando, con l’esperienza acquisita, sa qual è il bene da fare e il male da evitare. La responsabilità degli scimaghile non è limitata all’ambito privato o famigliare, ma riguarda la società tutta, per cui quando un anziano osserva un atto di ingiustizia, ha la responsabilità di intervenire per risolvere il problema.

Per esempio quando ci sono difficoltà, incomprensioni o atti di violenza nelle famiglie tra marito e moglie, tra i vicini o tra le tribù, gli anziani si radunano per analizzare le cause dei conflitti. Dopodiché si inginocchiano davanti alle persone in conflitto e chiedono loro di perdonarsi e di fare pace. Quando un anziano si mette in ginocchio davanti a una persona per chiedere di fare la pace, nessuno dei contendenti ha la possibilità fisica o morale di resistere o rifiutare. Diventa un imperativo categorico. Quando uno scimaghile si mette in ginocchio, il conflitto deve essere superato e la pace ristabilita.

Da questa prospettiva culturale, il gesto di papa Francesco che s’inginocchia e bacia i piedi ai vice presidenti del Sud Sudan ha un valore enorme.

Papa Francesco, agli occhi della gente del mio paese, l’Etiopia, indipendentemente da ogni interpretazione religiosa, è considerato uno scimaghile che sente sulle sue spalle la responsabilità di risolvere un grave problema di tutto un popolo, e si mette in ginocchio e chiede a due politici importanti la pace per il loro paese.

Papa Francesco, con questo gesto, mostra di conoscere la cultura africana, e indica il modo nel quale entrare in dialogo con gli altri.

Nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium (n. 68), papa Francesco scrive che «una cultura popolare evangelizzata, contiene valori di fede e di solidarietà che possono provocare lo sviluppo di una società più giusta e credente, e possiede una sapienza peculiare che bisogna saper riconoscere con uno sguardo colmo di gratitudine».

Inoltre papa Francesco mette in pratica tutto ciò che ha scritto nella stessa esortazione a proposito di una chiesa in uscita per la pace e il dialogo.

In questo caso, papa Francesco esce dalla sua cultura e si mette in ginocchio per la pace di un popolo. La vera evangelizzazione si realizza stando attenti ai segni dei temi. L’Africa si evangelizza nel contesto africano. In altre parole, gli africani non si possono evangelizzare senza tener conto dei loro valori e delle loro tradizioni.

È proprio questo che vediamo nel gesto di papa Francesco che esce dal suo contesto culturale ed entra profondamente nella cultura africana per favorire e far sorgere la pace.

Ephrem Tadesse Ebiyo
Torino, aprile 2019




Uganda: I nipotini alla riscossa


In Uganda i missionari della Consolata hanno una presenza piccola, ma vivace, che data 34 anni. Il paese è in una posizione strategica, tra i colossi dell’Africa dell’Est e quelli dell’Africa centrale. Oggi soffre a causa di un presidente padrone che ha difficoltà a farsi da parte. Per questo i giovani ugandesi sono in fermento e chiedono leader che «parlino la loro lingua».

Padre Leo Bagenda è un raro missionario della Consolata di nazionalità ugandese. Entrato nell’Istituto nel 1983 frequentando la filosofia a Nairobi (Kenya), è stato ordinato nel 1992. La sua prima missione è stata in Tanzania, paese nel quale ha operato diversi anni. Nel 2003 è tornato in Uganda, dove lavora tuttora. Negli ultimi anni, fino a giugno 2019, è stato parte del consiglio regionale dei missionari della Consolata di Kenya e Uganda come consigliere responsabile per il suo paese.

Padre Leo è vispo e parla un ottimo italiano. Ci racconta la realtà dell’Istituto in Uganda, vivace ma poco conosciuta.

Attualmente lavora nella parrocchia di Bweyogerere, «la prima dei missionari della Consolata in Uganda», tiene a precisare, «fondata nel 1985 da padre Luigi Barbanti (+1999)». Padre Leo offre il suo appoggio alle altre due missioni nel paese, quella di Kapeka, da lui fondata nel 2003, e di Bulugui, la nuovissima missione inaugurata il 30 settembre dello scorso anno. Segno anche questo di vitalità della compagine ugandese. Completa la presenza dell’Istituto nel paese il centro di animazione vocazionale di Kiwanga, non lontano da Kampala, la capitale.

I missionari della Consolata di nazionalità ugandese sono una quindicina e, in questo momento, lavorano in Kenya, Sud Africa, Colombia, Brasile e Stati Uniti, oltre ad alcuni in servizio nel loro paese.

«Uganda mon amour»

Padre Leo ci parla del suo paese e accenna alla guerra civile che lo ha attraversato a partire dagli anni ‘80 e poi fino a metà 2000: «Nel Nord dell’Uganda la guerra è finita, ma ha rovinato la vita sociale. Le popolazioni locali sono nomadi, e molti abitanti sono andati via, lontano, a causa del conflitto. Le famiglie sono state smembrate. Inoltre l’educazione è sempre complessa per questa tipologia di persone, ovvero è difficile per i bambini nomadi andare a scuola. È anche un discorso di mentalità da cambiare. Inoltre la guerra ha rovinato le infrastrutture esistenti».

Nel Nord dell’Uganda imperversava il sanguinario Joseph Kony leader del Lord resistence army, gruppo armato che ha agito nel paese dal 1986 a metà 2000, quando è stato cacciato e si è spostato in altri paesi (vedi MC giugno 2012). «Kony ha ammazzato tanta gente, ha diviso famiglie, arruolato a forza bambini. Per rifare la vita ci vuole tempo. Inoltre la gente ha dei dubbi, vuole capire se la guerra è davvero finita. Psicologicamente il trauma è enorme».

Padre Leo ci spiega che il Nord, al contrario del Sud, è una zona ancora molto missionaria. «Nelle diocesi del Sud c’è molto clero locale, siamo tranquilli con il personale. Al contrario nel Nord, dove, come detto, il livello di scolarità è molto basso, il clero è raro ed è necessario avere sacerdoti stranieri o di altre zone del paese. Anche i vescovi arrivano spesso dall’estero».

Il padre ci racconta della situazione attuale del paese, e in particolare di politica. Qui, Yoweri Museveni, presidente della repubblica dal 1986, non accenna a voler lasciare la poltrona, e si ricandiderà alle elezioni del 2021. Su di lui circolano diverse storie. La più incredibile riguarda la sua età: «Di fatto non si sa con certezza la data di nascita del presidente. Qualche anno fa, ha fatto cambiare la Costituzione che prevedeva il limite massimo dei 75 anni per la candidabilità. Oggi però non sappiamo quanti anni abbia. Ci sono alcuni personaggi, che hanno studiato con lui, quindi suoi coetanei, che hanno oltre 80 anni. Ma lui dichiara di averne almeno sette di meno».

Quanto è difficile lasciare

«Museveni ha lavorato bene come presidente, ma ora non vuole mettersi da parte», è il parere di padre Leo. «È diventato quasi un dittatore, non vuole che altri si presentino come candidati alla presidenza della Repubblica e cerca di screditarli. Inoltre ha nominato diversi famigliari in posti chiave, facendo diventare la gestione della cosa pubblica quasi una cosa di famiglia». È un ex militare, un uomo forte, che si impone. Tuttavia il rischio per il paese è quello tipico dei presidenti che stanno a lungo al potere: «Quando cadono, non c’è nessuno abbastanza forte che li sostituisce, e si scatena una guerra per la successione».

Il missionario lamenta anche una mancanza di diritti di base nel suo paese e fa il confronto con il Kenya, che conosce bene: «Il Kenya ha fatto qualche passo in avanti. Oggi non si può bistrattare l’opposizione e incarcerarne i membri senza ragione. In Uganda è ancora possibile. In Kenya c’è una maggiore libertà di parlare in pubblico, di fare convegni e manifestazioni anche contro il partito al potere. Nel mio paese non è assicurato. Le forze dell’ordine possono intervenire rapidamente, e lo fanno, con lacrimogeni, disperdendo le manifestazioni e arrestando le persone».

Uganda’s President Yoweri Museveni addresses the nation at State House in Entebbe, Uganda, on September 9, 2018. (Photo by Sumy SADURNI / AFP)

I giovani e la politica

«Museveni dice di essere voluto da tutti ma, in realtà, io vedo un desiderio di cambiamento nella gente, e soprattutto nei giovani, che sono la maggioranza della popolazione».

Chi ha oggi 40 anni, non ha visto che lui come capo di stato, che è al potere da 33. Negli ultimi tempi si è creato un movimento intorno al cantante Robert Kyagulanyi Ssentamu, in arte Bobi Wine, 37 anni, che ha iniziato a produrre canzoni politiche. Aumentata la sua popolarità, tre anni fa si è candidato in parlamento ed è stato eletto. Ora punta alla presidenza, con il suo movimento «People Power, our power», che si definisce «un gruppo di resistenza e di pressione, che vuole farla finita con gli abusi dei diritti umani e la corruzione in Uganda». Un movimento giovane, il cui leader, come spesso sta accadendo sul continente, è un cantante che ha veicolato il messaggio politico attraverso la musica. «Bobi parla del presidente Museveni come se fosse suo nonno. Un famoso testo – ricorda padre Leo – recita: “Nonno, è tempo che tu lasci il posto ai tuoi nipotini. Dovevi lasciarlo ai tuoi figli, ma adesso sei in ritardo. Stai tranquillo che tutto sarà sotto controllo”».

Padre Leo continua: «Bobi Wine parla chiaro. Dice che il popolo ugandese è giovane e vuole dei leader che parlino la sua lingua, che lavorino per lo sviluppo del paese. E per questo fa campagne e ha molta gente che lo sostiene. Il presidente Museveni lo teme e lo ha già fatto incarcerare più volte, con svariate scuse. Spesso le sue manifestazioni sono bloccate con il pretesto che non hanno il permesso. Salvo il fatto che quando il permesso viene richiesto è concesso in ritardo. Inoltre quando deve fare un concerto, le autorità cercano d’impedirlo, perché molte canzoni sono a sfondo politico e assembrano masse di giovani. Ad esempio, per la festa dei martiri ugandesi, quando è arrivato Bobi, c’era più di un milione di persone. È diventato pericoloso per il presidente».

Conclude padre Leo speranzoso: «Questo fenomeno ci fa dire che la voglia di cambiamento da parte del popolo giovane c’è, e speriamo che riesca a smuovere qualcosa».

Robert Kyagulanyi / Sumy SADURNI / AFP

Ugandesi social?

I giovani sono aiutati nella mobilitazione, anche politica, dalle nuove tecnologie. In particolare dai social network come Facebook  (Fb) e i programmi di messaggistica come Whatsapp. «Infatti – spiega padre Bagenda -, quando ci sono crisi politiche, lo stato blocca i mezzi di comunicazione, a partire dai social, poi i telefoni. È il fenomeno noto come media blackout. I leader autoritari dicono a se stessi: “Fb e Whatsapp non ci portano da nessuna parte. I casi sono due: o li blocchiamo o li controlliamo”. Ma questo non si può fare, almeno non completamente. Inoltre su Fb la gente dice tutto quello che pensa, e usa anche un cattivo linguaggio. Ma adesso non è possibile tornare indietro, i giovani ovunque hanno il cellulare. In tante scuole, ad esempio, li fanno depositare all’ingresso, perché è un disturbo per le lezioni». Questo vale per le città. Nelle campagne la rete internet è più debole, ci spiega il missionario, e così anche la possibilità di collegarsi.

I cellulari sono anche molto utilizzati per il trasferimento di soldi (money transfer), e per il pagamento diretto di prodotti e servizi, abitudine che invece è ben diffusa nel vicino Kenya.

Il sogno americano

I giovani che vogliono lasciare l’Uganda per cercare una vita migliore altrove sono ancora molti. «Aumentano tutti gli anni – ci conferma il missionario – e oggi si emigra sotto forme diverse. Esiste ad esempio una migrazione organizzata verso i paesi della penisola arabica. Agenzie specializzate selezionano i ragazzi a Kampala e se li trovano idonei per alcuni lavori, di solito di basso livello, come guardiani, ecc., li reclutano e poi organizzano la documentazione necessaria e il viaggio stesso. Il pacchetto completo insomma.

Così all’aeroporto di Entebbe (Kampala) capita di vedere gruppi di ragazzi ugandesi, molto giovani, tutti con la stessa maglietta, che, come fossero in una vacanza studio, si imbarcano per un paese del Golfo. In realtà vanno a lavorare». Padre Leo non lo dice, ma uno dei rischi di chi va in quei paesi, soprattutto per le ragazze, è quello di finire sfruttati o schiavizzati.

Gli altri paesi di attrazione per gli ugandesi sono la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, anche a causa dell’affinità linguistica. In questi ultimi, ci racconta padre Leo, si è diffusa la pratica del matrimonio di comodo: «Ho saputo di donne ugandesi che riescono a recarsi negli Usa con un visto turistico. Qui fanno un accordo con uomini cittadini statunitensi per sposarsi civilmente. In questo modo la donna ottiene il permesso di soggiorno. Nell’accordo la donna si impegna a restituire un debito, di solito 5-10mila dollari, al marito di comodo. La donna lavora e rimborsa a rate. Saldato il debito, e possono passare anni, i due richiedono il divorzio».

Padre Leo ci racconta che molti giovani, anche di classe media, finita l’università, anche se trovano lavoro in Uganda, poi fanno di tutto per migrare negli Usa. Alcuni utilizzano la scusa degli incontri internazionali del Rotary International: «Si iscrivono, passano alcuni anni come soci, poi prendono l’occasione di una convention in Canada o negli Usa. Come Rotary ottengono facilmente i visti. Ma una volta lì, si dileguano, diventando clandestini».

Negli Stati Uniti o in Canada non è detto che si riesca a inserirsi per le competenze che si hanno. Padre Leo ci racconta di un suo parente medico che, da diversi anni, lavorava in Uganda guadagnando poco. Ha voluto seguire l’esempio di un collega che era andato negli Usa. Là il collega, non potendo fare il medico in quanto la sua laurea non è riconosciuta, si era messo a lavorare come assistente in una casa di riposo, con un buon guadagno. Il parente del missionario è partito a sua volta. Ora si è integrato, ha un lavoro, una famiglia, una casa. Ovviamente non fa il medico.

«I giovani continuano a lasciare i nostri paesi perché hanno informazioni su altri e cercano una vita migliore. I ragazzi che muoiono in Libia o nel Mediterraneo sono disperati. Quando sono nel proprio paese sentono dire che la vita è migliore in Europa e decidono di correre il rischio. Secondo me, l’unico modo di evitare questo esodo, è appoggiare i paesi di origine, ma certo non è facile. Voglio dire che un ugandese non è attratto dalla prospettiva di andare a vivere in Kenya, perché il livello di vita è simile, ma in Europa sì. Il problema poi resta l’integrazione».

Marco Bello


Cronologia essenziale

Nel regno incontrastato di Museveni

  • 1962, 9 ottobre – Proclamazione dell’indipendenza. Un anno più tardi l’Uganda diventa Repubblica.
  • 1966, 22 febbraio – Colpo di stato del primo ministro Milton Obote con l’aiuto del generale Idi Amin.
  • 1971, 25 gennaio – Colpo di stato del generale Idi Amin Dada, Obote si rifugia in Tanzania.
  • 1972, settembre – Iniziano le violenze etniche contro Acholi e Lango. Obote cerca di riprendere il potere ma fallisce. Nel ‘74 iniziano campagne di persecuzioni contro etnie rivali di Amin e partigiani di Obote.
  • 1976, 25 giugno – Idi Amin, che si è proclamato maresciallo, si nomina presidente a vita.
  • 1978, ottobre – Inizio della guerra contro la Tanzania. Nell’aprile del 1979 l’esercito tanzaniano conquista Kampala, Idi Amin fugge in esilio. Si susseguono due presidenti (Yusuf Lule e Godfrey Binasa) insediati dal Fronte di liberazione nazionale dell’Uganda (Unlf) e una Commissione militare.
  • 1980, 10 dicembre – Milton Obote vince le elezioni presidenziali.
  • 1981, giugno – Yoweri Museveni fonda l’Esercito di resistenza nazionale (Nra), braccio armato del Movimento di resistenza nazionale. L’Nra si oppone all’esercito governativo.
  • 1986, 25 gennaio – L’Nra conquista la capitale e quattro giorni dopo Yoweri si proclama presidente.
  • 1987, gennaio – Iniziano combattimenti nel Nord del paese a causa dei ribelli dell’Esercito di resistenza del Signore (Lra) comandato da Joseph Kony.
  • 1993, 5-10 febbraio – Visita di Giovanni Paolo II.
  • 1996, 9 maggio – Yoweri Museveni vince le elezioni presidenziali. Sarà rieletto nel 2001, 2006, 2011 e 2016 (quello attuale è il quinto mandato di 5 anni).
  • 2005, 12 luglio – Il parlamento sopprime la limitazione ai mandati presidenziali.
  • 2005, 6 ottobre – Mandato d’arresto della Corte penale internazionale contro 5 capi dell’Lra, tra i quali Joseph Kony.
  • 2006, 29 giugno – Firma di un accordo di responsabilità e riconciliazione tra governo e Lra. Il 31 luglio Kony incontra i rappresentanti del governo.
  • 2006, 26 agosto – Firma a Juba (Sud Sudan) di un accordo di cessate il fuoco tra Lra e governo.
  • 2010, 11 luglio – Doppio attentato a Kampala rivendicato dagli islamisti di Al Shabaab (76 morti).
  • 2011, 22 novembre – L’Unione africana dichiara l’Lra «gruppo terrorista».
  • 2013, 20 dicembre – Adozione di una legge molto dura nei confronti degli omosessuali.
  • 2015, 3 gennaio – Cattura in Repubblica centrafricana di Dominic Ognwen, uno dei capi dell’Lra.

Ma.Bel.

 


Uganda in cifre

  • Superficie: 241.038 km2 (poco meno dell’Italia)
  • Popolazione: 42,8 milioni (2017)  |  Crescita demografica: 3,3%
  • Speranza di vita: 60 anni  |  Mortalità infantile (0-5 anni): 49‰ (2017)
  • Alfabetizzazione adulti: 73,8%
  • Lingue: ufficiali inglese e swahili, parlate tutte le lingue dei gruppi etnici, tra cui ancholi, kiganda, konjo, lusoga
  • Religioni: cattolici (44,6%), anglicani (39,2%), musulmani (10,5%), altri
  • Pil e crescita del Pil: 26 miliardi di dollari; 3,9% (2017)
  • Pil pro capite: 620 dollari / anno
  • Indice di sviluppo umano: 162° paese su 189 (2017)

Fonti: Banca mondiale, Pnud, Atlante De Agostini

 




La Polveriera


«I poveri hanno bisogno delle nostre mani per essere risollevati, dei nostri cuori per sentire di nuovo il calore dell’affetto, della nostra presenza per superare la solitudine. Hanno bisogno di amore, semplicemente» (messaggio di papa Francesco per la III giornata mondiale dei poveri).

Quanto dà fastidio questo papa che, un giorno sì e l’altro pure, continua a parlare dei poveri, non accontentandosi mai, neppure di quello che la chiesa, le parrocchie, i missionari fanno per loro. Ne ha parlato anche nel bel mezzo di questa caldissima estate, nel suo messaggio per la celebrazione (il prossimo 17 novembre), della giornata che lui stesso ha inventato per tenere accesa nel popolo cristiano l’attenzione verso tutti i poveri del mondo. Diventano, così, graffi impietosi le parole di papa Francesco che, avendo messo i poveri – davvero – al centro, non può tollerare che siano trattati con retorica e sopportati con fastidio, giudicati parassiti, scartati e sfruttati. Perché i poveri non sono numeri, ma persone a cui andare incontro. E, citando don Mazzolari, aggiunge: «il povero è una protesta continua contro le nostre ingiustizie; il povero è una polveriera, se le dai fuoco, il mondo salta!».

Occuparsi dei poveri, attendere con passione alla loro promozione non è allora un optional esterno all’annuncio del vangelo; al contrario, «è un servizio che è autentica evangelizzazione». E anche ai tanti volontari, che il papa ringrazia per la loro dedizione, chiede di non accontentarsi di venire incontro alle prime necessità materiali dei bisognosi, ma di «scoprire la bontà che si nasconde nel loro cuore, facendosi attenti alla loro cultura e ai loro modi di esprimersi, per poter iniziare un vero dialogo fraterno».

Le parole, appassionate e dure, del messaggio arrivano dritte al cuore di noi missionari che, seguendo l’invito di Giuseppe Allamano, nostro fondatore, siamo mandati tra le genti a portare la consolazione del Signore, che si attua «accompagnando i poveri non per qualche momento carico di entusiasmo, ma con un impegno che continua nel tempo». È questa la nostra vocazione ad vitam, che ci spinge ogni giorno a camminare con loro; ed è proprio in questo camminare insieme che la «Chiesa scopre di essere un popolo, sparso tra tante nazioni, con la vocazione di non far sentire nessuno straniero o escluso, perché tutti coinvolge in un comune cammino di salvezza». A noi missionari, allora, le parole di papa Francesco non danno fastidio; semmai ricordano, una volta di più, la bellezza e le esigenze senza sconti della nostra vocazione, che viviamo nella scia del nostro fondatore.

padre Giacomo Mazzotti

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Kenya: Ritorno alle origini della missione

Testo e foto di padre Jaime Carlos Patias |


La visita a Tuthu, in Kenya, la prima storica missione nella vita dei missionari della Consolata, serve da
ispirazione per rinnovare e reinventare lo stile delle loro presenze nel mondo.

In Kenya per una sessione di consiglio, la direzione generale dell’Istituto si reca in visita a Tuthu, provincia di Murang’a, nella regione centrale di quella nazione che è il primo amore dei missionari della Consolata. Questa piccola località, a 140 km da Nairobi, sui monti dell’Aberdare a oltre 2.500 metri, fu la destinazione finale dei primi quattro missionari della Consolata inviati in Africa dal beato Giuseppe Allamano.

I padri Tommaso Gay (31 anni) e Filippo Perlo (29), e i giovani fratelli missionari Luigi Falda (19) e Celeste Lusso (18) arrivarono in Kenya l’8 maggio 1902. A Nairobi, incontrarono Monsignor Allgeyer, superiore dei missionari dello Spirito Santo, che suggerì loro di recarsi tra il popolo kikuyu, in risposta all’invito del chief (capo) Karuri wa Gekure che voleva una scuola nel suo villaggio di Tuthu. Iniziò così l’evangelizzazione cattolica nel cuore del Kenya.

1903 – Capannone fatto erigere da Karoli (anche Karuri o Karori) a uso scuola. Karoli, in piedi, osserva alcuni dei suoi figli tra i quali sta seduto padre Vignoli

Nel villaggio di Karuri

La strada che porta a Tuthu si snoda tra verdissime piantagioni di tè distese sulle ripide colline che caratterizzano la zona, all’orizzonte le montagne dell’Aberdare che i primi missionari dovettero attraversare a piedi, partendo da Naivasha (dove arrivava la ferrovia) con un viaggio di due giorni accompagnati da portatori (per tutto il materiale necessario a impiantare la missione) e soffrendo le basse temperature di notte (a oltre duemila metri e a fine giugno, il periodo più freddo dell’anno).

Le difficoltà degli inizi, ci fanno comprendere l’insistenza dell’Allamano sull’importanza della preparazione e il motivo per cui voleva i suoi missionari «santi in modo superlativo», zelanti, disposti a sacrificare la vita, perché preferiva la qualità, al numero. «Prima santi, poi missionari», ripeteva spesso, sottolineando la santità come valore prioritario.

L’evangelizzazione e la promozione umana era il metodo proposto dal Fondatore e fu applicato puntualmente dai suoi missionari. Per prima cosa i missionari si dedicarono allo studio della lingua kikuyu e, dopo neppure un anno, iniziarono una piccola scuola in una capanna offerta da Karuri. Visitavano sistematicamente la gente nei villaggi con una particolare attenzione alla cura dei malati e ai bambini orfani o abbandonati. Lungimiranti e intraprendenti, portarono semi nuovi per l’agricoltura e installarono una segheria per le varie costruzioni necessarie per lo sviluppo delle missioni.

Gli errori commessi erano compresi e perdonati dalla gente che vedeva la buona volontà e la retta intenzione dei missionari dediti unicamente al servizio della popolazione che il Signore aveva loro affidato.

«Un albero secolare attorniato da liane e gettante le radici in due branche separate forma come un tunnel; ivi fu sepolta Suor Giordana morta nelle missione di Tusu. Due catechisti più coraggiosi si uniscono alle suore nelle preci di suffragio» (dida originale da MC 1907/11 p. 163)

Una croce nella foresta

Dal 1903 la missione di Tuthu ebbe la presenza delle Suore Vincenzine (quelle fondate da san Giuseppe Cottolengo), che lavorarono in Kenya a fianco dei missionari della Consolata per più di 20 anni. Una croce (un tempo di legno) con il nome di suor Giordana rimane nella foresta a pochi chilometri da Tuthu, a perenne memoria della loro presenza e del servizio per la gente.

La loro partenza da Tuthu nel 1909 diede un’ulteriore spinta al processo per la fondazione dell’Istituto delle suore missionarie della Consolata avvenuta nel 1910.

Appena arrivati a Tuthu, i missionari celebrarono la prima messa di ringraziamento, il 29 giugno 1902, ai piedi di un mugumo, albero sacro della tradizione kikuyu. Per ricordare tale evento e proprio sul luogo della celebrazione fu poi costruita la cappella della memoria. La struttura in metallo è adornata da pareti in vetro colorato. A fianco, al posto dell’albero, c’è una stele con una grande croce, su cui è scritta la data di arrivo, i nomi dei quattro missionari e il motto: «Annunceranno la mia gloria alle nazioni» (Is 66, 19). Due portici con i misteri del santo Rosario partono da entrambi i lati della cappella e si estendono lungo la piazza come per accogliere in un abbraccio i pellegrini che visitano quel luogo sacro da cui si è irradiato il dono delle fede.

Il battesimo del chief Karuri e della sua ultima moglie (scelta dopo aver onorevolmente sistemato le altre) con i nomi di Giuseppe e Consolata, suggellò un processo di avvicinamento e reciproca fiducia che con il tempo avrebbe trasformato Tuthu in un centro di irradiazione del cristianesimo in altre regioni fino a raggiungere il Nord del Kenya. Da Murang’a i missionari della Consolata raggiunsero Nyeri, Nanyuki, Isiolo, Meru e, più tardi, Embu. Oggi, la vitalità delle diverse comunità cristiane continua a dare un contributo decisivo alla società attraverso l’educazione, i centri sanitari e molte altre attività di carattere sociale ed economico.

Messa di ringraziamento

Il 2 marzo 2019, dopo 117 anni, la direzione generale celebra l’eucaristia nello stesso luogo. È presente anche padre Luigi Brambilla, attuale parroco del santuario della Consolata di Tuthu da cui sono nate ben altre 31 parrocchie nella sola diocesi di Murang’a.

Il superiore generale, padre Stefano Camerlengo, presiede l’eucarestia e nell’omelia ricorda che «questa è una visita storica, in quanto non capita spesso che la direzione generale al completo si rechi in una regione e tanto meno visiti una nostra comunità locale. Soprattutto perché la missione di Tuthu rappresenta l’inizio della nostra missione in terra africana. Non possiamo, come missionari della Consolata dimenticare questo, perché un popolo senza memoria non può vivere – insiste padre Stefano -. Lo stesso vale per un istituto: la memoria storica è garanzia per il futuro».

Durante l’Eucaristia sono richiamate le diverse situazioni di sofferenza e conflitto dove l’istituto è presente come in Venezuela, nella Repubblica Democratica del Congo e in Costa d’Avorio. Con la mente e la preghiera la direzione generale ricorda tutti i missionari che sono passati da Tuthu e tutti quelli che hanno evangelizzato il Kenya tra i popoli nomadi, i contadini delle campagne e gli abitanti delle città.

«Sotto la croce preghiamo per trovare la forza e il coraggio di reinventare lo stile missionario delle nostre comunità, consapevoli che guardando al passato si costruisce il futuro attraverso uno sforzo quotidiano, convinti che il meglio per il nostro istituto e per la missione deve ancora venire», conclude il padre generale.

L’atmosfera di sacralità che circonda i luoghi della memoria di Tuthu, fa sorgere spontaneamente suggestioni ed emozioni. Il consigliere generale per l’Africa, padre Godfrey Msumange, ricorda che «qui siamo nelle nostre radici. Mi piace immaginare 117 anni fa. Mi metto nella pelle dei primi missionari. Certamente erano decisi, coraggiosi, determinati e pieni di zelo missionario. In mezzo a mille sfide, animati dalla fede e amore di Dio, hanno superato tutto. Quanti sacrifici», esclama baba Godfrey. «Proprio per questo mi piace dire che il loro vero nome è passione missionaria, è amore, è coraggio, è dono. Sì, verso il Signore ma soprattutto verso i fratelli e sorelle desiderosi di conoscere il Signore».

Padre Mino Francesco Vaccari, da tanti anni missionario in Kenya, è arrivato dalla missione di Rumuruti per unirsi alla comunità. In un momento di condivisione, durante la preghiera delle lodi, dal profondo della sua esperienza, con emozione, ci confida che «questo posto è molto importante per l’Istituto e la storia della missione in Kenya, quindi dobbiamo tenerlo come il centro di irradiazione della fede. È la prima volta che incontro tutta la direzione generale riunita così. Sembra di essere al tempo degli Apostoli che erano uniti come in una sola famiglia. Sentire la vicinanza della direzione generale è una benedizione per me e per tutti».

Prendendo lo spunto da quella confidenza, padre Stefano aggiunge che «l’esempio dei primi missionari indica chiaramente che non siamo solo delle comunità per la missione, ma comunità in missione. Siamo strumenti dello Spirito, l’unico che muove i cuori ed è capace di trasformare le persone e la storia. Fare missione è ascoltare il cuore della gente… è trasmettere l’esperienza della tenerezza di Dio e della compassione di Gesù soprattutto a chi è debole e ai margini».

Parole sagge che traggono dall’esperienza di Tuthu insegnamenti per l’oggi della missione. Secondo il consigliere generale per l’Europa, padre Antonio Rovelli, «la memoria non deve diventare un semplice contenitore di ricordi ma, come Tuthu ci insegna, deve essere qualcosa che si custodisce a partire dal futuro. Il ricordo dell’eroismo dei primi missionari deve rivitalizzare la vita dei missionari della Consolata oggi e dare un rinnovato impulso al coraggio e all’entusiasmo per l’evangelizzazione e custodire la memoria di Tuthu significa farci tutti responsabili del nostro passato per gettarci in un movimento proteso in avanti verso altre tappe della missione universale». Al termine della visita, il superiore generale esprime un augurio per tutte le nostre comunità sparse nel mondo: «L’esempio dei primi quattro missionari di Tuthu ci sia di stimolo per reinventare l’arte del vivere insieme attraverso un esodo continuo da sé e i seguenti atteggiamenti fondamentali: l’accoglienza, il dialogo, la fraternità e la corresponsabilità in missione».

L’Istituto nato nel 1901 ai piedi della Madonna Consolata a Torino, in Italia, ha più di cento anni, e rimane fedele al carisma ereditato dal Fondatore, il beato Giuseppe Allamano. Seguendo le orme dei pionieri nella missione di Tuthu, continua a raggiungere nuovi popoli e culture. Prova di questo è l’inizio di una nuova presenza in Madagascar. I missionari dell’Allamano oggi sono 950 dei quali 463 sono africani. Sono presenti in 28 paesi in Africa, America, Asia ed Europa. La Consolata è la protagonista di tutto questo con il suo silenzio, il suo ascolto, la sua donazione.

Jaime Carlos Patias
Consigliere generale per l’America


Tuthu: umile inizio di una grande missione

«E tu Tuthu non sei il più piccolo insignificante villaggio del Kikuyu perché da te è iniziato l’annuncio di salvezza a tante genti…». Sono milioni i cristiani che in Kenya, devono a questo villaggio l’origine della loro fede: dalle zone poco a Nord di Nairobi fino ai confini dell’Etiopia e della Somalia.

Anche un fiume maestoso parte da una sorgente piccola e modesta: è l’inizio, è la nascita.

I cristiani che vengono in visita e in preghiera trovano il luogo ideale: bellezza della natura, tanta pace e silenzio, la bella chiesa, la cappella della memoria, il chiostro del rosario, la grotta di Lourdes, la cappella dell’adorazione. Poi intorno, posti suggestivi nella foresta. Il luogo dove i missionari impiantarono una storica segheria, o il posto del martirio del catechista Aloisio Kamau dove abbiamo eretto una croce a ricordo, meta di pellegrini e preghiere.

Qui storia e geografia si uniscono a fare di Tuthu un posto veramente suggestivo, testimone della grandezza del Fondatore e dei primi missionari.

Non deve succedere che perdiamo questa storia e questa testimonianza. Nelle dovute proporzioni, sarebbe come se Assisi rimanesse senza Francescani! Torino e Tuthu dovrebbero gemellarsi: la radice dell’istituto e la radice delle nostre missioni.

La porta della chiesa

Fu voluta da padre Tommaso Biasizzo che costruì l’attuale chiesa. Si rivolse a fratel Filippo Abbati, autore di altari, porte, tabernacoli intagliati in legno, sparsi in diverse nostre missioni «storiche».

Fratel Filippo chiese a me di disegnargli i «cartoni» con i soggetti suggeriti da padre Biasizzo.

Nel pannello in alto a sinistra sono rappresentati i simboli dei sacrifici kikuyu generalmente offerti sotto un mugumo (un maestoso ficus) considerato albero sacro. Su quello di destra, i simboli della nuova fede: la Croce e la Madonna Consolata.

Nei pannelli di mezzo è rappresentato l’incontro dei missionari, scesi dalle motagne dell’Aberdare, con il capo Karuri wa Gakure. In basso a destra è inciso il logo di quel tempo dei missionari della Consolata e, a sinistra, un simbolo del Kenya.

padre Luigino Brambilla
parroco della parrocchia santuario della Consolata a Tuthu

 




Essere auguri, non fare gli auguri


Testo e foto di Stefano Camerlengo


Tornato in Kenya in occasione della Settimana Santa per partecipare all’assemblea dei missionari subito dopo Pasqua, ho avuto la gioia di un’esperienza bellissima nel Nord del paese, nella diocesi di Maralal, andando a celebrare il triduo pasquale nella prima missione del territorio, Baragoi, fondata nel 1952.

Giovedì Santo

Il Giovedì Santo insieme a Patrick, l’autista della comunità della casa regionale di Nairobi, iniziamo il viaggio: Nairobi – Baragoi, 640 km. Un viaggio dal sapore antico, di missione vera, con un pezzo della strada asfaltata, opera dei soliti cinesi, un’altra parte in cantiere e l’ultimo tratto ancora da sistemare. Un viaggio impegnativo. Prima tappa alla missione di Rumuruti e incontro con padre Mino Vaccari, un missionario quasi novantenne che rimane sempre presente nonostante le burrasche della vita.

Terminata la colazione e il dialogo con il missionario, via per la strada verso Maralal dove siamo attesi alla casa del vescovo, mons. Virgilio Pante. Con lui consumiamo un fraterno pasto e dopo i saluti via di nuovo verso Baragoi, ballando al suon di musica cadenzata dalla strada piena di pietre e corrugazioni varie. Finalmente alle 16.30 arriviamo alla missione di Baragoi, una delle presenze dell’Imc più antiche.

Siamo accolti dalla musica proveniente dalla chiesa strapiena di gente che innalza canti di gloria al Signore nel ricordo del giorno dell’Eucarestia. Una Messa semplice, senza troppe cose, ma sentita e partecipata e soprattutto cantata da tutti. Certamente devo riconoscere l’emozione provata all’intenso ricordo dei bei momenti vissuti in brousse con la gente nella foresta del Congo (allora Zaire), quando più giovane vivevo in una missione di frontiera.

Venerdì Santo

La giornata nella cittadina inizia con una visita a un panificio, creato dai nostri missionari e affidato a due giovani intraprendenti. Una casa dignitosa costruita per accompagnare il progetto. Un pane viene venduto a 25 scellini (circa 25 centesimi al chilo). Non è molto, anzi è quasi niente, ma è prezioso perché qui da tempo non piove, la fame è già presente e la crisi si avvicina. Terminata la visita andiamo a benedire un grande gruppo di persone, per lo più donne e bambini, che sfidando il calore e il sole proibitivi s’incamminano verso una collina simbolica recitando il Rosario e tornano facendo la Via Crucis, il tutto percorrendo diversi km, precisamente 7 di andata e 7 di ritorno, con un clima che definire solo caldo è un gioco, infatti solo ieri c’erano circa 32 gradi all’interno della casa e 43 fuori.

La camminata ha voluto essere una testimonianza della fede, una manifestazione della preghiera al Dio della vita che per amore muore in croce.

Personalmente non oso prendere parte alla camminata, segno della vecchiaia che arriva, a causa del caldo eccessivo e soprattutto del sole che non ha pietà, ma benedico con tutte le mie forze questa gente che nonostante tutto, sfidando il caldo eccessivo, la mancanza di pioggia che attanaglia la regione da mesi, vuole liberamente e con calma, camminare insieme la Via Crucis di Gesù per rendergli gloria e lasciarsi riempire dalla sua grazia.

Anche se non sono andato con loro mi sento parte di questa gente semplice che, già da ieri sera, al mio arrivo mi ha adottato come uno di loro e con me vogliono vivere il mistero pasquale.

Verso le ore 13.30 tutto il gruppo della camminata ritorna alla chiesa parrocchiale. Una breve pausa per rifocillarsi, bere dell’acqua e riposare un pochino e poi inizia la seconda celebrazione della giornata, quella della liturgia della croce. La gente aumenta a vista d’occhio e alla fine la chiesa si trova totalmente piena. La cerimonia si svolge con attenzione e semplicità, senza troppi fronzoli guardando all’essenziale dello spirito della liturgia del Venerdì Santo che non vuole partole inutili e che concentra tutto il messaggio attorno ai tre segni: la Parola, la Croce, la Comunione.

Sabato Santo

Inizia con le confessioni, dalle 9.00 circa fino alle 12.00. Una fila ininterrotta di persone, grandi e piccole, con ordine e rispetto, molto ben preparati si avvicinano per la confessione individuale e la relativa penitenza proprio per prepararsi bene alla celebrazione pasquale.

Nel pomeriggio si parte per iniziare le celebrazioni pasquali in quasi tutte le cappelle sparse sul territorio. Con padre Matthew Kirema, il parroco, affrontiamo la pista più difficile e problematica, mentre padre Roberto Sibilia va in altri villaggi. Dopo 6 o 7 km siamo costretti a fermarci perché la Land Rover, di soli 22 anni di vita, inizia a fare capricci e ci obbliga ad una sosta forzata. Fortunatamente siamo in zona dove c’è connessione e possiamo chiamare un giovane meccanico che con una rapidità sorprendente ci raggiunge e in pochi minuti ripara il guasto.

Si riparte e vengo lasciato sotto un albero nel villaggio di Soit Ngiro. Un villaggio particolare di Samburu, incollato sulla collina, vicino al letto di un fiume che da tempo non conosce acqua. In questo villaggio vivono più o meno 30/40 famiglie, isolate dal resto del mondo.

Arriviamo e l’accoglienza è subito una festa, soprattutto da parte dei bambini e delle donne; gli uomini rimangono in disparte sotto un albero a dialogare tra loro, come se niente fosse. Anche la mia cappella è un albero molto grande e ombroso che lascia passare una dolce arietta che rinfresca l’ambiente, e ce n’è bisogno. La partecipazione è sentita e attenta, le mamme devono seguire la messa e le parole del padre (in kiswahili, con cui avevo già dimestichezza in Congo), e allo stesso tempo devono accudire il bambino che portano in braccio e quello più grande, che gli scorrazza attorno. È proprio vero qui è tutto in mano alle donne. Povera Africa senza le donne.

In una parte del villaggio scorgo un movimento particolare, curiosamente vado a guardare e trovo una festa per la casa nuova che una famiglia sta preparando. Alcune donne stanno conficcando i pali per la manyatta, altre trasportano materiale, gli uomini all’ombra stanno guardando dopo aver terminato la festa di benedizione per la nuova casa e bevuto alla faccia… del malocchio, ma anche delle donne! Terminata la messa e la visita al villaggio con il catechista, una sua bambina, un giovane e una mamma anziana, iniziamo a piedi la via del rientro per arrivare alla via principale e ritrovarci con padre Matthew che dopo averci lasciato ha proseguito per altri due villaggi più lontani. Percorriamo il tratto di diversi chilometri e alla fine stanchi ma contenti ci ritroviamo con il padre per fare ritorno alla missione già a notte avanzata.

Appena arrivato, via di corsa alla cappella Huruma, situata alla periferia Sud della cittadina di Baragoi, in una zona abitata prevalentemente da Turkana, dove un bel gruppo di cristiani ci sta aspettando per la veglia pasquale. Termino stremato, senza forza né voce, ma contento di aver potuto servire il Signore in questo angolo dimenticato di mondo, dove non solo il calore è un problema, ma soprattutto la mancanza d’acqua. Sono ormai le 23.30 passate, mi siedo in casa, bevo quasi un litro d’acqua contento di aver passato una Pasqua speciale, con della gente semplice e senza troppe pretese, dove tutto è dono da accogliere e da celebrare, anche la fatica di vivere.

 

Domenica di Pasqua

Arriviamo così alla domenica di Pasqua. Di primo mattino arriva il mio accompagnatore per raggiungere due centri, relativamente vicini alla missione, precisamente Logetei e Nachola.

La prima comunità è quella di Nachola, gente buona e accogliente. Un centro situato su una collinetta da dove si può dominare tutta la valle. Una valle dai contorni infiniti, con una bellezza surreale perché ti dà l’impressione di essere fuori dal mondo, proiettato quasi sulla luna. La cappella è bella e bene areata, uno spettacolo poter celebrare animati dai canti e dalla partecipazione attiva della gente. Terminiamo cantando e lodando Iddio per questa nuova Pasqua che ci fa vivere.

A Logetei, la cappella è più antica e caldissima. Qui ci sono una quarantina di adulti e giovani che sono pronti per ricevere il battesimo e la cresima. Siamo già arrivati alle ore 11.30 circa, il sole è forte su nel cielo, e la cerimonia inizia con canti e festa grande. I giovani sfilano vicino all’altare esibendo i loro nomi da cristiani, consapevoli del grande passo che stanno facendo. Terminiamo la celebrazione e stanchi e contenti ci avviamo verso casa, con la gioia dell’operaio che anche oggi qualche cosa ha potuto realizzare per la gloria del Suo nome.

Qualche riflessione

Pensando alla Pasqua e alla tradizione degli auguri, vivendo quest’anno il triduo con queste persone semplici ho pensato che poteva essere l’occasione per tentare di «essere auguri» più che pensare di «fare gli auguri»!

Anziché fare gli auguri, essere auguri, farsi augurio per gli altri, non chiedendo cosa mi possono donare, ma impegnandosi a portare qualcosa per rendere la Pasqua e la vita più bella, più umana. Come insegna il Nuovo Testamento, per il quale la felicità non è un’utopia,  ma una possibilità concreta alla portata di tutti. Infatti, la felicità per Gesù, non consiste in quel che si riceve, ma in quel che si è capaci di donare: «Si è più beati nel dare che nel ricevere» (At 20,35). Se la felicità dipende da quel che si riceve, si rischia di consumare l’esistenza sempre amareggiati, perché gli altri non hanno saputo rispondere ai bisogni, ai desideri per i quali si è atteso invano una risposta. Ma se la felicità consiste invece in quel che si dona, questa può essere possibile, immediata e piena; anzi, più si dà e più si è felici, perché il Padre non si lascia vincere in generosità, e regala vita a chi dona amore: «Con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi; anzi, vi sarà dato di più» (Mc 4,24; Lc 12,31).

Essere un augurio per gli altri significa fare della generosità il distintivo che rende riconoscibili.  Come il Cristo risuscitato, che ogni volta che si manifesta ai suoi discepoli dice loro: «Pace a voi» (Gv 20, 19.21.26). Il suo non è un augurio, ma un dono. La pace può essere un dono solo quando è espressione di tutta la vita della persona, altrimenti è solo un suono. Chi dona pace non solo comunica gioia, ma arricchisce la propria: «Perché la nostra gioia sia perfetta» (1 Gv 1,4). La pace, l’ebraico shalòm, nel mondo semitico ha un significato molto più ampio di quello conosciuto in Occidente, infatti include tutto quel che di buono e bello rende appagata la persona, dalla pienezza di salute all’amore, dal lavoro al benessere: la felicità. Per questo in quella cultura, come in quella africana in genere, il saluto augurale, non è mai espresso solo verbalmente, ma sempre accompagnato da un dono, che può essere un dolce, una bevanda, un frutto, per contribuire alla felicità e alla gioia di chi riceve il saluto. Per questo quando Gesù dona pace, regala felicità, e quel che aveva promesso non rimane un augurio, ma diventa realtà, affinché «la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11; 16,24). I Vangeli invitano a essere portatori di questa pace: «In qualunque casa entriate, prima di tutto dite: “Pace a questa casa!”», (Lc 10,5) affinché questa raggiunga tutti gli uomini.

Ringrazio di cuore e saluto fraternamente padre Matthew e padre Roberto, i due confratelli che da tempo sono auguri per questa gente, in mezzo a questo popolo.

Coraggio e avanti in Domino!

Stefano Camerlengo
superiore generale IMC


Kenya: qualche informazione per capire

l Kenya è situato nella regione centrorientale dell’Africa, a cavallo dell’equatore. Ricopre una superficie di 582.546 km2 e ha oggi una popolazione di 52.051.295 abitanti (stima al 5/5/2019 del Population Clock). È caratterizzato da 44 gruppi etnico-linguistici tra cui i Kikuyu e i Luo (le due etnie più numerose), gli Akamba, i Meru, i Masai, i Samburu, i Turkana, i Borana, ecc. comprese anche le due «tribù» dei Wazungu (cioè quelli che noi diciamo i «Bianchi») e degli Asiatici. Le lingue ufficiali sono lo swahili e l’inglese.

Per quanto riguarda le religioni: i keniani sono per il 47% cristiani protestanti, per il 25% cattolici, per il 12% di chiese indipendenti africane, per l’11% musulmani e per il 5% sono tradizionali, atei o di altre religioni (dal censimento del 2009).

Il Kenya è un paese indipendente dal 1963 ed è una repubblica presidenziale la cui capitale è Nairobi.

La moneta è lo scellino e i prodotti principali sono il caffè, il tè, il granoturco, fiori e ortaggi per esportazione e il bestiame.

Le malattie più diffuse sono la malaria, l’amebiasi, la bilharziosi, la tubercolosi e, in questi ultimi anni, l’Aids. La mortalità infantile è passata da 119 su 1000 nati vivi nel 1960 a 37 su 1000 nel 2017 (in Italia 3 su 1000); la vita media si aggira intorno ai 64 anni (fine 2017 – Italia 82) e l’analfabetismo (sopra i 15 anni) è circa del 22% nel 2015.

Dalla diocesi di Marsabit alla nascita della diocesi di Maralal

La diocesi di Marsabit, alla sua creazione nel 1964, si estendeva nel Nord del Kenya dal Lago Turkana fin quasi alla Somalia, in quello che durante la colonia era il territorio (inaccessibile ai missionari) a Nord delle diocesi di Nyeri e del Meru e abitata dalle popolazioni Samburu, Turkana, Rendille, El Molo, Gabbra, Borana e Somali. Aveva una superficie di circa 100.000 km2 con una popolazione allora stimata a poco più di 170mila persone.

L’evangelizzazione del territorio ha avuto inizio nel 1952 ad opera dei missionari della Consolata con l’apertura della missione di Baragoi. Nel 1964 è stata creata la diocesi di Marsabit formata dall’omonimo distretto e da quello Samburu (ora i distretti si chiamano county, contea). Esistevano allora 12 parrocchie/missioni in tutto per una popolazione di 180mila persone e 615 cattolici (dati del 1969). Il primo vescovo è stato mons. Carlo Cavallera, trasferito da Nyeri. Nel 1981 gli è succeduto un altro missionario della Consolata, mons. Ambrogio Ravasi, tutt’ora vivente e ritirato nel santuario mariano di Marsabit.

Nel giugno 2001 la grande diocesi è stata divisa in due: il distretto di Marsabit (78mila km2, 175mila abitanti, 20mila cattolici e 10 parrocchie/missioni) è rimasto con il vescovo Ravasi ed è stata creata la diocesi di Maralal (21mila km2, 144mila abitanti, 24mila cattolici e 12 parrocchie/missioni) nel distretto Samburu con il nuovo vescovo mons. Virgilio Pante.

I dati più recenti delle due diocesi

(fonte Annuario pontificio 2017)

Marsabit: il vescovo Ravasi ha dato le dimissioni nel 2006 per raggiunti limiti di età e mons. Peter Kihara, missionario della Consolata keniano, nel novembre dello stesso anno è stato installato come nuovo vescovo, trasferito dalla diocesi di Murang’a. Ci sono 386mila abitanti, 45.579 cattolici, 13 missioni, 20 preti locali e 13 missionari. La diocesi è caratterizzata da una popolazione a maggioranza islamica.

Maralal: 255mila abitanti, 76.797 cattolici, 14 missioni, 19 preti diocesani e 13 missionari. Nativo della diocesi è il vice superiore generale dei missionari della Consolata, padre James Lengarin.

Situazione attuale

Dalla metà degli anni ‘90 sia il distretto del Marsabit che quello Samburu, soprattutto, sono diventate aree piuttosto pericolose a causa dell’acuirsi delle tradizionali razzie di bestiame tra i vari gruppi etnici. La presenza dei guerriglieri/predoni shifta nel Marsabit, quella dei predoni ngorokos nel Samburu e l’interesse di trafficanti di bestiame sia verso Nairobi che verso i paesi della penisola arabica, ha aggravato la situazione. Per questo il governo ha concesso ai capi dei villaggi di tenere armi leggere e, da quel momento, molta gente tiene un fucile nella capanna.

Nel 1996, durante la campagna elettorale nel Samburu, alcuni candidati al Parlamento hanno alimentato le rivalità tra le varie etnie, sfociate poi in gravi razzie e scontri a stento domati dall’esercito, svantaggiato sui locali che conoscono meglio il territorio. Ci sono stati decine di morti e molte persone sono state costrette a raccogliersi in grandi campi di rifugiati, soprattutto attorno a Baragoi, o a fuggire nella periferia di Maralal. La situazione ora sembra calma, anche se la presenza diffusa di armi leggere continua a favorire il banditismo.

In questi ultimi anni si è avuto anche un crescendo delle tensioni etniche tra Turkana e Samburu e anche con i Pokot, che vivono nella Rift Valley, ai confini Sud del Samburu. Queste tensioni hanno avuto anche gravi ripercussioni nel vicino Laikipia dove c’è la missione di Rumuruti. Tutto questo ha ovviamente aumentato la povertà e l’incertezza per il futuro.

Le due contee (Marsabit e Samburu), inoltre, hanno ampie zone desertiche e sono periodicamente colpite da gravi crisi di siccità. Anche ora sono già passate due stagioni delle piogge (ottobre-novembre e marzo-aprile) senza che sia piovuto a sufficienza e nella sola contea Samburu sono oltre 90mila le persone a grave rischio di fame.

È anche evidente il problema dei giovani, che costituiscono oltre il 50 per cento della popolazione. Finite le scuole elementari e medie (primaries), non sanno cosa fare. Le scuole secondarie sono concentrate nei centri principali (Maralal, Baragoi, Wamba) e quindi distanti dai villaggi dove gran parte della popolazione vive. Sono tutte residenziali e costose (trasporto, uniformi, libri, materiale didattico, effetti personali e tasse scolastiche richiedono dai 600 agli oltre 1.000 euro all’anno) e, quindi, per molti continuare gli studi è un miraggio. E finita la scuola è difficile trovare un lavoro nella regione.

Molti stanno vivendo anche un periodo di confusione a causa del pullulare di sètte religiose. I giovani, quindi, rappresentano la grande sfida della società keniana e di conseguenza delle parrocchie della diocesi, che spesso sono l’unico punto di riferimento della gioventù anche fuori dalla scuola.

(a cura della redazione)