I capitoli generali della famiglia Consolata, in un cambiamento d’epoca


Indice


Tra l’8 maggio e il 24 giugno si sono tenuti i due capitoli generali dei missionari e delle missionarie della Consolata. Le due assemblee hanno avuto anche una due giorni in comune, il 3 e 4 giugno, durante la quale hanno partecipato in collegamento online anche diversi laici missionari della Consolata, che completano la famiglia Allamaniana.

Il capitolo generale si tiene ogni sei anni. È un’assemblea della durata di circa un mese, durante il quale i delegati o le delegate degli istituti, provenienti da tutto il mondo, si riuniscono e condividono riflessioni, bilanci e programmi.

Infine, l’assemblea dei capitolari elegge i nuovi consiglieri, il (o la) generale e il (o la) vice generale, che saranno le guide dei rispettivi istituti fino al 2029.

In questo periodo storico di cambiamenti rapidi e profondi, pensiamo che i prossimi sei anni saranno fondamentali per i due istituti fondati da Giuseppe Allamano. Abbiamo dunque ritenuto importante raccontare in un dossier, senza pretese di essere esaustivi, le linee principali emerse dai lavori.

Ma.Bel.

Padre Stefano Camerlengo, superiore uscente, con il neo eletto superiore generale Imc, padre James Bhola Lengarin


Essere fuoco che accende

Il nuovo superiore generale dei Missionari della Consolata.

Padre James Lengarin è nato a Maralal, in Kenya. È il nono successore di Giuseppe Allamano. Forte di un’esperienza come formatore in Italia e nel suo paese, negli ultimi sei anni è stato vice di padre Stefano Camerlengo, generale per due mandati. Abbiamo raccolto le sue prime impressioni.

Decimo superiore generale dei Missionari della Consolata, eletto il 14 giugno scorso, padre James Bhola Lengarin è nato nel 1971 a Maralal (Kenya). È il primo generale di origine africana.

Padre James, lei è stato per sei anni vice superiore generale. Che cosa si porta dietro da questa esperienza?

«Quando entriamo nell’istituto pensiamo di conoscerlo, però in questi sei anni ho visto davvero la realtà dell’Imc, visitando tantissime missioni, in diversi paesi. Ho constatato che in ogni paese la missione ha il suo approccio. Ho incontrato tanti missionari che non conoscevo. Ci si incontra con le persone, si scambiano le impressioni e le esperienze, e questo ci fa innamorare ancora di più del carisma. Come diceva Giuseppe Allamano, lo spirito di famiglia è una cosa reale e concreta. Si condivide, si pensa, si sogna insieme.

Anche l’incontro con i popoli che accolgono i miei confratelli è stato importante. Lavorano e pregano con loro, iniziano a prendersi delle responsabilità nella chiesa, e sono stimolati a conoscere la nostra famiglia missionaria. E questo ti fa innamorare del genere umano».

Viviamo in un cambiamento di epoca. Quali sono le novità principali decise nel capitolo per affrontare i prossimi anni?

«Ci sono cambiamenti a tutti i livelli. Abbiamo fatto un’analisi delle sfide del mondo di oggi, sia quello esterno che quello interno all’istituto. Abbiamo deciso che è importante accettare di rinnovarci, e per farlo occorre una formazione continua. È una dimensione che ognuno di noi deve avere e che tocca tutto l’arco della vita. La formazione ci serve per non vivere di rendita. È come una rinascita che possiamo vivere anche andando a cercare nel nostro carisma delle novità. Il carisma è sempre lo stesso, ma il modo di applicarlo e viverlo deve essere diverso a seconda dei tempi e delle generazioni.

Un altro aspetto che ci fa riflettere è quello dei cambiamenti di vocazione: ci sono alcuni missionari che escono dall’istituto: possiamo imparare dalle loro motivazioni, e capire cosa non sta funzionando. Le nostre costituzioni sono attuali per questi tempi o c’è qualcosa da cambiare?

Nel 2026 saranno cento anni dalla morte del nostro fondatore. Al capitolo ci siamo detti che oltre a celebrare, dobbiamo riflettere e rispondere a delle domande: chi era questo papà? Cosa ci dice oggi? Cosa ci ha lasciato? Cosa abbiamo fatto bene, cosa resta da fare?

Quale può essere il ruolo dei laici nel futuro dell’istituto?

«Abbiamo riflettuto sul coinvolgimento dei laici nella nostra vita quotidiana. Ne parliamo solo come appendice o sono parte integrante del nostro istituto? Sono la terza pietra (missionari, missionarie e laici), facendo riferimento al focolare tradizionale africano? Abbiamo analizzato quali sono le problematiche che emergono a vivere con loro.

Abbiamo previsto di fare un incontro internazionale dei laici, nel quale si parlerà delle esperienze che abbiamo avuto e di come valorizzarle e, in condivisione con loro, si rifletterà su come dare un’identità chiara e ufficiale ai laici della Consolata. Porteremo avanti questo processo nei prossimi sei anni.

Penso anche alla componente Imc rappresentata dai fratelli missionari della Consolata. La loro importanza e il fatto che oggi sono solo trentuno è un richiamo per noi a essere più attenti a promuovere la loro vocazione».

E quale collaborazione con le missionarie?

«Attualmente ci sono due incontri all’anno tra le direzioni generali per organizzare alcune attività da svolgere insieme. Ad esempio, alcuni momenti di condivisione sul nostro comune carisma. Poi è un fatto che la loro presenza è diminuita dove siamo attivi noi e viceversa.

Al di là di questo, si è parlato anche della necessaria collaborazione con altre congregazioni religiose. Importante in questo mondo che cambia».

Come vede la missione in Europa?

«In Europa è cambiata la nostra missione. Il continente è stato la terra di animazione missionaria e vocazionale, fin dall’inizio. Si presentava la missione al popolo, anche per ottenere aiuti spirituali e materiali. Adesso l’Europa è diventata terra di missione ad gentes. Anche la rivista è cambiata: parlava del mondo della missione alle persone in Italia. Ora di cosa parlate? Anche della missione qui. Inoltre il mondo è cambiato e ha bisogno di altri modi di comunicare, messaggi veloci e corti.

Un altro grande cambiamento è l’attenzione a non avere più strutture pesanti, perché non abbiamo più persone che le riempiono».

Ci dica, secondo lei, qual è un punto di forza e uno di debolezza dei Missionari della Consolata oggi.

«Come punto di forza direi che abbiamo un istituto stabile, che rispecchia quello che il fondatore voleva che fosse.

Dal 1960 siamo rimasti in modo costante a circa 900 missionari.

È forte perché, oltre agli anziani, abbiamo più del 50% che sono giovani. Infatti, i confratelli di origine africana sono 520, e sono in maggioranza giovani. È dal 1970 che si sono iniziate a cercare vocazioni in Africa, e c’è stato un boom. Abbiamo, inoltre, una grande diversità culturale. Dall’età di 22 anni, i nostri giovani nelle comunità formative stanno insieme ad altri giovani provenienti da tutto il mondo. L’interculturalità è un valore importante nella nostra società.

Come punto di debolezza, invece, direi l’accompagnamento dei missionari. Negli anni passati essi erano formati in Italia e conoscevano bene carisma e gli insegnamenti del fondatore, e dunque li trasmettevano bene a noi studenti africani. In seguito, la formazione è stata presa in mano da confratelli di altre culture, ed è mancato qualcosa nel passaggio delle conoscenze. Dal 2011 anche la leadership è cambiata, i primi africani hanno cominciato ad essere superiori regionali o delegati, e anche in questo forse è venuto a mancare qualcosa dello stile originario.

Un altro aspetto che vedo è questo: siamo in tante missioni che non sono più di ad gentes. Abbiamo presenze belle, di accompagnamento delle persone nella vita quotidiana, ma nel nostro carisma parliamo di andare verso i non cristiani. Dobbiamo allora definire bene cos’è l’ad gentes per noi. Prima si sapeva bene dove erano i non cristiani.

Le sfide che il mondo ci propone possono diventare opportunità per dei missionari che sognano e che offrono la loro vita per dare una risposta giusta».

Si aspettava di essere eletto superiore generale?

«Non ero pronto a questo. La prima cosa che ho fatto è stata cinque minuti di silenzio ma anche di pianto. Mi sono trovato in difficoltà quando mi hanno chiesto se avrei accettato.

Mi sono detto, faccio la mia parte, non sono da solo, ci sono i confratelli. Niente è impossibile, ci vuole il tempo affinché l’impossibile diventi possibile.

Io vengo da una etnia che non ha un re, ma ha capifamiglia che formano un consiglio degli anziani.

Secondo me per tutte le cose è necessario coinvolgere gli altri missionari nelle loro responsabilità, così tutti i membri dell’istituto partecipano con la loro vita e diventiamo un fuoco che accende gli altri fuochi (Lc 2,49)».

Marco Bello


Un’esperienza che ti cambia

Il XIV capitolo generale dei missionari della consolata

Innanzitutto, un richiamo alla memoria della storia, poi l’ascolto della presenza nei quattro continenti, una riflessione sul futuro, infine l’elezione della nuova direzione generale. Il tutto passando attraverso due giorni di riunione di «famiglia» con le sorelle e i laici. Il racconto di un giovane padre capitolare.

Dal 22 maggio al 24 giugno scorsi, come Missionari della Consolata ci siamo riuniti a Roma per il nostro quattordicesimo capitolo generale.

Già prima di arrivare in casa generalizia sentivamo di avere ricevuto una grazia a partecipare a un evento speciale, che, in qualche modo, avrebbe dato un orientamento al futuro del nostro istituto. Grati per la fiducia riposta in noi da coloro che ci avevano indicati come delegati per quest’importante assemblea, percepivamo anche la responsabilità del lavoro che ci accingevamo a compiere.

Uno dei primi atti del capitolo è stato la firma, da parte di ogni missionario, della dichiarazione con la quale ci si impegnava a far sì che ogni intervento, decisione e azione fossero orientati unicamente al bene dell’istituto.

Il pensiero andava ai capitoli precedenti, a partire da quello del 1922 nel quale, per la prima volta, dodici missionari si erano riuniti per eleggere il superiore generale. Undici voti erano per per Giuseppe Allamano e uno per Filippo Perlo. Il Fondatore aveva replicato: «Non è possibile, bisogna rifare, io sono ormai anziano e ci vuole un giovane per guidare l’istituto», ma padre Tommaso Gays era intervenuto: «Padre, possiamo ripetere quante volte vogliamo la votazione, il risultato non cambierà». Tali e tanti erano l’affetto, la stima, la riconoscenza dei missionari nei confronti del Fondatore che rieleggerlo come superiore generale era qualcosa di naturale e prorompente.

Il capitolo del 1969 fu uno dei più significativi di tutta la nostra storia, perché aveva il non facile compito di ripensare la missione a partire dai documenti e dallo spirito del Concilio Vaticano II. La realtà e la responsabilità del «popolo di Dio» diventavano sempre più importanti e suggerivano nuovi cammini di inculturazione e di vicinanza ai percorsi di lotta per l’indipendenza, sia civile che religiosa, che molti Paesi avevano appena compiuto o si trovavano ad affrontare.

A confronto con la storia

Di fronte alla grandezza dei missionari che ci hanno preceduto, a confronto con le loro iniziative e realizzazioni, veniva da pensare: «Chi siamo noi?». Ci siamo fatti coraggio sentendo che, da un lato, provenivamo da una storia di dedizione e di amore ai popoli e alla missione e che, dall’altro, il tratto di cammino che ci trovavamo a percorrere era affidato proprio a noi, con i nostri limiti e talenti.

Il momento attuale è infatti di grande delicatezza e importanza, dato che, come ricorda papa Francesco, non ci troviamo tanto di fronte a un’epoca di cambiamento, quanto a un cambiamento d’epoca. Le sfide sono numerose e impegnative, ma dalla capacità di affrontarle e di trovare una qualche soluzione dipende niente meno che la sopravvivenza della nostra specie sulla faccia della Terra. Noi capitolari sentivamo quindi più che mai necessario dare il meglio di noi, nella fraternità e semplicità.

La straordinarietà del momento era percepibile anche dai tanti messaggi di vicinanza, affetto e preghiera che provenivano dai missionari e dalle missionarie, dai laici, dagli amici, persino dal papa. Il clima tra di noi è stato subito d’intesa e di gioiosa collaborazione, per cui le paure di contrasti, difficoltà, momenti di stallo, sono presto svanite. I capitolari rappresentano in qualche modo l’intero istituto ed era dunque naturale che la maggioranza avesse origine africana. Nei momenti di preghiera, durante il canto, si sentiva la forza delle tradizioni che hanno sempre dato importanza alla musica e al canto corale, fatto di varie voci che, con potenza, si fondono in armonia.

In ascolto

I primi giorni del capitolo sono stati dedicati all’ascolto delle sfide del mondo, tramite l’intervento di alcuni esperti, e della nostra realtà d’istituto, attraverso le relazioni dei superiori e degli amministratori. Un capitolo dovrebbe aiutare a capire come rispondere alle esigenze che emergono dalla realtà sociale contemporanea e provare a dare alcune risposte ai problemi e alle difficoltà che l’istituto si trova ad affrontare.

Ci siamo resi conto che era necessario provare a riflettere su cosa sia l’ad gentes oggi, cioè come portare la «Buona notizia» a quelle persone e realtà che ne sono distanti. La salvaguardia del creato, la promozione di mentalità e atteggiamenti di pace, l’accoglienza della sensibilità delle donne, la vicinanza alla strada dei tanti migranti, l’ascolto dei giovani, la collaborazione con le chiese locali sono realtà in cui siamo chiamati a essere presenti e a portare una parola e un’azione capaci di costruire relazioni e condivisione.

Abbiamo trovato un istituto vivo e appassionato, che ha ancora voglia di camminare insieme ai popoli, ma qualche volta stanco, un po’ disilluso e incapace di continuare a immergersi in quegli ambienti sfidanti che costituiscono le frontiere della missione.

Accanto al desiderio di trovare nuovi stili di missione adatti all’oggi, abbiamo trovato anche nostalgia per il passato e resistenza al cambiamento, in contrasto con l’apertura alla novità caratteristica del nostro Fondatore. Lo studio della nostra storia, il ritorno al carisma, il contagio da parte della passione missionaria di tanti uomini e donne che ci hanno preceduto deve aiutarci a riprendere con rinnovato slancio la voglia di consumare la vita per costruire comunità e per aiutare altri a condurre con dignità il loro percorso esistenziale.

La multiculturalità che caratterizza l’istituto è sicuramente una ricchezza, ma necessita di cammini che trasformino «l’essere insieme» in un desiderio di collaborazione, di accettazione e valorizzazione delle diversità, di un impegno a vivere e lavorare in cordata. Siamo, infatti, chiamati a costruire un istituto che sia un vero riflesso del Regno di Dio, dove genti di ogni nazione, tribù, popolo e lingua (Ap 7,9) possano vivere e lavorare in armonia e fratellanza.

La Parola

Il testo biblico che ci ha ispirati durante i lavori capitolari è stato l’incontro di Filippo con l’Etiope funzionario della regina Candace (At 8,26-40).  «Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: “Capisci quello che stai leggendo?”. Egli rispose: “E come potrei capire, se nessuno mi guida?”. E invitò Filippo a salire e a sedere accanto a lui. Il passo della Scrittura che stava leggendo era questo: “Come una pecora egli fu condotto al macello e come un agnello senza voce innanzi a chi lo tosa, così egli non apre la sua bocca. Nella sua umiliazione il giudizio gli è stato negato, la sua discendenza chi potrà descriverla? Poiché è stata recisa dalla terra la sua vita”. Rivolgendosi a Filippo, l’eunuco disse: “Ti prego, di quale persona il profeta dice questo? Di se stesso o di qualcun altro?”».

Filippo non inizia a predicare, prima di tutto si fa compagno di viaggio e si mette in ascolto, poi fa una domanda e di conseguenza è invitato a salire sul carro e a spiegare il passo.

Ogni testo della Scrittura diventa significativo quando incontra la nostra realtà, quando lo sentiamo valido e vitale per la nostra condizione attuale. La domanda dell’Etiope mira proprio a questo: il testo biblico parla di un servo sofferente che è stato umiliato, ma al quale è promessa una grande discendenza, e anche l’Etiope, reso eunuco da chi l’ha voluto al servizio della regina Candace, vorrebbe con tutto se stesso essere fecondo, poter avere in qualche modo una discendenza. Filippo, parlandogli di Gesù, gli annuncia una speranza.

E noi? Riusciamo come singoli e come comunità a lasciarci plasmare dalla Scrittura e a «raccontarla» in modo che sia significativa per chi l’ascolta? «L’episodio dell’annuncio di Filippo all’eunuco ci incoraggia ad un cambiamento di direzione: dall’attesa all’uscita che porta ad ascoltare, a correre, a servire, a stare lungo la strada sporcandosi le mani e camminando con le persone. Anche noi siamo chiamati a essere Chiesa in uscita, a “sederci accanto”, ad accompagnare e poi a lasciar andare perché il Vangelo genera libertà».

Incontro introduttivo per ambientare i capitolari alla strumentazione per il capitolo

Family workshop

Uno dei momenti più intensi di tutto il percorso capitolare è stato senza dubbio il fine settimana insieme alle suore e agli altri missionari, missionarie e laici collegati online. Chiara Giaccardi e Mauro Magatti, entrambi professori alla Cattolica di Milano, ci hanno presentato alcune riflessioni sugli atteggiamenti missionari più importanti per raggiungere i giovani che desiderano una Chiesa più aperta, autentica e accogliente; il cardinale Luis Antonio Tagle ci ha offerto un intervento appassionato e ricco di esperienze personali suggerendoci di lasciar perdere le «strategie» per preferire «l’alleanza» con la Parola, ma anche con le persone, che quando si sentono capite, accolte e valorizzate, danno il meglio di sé. I laici hanno fatto sentire con forza la loro voce e il loro desiderio di pensare, sognare e realizzare la missione insieme a noi.

Vicinanza nella distanza dunque, ma anche incontri, sorrisi, parole scambiate con un sentimento di reale fratellanza e sorellanza e con la voglia di pensare a un cammino congiunto da portare avanti insieme ai giovani, a un coinvolgimento più profondo nel mondo del digitale, insieme al desiderio di mettersi in ascolto del grido che i popoli e il pianeta fanno sentire, per tentare di abbozzare qualche riposta.

Da qualche tempo a questa parte si è inaugurato un modo nuovo di collaborazione tra missionari, missionarie e laici, in cui ci si interroga, alla pari, su come affrontare le sfide che la realtà pone e si prova a individuare, con l’apporto delle diverse sensibilità e competenze, alcune strade percorribili.

Molto è ancora il cammino da fare, perché non sempre si è preparati a questo tipo di collaborazioni, eppure è più che mai necessario procedere insieme se si desidera ancora essere significativi nella realtà contemporanea.

 

Votazioni

Uno dei tempi più attesi e preparati di tutto il capitolo è stato senza dubbio l’elezione del superiore generale e del suo consiglio. Fin dall’inizio e ancor prima, ci si interrogava su chi sarebbe potuta essere la persona più adatta per questa importante responsabilità. I lavori di gruppo, il pellegrinaggio ad Assisi, i momenti informali, oltre alle sessioni in plenaria, sono stati occasione per conoscersi nel modo di pensare, di lavorare, di affrontare i problemi e per confrontarsi sulla scelta da fare.

Il giorno antecedente alle elezioni è stato interamente dedicato alla preghiera e al discernimento, guidati dal preposito (superiore, ndr) generale della Compagnia di Gesù, padre Arturo Sosa Abascal. Al termine del ritiro ci sono state le cosiddette mormorationes, momenti di dialogo a due in cui, con rispetto e realismo, ci siamo confrontati sull’opportunità di eleggere un dato missionario.

Questo capitolo ci ha riservato una sorpresa che tra l’altro era la cosa più naturale per la realtà di oggi: il primo superiore africano dell’istituto. Chissà se il Fondatore si era mai immaginato che qualcuno di coloro che avrebbero ricevuto l’annuncio, magari un pastore samburu sensibile, attento, intelligente, un giorno sarebbe diventato non solo cristiano e poi missionario e formatore, ma anche, dopo un lungo cammino, il superiore generale del suo istituto?

Alle radici

È stato significativo il viaggio a Torino che ci ha portati a contatto con la Casa Madre, con i nostri confratelli di Alpignano che, pur nell’anzianità e a volte nella sofferenza, portano nel cuore le persone, i popoli, i paesaggi in cui hanno speso i loro anni di missione e continuano ad accompagnarli con il pensiero e la preghiera. Incontrare missionari con cui si è lavorato o che sono stati di esempio per noi e stimolo nella missione è sempre un momento di grande intensità. Vederli così fragili e a volte sofferenti tocca nel profondo.

Spontanea scaturisce la riconoscenza per la loro vita spesa a servizio della missione e anche il proposito di recarsi qualche volta in più a trovarli, per farli sentire meno soli, ma anche per essere contagiati dalla passione per la missione che li ha portati fino a lì.

Il capitolo ha deciso che le famiglie dei missionari devono essere accompagnate di più, in modo particolare nei momenti di maggiore difficoltà.

Immancabile la celebrazione dell’eucarestia al Santuario della Consolata che è la culla in cui il nostro istituto è stato pensato, sognato e diretto per tanti anni da Giuseppe Allamano e dal suo fedele collaboratore Giacomo Camisassa.

Dopo un mese di lavori intensi, il capitolo è terminato. Quale sintesi? Innanzitutto è stato un tempo speciale che ci ha posti a contatto gli uni con gli altri e con le realtà più stimolanti e più problematiche della nostra famiglia consolatina e del mondo. Il documento conclusivo non propone nuove ricette missionarie, ma vuole aprire alcuni cammini che coinvolgano missionari, missionarie e laici e che ci portino ad approfondire il nostro ad gentes oggi e a pensare una formazione che prepari i giovani e poi accompagni i missionari a sentirsi in sintonia con le persone e le realtà all’interno delle quali siamo chiamati a offrire il nostro umile, ma significativo contributo.

Il sogno, che deve tramutarsi in realtà, è quello di un istituto che provi a fare di tutto per essere una comunità interculturale dove le differenze di pensiero e di stile non costituiscano occasione di divisione, ma di ricchezza, e che rinnovi la passione e l’impegno per offrire qualche proposta significativa a una realtà che, in mezzo a tante difficoltà, non smette di sentire il fascino della bellezza, anche spirituale.

Un primo frutto delle fatiche capitolari è senza dubbio l’amicizia che si è creata tra di noi e il cambiamento che la conoscenza delle realtà del nostro tempo e della nostra famiglia missionaria ci spinge a realizzare nelle nostre vite e nella
missione.

Piero Demaria

Direzione generale IMC 2023-2029 eletta il 13 giugno 2023. – SupGen: Jamaes Bhola Lengarin. ViceSuP: Michelangelo Piovano. Consiglieri: Mathews Odhiambo Owuor, Juan Pablo De los Ríos Ramírez e Erasto Colnel Mgalama


Vivere la missione in comunione

La nuova Madre generale delle Missionarie della Consolata

Suor Lucia Bortolomasi è nata a Susa (To). Ha fatto parte del primo gruppo che ha aperto in Mongolia nel 2003, mentre negli ultimi sei anni è stata nella direzione generale. È consapevole dei limiti del suo istituto, ma anche dei suoi punti di forza. Ci parla di carisma, di giovani e dell’importanza della «famiglia» della Consolata.

Suor Lucia Bortolomasi è nata nel 1965 a Susa, in provincia di Torino. È entrata nelle Missionarie della Consolata nel 1987 ed è partita per la missione in Mongolia nel 2003, nel primo gruppo, e vi è rimasta 14 anni. Negli ultimi sei anni è stata consigliera generale. Il 28 maggio scorso, durante il XII capitolo generale, è stata eletta superiora del suo istituto.

Suor Lucia, in un cambiamento di epoca, quale sono le nuove sfide per le Missionarie della Consolata e come affrontarle?

«Per noi il Capitolo è stato una benedizione e una grazia. Ci siamo trovate come famiglia, anche se stiamo diminuendo di numero, ma questo non ci ferma, perché abbiamo nel cuore la passione per la missione.

È stato un momento in cui abbiamo ripreso tutto il nostro cammino, abbiamo visto la presenza dell’oggi, dove siamo, come viviamo, con che stile, per proiettarci verso il futuro. C’è stata una riflessione sui tre temi: la missione, il carisma e le presenze.

Durante gli ultimi sei anni è stato elaborato il documento della Ratio missionis, approvato al capitolo. È un documento che ci ha dato una prospettiva ed è frutto di un lavoro collettivo. A partire da una bozza iniziale tutte le sorelle hanno potuto dare il loro apporto.

Il secondo tema trattava del tesoro del nostro carisma. Abbiamo discusso e approfondito su come ravvivare il carisma, datoci da Giuseppe Allamano.

Il terzo tema prevedeva il ridisegnare le presenze. In sintesi vuol dire chiudere dove c’è già la chiesa locale che può camminare, e non c’è più bisogno di una nostra presenza, e proiettarci invece su luoghi e in ambiti dove non c’è presenza di chiesa.

Durante il Capitolo abbiamo sentito un richiamo forte a vivere la grazia della piccolezza, una chimata che lo Spirito dirige a noi come istituto, oggi: un cammino che ci aiuta a non porre l’attenzione sulle nostre capacità, ma sulla fiducia in Dio. Non siamo nate per le grandi strutture o le grandi opere, non siamo state fondate per realizzare grandi progetti, siamo chiamate da Dio a prenderci cura della persona ad ascoltarla e annunciare l’amore di Dio.

Oltre a tutto questo, in maniera trasversale, abbiamo parlato molto di comunicazione. Ormai vediamo che è un aspetto importante, è come una missione. L’ambito della comunicazione è diventato una missione ad gentes, nel quale puoi raggiungere tante persone.

Abbiamo dunque deciso di realizzare un ufficio centrale della comunicazione. Esso raccoglierà tutti i nostri sforzi in questo ambito, e sarà come una presenza nel continente del mondo digitale».

Quante siete attualmente e che prospettive avete?

«Siamo circa 500, presenti in diciotto paesi. Le giovani in formazione provengono in maggioranza dall’Africa, qualcuna dall’America Latina, in questo momento ci sono 19 novizie.

Una delle priorità dell’istituto è la cura delle sorelle anziane e malate, che dopo anni dedicati alla missione, quando le forze vengono a mancare per età o salute, continuano a servirla nella preghiera, nell’adorazione eucaristica, nell’offerta della sofferenza, unendosi più intimamente all’opera redentrice di Cristo. Un’altra priorità è quella delle giovani generazioni, due realtà che in questo momento hanno bisogno di attenzione particolare per la vitalità della nostra famiglia. Sono le radici e i germogli. Siamo un’istituto in diminuzione numerica, un piccolo gruppo di sorelle, con una grande passione per Dio e per la missione nel cuore».

Incontro tra i due capitoli generali, IMC e MdC

Come interessare il mondo dei giovani alla missione?

«Non lo so, però credo fortemente che se siamo fedeli al nostro carisma e viviamo con radicalità il Vangelo e lo testimoniamo con la nostra vita, sicuramente i giovani si porranno delle domande.

Anche durante il capitolo si è parlato del bisogno dei giovani, della loro sete di cose vere. Ci sono tante situazioni di fragilità, dove noi dobbiamo essere presenti per donare speranza».

Come vede la collaborazione tra uomini e donne della famiglia Consolata? E il ruolo dei laici?

«È un segno dei tempi, sorelle e fratelli che insieme testimoniano che è bello credere in un Dio che ama. Questo richiede rispetto e un grande desiderio di vivere la missione come famiglia unite ai nostri missionari e ai laici. Penso che ci sia la volontà di condividere e vivere la missione assieme. Un esempio è la Mongolia, un’apertura missionaria pensata e voluta dai due istituti generali, e poi vissuta insieme. La missione in Mongolia non sarebbe quello che è adesso se non fossimo stati insieme, se non avessimo, pensato, riflettuto, pregato e vissuto l’apostolato. È bello pensare a una missione vissuta in comunione e arricchita dalla presenza dei laici, di famiglie, che condividono lo stesso carisma. Il fondatore è unico, il carisma è unico, che cosa ci impedisce di sederci e riflettere per vivere la missione? La comunione sempre arricchisce.

Un’animazione missionaria fatta con femminile e maschile sarebbe una ricchezza. Più efficace. Spero che si possa andare avanti su questa strada, perché le possibilità ci sono e anche il desiderio».

La missione in Europa è diventata ad gentes?

«Per il nostro Istituto, l’Italia è la culla dove siamo nate: in Europa ci sono i luoghi della nostra spiritualità, il cuore del carisma, le radici dell’istituto. Sono luoghi sacri, un dono per tutti. Siamo chiamate a mantenerli vivi, a valorizzarne il significato.

L’Europa ci interpella anche a trovare nuove forme e stili nuovi di essere e fare missione oggi. Alcune presenze sono divenute spazi di consolazione e vicinanza per i migranti, le donne che vogliono spezzare le catene della tratta. Da poco abbiamo iniziato una presenza missionaria a Ruffano, in Puglia. Siamo in una parrocchia dove cerchiamo di sensibilizzare la Chiesa alla missione e ad avere un’attenzione particolari ai giovani e a chi ha bisogno di consolazione.

Vorrei sottolineare però che noi come Istituto, per rispondere al nostro carisma, siamo chiamate ad andare dove non c’è una presenza di Chiesa o dove ci sono popoli che ancora non hanno sentito parlare del Vangelo, di Gesù. Qui in Europa c’è una presenza di Chiesa molto valida, che può servire e donare; invece, ci sono parti del mondo che sono dimenticate, è lì il nostro posto».

Marco Bello

Grupo della capitolari MdC


Il fuoco della missione

Reportage dal capitolo delle missionarie della consolata

Ventotto sorelle dai quattro continenti si sono riunite per un mese nella casa di Nepi (Viterbo). Hanno analizzato la presenza dell’istituto nel mondo e riflettuto sulle sfide della missione del futuro. Dal 1910, anno della fondazione, questo è il dodicesimo capitolo generale. Il racconto di una testimone d’eccezione.

Dall’8 maggio all’8 giugno 2023 si è svolto il XII Capitolo generale delle Suore Missionarie della Consolata dal titolo: «Il fuoco della missione».

Un fuoco in un braciere: questa immagine viva e scoppiettante ha accompagnato la preghiera iniziale della nostra assemblea capitolare, ed è rimasta impressa nei nostri occhi e cuori durante tutto il capitolo. Nei primi giorni il tema del fuoco è stato abbordato da diverse angolature: dal punto di vista biblico e spirituale ha alimentato la nostra preghiera personale e comunitaria. Ma perché questo simbolo?

La metafora del fuoco era usata dallo stesso nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano, che affermava energicamente: «Ci vuole fuoco per essere apostoli». Fuoco come passione per Cristo e per l’umanità. E questa eredità carismatica ha letteralmente scaldato i cuori dell’incontro capitolare, che ha riaffermato la missione ad gentes come senso del nostro esistere nel mondo e nella Chiesa.

Lo spirito di corpo

Ventotto sorelle, di nove nazionalità e diverse generazioni, provenienti da quattro continenti: quello che a prima vista può sembrare un gruppo estremamente variegato, in realtà ha vissuto una profonda unione di cuore e di mente.

Lo «spirito di corpo» additato dal beato Allamano come ideale e modello di vita per la nostra famiglia missionaria, è stato percepito dalle capitolari come una realtà di corpo piccolo e unito, attorno al fuoco della missione, che è anche il fuoco del carisma. Una tale esperienza non può che essere un dono di Dio e dello Spirito Santo.

«Il capitolo è stato una benedizione – ricorda suor Getenesh, missionaria della Consolata etiope, formatrice delle giovani aspiranti missionarie in Etiopia – è stato un’esperienza bella di condivisione e di ascolto. Giunte da diversi continenti, e con esperienze molto differenti, tutte siamo arrivate a un’armonia e intesa particolari. Il capitolo è stato un’esperienza dello Spirito Vivente. Porto nel cuore tanta gratitudine a Dio, alla Consolata e al padre fondatore».

Per questo, in tutte noi sorelle, ricordando il capitolo appena vissuto, il cuore si colma di molta gratitudine e commozione.

Messa del 29 gennaio 2023, a Ulaanbaatar (Mongolia) per l’anniversario della fondazione degli istituti.

I temi del capitolo

Il capitolo è un’assemblea che si tiene ogni sei anni, nella quale si valutano i cammini realizzati e si proiettano i cammini futuri. Inoltre, si elegge la nuova direzione generale dell’istituto.

Sono stati due i grandi temi in agenda, dai quali sono scaturite le linee guida e le priorità per il sessennio che inizia: l’approvazione della Ratio missionis, documento del diritto proprio dell’istituto, e il «Tesoro del carisma», sviluppato dall’intercapitolo (assemblea di preparazione del capitolo). Alla luce di questi due temi, si è riflettuto quindi sulle nostre presenze. La redazione di una Ratio missionis era stata indicata dal precedente capitolo 2017 come uno degli impegni del sessennio. La finalità di questo documento era raccogliere la ricchezza carismatica e i cammini compiuti nel primo secolo di vita della congregazione, e pensare alle linee guida della missione nell’oggi e nel futuro. Nel 2018 si è costituita un’equipe di cinque sorelle con diverse esperienze missionarie e competenze. Confrontandosi con esperti e rileggendo il vasto materiale prodotto sul tema della missione, l’équipe ha redatto una prima bozza, che è stata mandata a tutte le sorelle e a persone esterne, competenti sul tema. Gli apporti di grande qualità giunti all’équipe sono stati integrati in una seconda bozza, che è stata presentata all’assemblea capitolare 2023.

Nella Ratio missionis sono presentati i fondamenti della missione ad gentes, a livello biblico, teologico, ecclesiale, e carismatico. Segue una riflessione sugli elementi carismatici missionari che nel tempo si sono sviluppati nell’istituto, per poi tracciare linee guida per la missione del futuro.

Si tratta di un documento importante sia nella formazione delle nuove generazioni di Missionarie della Consolata, sia nella vita di ogni comunità e nello stile di missione che vogliamo vivere e assumere. Per questo, il sessennio che inizia avrà come uno dei suoi punti centrali il processo di appropriazione di questo documento.

Nelle motivazioni date dall’Assemblea capitolare sull’importanza di questo documento, troviamo che la Ratio missionis promuove una visione e una prassi comune di missione, per una sempre più profonda unità di intenti. Aiuta ad approfondire l’oggi e il futuro della missione, e a favorire un «cambio di rotta», dove necessario.

Il tesoro del carisma

L’altro grande tema del capitolo è stato il «Tesoro del carisma», che ha coinvolto tutte le Missionarie della Consolata in un percorso di riflessione e preghiera, e che ha avuto un momento centrale e significativo nell’intercapitolo del 2022. L’assemblea avrebbe dovuto riunirsi a metà sessennio, cioè nel 2020, per vivere un approccio/immersione nel carisma a livello esperienziale, storico ed ermeneutico. La pandemia e il lockdown mondiale hanno fatto rimandare in più occasioni questo incontro, che si è tenuto infine nei mesi di febbraio e marzo 2022.

Dall’Intercapitolo sono emersi elementi fondamentali del carisma, come raggi luminosi che scaturiscono da un nucleo carismatico. Più volte nel tempo del capitolo si è fatta memoria di questo evento molto forte, sia a livello personale, sia a livello di gruppo. Per il poco tempo intercorso tra i due momenti di istituto, non si è potuto realizzare un cammino che coinvolgesse tutta la congregazione, per questo motivo il Capitolo ha indicato il sessennio entrante come il «sessennio del carisma», un tempo benedetto da Dio per continuare ad approfondire e immergersi nel dono carismatico.

Ricorrenze importanti

Naturalmente, l’appropriazione della Ratio missionis e l’immersione nel carisma non sono elementi separati, bensì dimensioni intimamente intrecciate, a cui si uniscono anniversari importanti per la famiglia consolatina: a metà del sessennio, nel 2026, ricorrono i cento anni dalla morte del beato Giuseppe Allamano, fondatore dei due istituti missionari della Consolata. Sarà un tempo propizio per cammini che coinvolgano tutta la famiglia: padri, fratelli, suore, laici e laiche, identificati con il carisma donato a noi e alla Chiesa dal beato Giuseppe Allamano. D’altra parte, non si tratta di un’iniziativa estemporanea, ma fa parte di un cammino iniziato da alcuni anni, come l’ evento di Murang’a 2 (cfr. MC ottobre 2022), vissuto in tempo di quarantena nel 2022, grazie alla tecnologia odierna, a cui hanno partecipato membri della famiglia consolatina da tutto il mondo, come pure il lavoro delle commissioni congiunte sul carisma, che hanno lavorato per diversi anni sia a livello generale, che a livello continentale.

Riflessione in famiglia

Il 3 e il 4 giugno, le due assemblee capitolari dei Missionari e delle Missionarie della Consolata si sono ritrovate a Roma per un momento di riflessione comune. Chiaramente si è ribadito il desiderio di cammini in comunione sia nello studio che nell’approfondimento del carisma che ci unisce. Non c’è occasione migliore per realizzarli: il centenario della morte del fondatore e (speriamo con tutto il cuore) la sua prossima canonizzazione, per la quale tutti stiamo pregando. I suggerimenti di iniziative sono numerosi, adesso spetta a ciascuno di noi trovare i modi e i tempi per realizzarli insieme.

Il carisma, la missione ad gentes: sono fuoco che arde nel cuore di ogni Missionaria della Consolata, non importa l’età, la provenienza o la missione che sta compiendo. Di questo non c’è dubbio, si percepisce forte nei momenti di condivisione e negli apporti dati da tutta la famiglia durante questi anni. Il capitolo ha riconosciuto questa vitalità, ma allo stesso tempo ha preso in mano la realtà attuale della congregazione: si tratta di una famiglia religiosa piccola e in diminuzione, dove le sorelle anziane sono numerose, ma dove fioriscono anche nuove vocazioni, specialmente nel continente africano.

I processi per ridisegnare le nostre presenze sono in corso già da molti anni, tenendo conto della realtà concreta delle comunità: nel sessennio concluso si sono costituite le Regioni Africa e America, unificando le circoscrizioni di ciascun continente, e ci siamo aperte alla missione nell’Asia centrale, in Kazakistan e in Kirghizistan, ma il cammino non è ancora terminato. La riflessione sulle nostre presenze, sul ridisegnare la geografia delle nostre comunità, è stato un tema toccato dal capitolo per un lungo tempo.

Il fuoco della missione, unito alla realtà attuale della congregazione, esigono un discernimento e scelte concrete.

Sorge nel cuore molta riconoscenza per le vite donate di tante sorelle, che adesso vivono la missione nell’offerta e consegna della loro vita e sofferenza, e sorge pure molta speranza per i «germogli» che spuntano sulla vite centenaria, che è il nostro istituto.

Continuiamo a vibrare per la chiamata della missione ad gentes. Ma come vivere questo tempo così particolare? La risposta data (o meglio, da darsi passo dopo passo) è accogliere e vivere la piccolezza.

La piccolezza: non è solo una realtà storica che stiamo vivendo oggi, è la risposta che, come famiglia religiosa, vogliamo dare e vivere in questo tempo. Una piccolezza che inizia dal cuore di ciascuna in relazione con Dio, che passa per la semplicità e l’umiltà. Una piccolezza che è uno stile di vita e di missione, dove la vicinanza alla gente e la relazione a tu per tu costituiscono il cuore dell’incontro e dell’evangelizzazione.

All’udienza con papa Francesco

Piazza San Pietro: mercoledì 7 giugno 2023. Arriviamo presto e ci mettiamo in fila, vicino al colonnato, per poter accedere ai posti riservati per l’udienza generale di papa Francesco. Si uniscono a noi anche i confratelli capitolari, e come gruppo ci presenteremo al Santo padre per un saluto. Dopo i dovuti controlli della polizia, ci rechiamo sul sagrato della basilica di San Pietro, e aspettiamo pazientemente – ma anche con molta emozione – l’arrivo del pontefice. Scorgiamo, vicino alla sedia del Papa, un’urna di legno. Alcune di noi la riconoscono: è l’urna che contiene le reliquie di Santa Teresina di Lisieux. Scopriamo che di fianco c’è anche un’altra teca, contenente i resti dei genitori di Santa Teresina, riconosciuti beati dalla Chiesa Cattolica.

Papa Francesco arriva in papamobile, saluta lungamente i pellegrini presenti in piazza, quindi, avvicinandosi alla sua postazione, si ferma alcuni istanti in preghiera. E poi inizia la sua catechesi con queste parole: «Sono qui davanti a noi le reliquie di santa Teresa di Gesù bambino, patrona universale delle missioni. È bello che ciò accada mentre stiamo riflettendo sulla passione per l’evangelizzazione, sullo zelo apostolico. Oggi, dunque, lasciamoci aiutare dalla testimonianza di santa Teresina. È patrona delle missioni, ma non è mai stata in missione: come si spiega, questo? Era una monaca carmelitana e la sua vita fu all’insegna della piccolezza e della debolezza: lei stessa si definiva “un piccolo granello di sabbia”».

Potete immaginare la nostra emozione e come queste parole sono arrivate dritte ai nostri cuori. Pura coincidenza? Non pensiamo. Il ricordo della via della piccolezza da parte del Papa è una chiara conferma dei cammini che il capitolo, in discernimento, indica a tutta la famiglia delle Missionarie della Consolata.

Una famiglia religiosa, per molti aspetti vulnerabile e fragile: la via della piccolezza è quella intuita ed intrapresa da Santa Teresina di Lisieux, e ricordata da papa Francesco nell’Udienza generale a cui abbiamo partecipato come capitolari Imc e Mc. Il Signore non solo conosce i nostri cammini, Lui li guida. E a Lui, alla Consolata e al padre Fondatore ci affidiamo per poter seguire unite, piccolo corpo, sulla strada della missione, e con il fuoco della missione dentro.

Stefania Raspo


Hanno firmato il dossier:

 Stefania Raspo, suora missionaria della Consolata dal 2001, in Bolivia dal 2013. È anche redattrice della rivista Andare alla genti. È stata eletta consigliera generale nel capitolo.

 Piero Demaria, missionario della Consolata dal 2003. Dopo aver lavorato in Mozambico e a Taiwan, si occupa ora di animazione missionaria in Italia. È stato uno dei delegati per l’Europa del XIV capitolo.

A cura di Marco Bello, giornalista, direttore editoriale MC.

Si ringrazia Suor Alessandra Pulina, direttrice di Andare alle genti, per la collaborazione.

I membri del XIV capitolo generale attorno alla tomba del Beato Allamano

 




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari


Mille e duecento km a piedi

Gentile Redazione,
siamo tre amici di Cherasco (Cn) che hanno scritto nel 2022 il libro «Padre Giuseppe Alessandria, 1.200 chilometri a piedi», di 156 pagine, corredato di fotografie.

Padre Giuseppe è stato un missionario della Consolata che ha dedicato la sua vita alle missioni in Mozambico, a propagare la fede e a fornire aiuto, non solo spirituale, agli abitanti di quelle terre.

Molti sono i motivi che ci hanno spinti a scrivere il libro, tra i quali uno molto importante e insolito: nella famiglia di padre Giuseppe ci sono state ben 16 vocazioni religiose: nove sacerdoti, sei suore e una terziaria francescana.

Il testo contiene materiale che il nipote Giovanni aveva ricevuto da padre Giuseppe prima di partire per l’ultima volta per il Mozambico: due album fotografici e alcuni scritti, tra cui un diario giornaliero dei primi sei mesi di vita sacerdotale, del suo viaggio in Portogallo per imparare il portoghese e del viaggio che lo ha condotto a Maputo, capitale del Mozambico, dove è stato missionario per 13 anni, fino al drammatico racconto del sequestro.

Padre Giuseppe è stato ordinato sacerdote nel 1964 e qualche anno dopo, nel 1969, è stato inviato in Mozambico, dove nel luglio del 1982 è stato fatto prigioniero dai guerriglieri della Frelimo, dai quali è stato costretto a percorrere 1.200 chilometri a piedi attraverso la savana, con quattro suore e un altro confratello, e liberati solo dopo quattro mesi di prigionia.

Tornato in Italia, la sua volontà sarebbe stata di ripartire al più presto per tornare a «casa sua», come chiamava la terra di missione. Dopo varie richieste, riuscì a ripartire per il Mozambico solo nel 1996, dove rimase per poco tempo a causa di un incidente stradale che provocò la sua morte, il 30 luglio 1998.

Con il nostro scritto desideriamo ricordarlo a 25 anni dalla sua morte e far conoscere la dura realtà dei missionari che spendono tutta la loro vita per gli altri.

Padre Alessandria è stato un missionario autentico, un lavoratore instancabile e generoso, sia in terra di missione, che in Italia e in Portogallo, con tutti quelli che lo hanno conosciuto e amato.

Giovanni Tarabra, Giuseppe Capra e Agostino Borra
Cherasco, 21/01/2023


Nomadelfia è in Tanzania

Egregio direttore,
mi presento subito: sono Mina di Nomadelfia.

Le riviste missionarie sono sempre state attraenti e interessanti ma, da un po’ di tempo, è più viva la mia curiosità di sapere di più della Tanzania sul cui territorio sta muovendo i primi passi Nomadelfia. Abbiamo letto con interesse la pagina di padre Bernardi sulla rivista di luglio 2022 in cui parla la presidente del Tanzania. Le notizie che ci riferiva fanno capire che c’è tanto bisogno di una presenza costruttiva di vita vera fraterna e lieta.

Nomadelfia è a Mvimwa, nelle vicinanze del monastero benedettino.

I rapporti con i benedettini di questo monastero sono iniziati nel 2016 con l’abate Denis Udomba in visita a Nomadelfia. Rimasto fortemente colpito dall’esperienza vissuta con noi, ha invitato i nomadelfi ad una collaborazione fattiva con i monaci per portare la proposta di una vita fraterna tra le famiglie legate al monastero.

Spero tanto che, tramite la rivista Missioni Consolata, venga conosciuto questo piccolo popolo di volontari cattolici che papa Francesco ha definito «una realtà profetica» e che san Giovanni Paolo II ha dichiarato: «Un seme piccolo che deve crescere e diventare grande e forse formare la civiltà del mondo futuro. Se siamo vocati ad essere figli di Dio e tra noi fratelli, allora la regola che si chiama Nomadelfia (nomos + adelfos = legge di fraternità) è un preavviso, un preannuncio di questo mondo futuro dove siamo chiamati tutti».

Sempre nella stessa rivista del luglio 2022, il giornalista Marco Labbate parla, nell’articolo «Tu non uccidere», di don Milani, di don Primo Mazzolari, di Aldo Capitini, di La Pira, padre Ernesto Balducci, don Bosco … mi aspettavo che parlasse anche di don Zeno (Saltini, fondatore di Nomadelfia, ndr) che con i figli ha buttato giù i muri del campo di concentramento di Fossoli (frazione di Carpi, Modena).

Caro direttore, preghiamo che lo Spirito Santo ci illumini nel nostro apostolato. La Madonna ci sia vicina, ci insegni a muoverci con delicatezza e costanza.

Gesù non può lasciarci soli, in fondo è lui che deve fare con noi.

Grazie per le informazioni che ci date dei nostri fratelli vicini e lontani.

Mina di Nomadelfia
23/12/2022


Complimenti

Gentilissimi,
mi è gradito trasmettervi questa breve nota.

Nel numero 10, ottobre 2022 di Missioni Consolata: leggo la nota di un lettore (a pag. 7) sul decaduto interesse per la carta e per la rivista. Ne rimango allibito: MC è a mio avviso una delle poche riviste che affronta seriamente temi molto attuali di varia natura con una visione di sintesi, ma anche etica e sovente, sulla base dell’esperienza diretta su territori poco vissuti da noi «benestanti del mondo», ne derivano articoli di rara qualità e reperibilità. Sono invece, diversamente da tale lettore, molto positivamente colpito dalla capacità degli autori di MC di affrontare temi anche tecnici, presumibilmente non facenti parte delle loro quotidianità (penso ad uno recente sui veicoli elettrici, ad idrogeno, ecc.), con una limpidezza ed intelligenza, oltre che cuore, assai ardui da trovare negli scritti e nelle persone «moderne». Un lettore che non apprezzi tutto ciò merita comprensione, possibilmente per altri stati di disagio che non quello di sfogliare una rivista stampata, il cui eventuale danno ambientale è veramente tutto da provare.

Complimenti per il Vs. operato.

Bruno dalla Chiara
22/02/2023


Una lettera dal passato

Carissimi,
mi è tornata tra le mani questa lettera, inviata alla mia nonna, nel lontano 1931 dalla missione di Kaheti dalla vostra suora missionaria suor Luigia, con tanto di numero di protocollo n. 908.

La suora ringraziava per un’offerta inviata dalla mia nonna Rossetti Grosso Maria e raccontava del battesimo effettuato a un uomo in punto di morte, con il nome di Luigi Francesco, che era quello del figlio ventunenne (mio padre),

Dai racconti della famiglia, sapevo che mio padre, nel gennaio del 1931, era scampato dalla tragedia che aveva coinvolto gli Alpini in servizio militare nell’alta Valle di Susa, e precisamente nel Vallone di Rochemolles. C’erano stati una ventina di morti (esattamente 21, ndr) travolti dalla valanga e alcuni anche del mio paese (Cumiana). Penso quindi che mia nonna, devota della Madonna Consolata, abbia voluto ringraziare Maria per il ritorno sano e salvo del proprio figlio.

È un ricordo che volevo condividere con Voi con tutta la stima per quanto continuate a fare in terra di missione. Con stima

Eva Rossetti
23/01/2023

Ecco il testo di quella preziosa lettera nell’italiano del tempo.

Pregiatissima Signora,
capitò, ieri, qui un uomo sulla cinquantina, il quale giunto nel bel prato adiacente alla nostra Missione cadde a terra. Fu visto da alcuni pastori di greggi e venne avvicinato, ma non gli poterono recare alcun aiuto poiché non dava alcun segno di vita. Alcuni di questi fanciulli corsero ad avvertirci del caso e mi portai colà. Lo sollevarono, gli diedi a bere un po’ di cordiale e dopo poco parve riaversi, ma ricadde al suolo dicendo lasciatemi dormire. Dopo un quarto d’ora si destò e ci diede sue notizie.

Egli tornava dalla vicina Regione del Meru ove s’era recato per comperare un bue, ma poi al ritorno fu assalito da certo malore che non sapeva definire accompagnato da vomiti di sangue nerastro. (I Neri dicono che egli sia stato avvelenato, poiché quei popoli sono avvelenatori astuti assai). Il bue, si sa, gli sfuggì e non poté rincorrerlo perché assalito appunto in quel momento da eccessivo vomito. Poveretto!

Diceva questo e fu riappreso dal più grave eccesso di vomito sanguigno ed in meno di un quarto d’ora era ridotto in fin di vita. Visto il caso disperato lo disposi a ricevere la grande grazia del S. Battesimo. Accettò di gran cuore e quasi subito dopo spirava. Ora il nostro Luigi Francesco è già in cielo a pregare per lei. Gradisca i miei riconoscenti ossequi

Dev. Suor Luigia,
 M. d. Consolata
Kaheti 06/08/1931

 

Grazie per questa condivisione di vita di altri tempi. Il racconto di suor Luigia è di una vivezza speciale, e in me, che nei miei primi giorni di missione ho dovuto seppellire una adolescente che era stata avvelenata, suscita un’emozione profonda.


Devozione ai piedi di Gesù

Carissimo padre Gigi,
ti mando questo materiale, caso mai riuscissi a fare un po’ di pubblicità. Avevo già provato a pubblicare un libro, ma era stato come vendere verdure in un negozio di fiori. Adesso ho trovato un editore. Per me è la prima volta che pubblico un libro. Pensa che ho venduto la bellezza di … 39 copie. Insomma, io ti butto tutto addosso ma tu fa come vuoi. L’importante è che Gesù faccia bella figura. Ciao e buona festa del Fondatore.

Ecco qui una breve presentazione del libro che ho appena pubblicato.

«Chi non conosce Maria Maddalena? La grande santa, la grande apostola, la grande convertita. Ma lo sapevate che è anche una grande maestra di vita spirituale? Con il cammino finora inesplorato della devozione ai piedi di Gesù, Maria di Magdala ci aiuta a crescere nella fede. Ogni volta che nei Vangeli incontriamo questa grande donna in relazione con i piedi di Gesù, entriamo in una scuola di vita e di spiritualità. Una scuola che, più che da una lunga riflessione, nasce dall’esperienza concreta e immediata dell’incontro tra l’umanità peccatrice e il Cristo Salvatore!

Sulla rivista «Testimoni» di giugno 2022, a pagina 33, c’è un articolo di Elsa Antoniazzi. Riguarda una mostra d’arte a Forlì. L’autrice sottolinea come le rappresentazioni della Maddalena vanno dalla «Penitente» alla «sessualità redenta», alla sequela ma ancora con l’accento sul fascino della femminilità. Se questo fosse vero anche per la produzione letteraria, allora questo libro sulla «Devozione ai piedi di Gesù» potrebbe essere il primo caso in cui la Maddalena viene rappresentata come maestra di spiritualità, come discepola e apostola per sé, senza sottolineare altri elementi, che pur rilevanti, rischiano di adombrare il grande cammino ed esempio di fede di questa donna. Se qualcuno ci mostra la strada per arrivare a Dio, non importa il sesso, la nazionalità, l’età, lo stato sociale. Dio importa. E non sono molti quelli che ci hanno “dato” Dio come ha fatto la nostra Maria».

padre Gian Paolo Lamberto
Daejeon, Corea, 16/02/2023


Qui la situazione è dura

Carissimo padre,
ieri, 2 marzo 2023, sono andata nel villaggio di Longetei, non molto distante da Baragoi, Kenya, dove vivo. Ho dato una mano a cucinare una specie di porridge per i bambini che vedi nella foto. Qui la situazione è molto dura e la siccità è grande, sono diverse stagioni che non piove. Questo ha anche aumentato le tensioni tra le diverse comunità, e le razzie e gli scontri armati sono cosa ordinaria. Più di una volta sono stata svegliata dagli spari nella notte. Che il Signore e la Consolata ci aiutino.

Alishe E.
Baragoi, Kenya, 02/03/2023
(sintesi di messaggi Whatsapp)




Giacomo Camisassa 100


La beatitudine di essere secondo

Con la Madonna e la missione nel cuore

Braccio destro del beato Giuseppe Allamano per 42 anni, Giacomo Camisassa è stato un uomo e un prete schivo che non amava far parlare di sé, ma che ha lasciato un segno unico e irripetibile nella Chiesa torinese e nella vita dei Missionari e Missionarie della Consolata. Nato il 26 settembre 1854, quest’anno ricorrono i cento anni dalla sua morte, avvenuta il 18 agosto 1922.

Giacomo Camisassa in Kenya con missionari e suore Vincenzine

ll 18 agosto 2022 ricorre il centenario della morte del canonico Giacomo Camisassa, confondatore dei nostri due Istituti missionari, fraterno amico e strettissimo collaboratore del fondatore Giuseppe Allamano, il quale ben difficilmente avrebbe messo mano all’opera della fondazione senza di lui.

Desideriamo riscoprire la figura di questo vero uomo di Dio, tutto dedito al Regno, alla Chiesa, alla Missione, ai nostri Istituti, capace di vivere «la beatitudine di essere secondo» coltivando un’amicizia profondissima, intensa, fedele, rispettosa con l’Allamano che egli considerava «padre».

Tra l’Allamano e il Camisassa ci fu un’intesa straordinaria, che portò a una stretta collaborazione che si rivelò un dono particolare di Dio, proprio in vista di quanto avrebbero realizzato assieme.

Il segreto della loro profonda amicizia ci pare che si possa trovare nella loro spiritualità. L’Allamano ricevette da Dio la vocazione di fondare i due Istituti missionari. Il Camisassa ricevette la vocazione di essere il collaboratore indispensabile nella realizzazione della missione dell’Allamano. Non è fuori posto pensare che, senza l’apporto continuo e attento del Camisassa, l’Allamano non avrebbe realizzato quanto invece portò a termine in tutte le sue iniziative. Il ruolo specifico del Camisassa non consistette solo nella stima e nel rispetto verso l’Allamano, ma anche nella capacità di capirlo, di interpretare le sue idee e di collaborare stando sempre al proprio posto. Non ci furono momenti nei quali il Camisassa volle sostituirsi all’Allamano, mai.

Tra il Camisassa e l’Allamano la fiducia era totale. Si comunicavano idee, sentimenti, intuizioni, impressioni, informazioni, situazioni e notizie, anche sul personale, sicuri della reciproca confidenzialità.

L’Allamano ebbe l’abilità di scegliersi un collaboratore che lo completasse. Aveva potuto conoscere le qualità del Camisassa durante il periodo del seminario, trovandolo adatto e affine, pur nella diversità.

Durante i 42 anni di convivenza al Santuario della Consolata, il Camisassa fu sempre il «Vicerettore» ed economo. Giuseppe Allamano, il Rettore, l’aveva richiesto come «coadiutore» e tale il Camisassa rimase per tutta la vita. Un binomio inossidabile ed esemplare di vita e di apostolato, che niente riuscì a spezzare, nemmeno le varie proposte di promozioni a incarichi più autorevoli, quali l’episcopato in diocesi piemontesi.

La profonda sintonia tra il Camisassa e l’Allamano maturò nella continua ricerca del dialogo, cibo quotidiano per sostenere i loro molteplici impegni apostolici e per crescere nella mutua comunione.

Il Camisassa non aveva segreti per l’Allamano.

L’Allamano e il Camisassa si erano impegnati a «dirsi sempre la verità», e lo fecero. Un mezzo che avevano appreso dagli anni del Seminario e che non tralasciarono mai era la cosiddetta «correzione fraterna».

Cento anni dopo la morte del Camisassa, siamo qui a commemorare la sua straordinaria figura di uomo di Dio, uomo di comunione, uomo di acuta intelligenza e profondissima umiltà, uomo di alacre operosità e intensa vita interiore, che ebbe una parte essenziale e insostituibile nella nascita e sviluppo dei nostri Istituti. In comunione,

suor Simona Brambilla
 e padre Stefano Camerlengo

(Testo adattato e ridotto dalla lettera dell’8 dicembre 2021, Anno del Camisassa nel centenario della sua morte, dei due superiori generali ai Missionari e Missionarie della Consolata e loro amici e benefattori)

12/11/1916. Visita del cardinal Giovanni Cagliero – nel mezzo tra l’Allamano e il  Camisassa – alla Casa Madre dei Missionari in Torino.


«Non dimenticate quest’uomo!»

Giacomo Camisassa, il gregario ideale

Ricordare una persona, nel senso etimologico, è «riportarla al cuore», ravvivandone una riconoscente memoria. Giacomo Camisassa, sacerdote di Torino, fu un uomo di Dio, lavoratore instancabile e umile, con grandi capacità di relazione. La sua amicizia con il beato Giuseppe Allamano segnò la vita di entrambi e dei due istituti missionari di cui fu confondatore.

«Non potremmo certo dimenticarlo e dimenticare il bene che fece per l’Istituto, per il quale tutto si sacrificò fino all’ultimo respiro della sua preziosa e santa vita» (Beato G. Allamano, lettera circolare ai Missionari, 20 giugno 1923).

Personalità armoniosa

Prima foto di Giacomo Camisassa. Risale al 1884.

Prima di raccontare la vita del Camisassa e il bene da lui realizzato, è utile riflettere sul fatto che la sua fu una personalità armonica e armoniosa, nella quale maturità, responsabilità, equilibrio e stabilità si seppero intrecciare mirabilmente. Le numerose doti, le molteplici attività intraprese, la grande capacità di relazioni, la vita cristiana vissuta in modo missionario e lo spirito di fede per essere in sintonia con il progetto di Dio su di lui, si fusero in una grande unità e caratterizzarono la solidità della sua personalità.

Per essere veramente ben compreso, ogni atto della sua vita va letto alla luce della totalità della sua esistenza. Che egli fosse un «lavoratore» indefesso e geniale tutti l’ammettono facilmente. Anzi, monsignor Gaudenzio Barlassina, allora vescovo della Prefettura apostolica del Kaffa in Etiopia, commemorandolo nel primo anniversario della morte, mise in guardia coloro che del Camisassa coglievano soltanto questa dimensione: «Quelli che lo guardano con un occhio solo, non vedono in lui che una meravigliosa operosità. Ma noi, che abbiamo avuto agio di rimirarlo con due, abbiamo potuto scorgere e contemplare la sua eccelsa virtuosità, non inferiore alla capacità tecnica, alla sua costante attività».

Uomo concreto

Il canonico Camisassa, di costituzione robusta e tendente all’obesità, fornito di rara intelligenza e di ferma volontà, era un uomo eminentemente pratico e sempre in moto. Fu un artista della tecnica e dell’esecuzione delle opere materiali.
Architetti, ingegneri, pittori, decoratori, marmisti, muratori, ditte industriali, impresari, appaltatori, notai, ragionieri, avvocati, professionisti in genere, trovavano in lui l’esperto.

Con facilità e sveltezza abbozzava prospetti, stendeva relazioni, redigeva progetti, scriveva articoli, faceva bilanci, saldava parcelle, rivedeva conti, calcolava l’ampiezza di un locale e le sue giuste proporzioni in comodità, estetica, igiene, solidità, economia. Esaminava il materiale da impiegarsi, la portata della tubatura dell’acqua e della conduttura del gas, il telaio di una finestra, la serratura di una porta, la qualità di una stoffa, la foggia di un vestito, l’arredamento di una camera, l’imballaggio di una cassa. Le sue erano giornate piene, costruttive, in cui non si perdeva tempo e si verificavano pochi sbagli.

«L’Allamano aveva in grande stima il canonico Camisassa e un alto concetto delle sue virtù e dei talenti di lui. Lo trattava paternamente con modi rispettosi e squisitamente educati; aveva riposta in lui la sua piena fiducia e colla massima tranquillità attendeva da lui ogni più valido aiuto; di lui si serviva come Iddio deve servirsi degli Angeli, come la Madonna a Nazareth, per le proprie faccende doveva servirsi di Gesù adolescente» (Tommaso Gays, 16 febbraio 1942, 16° anniversario della morte del veneratissimo Padre Fondatore).

Uomo di Dio

Era un uomo di fede perché tutto compiva sotto gli occhi di Dio e nulla altro temeva. Era questo il segreto della sua inalterabile calma, anche in mezzo alle contraddizioni e alle prove.

Il denaro per lui fu sempre e unicamente il mezzo per procurare la maggior gloria di Dio. Visse e morì povero. La prebenda canonicale (Prebenda: una specie di rendita che gli era dovuta per il suo ruolo di canonico della diocesi di Torino, ndr), quando l’ebbe dal 1892, la donò sempre per il bene dei missionari e per i restauri del santuario. Avrebbe potuto esser ricco, invece visse poveramente.

«Era assolutamente schivo dagli onori che evitava. Era alieno da qualunque parata e con studio spontaneo si eclissava ovunque vi fosse da fare bella figura» (padre Borda Bossana – Testi citati nella lettera dei superiori generali dell’8 dicembre 202).

Era cortese, affabile e, «a tavola era molto parco nel cibo; durante il pasto non beveva mai, solo in fine beveva un bicchiere di vino, diceva, per digerire». «In contrario al suo aspetto serio e chiuso, quando alcuno aveva occasione di parlargli, allora egli manifestava la grande bontà del suo cuore», perché «in lui batteva un cuore sempre pronto alle necessità altrui, anzi a niuno secondo per finezza di discernimento delle miserie della povera umanità» (da testimonianze di vari confratelli).

Gentile e cortese con i sani, lo era maggiormente con gli infermi. «Quando alcuno della casa era malato se ne interessava tosto, riferiva al Rettore e disponeva per tutto quanto occorreva con larghezza di cuore. Ammirai in lui delicatezza e cuore. Aveva proprio un cuore di padre; per rimettermi bene in salute mi aveva procurato un liquore da prendersi giornalmente a bicchierini, che mi fece tanto bene; infatti, poco dopo ripartivo per l’Africa» (fratel Anselmo Jantet).

Chiamato per volontà di Dio a inserirsi nella fondazione dell’Istituto, accettò questo invito come un impegno fondamentale e unico della sua vita e del suo sacerdozio.

Coloro che volessero vedere nel canonico Camisassa puramente l’uomo dell’azione esteriore, sbaglierebbero. Fu uomo di azione senza dubbio, ma soprattutto un sacerdote.

Tenera e sentita fu la sua devozione a Maria: «Mi abbandono tra le braccia di Dio ed in quelle di Maria». Viene spontanea la conclusione che è di tutti quelli che l’hanno conosciuto: la sua attività fu manifestazione del suo zelo e della sua pietà, prova ed effetto della sua santità.

Il certificato di battesimo di Camisassa Giacomo Francesco. Secondo questo certificato il battesimo fu fatto il 27 settembre 1954 alle ore 7 di mattina e la nascita avvenne alle ore 11 di notte del 26.

La giovinezza

Giacomo Camisassa nacque a Caramagna (Cuneo) il 27 settembre 1854, quintogenito di Gabriele Camisassa e Agnese Perlo. Era il tempo in cui il Piemonte vide fiorire una meravigliosa schiera di santi e di anime apostoliche e contemplative: Giovanni Bosco, Giuseppe Cafasso, Maria Mazzarello, Giuseppe Benedetto Cottolengo, Luigi Orione, Leonardo Murialdo, i fratelli Luigi e Giovanni Maria Boccardo, Pier Giorgio Frassati, Callisto Caravario, Guglielmo Massaia, Giuseppe Marello, Ignazio di Santhià, Maria Cristina di Savoia, e molti altri.

Fattosi più grande, frequentò le scuole elementari del comune con assiduità e impegno, dando sempre prova di spiccata inclinazione allo studio, di chiara intelligenza e di esemplare condotta. Imparò presto il catechismo, e, come chierichetto, a servire bene la messa e tutte le altre funzioni religiose. Gli piaceva cantare e fu, per tutta la vita, un grande innamorato della musica sacra.

Da ragazzo lavorò come apprendista nella bottega di un fabbro, e nel 1868 entrò nell’Oratorio di S. Francesco di Sales, iniziato dopo tante peripezie e contrarietà da Don Bosco con l’aiuto di san Giuseppe Cafasso, zio materno dell’Allamano. Frequentò poi il seminario di Chieri per gli studi filosofici e, nel 1873, studiò teologia nel seminario di Torino, dove incontrò Giuseppe Allamano che, nonostante fosse appena tre anni più vecchio di lui, divenne la sua guida spirituale per cinque anni, dal 1873 al 1879.

Fu ordinato sacerdote nel 1878 e, in seguito, completati i suoi studi, fu aggregato fra i dottori delle Facoltà di Teologia e di Diritto di Torino.

Promotore di sinodalità

L’amicizia tra l’Allamano e il Camisassa fu caratterizzata da uno spirito di sinodalità molto vivo. Pensavano e realizzavano tutto insieme, dialogando e dicendosi le cose con verità. La loro amicizia e collaborazione sacerdotale, durata tutta la vita senza alcuna incrinatura, nel rispetto vicendevole dei loro ruoli e nella condivisione di ideali, rimane un esempio mirabile.

Oggi ci si può meravigliare quando si scopre che l’Allamano e il Camisassa si diedero del «lei» per tutta la vita. Se da una parte questo era un uso più comune e normale allora rispetto a oggi, dall’altra non era assolutamente necessario comportarsi in tal modo tra amici.

Tutto nacque da un vero atto di fede nella volontà di Dio espressa dal comando di monsignor Lorenzo Gastaldi, arcivescovo di Torino dal 1871 al 1883, che aveva assegnato prima l’Allamano alla formazione in seminario e poi nel settembre 1980, con il Camisassa, al Santuario della Consolata e all’annesso Convitto ecclesiastico. Ne seguì un lungo cammino di vera comunione di intenti, di progetti, di azione che produsse una incredibile mole di opere al santuario prima e all’Istituto dopo.

«Insieme sulla scia della volontà di Dio», così termina la lettera che l’Allamano scrisse al Camisassa informandolo del suo nuovo incarico come rettore del santuario della Consolata e invitandolo a essere suo aiutante come economo e vicerettore: «Faremo d’accordo un po’ di bene, eserciteremo la carità […], procureremo di onorare il culto della nostra madre Consolata; in questo nuovo ufficio avrà campo di esercitare il santo ministero, sia nel predicare che nel confessare».

«Ci siamo promessi di dire sempre la verità», disse l’Allamano in un’altra circostanza, svelando uno dei segreti per camminare insieme sulla scia della volontà di Dio.

L’Allamano iniziò il suo servizio al santuario il 2 ottobre 1880, raggiunto il giorno dopo dal Camisassa.

Ma la realtà più bella, nata dallo spirito di collaborazione tra i due, fu l’eredità di testimonianza che essi ci hanno lasciato, mostrandoci come si deve lavorare nella Chiesa e nell’Istituto, qual è lo spirito che lo permea, come cioè si deve evangelizzare. La loro collaborazione e amicizia aveva una solida base in Dio. «Erano 42 anni che eravamo insieme; eravamo una cosa sola; ci siamo sempre amati in Dio», confessò il fondatore alla morte dell’amico (Sr. Chiara Strapazzon, Deposizione, vol. 11, p. 854).

Sebbene essi avessero personalità e doti molto differenti, seppero tuttavia allacciare una relazione profonda e costante, nel rispetto della diversità, nel desiderio della complementarità. Crebbero come persone, come sacerdoti, come uomini di Dio. La pratica del dialogo fu fondamentale per rinsaldare e rendere efficace l’amicizia che legò il Camisassa al Fondatore.

Il canonico Camisassa (al centro) con un gruppo di sacerdoti del Convitto ecclesiastico.

Dirsi tutto

Una bella pagina del volume dei fratelli Giuseppe e Gian Paola Mina, dal titolo «La beatitudine di essere secondo» (Giuseppe e Gian Paola Mina, La beatitudine di essere secondo, Emi, Bologna 1982; riedizione riveduta e ridotta con ampio apparato fotografico, Editrice Velar, Golle [Bg] 2021), che è la biografia del Camisassa, presenta efficacemente la realtà di comunione tra l’Allamano e il suo più stretto collaboratore: «Dopo pranzo, nell’ufficio dell’Allamano, i due amici prendono una tazzina di caffè insieme e parlano. Più che un parlare, è un comunicarsi gli eventi grandi e piccoli, per un bisogno di confronto, sempre tesi come sono l’uno e l’altro alla ricerca della verità per scoprire i segni dei tempi […]. Dopo la cena, si ritrovano per vagliare quanto nella giornata è emerso e quanto il domani sembra prospettare. Niente di formale, niente di rigido, ma tutto è chiarezza, ricerca, gioia di camminare insieme […]; non ritengono sprecato quel tempo speso per chiarirsi le idee, per approfondire problemi, per giungere a conclusioni. Pregano, vivono nella stessa direzione. L’uno è sicuro dell’agire dell’altro e ciascuno conserva mirabile autonomia».

Ogni idea, ogni proposta, ogni progetto veniva esaminato, vagliato, controllato da ambedue insieme: nulla fu mai fatto o da uno solo di essi o indipendentemente uno dall’altro.

Frutto di questo dialogo fu la nascita e la crescita dei due Istituti missionari. A noi è rimasto uno spirito, una eredità. «Unità di intenti» era, infatti, l’ideale proposto dal fondatore ai suoi missionari.

Il santuario della Consolata da Via Consolata

Nell’abbellimento del Santuario

Il 3 ottobre 1880 arrivò al santuario don Giacomo Camisassa, chiamato dall’Allamano per coadiuvarlo. Qui fu vicerettore ed economo del santuario e del Convitto ecclesiastico a esso connesso (Fondato nel 1817 per i sacerdoti appena ordinati, che per due anni approfondivano la teologia – soprattutto quella morale – e la pratica pastorale. San Cafasso vi aveva insegnato fino al 1860. Nel 1876 il vescovo Gastaldi lo chiuse per contrasti sull’insegnamento della morale. L’Allamano lo fece riaprire nel 1880 nei locali annessi al santuario – ndr).

Nei 42 anni successivi (1880-1922) alla Consolata, l’Allamano e il Camisassa diedero inizio a tutta la serie di attività che avrebbero riempito la loro vita e li avrebbe resi grandi agli occhi di Dio e della Chiesa: riapertura del Convitto ecclesiastico, restauri del santuario, sviluppo della devozione alla Consolata, beatificazione di san Giuseppe Cafasso presentato quale modello del clero, fondazione di due Istituti missionari.

Insieme decisero di intraprendere i restauri necessari al santuario in vista anche della celebrazione dell’ottocentesimo anniversario del 1904, ma toccò al Camisassa seguire puntualmente i molteplici lavori. Il santuario allargato e ristrutturato fu benedetto il 20 giugno 1904, con la partecipazione di un legato pontificio, cardinali, arcivescovi e vescovi.

Insieme all’Allamano, fondò e diresse la rivista «La Consolata» (1899), per far conoscere la vita del santuario, i lavori di restauro e, in seguito, la vita e lo sviluppo dell’Istituto e delle missioni.

Nel 1892 il Camisassa fu anche nominato canonico della cattedrale di Torino.

Rivoli (To), 8 maggio 1902- Allamano e Camisassa con i primi quattro partenti. Da sx: fratel Celestino Lusso, padre Tommaso Gays, padre Filippo Perlo, fratel Luigi Falda. Di fronte Giuseppe Allamano e Giacomo Camisassa. Foto dell’8 febbraio 1902, conservata nell’Archivio generale IMC a Roma, n. 245

Nella fondazione dell’Istituto

Nel 1897 il cardinal Agostino Richelmy, compagno di seminario di Giuseppe Allamano, fu nominato arcivescovo di Torino. Lo speciale rapporto di fiducia e confidenza con il nuovo vescovo, consolidò l’idea della fondazione dell’Istituto missionario che l’Allamano coltivava da tempo, e il 29 gennaio 1901 nacque l’«Istituto della Consolata per le Missioni Estere» del quale Giuseppe Allamano non volle mai essere chiamato «fondatore», convinto profondamente che fondatrice fosse solo la Consolata.

Il Camisassa, dunque, chiamato per volontà di Dio a inserirsi nella fondazione dell’Istituto, accettò questo invito come un impegno centrale della sua vita e del suo sacerdozio. Sentì che il programma dell’Allamano era pure il suo, non solo per un dovere di contratto, ma per un obbligo di elezione divina.

Ambedue si dedicarono alla preparazione dei futuri missionari. Nel 1902, l’8 maggio, partirono per il Kenya in Africa i primi quattro, due sacerdoti e due laici, seguiti poi da altri quattro il 15 dicembre. Altri sei, affiancati da otto suore Vincenzine del Cottolengo, arrivarono a destinazione in Kenya il 17 giugno 1903.

Il terreno in Via Circonvallazione(514-516) di 12.000 mq venne acquistato dall’Allamano nel 1905. I lavori iniziarono il marzo 1905 o poco dopo. La nuova Casa Madre venne inaugurata il 23 ottobre 1909. E’ da considerarsi come il memoriale del patto vicendevole intercorso tra l’Allamano ed il Camisassa. – Disegno e direzione sono dell’Ing. E.Ruffoni. Ditta: Fratelli Faia – La facciata é di 90 m – I due fabbricati minori erano adibiti a parlatori, museo, ì segheria … – Nella parte di mezzo avrebbe dovuto sorgere, col tempo, la ì nuova chiesa. Così secondo un “vivo desiderio del Fondatore”. (La Consolata – ottobre 1909, pp.160-161).

Nella costruzione della Casa Madre

Quando la prima casa dell’Istituto in corso Duca di Genova (l’attuale corso Stati Uniti) a Torino, denominata «la Consolatina», non fu più sufficiente a ospitare gli aspiranti missionari che vi studiavano, vivevano e lavoravano, l’Allamano acquistò un terreno di 12mila m2 in via Circonvallazione 514-516 angolo corso Oporto (ora corso Francesco Ferrucci, dal 12 al 18). Nel marzo 1905, sotto la guida del Camisassa, si iniziarono i lavori di quella che sarebbe diventata la Casa Madre.

In Kenya, durante uno dei molti viaggi da una missione all’altra.

Nel provvedere per le missioni

Tutta l’organizzazione materiale delle prime missioni (preparazione del corredo per i missionari, spedizione di casse, progetti per la costruzione di case, fornitura di attrezzi di lavoro, ecc.) dipendeva da Giacomo Camisassa.

Come già per il Santuario aveva studiato progetti, trattato con impresari, tenuto sedute con architetti, assistito a lavori, scelto i materiali, cercato persone idonee, concluso contratti, sempre attento alla perfezione della riuscita; così fu per il compito che assolse per le missioni.

Il canonico Allamano non era fatto per questo genere di preoccupazioni e di occupazioni. Il primo a riconoscerlo e manifestarlo fu egli stesso, come scrisse padre Sales: «Era solito dichiarare che non si sarebbe deciso al grave passo – di fondare l’Istituto – se non si fosse trovato al fianco un uomo della tempra e dell’abilità del Camisassa».

Il Camisassa, di fatto, era il dinamismo in persona, con una competenza spiccata per le «cose pratiche».

Testimonia padre Antonio Borda Bossana, membro del secondo gruppo partito per il Kenya: «Il salone del Convitto sopra la sacrestia divenne un bazar di ogni cosa necessaria alla vita dei missionari. È lui (il Camisassa, ndr) che pensava a tutto e tutto provvedeva, lui che si recava nei negozi a scegliere e contrattare le merci. L’economo e i preti addetti al Santuario alle sue dipendenze erano tutto il giorno di corsa per eseguire le sue commissioni, massime quando s’approssimava il tempo di spedizione delle merci».

Incontro con un capo che gli presenta il figlio per farlo ammettere nella scuola detta «Collegio dei principini» per la formazione dei giovani leaders del futuro.

Nella visita alle missioni del Kenya

Dieci anni dopo la partenza dei primi missionari, e poco dopo la fondazione delle Missionarie della Consolata nel gennaio 1910, i missionari in Kenya reclamavano una visita del fondatore perché conoscesse bene la situazione, valutasse risultati, chiarisse problemi per poi affrontare insieme il cammino da fare. L’Allamano non era in condizione di lasciare il Santuario e la sua salute non gli permetteva un viaggio così impegnativo. Mandò così il suo più fedele collaboratore che partì da Torino l’8 febbraio 1911. Giunto in Kenya a marzo 1911 vi restò fino ad aprile 1912, rientrando a Torino il 26 di quel mese. Scopo del viaggio: aumentare l’entusiasmo dei missionari, rinsaldare la loro buona volontà, approfondire la loro spiritualità e confortarli con la sua presenza, sostenendoli nelle difficoltà e negli insuccessi. A sessant’anni circa, era arzillo come un giovane, con il largo cappello di sughero, in abiti rurali, pronto al lavoro e sempre fresco, come nulla gli mancasse.

Nonostante la lentezza della posta a quei tempi, tenne costantemente informato l’Allamano sulle sue attività, creando una fitta corrispondenza e chiedendo i suoi consigli su situazioni difficili.

Parlando del programma della visita all’Africa del Camisassa, l’Allamano avrebbe ricordato che: «Vi andò per parlare ai missionari, sia in privato nelle singole stazioni, sia in pubblico durante i Santi spirituali esercizi, ed intendersi con essi sulle Costituzioni, Regolamento, esercizi di pietà, vita comune, ecc., secondo un formulario che avevamo preparato di comune accordo».

Il Camisassa diede grande impulso e aiuto ai lavori materiali. In diverse sue lettere autografe ai missionari si notano, tracciati a penna, rapidi schizzi di macchinari o di attrezzi di lavoro. Prima di spedire il materiale in Africa, a volte progettato sulla base delle indicazioni dei missionari stessi, il Camisassa si preoccupava di istruire per lettera gli interessati che lo avrebbero adoperato. Sono particolarmente dense di questi disegni le lettere che scrisse nel 1911, durante la sua visita alle missioni del Kenya, perché poteva constatare di persona le necessità e controllare i lavori.

Camisassa a Gaighanjiru con (da sx) suore vincenzine, padre G Perlo, fratel Umberto Arossa, suora cottolenghina, padre Angelo Bollani, canonico Camisassa, padre T Gays, padre G Cavallero, fratel Bezzole Luigi, padre Vignoli e suor Scolastica del Cottolengo

Nella segheria installata nella foresta di Tuthu, sotto la guida del coadiutore Benedetto Falda, si costruirono diverse case prefabbricate, che furono le prime abitazioni in legno per il personale delle missioni.

Provvide a realizzare gli altarini portatili perché i missionari potessero sempre celebrare la messa, anche durante i viaggi. Nell’archivio dell’Istituto è conservata copia del disegno, opera sua, di un altare portatile composto da 22 pezzi smontabili e facili da assemblare per la celebrazione.

La più bella conclusione a questo punto siano le due lettere scritte dal Camisassa e dall’Allamano al termine della visita in Africa.

Scrisse il Camisassa: «Le accoglienze cordialissime da parte vostra eran cose che poteva già aspettarmi ben conoscendo quanto affetto avete sempre nutrito verso la mia povera persona, quale debole cooperatore di quell’anima santa che tutti siam fortunati di chiamare col dolce nome di Padre».

Scrisse l’Allamano: «Il felice ritorno del sospirato Vice Superiore fu un momento di gioia per me e per tutti nell’Istituto. […] Vi rinnovo i ringraziamenti per le festose accoglienze che gli avete fatte e per la docilità con cui avete accettato quanto egli credette di dirvi pel vostro maggior bene».

Confondatore

Non c’è dubbio che gli Istituti fondati dall’Allamano ritengono, con ragione, il Camisassa loro «confondatore», come era già denominato quando l’Allamano era vivo, il quale per primo, volle dargli il più ampio riconoscimento chiamandolo confondatore egli stesso, vale a dire: «Fondatore con lui, fondatore unitamente a lui».

In due documenti ufficiali datati 2 ottobre 1909, si parla di «due fondatori» e sono firmati da entrambi i canonici Allamano e Camisassa.

Il primo è la supplica al Papa per ottenere l’approvazione dell’Istituto, di modo che divenisse di diritto pontificio. Essa incomincia: «Beatissimo Padre, i sottoscritti fondatori dell’Istituto della Consolata […]» (cfr. Lett., V, 278).

Il secondo è la petizione alla Congregazione dei religiosi, per lo stesso motivo.

«Aveva l’arte di nascondersi»

L’umiltà fu la sua virtù prediletta. Nascondeva costantemente se stesso per mettere gli altri in luce. Mai parlava di sé e di quanto faceva. Pochi lo conoscevano di nome, pochissimi di vista (Da Giuseppe Ronco, Il confondatore aveva l’arte di nascondersi, in https://giuseppeallamano.consolata.org). «Ho sempre ammirato in lui una umiltà profonda, si faceva uno studio di nascondersi sempre dietro l’ombra del Rettore. La sua preoccupazione era di scomparire, di essere ignorato» (mons. Rostagno).

Sperimentava la beatitudine di essere secondo.

Quanto l’Allamano stimasse il Camisassa, oltre ad averlo dimostrato con tutta la vita, appare da queste sue affermazioni proferite durante la malattia e dopo la morte dell’amico: «Per lui ho offerto la vita, ma vale niente»; «Senza di me potete fare, ma senza di lui, no»; «Tocca a me fare i suoi elogi. Era sempre intento a sacrificarsi, pur di risparmiare me; era un uomo che aveva l’arte di nascondersi e possedeva la vera umiltà».

Ciò che colpisce non è solo la collaborazione, ma anche lo stile con cui questa collaborazione venne attuata per così tanti anni. Uno stile indicato dalle parole dell’Allamano già citate: «Abbiamo promesso di dirci la verità e l’abbiamo sempre fatto». Si comprende allora perché diceva: «Non dimenticate quest’uomo!» (Padre Aquileo Fiorentini, Missionari di Gesù Cristo per la gioia del mondo, come Paolo e i suoi collaboratori, Bollettino ufficiale 125, gennaio 2009).

Con il gruppo dei futuri catechisti.

Tessitore di fraternità

Conosciamo bene l’attaccamento sincero e il servizio incondizionato che il Camisassa dedicò ai due Istituti missionari, con particolare attenzione a quello delle suore.

La nuova casa dei missionari fu inaugurata il 23 ottobre 1909, mentre il 29 gennaio 1910, si diede inizio alle suore «Missionarie della Consolata».
Si preoccupò che anche le suore avessero una casa e si prese cura della sua costruzione. Il 4 settembre 1922 la comunità delle Missionarie della Consolata poté entrare nella propria Casa Madre.

Nella Lettera Circolare del 26 agosto 1922, il fondatore, comunicando ai missionari la dolorosa notizia della morte del Camisassa, così si esprimeva: «Egli viveva per voi e per le nostre missioni, e l’ultimo giorno lo passò pensando e parlando dell’Istituto. Le sue ultime parole, che disse nel suo testamento, furono di unione fra i missionari e le missionarie». La sua vita fu la testimonianza più bella di quell’unione. Il suo amore era per tutti senza distinzione.

Fu un umile maestro di vita che si prodigò per il bene dei due Istituti, affinché vivessero in comunione. Il suo servizio fu caratterizzato dalla sincerità, dalla fiducia e dalla correzione fraterna, dal vivere l’unità di intenti nella collaborazione e corresponsabilità, quello che oggi chiameremmo lo spirito della sinodalità.

Il beato Allamano e il canonico Camisassa con i sacerdoti convittori.

La morte

Il 18 agosto, verso sera, come svegliandosi da un sogno, il canonico Giacomo Camisassa si guardò intorno e fece cenno a suor Virginia Barra, che lo assisteva, di dargli il suo Crocifisso, lo stesso fece con padre Carlo Francesco Sciolla che la aiutava. Legò insieme i lacci dei due Crocifissi e li tenne sul cuore mentre guardava intensamente il padre e la suora. Cercò di parlare e dire qualcosa, ma non riuscendo lo aiutarono: «Significa che i padri e le sorelle devono restare uniti nell’amore reciproco?». «Sì; sì; questo è tutto…», rispose. Poi, continuando a tenere lo sguardo sui presenti, disse: «È il padre (Allamano, ndr) che vi ha legati». «E lei desidera che noi rimaniamo sempre così uniti; è giusto?». «Sì, è il mio desiderio, ma è il padre che lo vuole». Continuò a baciare i Crocifissi, stringendoli al cuore.

In quel momento, l’Allamano entrò nella stanza. Non capì cosa stesse accadendo e, così, chiese loro di sciogliere i Crocifissi. Il malato dimostrò di soffrire per questo.

Appena venne a conoscenza di ciò che era capitato, l’Allamano disse: «Se solo avessi saputo, non avrei mai chiesto di slegare i due Crocifissi. Li avrei tenuti com’erano a testimonianza delle sue intenzioni».

Scrisse ai missionari in Kenya: «Le ultime parole del nostro caro defunto furono sull’unione tra i nostri missionari, gli uomini con le donne».

Più tardi scrisse ancora: «Quell’azione fu un’ultima volontà d’amore. Sta a noi essere fedeli a essa: è sacra».

Erano circa le 20, una sera calda e umida. Tutti erano a cena, tranne suor Emerenziana e suor Ambrosina che assistevano il malato che era preso dalla smania di alzarsi per «andare all’Istituto». Nel suo delirio, all’improvviso, il Camisassa riuscì ad alzarsi dal letto, fece alcuni passi barcollanti e cadde: era morto.

Funerale del Canonico Giacomo Camisassa il 21/08/1922,

«Era maturo per il cielo»

«Carissimi e carissime in N. S. G. C. (Nostro Signor Gesù Cristo, ndr)

Mi trema la mano, il cuore si gonfia e gli occhi versano lacrime nell’indirizzarvi questa breve lettera. Il nostro caro Vicerettore e Vice Superiore non è più tra noi e non lo rivedremo che in Paradiso. Spirò placidamente la sera del 18 corr. mese, con tutti i conforti religiosi e le cure più affettuose. Quale perdita per il santuario e più per l’Istituto e le Missioni! Vedevamo necessaria la sua esistenza e pregammo la nostra SS. Consolata a prolungargli per qualche tempo la vita. Molti, io pure, hanno offerto la propria vita perché fosse conservata quella del nostro caro.

La SS. Consolata non credette di esaudire le comuni preghiere. Era maturo per il cielo. Aveva compiuto la sua santa e laboriosa giornata e poteva dire con san Paolo: Cursum consummavi, in reliquo reposita est mihi corona justitiae (ho terminato la corsa, … mi resta solo la corona di giustizia, ndr). Pronunciate con me il fiat all’imperscrutabile volontà di Dio, e sia in suffragio della bell’anima.

In tanto dolore ci consolarono le prove di stima e di affetto che tutta Torino diede a Lui umile e da molti sconosciuto. La sepoltura fu un trionfo. Egli viveva per noi e per le nostre Missioni, e l’ultimo giorno lo passò pensando e parlando dell’Istituto. Pregate per Lui ed anche per me desolatissimo che nel nome della SS. Consolata vi benedico».

Così scrisse l’Allamano ai missionari e missionarie per dare l’annuncio della morte di Giacomo Camisassa, per la quale soffrì molto (Lettera n. 1580, da Candido Bona (a cura di), Quasi una vita, lettere scritte e ricevute dal beato Giuseppe Allamano, Vol IX/1 p. 448). Allora confessò umilmente che, in quel momento, aveva come «perduto tutte due le braccia». «Se non avessi avuto al mio fianco il canonico Camisassa, non avrei fatto quello che ho fatto».

La morte del Camisassa fu un colpo molto sentito, così per dodici mesi consecutivi, nel giorno 18 di ogni mese si celebrò in Casa Madre una messa solenne. Nella nona ricorrenza, il 18 maggio 1923, la santa messa fu cantata da monsignor Gaudenzio Barlassina, tornato dal Kaffa, in Etiopia. Il venticinque luglio, festa di san Giacomo, tutte le comunità di Casa Madre andarono al cimitero a celebrare una santa messa e a visitarne la tomba.

«Proruppe in un pianto dirotto»

Il canonico Nicola Baravalle così espresse la propria ammirazione per l’Allamano, con il quale aveva collaborato molti anni: «Ricordo quella sera nella quale eravamo tutti addoloratissimi, sia per la perdita del grande canonico Camisassa, come per la ripercussione che tale dipartita avrebbe avuto sul Servo di Dio. Assistette all’agonia ed alla morte senza una lacrima. E poi, portatosi in chiesa, appena inginocchiato, proruppe in un pianto dirottissimo e restò parecchio assorto in Dio. Rialzatosi, prese le disposizioni del caso; restò per qualche tempo impressionato, ma non ebbe più una lacrima, e non ritornò più sul fatto. Solo si rese più appartato, dovendo supplire a quanto faceva il Camisassa».

Anche le Missionarie della Consolata colsero le reazioni dell’Allamano dopo la morte del suo amico. Nel breve incontro alla Consolata del 3 settembre 1922, l’amanuense annotò, tra parentesi «(Andiamo noi alla Consolata perché pioveva)», e poi al termine delle poche righe: «(Ritornando a parlare del Sig. Vicerettore) Sì, non mi sembra vero che non ci sia più, ma penso che c’è il suo spirito. Pensate a far tutto come voleva lui, e pregate per lui».

I suoi figli e figlie, anche quelli lontani, compresero perfettamente e condivisero lo stato d’animo del loro padre. A nome di tutti loro, così scriveva dal Kenya il vicario apostolico monsignor Filippo Perlo all’Allamano: «[…] il suo buon esempio non può non apportare anche a noi conforto e incoraggiamento. Grazie anche per questo».

L’urna con i resti del Camisassa sullo sfondo, a sinistra, della tomba di Giuseppe Allamano nella chiesa santuario dedicato al beato Allamano in Torino.

Uno accanto all’altro

Dal 2001, le spoglie mortali del Camisassa riposano accanto a quelle dell’Allamano. L’urna di zinco è contenuta in un elegante cofano di legno. Dietro il cofano, in lettere d’oro, si possono leggere queste parole: «Un amico fedele è un balsamo (Si 6,15). Tale è stato Giacomo Camisassa per l’Allamano. Di lui ha detto l’Allamano: “Ci siamo sempre amati in Dio”. “Abbiamo promesso di dirci sempre la verità e lo abbiamo sempre fatto”. “Viveva per noi e per le nostre missioni”. “Ha sempre e solo lavorato per amor di Dio”. “Non dimenticate quest’uomo”». L’Allamano e il Camisassa, che ora riposano l’uno accanto all’altro, sono meta di filiali visite da parte dei Missionari e delle Missionarie della Consolata e di molta gente.

Giuseppe Ronco

Funerale del Canonico Giacomo Camisassa il 21/08/1922, davanti al santuario della Consolata


Apostoli con la parola e il lavoro

Lettera a fratel Benedetto Falda nella segheria della missione di Tuthu

Torino, 8 marzo 1904

Carissimo fratel Benedetto,
ho ricevuto ieri la tua lettera del 3 febbraio scorso. Non puoi credere quanto mi abbia fatto piacere sapere che l’andamento alla segheria procede benissimo e tu sei sempre felice del tuo lavoro. Persuaditi che quello è un vero apostolato, tanto quanto il sacerdote che predica. L’impressione che il lavoro fa sugli Akikuyu, il movimento febbrile delle macchine, onora presso di loro il lavoro e sveglia la brama di imitarvi, d’imparare affin di migliorare le loro condizioni di vita. […]

Sai, Benedetto, perché ti dico queste cose? Perché tu e quanti sono con te vi persuadiate che, come coadiutori, siete veri missionari, anche facendo il falegname, il muratore, il contadino o altro. Per fare bene la vostra parte dovete lavorare con spirito di fede, volentieri, allegri, concordi e sempre intenti al pensiero che Dio vi vede, intenti a dare il buon esempio.

Con spirito di fede: col pensiero che Dio vede, fare le cose come se aveste accanto Gesù e dovesse esaminarvi se fate bene e se vi approvi.

Volentieri: cioè, come foste mai stanchi; mai perdere tempo!

Allegri: sempre col sorriso sulle labbra, mai di cattivo umore. Qualche volta può darsi che non lo siate, ma non fatelo trasparire. E poi, mai tratti duri con gli Africani!

Concordi: trattarvi a vicenda con carità, aiutandovi scambievolmente; insomma essere un cuore solo, un’anima sola, come veri fratelli nel Signore Gesù.

Buon esempio: gli indigeni hanno occhi semplici, ma tutto vedono, tutto osservano, fanno ciò che voi fate. […] Guai se scandalizzaste uno di loro! Applicate le parole di Gesù al vostro ambiente. […] Finisco!

Voglio solo aggiungere che il Signor Rettore, leggendo la tua lettera, è rimasto molto contento, gioisce quando gli dici che i tuoi ti vogliono bene. Ciò significa che si vanno affezionando a te, a tutti. Sì, cerca di affezionarteli, per poter dire, anche sul lavoro, brevi parole di esortazioni, su Dio che premia i buoni… Sono parole e, dice il Signor Rettore, che, se dette con fede, ti fanno apostolo. Così dice il Rettore: «essere apostolo con la parola e con il lavoro».

Can. G. Camisassa

La turbina installata a Tuthu da fratel Benedetto con materiali e istruzioni fornite dal Camisassa.

Un uomo dalla fede adamantina

Testimonianza di fratel Benedetto Falda sul Camisassa, Torino, 2 giugno 1944

Rev.mo Padre Gays,
In referenza alla sua domanda di mettere in carte quel che ricordo del nostro amatissimo Can. Camisassa, mi permetto di scriverle quel che più mi si impresse nella mia mente.

Conobbi il Rev.mo Sig. Vicerettore, così nominato da tutti i confratelli all’Istituto, dal primo giorno che ebbi la fortuna di essere posto a contatto col Rev.mo Nostro Fondatore. Mi ricordo che mi colpì la sua affabilità, non dico paterna, ma fraterna, anzi, quasi di compagno. Essendo in quei giorni preoccupato di cercare un meccanico per inviare in Africa con le nuove macchine mi ebbe subito caro e mi pose a parte dei suoi progetti condivisi completamente da me, entusiasta dei suoi ideali che feci miei.

Lettera autografa del Camisassa al fratel Luigi Falda.

Stante la scarsità del tempo (4 mesi in tutto, per la mia preparazione e quella delle macchine) si occupò personalmente a farmi avere conoscenze per aver occasione di impraticarmi di segheria di cui ero affatto digiuno. Ebbi modo di constatare con quale praticità e facilità e accuratezza trattava gli affari […] dal trattare con l’ingegnere per l’amplificazione del Santuario [al dare] ordini all’economo, don Gunetti, per riguardo al vino in cantina e […] vedere se le lime che io avevo comperato erano del giusto taglio per affilare le seghe di acciaio […]. Aveva tracciato progetti d’impianti che poi ai disegni che ne facevo, correggeva colla medesima cura e competenza, come correggerà le bozze del Periodico, andando fino alle minuzie, non con pedanteria, ma con la competenza che lo rendeva atto a correggere anche i disegni dei marmi dell’impresario Catella.

Quell’che più mi impresse si fu che la sua attività lo faceva avaro del tempo […].

Quando arrivai in Missione, ebbi campo di mettere in pratica i consigli praticissimi che Egli mi aveva dato alla partenza, ma pochi mesi dopo il mio arrivo colà mi scriveva una lettera, mi pare del mese di settembre (1904), che la S. V. R. ricevette da me qualche mese fa. In quella mi ammoniva amorevolmente che io mi tenevo troppo riservato nello scrivere e mi diceva: «Come va che dopo tanto combinato per quel macchinario, non mi fai parola? Riguardo allo spirituale scrivi sovente al Sig. Rettore, ma pei lavori voglio da te lettere particolareggiate e lunghe e frequenti». […]

Dopo qualche mese, mi giunsero disegni e particolari di una casa a due piani, che voleva come modello, fosse eseguita per l’abitazione dei Missionari. Ma i particolari erano così minuziosi e copiosi ed eseguiti con tale perizia, che pensavo dove avesse fatto gli studi per essere così pratico di falegnameria e di accorgimenti propri solo a tecnici provetti. Nell’1908, nella mia venuta a Torino, ebbi agio di osservare la costruzione della Casa Madre di Corso Ferrucci (allora chiamato via circonvallazione, ndr), lavoro colossale che egli concepì e diresse con una diligenza e competenza non comune. […]

Lo rividi nel 1911-1912 nel Kenya, nella sua visita che fece colà. […]

Per il lavoro di Missione, poi, aveva un culto speciale – interessandosi della vita nostra di Missione come se non avesse avuto altro scopo nella sua vita. […] E nelle sue lettere non si riservava solo di parlarmi di lavori, ma conservai per lungo tempo una sua lunga lettera di quattro pagine in cui mi animava nel proseguire con lena nel servizio della Missione, con parole tanto infiammate di amore per Dio e per le anime che ne fui tocco al cuore!

Lo rividi nel 1920 nella mia venuta in Italia; dopo 18 anni, mi accorsi che il lavoro e gli anni cominciavano a contare sulla sua forte fibra, ma il suo sguardo e la sua parola era[no] ancora quelle di tanti anni addietro, tutto vivezza e tutto slancio per quel che riguardava l’Istituto, che certamente considerava come parte sua creatura […]. Ebbi per Lui sempre un’affezione speciale e un’ammirazione illimitata; lo considerai sempre un uomo dalla fede adamantina […]. Credo che il suo motto fosse «Tutto per la gloria di Dio». Gradisca, Rev.mo Padre i miei più affettuosi saluti nel Signore.

 Coad. Benedetto Falda


Date essenziali

27 settembre 1854
Nascita di Giacomo Camisassa a Caramagna Piemonte (Cn) – Italia.
(data registrata in comune; nel registro del battesimo risulta invece nato alle ore 23 del giorno 26 settembre, ndr)

Ottobre 1868
Entra all’Oratorio di don Bosco, a Torino, per i corsi ginnasiali.

22 ottobre 1871
Veste l’abito chiericale nella chiesa parrocchiale di Caramagna.

15 giugno 1877
Ordinato sacerdote nel duomo di Torino, da mons. Lorenzo Gastaldi.

8 luglio 1879
Si laurea in Teologia, a pieni voti.

3 ottobre 1880
Su invito del can. Giuseppe Allamano, diventa economo nel Santuario della Consolata.

15 giugno 1887
Il card. Gaetano Alimonda, lo nomina uno dei sette membri della Facoltà di Diritto canonico e civile.

7 luglio 1892
Nominato «Canonico onorario».

20 ottobre 1895
Viene confermato membro aggiunto della Facoltà legale, col titolo di «avvocato».

Gennaio 1899
Esce il primo numero del periodico «La Consolata», ideato e fondato dal Camisassa.

10 maggio 1902
Accompagna, fino a Marsiglia, la spedizione dei primi quattro Missionari della Consolata per il Kenya.

19 giugno 1905
È nominato «Canonico effettivo».

8 febbraio 1911
Inizia la visita alle missioni del Kenya.

26 aprile 1912
Rientra a Torino dal viaggio in Kenya, dopo una sosta a Roma.

18 agosto 1922
Muore presso il Santuario della Consolata.

15 novembre 1976
La sua salma viene trasferita nella cappella mortuaria dell’Istituto (Camposanto generale di Torino).

5 ottobre 2001
Le spoglie mortali del Camisassa vengono solennemente collocate accanto al sepolcro dell’Allamano, nella chiesa santuario di Casa Madre a Torino.

Preghiera per l’anno del Camisassa

Foto classica del canonico Giacomo Camisassa

Grazie, Signore, per aver donato
alla nostra famiglia missionaria
la presenza discreta, operosa e benedicente
del canonico Giacomo Camisassa.

Egli, uomo di Dio,
uomo di comunione e collaborazione,
in sintonia con il beato Giuseppe Allamano
sostenne la nascita e lo sviluppo
degli Istituti missionari della Consolata.

Donaci, Signore, di imparare dal nostro Confondatore
l’arte della vera amicizia fraterna,
la silenziosa operosità,
l’umiltà di chi cerca Dio con tutto il cuore
e la dedizione entusiasta alla missione
nella quale Dio, nella sua bontà, ci coinvolge.

Lo chiediamo a Te, Signore Gesù,
il Figlio missionario del Padre,
che vivi e regni con Lui e lo Spirito Santo
nei secoli dei secoli. Amen!

 

 


Hanno firmato questo dossier:

Giuseppe Ronco, missionario della Consolata. Ha servito due periodi in Zaire – Rd Congo (1973-1977 e 1985-1987). Formatore dei teologi a Rivoli (1977-1985). In Canada, a Montréal, dal 1987 al 2007. A Roma dal 2007 al 2018. Ora è in Casa Madre a Torino. Per questo dossier si è avvalso anche di lettere e comunicazioni interne dei superiori generali delle missionarie e dei missionari della Consolata.

A cura di Gigi Anataloni, direttore di MC dal 2010.

Foto di questo dossier

Dall’Archivio fotografico Missioni Consolata (AfMC) a Torino. Quelle scattate in Kenya sono di monsignor Filippo Perlo.

Testi

Nei dossier ci sono molte citazioni di testimonianze di Missionari e Missionarie della Consolata e altri sacerdoti della diocesi di Torino. Gli originali sono nell’archivio generale dei Missionari della Consolata a Roma, spesso frutto delle ricerche e degli studi del compianto padre Francesco Pavese.

P Pavese a Tuthu con la ruota idraulica che faceva funzionare la segheria di fratel Benedetto Falda .

 




Kirghizistan. Dove le montagne toccano il cielo


«Tutto era pronto per partire per il Kirghizistan»: così avevamo informato i lettori di questa rivista, ormai due anni fa, ma solo dopo tanto tempo di attesa, a metà agosto del 2021, finalmente, le Missionarie della Consolata hanno potuto stabilirsi nel paese, dopo aver aperto una prima comunità nel Kazakistan nel 2020.

Già sembrava che questa missione «non s’avesse da fare». Prima c’è stata l’impossibilità a viaggiare per il Covid, poi la difficoltà nell’ottenere i visti.
Io, suor Ivana, ho ricevuto il visto nel dicembre 2020. Appena ricevuto sono dovuta entrare immediatamente nel paese per evitare di perderlo. Le mie sorelle, suor Judith Kikoti (del Kenya) e suor Adanech Mitiku Shawo (etiope), l’hanno ricevuto solo agli inizi di agosto 2021 e finalmente anche loro sono partite.
Sono stati tempi di grande incertezza, ma che sicuramente ci hanno insegnato, ancora una volta, che la Missione è di Dio, che i suoi tempi e cammini sono perfetti, e che la nostra pazienza non è mai troppa.

Ed eccoci allora in Kirghizistan, paese dell’Asia centrale abitato da circa 6,5 milioni di persone, per la maggior parte musulmane. Precisamente siamo a Jalalabad (Žalal-Abad), come l’omonima città pakistana o afghana, zona Sud Occidentale del paese, a poca distanza dal confine con l’Uzbekistan, nella missione dove sono presenti due gesuiti polacchi, che accompagnano i pochi cattolici di questa zona.

L’inserimento in una nuova realtà richiede tempi lunghi per la conoscenza sia della lingua che della cultura e della storia del paese. Quest’ultima è una chiave di lettura importantissima della realtà in cui ci troviamo; perciò, attualmente siamo impegnate su questi fronti, ma anche nella «costruzione» della nostra comunità religiosa. Dopo questa prima fase del «vedere e conoscere», successivamente faremo un discernimento sui cammini da intraprendere, previa una riflessione in dialogo con l’amministratore apostolico, padre Anthony James Corcoran, sj. Il fatto di essere in loco ci offre già la possibilità di testimoniare la nostra fede.

Mettere su casa

Gli inizi, soprattutto se così tanto desiderati e sospirati, sono sempre belli. La gioia di tornare a riunirci come comunità dopo diversi mesi, e di avere finalmente raggiunto la nostra terra promessa, ci ha dato quella giusta carica di entusiasmo per incominciare a entrare in questa nuova e sfidante realtà. È un paese mussulmano, dove l’appartenenza a quella che fu l’Unione Sovietica è un ricordo ormai lontano, soprattutto per il 50% della popolazione che ha meno di 25 anni, e nelle zone nelle quali i cosiddetti «russi» (vengono chiamati così tutti i discendenti di europei presenti nel paese), che fino agli anni ‘90 erano numerosi, sono ormai pochi.

Il Kirghizistan è immerso in una stupenda natura, dove gli incontaminati paesaggi montani, il cielo terso, gli aspri crinali e gli ondulati pascoli estivi popolati da pastori che vivono al riparo delle loro yurte, sono di una bellezza affascinante.

Il «mettere su casa» è stata una bella occasione per una conoscenza sul campo di questa realtà. Siamo le prime suore che abitano in Jalalabad e sicuramente, le prime che si sono avventurate nel bazar (grande mercato popolare) e ai mercati.

Questa città è la terza per grandezza e importanza del paese con i suoi 100mila abitanti. Ma l’aspetto esteriore e la mentalità della sua popolazione è più da villaggio, e il suo bazar è il centro della vita commerciale e anche sociale.

Il nostro modo di vestire e i nostri visi, destano molta curiosità tra le bancarelle: pochi ci identificano come «monache», molti invece ci chiedono chi siamo, da dove veniamo, se abbiamo marito e figli (1), e che cosa facciamo. Certo, ci vedono anzitutto come possibili clienti straniere, per cui le buone maniere sono di obbligo, anche se alcuni ne approfittano per aumentare i prezzi, ma in molti casi abbiamo sentito grande apertura e simpatia nei nostri confronti, e siamo anche state aiutate.

In strada con la gente

Le «matschiutke», i piccoli pulmini da 15 o 18 posti a sedere, che utilizziamo per spostarci nella città, sono per noi, non solo un mezzo di trasporto, ma un osservatorio della realtà in cui siamo inserite. Questi mezzi pubblici sono molto usati, economici, comodi. Anche i bambini delle scuole li usano, in quanto qui, come in tutto il paese, non esiste un trasporto scolastico dedicato. Dallo scarso flusso di auto private, anche nelle ore di punta, capiamo che la macchina è un bene che poche famiglie si possono permettere (2), e al Sud vedere una donna al volante è ancora abbastanza raro.

Ci ha piacevolmente sorprese il constatare come nelle «matschiutke» sia viva la cultura di lasciare il posto alla persona più anziana. È interessante notare come un adolescente seduto lasci il posto anche a un giovane di 30 anni. Questo significa per noi avere sempre un posto assicurato. Inoltre, in questi mezzi di trasporto, come anche nel bazar, non si sentono schiamazzi o persone che parlano forte al telefono, anzi sembra tutto ovattato.

Arrivo di suor Judith Kikoti (dx) e suor Adanech Mitiku Shawo accolte all’aereoporto di Biskek da suor Ivana e dall’amministratore apostolico del Kirghizistan padre Anthony James Corcoran, sj (2° dx) e un confratello, il 18 agosto 2021.

Tre lingue diverse

A differenza del Nord del paese, dove ancora molti parlano russo, qui al Sud è raro sentire parlare questa lingua. Qui predominano il kirghiso e l’uzbeco, anche se i venditori qualche parola la conoscono, fortunatamente per noi, soprattutto se hanno più di 40 anni e hanno vissuto nel tempo dell’Unione Sovietica, quando era obbligatorio parlare in russo, pena il carcere e multe salate. Questo ci ha fatto subito capire che abbiamo una grande sfida davanti a noi: non solo imparare il russo, che è la lingua utilizzata nelle comunità cristiane, ma necessariamente anche il kirghiso e l’uzbeco.

Abbigliamento

Dicevo che il nostro abbigliamento è strano per le persone locali, in quanto quasi tutte le donne, vestono secondo la loro cultura, ossia con vestiti lunghi e con il velo islamico, ad eccezione delle giovani, soprattutto le universitarie, delle donne impiegate in uffici o scuole, e delle poche «russe» che vestono all’europea.

Ci sono tanti modelli di veli: quelli che nascondono solo i capelli e quelli che coprono anche il viso. Il velo è un accessorio che ci aiuta a distinguere, a parte i tratti del viso, se una donna è kirghisa o uzbeca: le donne kirghise, infatti, portano il velo legato alla nuca, ed è sempre molto colorato o bianco (questo colore identifica le novelle spose). Invece quelle uzbeche portano un velo fermato nella parte anteriore della testa che copre tutto il collo ed è di tonalità più scura.

C’è però in questi anni una crescita della tendenza, che alcuni chiamano moda e altri la identificano come un segno di radicalizzazione islamista, per la quale molte giovani donne e bambine indossano il velo con una specie di cuffia sotto, tipo passamontagna che contorna il viso.

Anche gli uomini sono soliti coprire il capo: i Kirghisi usano, specialmente nelle feste o negli incontri importanti, il «Kalpak», un cappello a cono in feltro bianco con i bordi di diversi colori e decorazioni ricamate, che tradizionalmente informa sull’età e la posizione sociale di chi lo indossa. Gli Uzbechi invece indossano quotidianamente il «tubeteica», una specie di zucchetto, generalmente di colore scuro (verdone, grigio, nero o blu), con o senza ornamenti ricamati bianchi o grigi.

Pastori e contadini

Qui al Sud del paese convivono Kirghisi e Uzbechi. Questi ultimi sono quasi un milione, rappresentano il 14% della popolazione di tutto il paese. Hanno lingua, tradizioni e stili di vita molto diversi: i Kirghisi (3) erano, e lo sono ancora attualmente (se non tutti fisicamente, ma almeno nella mentalità, come mi diceva un’amica kirghisa), un popolo nomade, dedicato all’allevamento di cavalli, mucche e pecore, mentre gli uzbechi un popolo più sedentario dedicato tradizionalmente all’agricoltura e al commercio. I due popoli, al tempo dell’Unione Sovietica, vivevano pacificamente dividendo gli spazi di questa regione, i primi sulle montagne e i secondi nelle pianure. Ma con la caduta dell’Urss, avendo stabilito i confini delle nuove repubbliche indipendenti a tavolino e, in molti casi, prendendo le strade esistenti come le linee di frontiera, molti Uzbechi si ritrovarono in territorio kirghiso. Come tutti gli altri abitanti nati in Kirghizistan appartenenti ad altre minoranze etniche, il loro passaporto è kirghiso con la specificazione della nazionalità di origine. Questo significa che: se tuo padre è uzbeco tu sarai sempre uzbeco, se tuo padre era russo, tu sarai per la società sempre russo, e, di conseguenza, questo porta a uno sbarramento nell’accedere agli incarichi pubblici e/o di rilevanza nella società (4). I due popoli, anche se sottostanno alle leggi della stessa nazione, di fatto vivono una vita separata: ci sono negozi, ristoranti, moschee e scuole separate, queste ultime per garantire a ciascuno il diritto all’apprendimento della propria lingua. In questo momento la convivenza è pacifica, ma solo nel 2010 Jalalabad e la vicina città di Ošh (a 100 chilometri di distanza) furono teatro di gravi scontri tra le tue etnie, perché molti Kirghisi sentivano che la loro sovranità era minacciata dagli Uzbechi, che per le loro capacità imprenditoriali, si stavano arricchendo nella loro terra. Il bilancio di quegli scontri fu pesante: secondo fonti non ufficiali, più di 3mila morti, 9 su 10 Uzbechi, case date in fiamme, e tante persone fuggite all’estero.

Un seme piccolo piccolo

Immersa in questa realtà del Sud del paese c’è la nostra Chiesa Cattolica, due piccole comunità parrocchiali formate da «russi» (5), una in Jalalabad, che raccoglie anche i parrocchiani dei villaggi vicini, e una a Ošh, per un totale, almeno nei registri parrocchiali, di cento persone, ma in realtà sono molte meno.

La storia della Chiesa in Kirghizistan è recente, comincia ufficialmente nel 1997, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, per volere di papa Giovanni Paolo II, quando fu affidata ai gesuiti. Lo scopo del loro arrivo era esclusivamente l’accompagnamento spirituale dei fedeli cattolici che si trovavano in queste terre e che, durante gli anni sovietici, erano stati costretti a vivere la loro fede di nascosto per l’ateismo di stato. Negli anni ‘90 i cattolici presenti in queste terre erano molti, ma a causa di una non facile situazione economica, di difficoltà ad accogliere il nuovo stato delle cose, ossia essere comandati da Kirghisi, della paura di possibili vendette da parte di questi ultimi e per le politiche di accoglienza dei paesi di origine, come tanti «russi» di altre religioni, sono andati via. Come dicono con rammarico alcuni dei nostri parrocchiani cinquantenni che hanno vissuto il cambiamento: «Adesso siamo pochi, ma una volta sì che eravamo tanti!». I motivi di chi è rimasto sono essenzialmente tre: o aveva un buon lavoro, o era troppo povero per affrontare la migrazione, o non ha avuto il coraggio di andarsene e ricominciare vita da un’altra parte.

Purtroppo, i nostri giovani, senza prospettiva di lavoro, se possono, lasciano il paese appena maggiorenni. Oggi la nostra Chiesa è un piccolo gregge, visto da Kirghisi e Uzbechi come una religione straniera per i «russi», accompagnato da sette gesuiti, un prete diocesano slovacco Fidei donum, cinque sorelle francescane e noi tre suore Missionarie della Consolata, distribuiti in tre zone del paese.

Le sfide che si presentano davanti a noi, e le domande, sono tante: quale futuro per la Chiesa cattolica in questo paese? Come aiutare il cammino di riconciliazione tra questi popoli? Risposte non ne abbiamo, ma ciò che conta ora è accogliere e amare questa realtà ed essere docili ai cammini che Dio ha preparato per noi qui in Kirghizistan, dove finalmente siamo arrivate.

Ivana Cavallo

Note

1 Per i Kirghisi e gli Uzbechi presenti in questa zona, è assurdo che una donna non abbia marito, tanto è vero che una vedova poco tempo dopo la morte del marito deve risposarsi, perché c’è la credenza che una donna non sposata porti energia negativa alla famiglia.

2 La situazione economica nel paese è molto difficile. Secondo l’ultimo censimento, su sei milioni di abitanti, più di un milione è all’estero per lavorare e inviare soldi alla famiglia. Gli stipendi sono molto bassi, per cui è normale che chi lavora come dipendente, abbia più di un lavoro.

3 Nel 1970 solo il 14% dei Kirghisi viveva nelle città, di fatto i cattolici cin­quantenni dicono che quando loro studiavano, poteva esserci uno o al massimo due bambini kirghisi in classe, il resto erano tutti russi. Nel 2009 la percentuale era salita già al 30%.

4 I Kirghisi, per la prima volta nella storia, nel 1990 si organizzano come stato, un processo non facile che si rispecchia anche nella fatica di arrivare alla stabilità politica e allo sviluppo economico, causata soprattutto dalla forte corruzione, dovuta in parte a un mancato senso della concezione della proprietà privata. Infatti, fino a 30 anni fa i Kirghisi hanno sempre vissuto sulle montagne, e chi arrivava per primo occupava i pascoli per il proprio bestiame, e quindi non avevano mai avuto bisogno di organizzarsi come stato. L’educazione scolare e il servizio pubblico sanitario sono una eredità dei tempi dell’Unione Sovietica.

5 Queste terre dell’Asia Centrale ai tempi dell’Unione Sovietica, videro crescere la loro popolazione di russi (qui intesi come quelli provenienti veramente dalla Russia), tedeschi, polacchi, ucraini, ceceni, tatari, curdi, etc., sia perché meta delle deportazioni di massa di molti popoli che vivevano nei territori dell’Urss, considerati pericolosi e sovversivi negli anni della Seconda guerra mondiale, sia perché negli anni successivi c’era una grande offerta di lavoro nelle miniere e nelle fabbriche aperte dal regime in queste terre, senza contare tutti i funzionari che venivano direttamente dalla Russia.




Guinea-Bissau: Missione Sfidante

testi di  Anélia Gomes de Paiva e Marco Bello |


Indice


La storia di una presenza

Le missionarie della Consolata in Guinea-Bissau

Guinea-Bissau, Bijagos archipelago, Canhabaque island (or Roxa island) / © Nicolas Thibaut

Nel lontano 1990 un gruppo di missionarie si spinge in Guinea-Bissau. Un piccolo paese lusofono, in Africa dell’Ovest, dimenticato dai grandi circuiti. Il contesto si presta a una missione ad gentes di prima evangelizzazione. Ma molto c’è anche da fare nei diversi campi della promozione umana. Le religiose approdano anche sulle isole Bijagos, dove la durezza della vita e la cultura locale sono sfidanti. Oggi le missioni sono tre e le sorelle undici. Una di loro si racconta.

Il popolo bissau-guineano mi ha insegnato a rispettare e accogliere con simpatia il diverso, sia per cultura che per tradizione, ad accettare con più pazienza le difficoltà della vita, a non lamentarmi dei problemi che si incontrano oggi. Mi ha aiutata a fare l’esperienza più profonda dell’amore di Dio, attraverso le loro vite, le loro sofferenze. Ho scoperto tante persone che vivono del miracolo dell’amore di Dio. Inoltre, loro mi hanno aiutata a vivere la mia fede in modo più radicale, perché vivono radicalmente la loro tradizione, e questo mi interroga.

Con loro ho imparato a essere più missionaria e vivere meglio la missione, a partire dal loro contesto e dalla loro realtà concreta, privilegiando la vicinanza, l’ascolto, l’amicizia, il dialogo, la testimonianza. I guineani mi hanno fatto sperimentare il grande dono dell’ad gentes e la gioia di essere missionaria.

Il perché di un sogno

Situato in Africa dell’Ovest, la Guinea-Bissau è uno dei più piccoli stati del continente, con una superficie di 36.134 km quadrati, (pari a Piemonte e Abruzzo insieme), e una popolazione di appena un milione e 500mila individui.

Ma perché le missionarie della Consolata sono arrivate proprio qui? Per capirlo occorre fare un passo indietro nel tempo.

Il Capitolo (riunione generale dell’istituto, ndr) del 1987 ha ritenuto vitale l’apertura di nuovi campi di missione per dare la possibilità alle sorelle di iniziare cammini nuovi secondo la metodologia della missione oggi (missione come dialogo interculturale, dialogo ecumenico, dialogo interreligioso, dialogo di vita; missione come inculturazione; missione come testimonianza; missione come ricerca di giustizia e pace) e secondo le nostre caratteristiche carismatiche (metodologia che privilegia l’unione con Dio, la testimonianza di vita, l’accoglienza e la vicinanza alla gente, l’ascolto del cammino di Dio fatto con il popolo).

La Guinea-Bissau è, senza dubbio, un luogo che risponde a tutti questi obiettivi. Così nel 1990 abbiamo iniziato i primi passi, andando a conoscere la zona di Empada, nel Sud del paese, un’area di prima evangelizzazione che era già stata proposta a diciassette congregazioni.

Visitando la zona, abbiamo scoperto che corrispondeva al nostro carisma e all’insegnamento del nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano, che ci disse: «Dovete andare dove nessuno vuole andare».

Suor Anna Paola Folletto, tra le prime missionarie della Consolata in Guinea-Bissau

Ecco perché le missionarie della Consolata sono in Guinea dal 1992. La prima apertura è stata quindi la missione di Empada. È una presenza fra i Balanta (etnia predominante), Bijagos, Beafadas, Mandingas, Manjacos, Mancanhas, Pepeis e Nalus. Le quattro pioniere di questa missione sono state le sorelle Emma Piera Casali, Ana Paula Folletto, Hotência Nunes e Adriana Medina.

Nel 1994 è stata la volta di una nuova apertura presso il Centro Sos della capitale Bissau, che ospitava bambini abbandonati e orfani. Le sorelle della comunità erano tre: Margarita Benedetti, Alida Ronchi, incaricate della formazione e orientamento delle «mamme» e dei bambini, e Alicia Torres Rios incaricata di lavorare nella pastorale della parrocchia di Cristo Redentore. Abbiamo poi lasciato il Centro Sos nel 1998.

Arrivo sull’arcipelago

Nel 2000 le missionarie della Consolata sono arrivate a Bubaque, nell’arcipelago Bijagós, composto da più di 80 isole, di cui venti abitate. Luogo di prima evangelizzazione, dove i missionari del Pime (Pontificio istituto missioni estere) erano presenti dal 1954, con altre tre congregazioni femminili: le suore del Nome di Dio (1972-1975/6), le suore Figlie di Maria e le religiose delle Scuole Pie (1976-1998). Le missionarie della Consolata che hanno formato la prima comunità erano quattro: suor Maria Inocência Giacomozzi, suor Celia Regina Campaldi, suor Norma Valenzuela e, più tardi, suor Natalina Stringari.

A Bubaque, la maggioranza della popolazione pratica la religione tradizionale. Vi è un piccolo gruppo di musulmani e uno di cristiani. Quindi è ancora luogo di prima evangelizzazione, anche dopo 70 anni di presenza missionaria. Bubaque è considerata la terra di missione più difficile della Guinea-Bissau. Un luogo dove pochi o nessuno vuole andare, perché è veramente sfidante, a livello culturale, di trasporti, infrastrutture, ecc.

Nel 2006 è stata costituita la comunità di Bissau, la capitale, come sede della nostra delegazione. L’obiettivo di questa apertura era quello di essere punto di riferimento e accoglienza delle sorelle delle altre comunità e di fare il lavoro pastorale e sociale nella parrocchia di San Giuseppe nel villaggio di Bor (un sobborgo della capitale Bissau). A Bor l’etnia predominante è la Pepel, però ve ne sono altre presenti nel territorio. La comunità è stata costituta da suor Maria di Lourdes Pereira, suor Isabel Alves de Oliveira, suor Floralba Esteban Palencia e suor Alicia Torres Rios.

Revisione degli obiettivi

Oggi forse dobbiamo rivedere alcuni dei nostri obiettivi e lavori pastorali, consapevoli che non dobbiamo mai perdere di vista il nostro specifico ad gentes, ovvero essere presenti tra i non cristiani. Accompagnare quelli che hanno già ricevuto l’annuncio è un compito che spetta alla comunità locale, e non direttamente a noi sorelle, ma, comunque, lo facciamo con molto zelo. Così come conosciamo l’importanza di formare leader, e di lasciare che la chiesa locale sia protagonista.

Anélia Gomes de Paiva

Conoscenza, ascolto, dialogo

Le attività e l’approccio delle missionarie

Oltre all’annuncio, è fondamentale la formazione umana e sociale. Salute, educazione, promozione della donna, sono i campi nei quali si cimentano le missionarie.  Applicando sempre una «missione che passa attraverso le relazioni».

Nella nostra attività pastorale fra i diversi popoli a Empada, Bubaque e Bissau, consideriamo sempre come parte integrante dell’annuncio di Cristo, la formazione umana e sociale. Come voleva il nostro padre fondatore, il beato Giuseppe Allamano. Pertanto, oltre le attività pastorali, lavoriamo nel campo dell’educazione, della salute e della promozione della donna.

Essendo il nostro obiettivo principale la prima evangelizzazione, ossia andare tra i non cristiani, al nostro arrivo a Empada nel 1992, tra i Beafadas, Bijagós, Balantas, Mandingas, Mancanhas, Fulas, Pepeis e Nalus, tutto era nuovo, tutto era da cominciare.

Visitare le famiglie

La nostra prima domanda era dove e come iniziare ad annunciare la «Buona Novella». Abbiamo compreso presto che non si poteva annunciare Gesù senza conoscere il popolo che Dio ci aveva affidato. Quindi la prima attività è stata quella di visitare le famiglie, ascoltarle, dialogare con loro per poter conosce il terreno dove «gettare» la grande novità del Vangelo. È da sottolineare che la prima preoccupazione delle missionarie è sempre stata quella di conoscere la realtà del popolo. Perciò, «la visita alle famiglie», è stata per noi una priorità fondamentale nell’attività evangelizzatrice.

Dopo alcuni incontri con il capo villaggio e la popolazione, le missionarie hanno iniziato le visite e subito hanno cominciato a prendersi cura dei bambini gemelli, perché solitamente uno dei due finiva per morire a causa della loro particolare vulnerabilità. Nel 1993, con la collaborazione generosa dei dieci cristiani già presenti a Empada, le missionarie hanno dato inizio al cammino cristiano con 24 coppie e con i loro 96 figli. Dopo cinque anni, si sono raccolti i primi frutti: 17 battezzati e 10 matrimoni. Era il 5 aprile 1997.

Il 45% della popolazione di Empada è musulmano, e più del 50% pratica la religione tradizionale, ma tutti, di ogni fede, erano vicini a noi missionarie. Nello stesso anno si sono anche iniziate due scuole di alfabetizzazione per adulti. Le altre attività cominciate alcuni anni dopo sono state l’accompagnamento dei bambini denutriti (1998), la promozione della donna (1999), la scuola superiore (2002) e l’asilo (2008).

Vivere in modo nuovo

Le missionarie hanno proposto alla gente la possibilità di vivere in un modo nuovo.

Tutto ciò ci permette di dire che abbiamo iniziato le attività evangelizzatrici in modo consono alla nostra «metodologia consolatina», cioè, per mezzo della vicinanza, dell’ascolto, del dialogo, della conoscenza della cultura, della collaborazione vicendevole. Sottolineiamo il dialogo di vita, di relazioni con i fedeli dell’islam, con quelli della religione tradizionale e con i cristiani di altre confessioni. La celebrazione ecumenica e interreligiosa realizzata alla fine di ogni anno testimonia l’amicizia, la comunione, la collaborazione e la partecipazione.

Pertanto, il filo conduttore che ha guidato i nostri passi nelle attività pastorali è stato il seguente: osservare, ascoltare, non avere fretta, conoscere la realtà, programmare e valutare insieme. Questi sono metodi e criteri che anche oggi continuano a guidare lo stile di missione delle missionarie della Consolata in Guinea-Bissau, fra i diversi popoli.

Anche se non sempre siamo così attente. Per esempio, a volte abbiamo troppa fretta di ottenere dei risultati. Vogliamo avere tutto nelle nostre mani, come se la missione fosse opera nostra. Dimentichiamo invece che è opera di Dio, e noi siamo soltanto al suo servizio. È Lui che tocca i cuori al momento giusto. Questo costituisce un paradigma significativo: da una missione basata sul protagonismo personale ad una missione vissuta come opera di Dio.

Semplicità e rispetto

Il nostro stile di missione è sempre stato caratterizzato da molta semplicità. Abbiamo cercato di adattarci alla gente: sederci su una pietra con loro per bere la loro bevanda e mangiare il loro stesso cibo. Uno stile basato sul rispetto della tradizione del popolo, partecipando anche ad alcune dello loro principali cerimonie e privilegiando la cura delle relazioni: vicinanza, amicizia, dialogo, collaborazione. Questi gesti, oltre ad aiutare noi a conoscere la tradizione culturale delle persone, hanno creato amicizia e apertura da parte loro. Partecipare alla loro vita ci ha portato ad essere «accolte come parte di loro».

Dopo 27 anni svolgiamo praticamente le stesse attività pastorali e sociali. Per realizzale oggi però abbiamo altri mezzi e strumenti che arricchiscono la nostra metodologia, e una maggiore consapevolezza riguardo la missione.

Come pensavano i primi missionari, oggi tanti nella Chiesa della Guinea-Bissau pensano che per essere cristiani si debba lasciare completamente la propria tradizione, e questo è inaccettabile per i seguaci della tradizione, soprattutto per gli anziani. Noi crediamo che la via di uscita per tale problematica sia l’inculturazione.

Per questo motivo durante l’assemblea del 2012 della nostra delegazione, abbiamo preso in considerazione, in modo particolare, questo aspetto. Consapevoli che attraverso l’inculturazione la Chiesa avrà cristiani con solida identità e preparati per portare avanti la missione evangelizzatrice. Nelle tre zone di missione in cui lavoriamo, ogni anno vengono amministrati circa 180 battesimi di giovani e adulti. Ma qual è la qualità di questi battesimi, se i candidati hanno ricevuto una formazione catechistica che non ha tenuto conto la loro identità culturale?

Salute e promozione della donna

Nel campo della salute è da rilevare che l’accompagnamento quotidiano dei bambini denutriti e delle mamme, aiuta a salvare tante vite. Attualmente nei due centri di nutrizione che abbiamo, ci prendiamo cura di circa 30-40 bambini al giorno. L’assistenza sanitaria è data a tutti, senza alcuna distinzione religiosa. I nostri centri fanno anche un lavoro significativo di accompagnamento alle mamme e bambini con il virus Hiv. Anche in questo campo la testimonianza e la carità cristiana fanno parte dell’annuncio, o meglio, sono annuncio.

La comune metodologia è uscire per incontrare le famiglie (visitare i bambini, conoscere la loro realtà), dialogare con i genitori, provvedere all’accompagnamento dei bambini e delle mamme.

Nel campo della promozione della donna, operiamo nei due centri di formazione con varie attività: alfabetizzazione, taglio e cucito, ricamo, cucina, tintura di stoffa, trasformazione della frutta, e altro.

Fra i Bijagós, nell’isola di Bubaque, sin dall’inizio una grande sfida per il lavoro missionario è stato  ed è la formazione delle giovani circa il valore della vita, la dignità della donna, le conseguenze drammatiche dell’aborto, e la contaminazione da virus Hiv. Il lavoro di promozione femminile è rivolto a tutte le donne, indipendentemente dalla loro religione.

L’obiettivo è sempre quello di risvegliare una maggiore consapevolezza del valore della vita e della dignità della donna, del suo ruolo nella famiglia e nella società. Questo è annuncio della Buona Notizia, perché è opera di costruzione del regno di Dio.

Nel campo dell’educazione, la formazione pedagogica dei professori è stata sin dall’inizio una nostra priorità. Oggi nelle due scuole superiori che seguiamo, ci sono circa 1.650 studenti, e un centinaio di bambini in una scuola materna. Queste scuole sono rivolte a tutta la popolazione, ossia, cristiani e non cristiani. È importante sottolineare che un professore musulmano del nostro liceo, ha scelto di diventare cristiano. Il motivo è stato la testimonianza dei suoi colleghi insegnanti. Qui vogliamo sempre offrire una formazione integrale ai giovani, favorire coloro che vivono lontano dalla città e che non hanno altre possibilità di andare a scuola.

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Essere presenti nel quotidiano

In sintesi, possiamo dire che noi, missionarie della Consolata in Guinea-Bissau, sin dall’inizio abbiamo scelto il dialogo come metodo per vivere la missione attraverso la vicinanza, l’amicizia, la testimonianza, la presenza. Io ho imparato che uno dei modi migliori per conoscere la cultura, gli usi e costumi delle persone è essere presente nella vita del popolo: gradualmente smetti di essere uno straniero e sei accolto come amico.

La missione come presenza rispetta tutte le tradizioni religiose e le culture. In questo senso, vogliamo sottolineare che la religione tradizionale, come qualsiasi altra religione, ha diritto al dialogo e ad essere rispettata. A questo riguardo abbiamo ancora tanto da imparare, perché solitamente guardiamo i seguaci della religione tradizionale come coloro che, quasi obbligatoriamente, devono convertirsi al cristianesimo per essere salvati.

La metodologia che abbiamo usato all’inizio per raggiungere i nostri obiettivi è ancora valida, perché abbiamo cercato di percorrere la strada offerta dal Concilio Vaticano II. Considerando, però, che la società cambia rapidamente, dobbiamo pensare a nuovi metodi e a nuove strategie. Ad esempio: come deve essere fatto l’annuncio ai non cristiani? Come considerare le altre tradizioni religiose? Come rendere l’annuncio attraente per chi lo ascolta in un mondo così complesso? Pertanto, il nostro modo di «fare» la missione deve adattarsi ai tempi, soprattutto il nostro modo di vivere e relazionarci con la gente deve suscitare dei perché, e suscitare inquietudini. Come diceva san Giovanni Paolo II, «Prima dell’azione, la missione è testimonianza e irradiazione».

L’incontro con i popoli

In alcune zone, i primi contatti con il popolo ci hanno fatte sentire animate e incoraggiate per l’accoglienza calorosa, l’entusiasmo, il rispetto e l’aiuto ricevuto, e anche per l’apertura e la semplicità, l’amore e la serietà con le quali le persone hanno accolto il Vangelo. In altre zone, invece, anche se l’accoglienza non ci è mancata, la preoccupazione della gente, l’interesse era soprattutto per il sociale, anche se poi hanno chiesto la catechesi. Spesso questo capita anche oggi, e in forma abbastanza accentuata fra il popolo Bijagós, che si presenta molto bisognoso (educazione, salute e altri progetti). Forse perché è un popolo isolato, e in certo senso dimenticato dallo stato.

Risultati incoraggianti

Abbiamo tuttavia notato cambiamenti significativi. Nel campo pastorale la formazione cristiana ha prodotto nelle persone un cambio di mentalità. Per esempio, le famiglie cristiane hanno un modo diverso di educare i figli, di organizzarsi come famiglia, di pensare la vita. Alcuni hanno anche un modo diverso, cioè più saggio ed equilibrato di vedere la loro tradizione. Essi sono sicuramente più integrati con la loro cultura. Ma non è così per la maggioranza dei cristiani.

Oggi le mamme hanno un modo diverso di prendersi cura dei figli e dell’ambiente. Oggi portano con più libertà i loro figli al Centro di salute o all’ospedale per farli curare. Prima era difficile convincerle. Lo stesso con le donne incinte: facevano resistenza per andare all’ospedale, e a volta il bambino moriva durante il parto. Oggi non vogliono più mettere a rischio la loro vita e la vita dei loro figli.

La maggior parte delle donne che si sono formate nei nostri centri erano analfabete. La formazione ha suscitato in loro il desiderio di sapere di più: studiare per essere più consapevoli del loro ruolo, del loro valore come donne al servizio della famiglia, della società e della chiesa. La maggior parte delle donne più giovani ora studiano di sera e frequentano l’università. Molte di loro con la formazione ricevuta, aiutano a portare avanti la famiglia.

Nel campo educativo abbiamo osservato che il cambio di mentalità degli studenti circa il loro futuro è significativo: la maggior parte di essi pensa di continuare gli studi dopo il liceo, sognano una vita più dignitosa, un paese più stabile politicamente e economicamente, più giustizia sociale. Sogni che se fatti tutti insieme, possono domani diventare realtà.

Anélia Gomes de Paiva

Un popolo «visitato» da Dio

Evangelizzazione e inculturazione

Il popolo guineano è variegato, ma ha come principio la vita comunitaria. I giovani sono affascinati dalla globalizzazione che apre loro nuove possibilità, ma li allontana dalle tradizioni. Le missionarie sono molto attive nel dialogo interreligioso e credono che il cristiano debba essere integrato nella propria cultura.

I guineani hanno come principio di base la vita comunitaria, ossia la crescita non individuale ma della comunità. Sono un popolo con un’identità etnica e tradizionale ben definita, con una forte spiritualità religiosa, che li porta a praticare intensamente le credenze della tradizione. Sono persone allegre e festose, ospitali, e con grande capacità di accettare le difficoltà e le sofferenze quotidiane. La maggior parte della popolazione vive con meno di un euro al giorno, e consuma un solo pasto quotidiano, mentre altri non possono nemmeno farlo. Nonostante le difficoltà, sono splendenti di gioia e fiduciosi nel Dio della vita. Sono un popolo che vive del miracolo dell’amore di Dio.

I guineani e la globalizzazione

suor Anélia Gomes de Paiva

In Guinea-Bissau sono circa 30 gruppi etnici, la lingua ufficiale è il portoghese, però la lingua più diffusa, parlata dal 44% degli abitanti, è il creolo (a base portoghese). Il 45% della popolazione segue la religione tradizionale, mentre i musulmani sono circa il 40%. Vi è poi una discreta minoranza cristiana (15%).

A proposito della globalizzazione, da una parte possiamo dire che essa ha prodotto dei cambiamenti di mentalità, e in un primo momento possiamo pensare che questo sia positivo. Ad esempio: i guineani oggi guardano il mondo in forma più ampia, vedono più lontano, hanno più ambizioni per migliorare la vita. I giovani si affrettano a studiare e a esercitare una professione. Vi è più accesso ai mezzi di comunicazione, più possibilità nell’ambito della salute e dell’educazione.

Dall’altra parte vi sono delle conseguenze negative nell’ambito dei valori personali, famigliari e sociali. Ad esempio: la mancanza di rispetto per la vita, l’individualismo, la violenza nelle famiglie e nella società. Tanti giovani si allontanano dalla loro tradizione perché vogliono essere «liberi» e avere una vita più moderna. La disuguaglianza sociale sta diventando sempre più evidente. Gli anziani si sentono più esclusi, soffrono di abbandono, indifferenza e solitudine. In questo senso è un sistema che sembra non aiutare a riflettere sul vero senso della vita. Aumenta la conoscenza nozionistica ma non di pari passo una adeguata formazione delle coscienze.

L’esperienza dell’invisibile

In Guinea-Bissau siamo sempre andate dove ci hanno chiamate. Con ogni popolo e etnia abbiamo iniziato l’annuncio in modo differente, conforme alle esigenze di ciascuno. Da coloro che hanno come valore la vita di gruppo, ci è stato chiesto un aiuto per vivere in modo nuovo la vita di gruppo. Altri ci hanno chiesto di parlare di Dio, ma anche la scuola per i loro bambini, ecc. È stato interessante scoprire che Dio li aveva «visitati» prima di noi, perché la missione è opera sua. Prima del nostro arrivo, Dio stava già lavorando con il suo popolo. Aveva già fatto storia con loro. Era poi giunto il momento di scoprire il seme che Dio aveva seminato per aiutarli a farlo crescere, ma anche i frutti maturi da cogliere, appunto, dalla loro esperienza dell’invisibile (Dio) secondo la loro spiritualità tradizionale.

Oggi siamo sempre più consapevoli di questa verità: il primo compito della missionaria è riconoscere il cammino che Dio ha fatto con il suo popolo e la sua presenza attuale. Vale la pena sottolineare che nei villaggi in cui siamo andate senza essere state chiamate, le attività di evangelizzazione non sono continuate, per mancanza di interesse da parte della popolazione.

L’evangelizzazione è accompagnata dalla promozione di tutta la persona, quindi la promozione umana è una dimensione importante della nostra pastorale. Perché il «centro» della missione sono l’uomo e la donna che vivono un momento decisivo nel loro processo storico. E il Cristo che proclamiamo vive già in mezzo al suo popolo, per condurlo alla piena liberazione.

Personalmente, posso dire che sono stata evangelizzata da loro, perché oggi, dopo dodici anni di missione con loro e in mezzo a loro, mi sento più cristiana, più missionaria.

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L’inculturazione

A partire dalla creazione della diocesi di Bissau (1977), la Chiesa in Guinea-Bissau ha preso coscienza della necessità dell’incontro del Vangelo con le culture, cioè dell’inculturazione della fede. L’inculturazione, il dialogo interreligioso e interetnico sono tra gli obiettivi principali della Chiesa locale. La Chiesa, ogni giorno, sta diventando consapevole che se non si incarna nella cultura del suo popolo, l’evangelizzazione continuerà ad essere superficiale e la Chiesa avrà dei cristiani senza un’identità propria, cristiani mancanti di una integrazione con la propria tradizione.

Come dice Paulo Suess, «la meta dell’inculturazione è la liberazione, e il cammino della liberazione è l’inculturazione» (cfr. P. Suess, Caminhar descalço sobre pedras: uma releitura da Conferencia de Santo Domingos, in Instituto Humanitas, Cadernos de Teologia Publicas, 19-20). E «solo con il messaggio rivelato dal di dentro, ogni popolo nella rispettiva cultura può veramente lodare il Signore nella propria lingua e con i propri termini», come dice Appiah-Kubi (cfr. F. A. Oborji, La teologia africana e l’evangelizzazione, Press, Roma 2016, 69-70). Perciò per una Chiesa dal volto guineano, ci vuole una evangelizzazione puntata sul dialogo con le culture e con la religione tradizionale.

Cura del Creato

Riguardo al creato, i guineani, in generale nella loro tradizione hanno profonda venerazione per la natura. Dalla natura prendono le erbe per le medicine; attribuiscono una particolare sacralità ad alcuni alberi; non sfruttano la natura per fine personale o abusivo, ma soltanto per la loro sopravvivenza. Quando hanno bisogno di tagliare un albero, ad esempio, per fare una canoa, fanno delle cerimonie per chiedere il permesso agli spiriti. Riconoscono che tutto è stato creato da Dio e appartiene a Dio. Quindi l’essere umano non ha il diritto di danneggiarlo.

A livello statale e governativo praticamente nulla viene fatto in questo ambito. Una città come Bissau non ha nemmeno i servizi igienici di base e molta spazzatura finisce per essere gettata in mare. Ci sono le Ong che intervengono nei settori di conservazione della biodiversità agricola, nella gestione delle risorse naturali e nella valorizzazione dei prodotti e della conoscenza della biodiversità. Esse informano e sensibilizzano la cittadinanza.

Il nostro carisma

A proposito del nostro carisma, possiamo dire di aver incontrato un popolo di «prima evangelizzazione», dunque questo è il nostro posto.

Pertanto, in Guinea-Bissau il nostro carisma diventa sempre più vitale, perché è alimentato da una realtà veramente ad gentes e da un ambiente con una piccola percentuale di cristiani. «Noi siamo per i non cristiani» e il contatto coi non cristiani ci rivela a noi stesse e sprigiona in noi il fuoco del carisma. Proprio per questo, la nostra identità carismatica è rafforzata.

Inoltre, l’esperienza con questo popolo arricchisce il nostro istituto e la Chiesa: ho scoperto nel popolo della Guinea-Bissau, con principi tradizionali ben radicati, una profonda spiritualità, non un senso generale dell’invisibile, ma un’esperienza concreta della presenza e dell’azione di Dio. I guineani sanno e credono che esiste un Dio sovrano e assolutamente potente, signore del cielo e della terra; confidano e sperano in lui. È il grande vivente che agisce nel mondo. Come non trarre vantaggio da questi solidi principi per l’evangelizzazione inculturata? I valori umani e spirituali del popolo guineano sono grandi, e il nostro istituto e la Chiesa devono saperli leggere tutti. Il rispetto e la conoscenza della cultura, nell’azione evangelizzatrice è stata considerata dal nostro fondatore, Giuseppe Allamano, quindi deve essere anche per noi. Questo ci porta a vivere il nostro carisma con apertura a tutte le culture e con atteggiamento dialogico. Siamo pertanto, invitate a ritornare a ciò che è stato tralasciato, trascurato, non valorizzato, ossia la ricchezza culturale e religiosa di ogni popolo. Oggi capiamo meglio che l’evangelizzazione deve guardare la persona in tutti i suoi aspetti, e deve essere fatta dal di dentro di ogni cultura.

Anélia Gomes de Paiva

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Democrazia?  «Siamo in Africa!»

Le intricate vicende politiche di un piccolo narco stato

La Guinea-Bissau è stata per anni il punto di passaggio del traffico di cocaina dal Sudamerica all’Europa. Nel 2014 sembrava esserci stato un cambiamento nella dirigenza del paese. Ma l’elezione, contestata, del nuovo presidente, pare riportare alla ribalta la classe dei militari-narcos.

L’ex generale, ed ex primo ministro, Umaro Sissoco Embaló è il nuovo presidente della Guinea-Bissau. La sua investitura, il 27 febbraio scorso in un hotel di Bissau, sebbene sia avvenuta con l’avallo del presidente uscente José Mario Vaz, è stata indubbiamente un atto di forza. Giunge a chiusura della crisi elettorale iniziata con le presidenziali di dicembre o, più probabilmente, con le legislative di marzo 2019. L’emergenza sanitaria causata dal Covid-19 ha avuto l’effetto di far passare le vicende bissau-guineane in secondo piano ed è tornata utile al nuovo uomo forte per «coprire» i suoi giochi interni.

Umaro Sissoco Embalo, nuovo presidente della Guinea-Bissau / Photo by SEYLLOU / AFP

Una speranza delusa

Ma veniamo ai fatti. L’ultimo anno è solo l’ultimo atto di una crisi politico istituzionale che il piccolo paese dell’Africa dell’Ovest vive dal 2015.

Nel 2014 l’elezione del presidente José Mario Vaz aveva lasciato sperare che la Guinea-Bissau voltasse pagina con le dittature e i colpi di stato che hanno contraddistinto la sua storia. Ma così non è stato.

Dopo aver nominato, nel luglio dello stesso anno, come primo ministro, il progressista Domingos Simões Pereira, i due sono entrati in contrasto. Entrambi Vaz e Pereira sono del Paigc (Partito africano per l’indipendenza della Guinea e di Capo Verde), il partito storico dell’indipendenza dal Portogallo nel 1974. Appena un anno dopo Pereira viene mandato via e inizia la crisi istituzionale. Diversi sono i politici che si susseguono sulla poltrona da premier.

Una novità delle legislative di marzo 2019 è stato il Madem-G15, un nuovo partito creato per l’occasione e ben finanziato, che è riuscito ad arrivare al secondo posto, dopo il Paigc che ancora prevale nell’Assemblea nazionale con 52 deputati su 102.

Braccio di ferro istituzionale

A dicembre 2019, i due sfidanti alla presidenza sono proprio Embaló, ex quadro del Paigc e ora candidato del Madem-G15, e Pereira per il Paigc, di cui è presidente. Dopo il ballottaggio del 29 dicembre, la Commissione nazionale elettorale (Cne) aggiudica il 53,55% dei voti al primo e 46.45% al secondo (i risultati definitivi sono resi noti il 17 gennaio). Pereira però contesta il risultato, denunciando brogli elettorali. In particolare segnala irregolarità nei verbali di almeno la metà delle circoscrizioni, e chiede il riconteggio dei voti. La Corte suprema dunque non può che prenderne atto è dispone che venga fatta la verifica. Fin qui nulla di strano a queste latitudini.

Quello che succede dopo è un braccio di ferro tra la Cne e la Corte suprema, perché la prima, l’organo preposto all’organizzazione delle elezioni, rifiuta il conteggio. Negli stessi giorni, soldati vengono dispiegati in tutti i posti chiave delle istituzioni, dall’ufficio del primo ministro ai ministeri, fino a presidiare lo stesso palazzo della Corte suprema. Il fatto strano è che nessuno li ha chiamati e non si capisce da che parte stiano.

Si scoprirà con chi stanno i militari, quando, il giorno dopo la sua investitura, il 28 febbraio Embaló nomina primo ministro Nuno Gomes Nabiam, suo uomo di fiducia, mandando a casa il premier Aristides Gomes. Quest’ultimo è riconosciuto dalla comunità internazionale, e denuncia la sua deposizione come colpo di stato. Quel giorno a fianco di Embaló e del nuovo premier, si trovano il capo di stato maggiore, il suo vice e il comandante dell’aviazione. C’è anche una vecchia conoscenza, l’ex capo di stato maggiore, ex generale Antonio Indjai.

Indjai era stato dietro al famoso «colpo di stato della cocaina» dell’aprile 2012, quando fu rovesciato il presidente ad interim Raimundo Pereira.

Indjai, inoltre, è stato obiettivo principale della Dea (agenzia antidroga Usa) durante una caccia all’uomo del 2013, ed è ricercato negli Stati Uniti per aver venduto armi alle Farc colombiane in cambio di partite di cocaina. Si tratta dunque di uno dei massimi esponenti del gruppo narco militare che ha gestito il paese per anni e che ora sembrerebbe essere tornato all’ombra del potere.

Domingos Simoes Pereira, lo sfidante di Umaro Sissoco Embalo nelle ultime elezioni. / Photo by SEYLLOU / AFP

Due presidenti per 48 ore

Sempre il 28 febbraio, 54 deputati del Paigc e alleati, designano il presidente dell’Assemblea nazionale (che conta 102 deputati), Cipriano Cassama, come «presidente a interim», in risposta all’investitura «di forza», senza aspettare l’ok della Corte suprema, di Embaló. Ma Cassama, meno di 48 ore dopo la designazione, rinuncia a causa, dice, delle molteplici «minacce di morte» ricevute.

Embaló resta dunque l’«unico» presidente, anche se il contenzioso elettorale è ancora aperto.

In risposta a diversi deputati del Parlamento europeo che denunciano quanto sta avvenendo nel paese africano come «un pericolo per la democrazia», Embaló risponde: «Non facciamo parte dell’Unione europea. Noi siamo in Africa!»1.

A livello internazionale la Cedeao (Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale), che ha guidato la mediazione per risolvere la crisi dal 2016, è inizialmente divisa sul da farsi.

Ma Embaló ha molti amici tra i capi di stato, così Senegal, Nigeria e Niger si affrettano a riconoscere il nuovo presidente, mentre altri restano indecisi. Embaló conta tra i suoi alleati più illustri i presidenti di Senegal, Macky Sall (presidente di turno della Cedeao), e Nigeria, Muhammadou Buhari, oltre che numerosi altri presidenti sul continente.

La svolta si ha il 23 marzo, quando la Cedeao stessa riconosce legittimo Embaló, nonostante i militari stiano ancora presidiando i posti chiave delle istituzioni, e ci sia quindi una «mano militare» che veglia sulla stabilità. Unione europea e Nazioni Unite ne seguono l’esempio. Nonostante la Corte suprema della Guinea-Bissau non abbia mai validato le elezioni. Il gioco di Embalò, e di chi lo ha voluto al potere, è dunque fatto.

Riforma costituzionale

La condizione che pone la Cedeao, è la realizzazione di una riforma costituzionale. La Costituzione del 1984, infatti, definisce un sistema semi presidenziale «ibrido», lasciando una certa ambiguità nella gestione del potere esecutivo tra presidente della repubblica e primo ministro. Ambiguità che ha causato molti ingorghi istituzionali e colpi di stato o tentativi di golpe.

Embaló si affretta a creare una Commissione di revisione costituzionale, il 12 maggio, composta da cinque membri, tutti nominati da lui stesso.

Secondo gli analisti della «Global initiative, against transnational organized crime»2, in Guinea-Bissau si assiste a un ritorno in attività della casta narco militare che negli anni 2005-2014 trasformarono il paese in un punto nevralgico per il passaggio della cocaina dal Sud America all’Europa, valendogli la definizione di «narco stato». Gli analisti mettono in relazione il «colpo di forza» attuato da Embaló nei primi mesi di quest’anno, con il colpo di stato della cocaina del 2012. Dietro al Madem-G15 ci sarebbero infatti i finanziamenti della rete militare-criminale mai smantellata, e ora tornata in auge.

Marco Bello

Note

(1) Guinée-Bissau, l’imbroglio continue à la tête du pays. Radio France international, 5 marzo 2020.

(2) Breaking the vicious cycle. Cocaine politics in Global Initiative, against transnational organized crime. Maggio 2020, disponibile online.

© Matteo Ghiglione


Cronologia essenziale

La Guinea-Bissau in date

  • 1973, 24 settembre – Il Partito africano per l’indipendenza della Guinea-Bissau e di Capo Verde (Paigc) proclama l’indipendenza.
  • 1974, 10 settembre – Il Portogallo riconosce l’indipendenza e Luis Cabral è il primo presidente.
  • 1980, 14 novembre – Colpo di stato militare di João Bernardo Vieira. Disciolta l’unione con Capo Verde.
  • 1984, 16 maggio – Nuova Costituzione, sistema del partito unico. Vieira vince le elezioni presidenziali.
  • 1989, 19 giugno – Vieira rieletto presidente.
  • 1991, 8 maggio – Adozione del multipartitismo.
  • 1993, 17 marzo – Tentativo di colpo di stato di João da Costa.
  • 1994, 7 agosto – Vieira vince per la terza volta le elezioni.
  • 1997, 2 maggio – Adozione del «franco cfa» come moneta e adesione all’Uemoa (Unione monetaria dell’Africa dell’Ovest).
  • 1998, 7 giugno – Scoppia un ammutinamento dopo la destituzione del generale Ansume Mané, capo di stato maggiore. Intervengono Senegal e Guinea. Inizia la guerra civile.
  • 1998, 1° novembre – Firma di un accordo di pace ad Abuja (Nigeria) tra il governo e la giunta guidata da Ansumane Mané.
  • 1999, 7 luglio – Mané rovescia il presidente Vieira. Malam Bacai Sanha, presidente dell’Assemblea nazionale, è nominato presidente della Repubblica.
  • 2000, 16 gennaio – Kumba Yala vince le elezioni presidenziali.
  • 2003, 14 settembre – Colpo di stato del generale Verissimo Correia Seabra, che viene assassinato un anno dopo da un gruppo di militari.
  • 2005, 24 luglio – Elezioni presidenziali: vince João Bernardo Vieira.
  • 2007, dicembre – Adozione da parte del parlamento di una legge di amnistia, per le violenze commesse negli anni 1980-2004.
  • 2008, 26 luglio – Il Paigc esce dalla coalizione di governo, dieci giorni dopo è sciolta l’Assemblea nazionale.
  • 2008, 23 novembre – Tentativo di colpo di stato contro Vieira.
  • 2009, 2 marzo – Doppio assassinio di Vieira e del capo di stato maggiore Tagmé Na Waié.
  • 2009, 5 giugno – Assassinio di tre uomini politici, tra i quali il candidato alla presidenza Baciro Dabo.
  • 2009, 26 luglio – Vittoria di Malam Bacai Sanha alle elezioni presidenziali.
  • 2010, 1 aprile – Rivolta dell’esercito organizzata dal generale Antonio Indjai contro il primo ministro, Carlos Gomez Junior e il capo di stato maggiore José Zamora Induta. A giugno Indjai diventa capo dell’esercito.
  • 2012, 9 gennaio – Muore il presidente Malam Bacai Sanha a Parigi. Raimundo Pereira diventa presidente ad interim.
  • 2012, 12 aprile – Colpo di stato del generale Mamadu Turé Kuruma, detto «golpe della cocaina». Arrestati presidente e primo ministro. Attivo il generale Indjai. L’Unione africana sospende la Guinea-Bissau. Accordo di transizione tra la giunta e i partiti politici che prevede elezioni entro due anni. Manuel Serifo Nhamadjo nominato presidente di transizione.
  • 2012, 21 ottobre – Tentativo di colpo di stato del capitano Pansau N’Tchama.
  • 2013, 2 aprile – La Dea (agenzia antidroga Usa) conduce un’operazione e arresta l’ammiraglio José Américo Bubo Na Tchuto, coinvolto in una rete di traffico internazionale. Il vero obiettivo sarebbe stato Antonio Indjao.
  • 2013, 18 aprile – Antonio Indjao, capo di stato maggiore, giudicato colpevole dalla giustizia Usa per narcoterrorismo: ha fornito armi alle Farc colombiane in cambio di cocaina.
  • 2014, 20 maggio – José Mario Vaz vince le elezioni presidenziali. A settembre Injano è cacciato dal suo posto di capo dell’esercito.
  • 2015, 12 agosto – Inizia la crisi politica in seguito al licenziamento del primo ministro Domingo
    Simões Pereira. La Cedeao condurrà la mediazione della crisi.
  • 2019, 10 marzo – Il Paigc, di cui Pereira è presidente, vince le elezioni legislative.
  • 2019, 2 aprile – Elezioni presidenziali. La Commissione nazionale elettorale dà la vittoria a Umaro Sissoco Embaló, ma il rivale, Pereira, contesta e accusa di brogli.
  • 2020, 27 febbraio – Nonostante il contenzioso elettorale e il blocco della Corte Suprema, Embaló forza e si autoinveste. Metà del parlamento nomina un presidente a interim, Cipriano Cassama, presidente dell’Assemblea nazionale, che subito si dimette a causa di minacce di morte.
  • 2020, 22 marzo – La Cedeao è divisa sul da farsi, ma finalmente prevalgono i paesi «amici» di Embaló che lo riconoscono presidente della Repubblica.

Ma.Bel.


Hanno firmato questo dossier

Anélia Gomes de Paiva

Nata a Riacho da Cruz (RN, Brasile), a 18 anni è andata a vivere a São Paulo, dove ha studiato, lavorato e fatto pastorale nella favela di Jandira. Qui ha scoperto la sua vocazione. Entrata nelle missionarie della Consolata nel 1999, dopo il noviziato in Colombia e la professione religiosa ha lavorato in Brasile dal 2003 al 2006. Dal 2007 è missionaria in Guinea-Bissau. «Posso dire che il periodo più bello della mia vita sono gli anni di missione vissuti tra le popolazioni della Guinea-Bissau e quelli della mia adolescenza che ho trascorso a pescare, a diretto contatto con la natura».

Marco Bello

giornalista redazione MC.

Foto:

Le foto di questo dossier – eccetto dove indicato differentemente – sono cortesia di suor Anélia e delle sue consorelle.

Le missionarie in Guinea-Bissau:

  • Comunità di Empada: Noeli Domingos Bueno, Maria Inocencia Giacomozzi, Rita Nombora.
  • Comunità di Bubaque: Ana Paula Foletto, Maria de Lourdes Pereira, Teresinha Victor, Anélia Gomes de Paiva.
  • Comunità di Bissau: Giovanna Panier Bagat, Emma Piera Casali, Maria Cecilia da Silva, Isabel Alves de Oliveira.

Archivio mc :

Il «paradiso» dimenticato, Matteo Ghiglione, agosto-settembre 2011.




Kazakistan: LA GRAZIA DELL’OSPITALITÀ E DELLA BENEDIZIONE

4 marzo 2020


L’inizio della nostra presenza in Kazakistan l’abbiamo vissuta all’insegna della benedizione e dell’ospitalità. Siamo arrivate all’eroporto di Almaty alle 00:50 del 29 di febbraio. Eravamo partite dall’Italia con la convinzione di dover fare la “quarantena” a causa del coronavirus ed eravamo disposte a farla pur di partire per la missione tanto attesa nel cuore. Invece abbiamo superato tutti i controlli! Abbiamo sentito la forza della preghiera delle nostre consorelle e la benedizione ricevuta nella Santa Messa celebrata prima della partenza, alle 3 del mattino da P. Germán Arana, SJ, nella cappella di Nepi, accompagnata dalla Direzione generale, dalla comunità del Kirghizistan e da altre sorelle in Nepi.

All’arrivo ci attendevano due sacerdoti della diocesi di Almaty Don Szymon Grzywinski, polacco, e Don Gregorio Perez, spagnolo, tutti e due abitano nella parrocchia di Kapchagay, che dista circa 70 km da Almaty. I primi giorni vivremo a Kapchagay fino a quando procureremo ciò che è necessario per preparare la nostra casa in Janashar.

Sabato 29 di febbraio, il giorno in cui siamo arrivate, è una data cara per la Chiesa in Kazakistan. Si commemorano i 25 anni della consacrazione dell’Asia Centrale alla Beata Vergine Maria, Regina della Pace e patrona del Kazakistan. Per noi figlie della Consolata è stato un segno di conferma della sua presenza e della chiamata come famiglia religiosa in mezzo a questo caro popolo.

Alla sera ci siamo unite alla comunità cristiana di Kapchagay, una trentina di persone, la maggioranza bambini, per la preghiera del rosario e per la celebrazione eucaristica, la prima in terra kazaka, in un clima fortemente mariano. Alle 20.30 abbiamo pregato ancora con la comunità cristiana, la coroncina della misericordia e ricevuto la benedizione personale con il Santissimo, segno della vicinanza del Signore ad ogni persona. Ci ha toccato profondamente come questa ricorrenza fosse celebrata proprio nel giorno dell’inizio della nostra presenza come Istituto tra il popolo kazako. Veramente il Signore e la Consolata ci hanno preceduto, accolto e benedetto.

Domenica abbiamo raggiunto la nostra comunità cristiana di Janashar, insieme a Don Szymon, il parroco, e al vescovo della Diocesi di Almaty, Mons. Josè Luis Mumbiela Sierra. Ad attenderci c’era una comunità cristiana di una ventina di persone con la quale abbiamo celebrato l’Eucaristia. Lì il vescovo ci ha introdotto alla comunità e ci ha fatto vedere quale sarà la nostra casa, un appartamento al primo piano, sopra ad un ambiente preparato per le attività parrocchiali. Alla Messa è seguito un momento fraterno con dei cibi tipici del posto.

Al pomeriggio con Don Szymon siamo andate a Nura, dove abbiamo celebrato l’Eucarestia nella casa di una famiglia, insieme ad una ventina di persone. Qui ci hanno invitato a cantare e abbiamo intonato un canto in Swahili “E Mama Bikira Maria Consolata”.

Abbiamo incontrato un popolo molto accogliente e generoso. La nonna che ci ha ospitato nella sua casa si preoccupava che avessimo il nostro piatto sempre pieno di ogni bene, che avevano preparato per noi.

Ci chiederete come comunichiamo. Abbiamo studiato un po’ di russo prima della partenza, ma in questo momento sperimentiamo, come tutti i missionari, una bella confusione. Con qualcuno parliamo un po’ di spagnolo, con un altro un po’ d’inglese, con un altro un po’ d’italiano e pratichiamo le nostre piccole frasi in russo. Ci anima però l’ospitalità e l’accoglienza calda del popolo kazako e della piccola presenza della Chiesa, un dono immenso per noi tutte, in questo nuovo inizio.

Grazie di vero cuore per la vicinanza e la preghiera con cui ci accompagnate e i tanti messaggi che ci avete fatto pervenire!!!

Sr Adriana, Sr Claudia, Sr Luisa, Sr Zipporah




Missionarie della Consolata Operazione Ki.Ka.

testo di Ivana Cavallo, foro MdC |


Il 6 gennaio, solennità dell’Epifania del Signore, nella casa generalizia delle suore missionarie della Consolata in Nepi (Viterbo), le otto sorelle destinate alle nuove missioni del Kirghizistan e del Kazakistan hanno ricevuto il mandato missionario dal cardinale João Braz de Aviz.

«Il vostro andare è segno che la Chiesa è viva. Grazie per il vostro coraggio come Istituto, che va gratuitamente senza aspettare niente in cambio». Così il cardinale Braz de Aviz, prefetto della «Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica», si è espresso nell’omelia della celebrazione eucaristica nella quale abbiamo ricevuto il nostro mandato per le nuove aperture missionarie in Asia (vedi MC 11/2019, p. 16).

L’essere inviate ci ricorda che non andiamo a titolo personale, ma a nome della Chiesa e dell’Istituto, per una missione affidataci. È un dono grande quello che ci è stato consegnato: andare e annunciare il Vangelo al popolo Kazako e Kirghizo, ma è anche una responsabilità. Essere per loro quella stella che porta a conoscere Gesù, guidata dallo Spirito Santo e che si fa presente nella semplicità, nella vicinanza, nel rispetto e con tanta delicatezza, come la Consolata, di cui abbiamo ricevuto l’icona. Sì, perché, proprio come ci ricorda la festa dell’Epifania, Lui è venuto per tutti i popoli, e culture.

Tutte noi abbiamo vissuto questo momento con grande gioia e speranza, sia per la forza spirituale ricevuta, sia perché ci siamo sentite accompagnate con tanta preghiera da tutte le nostre sorelle, familiari e amici, e anche perché ci siamo sentite inviate come comunità. Non andiamo come singole, ma insieme, da sorelle con età, culture ed esperienze missionarie diverse, chiamate a dare testimonianza del nostro stare insieme con e per il Signore. «Attive nel bene, perché abbiamo ricevuto la vita non per sotterrarla, ma per metterla in gioco; non per trattenerla, ma per donarla», come ci ha ricordato papa Francesco nell’omelia della celebrazione dei vespri per l’inizio del mese missionario straordinario dello scorso ottobre.

KiKa2020, mandato alle otto sorelle MdC in partenza per Kirzighistan e Kazakistan

Stupore e meraviglia

le sorelle MdC in partenza per il Kirzighistan

Essere questo segno della Chiesa viva partendo per l’Asia Centrale, ha suscitato e suscita molte domande e perplessità in molti, ma anche tanta ammirazione e stupore. Ecco le domande e le espressioni più frequenti rivolte a noi partenti:
«Ma dove si trovano questi paesi? Mai sentiti nominare! Perché andate proprio là?».
«Ma c’è ancora bisogno di evangelizzare?».
«Che coraggio! Ma siete matte, siete così poche suore! E perché andare in paesi di maggioranza musulmana? Non avete paura?».
«Abbiamo tanto bisogno di suore anche qui, perché andate così lontano?».
«Ma come, ve la sentite davvero di imparare una lingua così difficile come il russo?».
«Vi assicuriamo la nostra preghiera, ne avrete bisogno!».
«Siete davvero felici di andare?». E tante altre ancora.

Per noi, come sorelle e come Istituto, è chiaro il motivo del nostro andare, è insito nella nostra identità più profonda e carismatica, nella nostra chiamata. Con san Paolo anche noi diciamo: «Non è un vanto per me predicare il Vangelo, è un dovere: guai se non predicassi il Vangelo» (1Cor 9.16).

Come missionarie ad gentes siamo chiamate ad andare verso gruppi e ambienti non cristiani dov’è assente o insufficiente l’annuncio evangelico e la presenza ecclesiale, non per fare proselitismo, ma per dare testimonianza di Gesù Cristo, come ci ricorda spesso papa Francesco: «È vivere la fede, è parlarne con mitezza, con amore, senza voglia di convincere nessuno, ma gratuitamente. È dare gratis quello che Dio gratis ha dato a me: questo è evangelizzare».

KiKa2020, mandato alle otto sorelle MdC in partenza per Kirzighistan e Kazakistan

Pronte alle sfide aiutate dalla vostra preghiera

Le sorelle MdC in partenza per il Kazakistan

Sfide sicuramente ce ne saranno e anche tante, una tra tutte è la lingua non facile, per cui ringraziamo chi ci sostiene e accompagna con la preghiera. Ma queste sfide e le incognite non ci tolgono la gioia di voler vivere la nostra missione tra quei popoli. Lì è il nostro posto, perché lì ci ha pensate e ci vuole il Signore, e se rimaniamo unite a Lui, Lui stesso darà la forza e il coraggio non solo di partire, ma di stare, accogliendo le gioie e le fatiche, i successi e anche gli insuccessi,

«Allora, quando andrete?», ci domandano ancora. La data di partenza non dipende da noi, ma da quando riceveremo i visti dai due paesi.

Quando voi leggerete queste righe noi speriamo proprio di essere già arrivate là per celebrare la nostra prima Pasqua in quelle terre.

Ivana Cavallo
missionaria della Consolata

 


Ultimo minuto:

arrivate in Kazakistan le prime 4 missionarie
ci uniamo alla loro gioia e nel ringraziamento al Signore e alla Consolata.

Nepi, 29 febbraio 2020

Carissime Sorelle ieri 28 febbraio sono partite verso il Kazakistan le nostre quattro Sorelle: sr Adriana, sr Claudia, sr Luisa e sr Zipporah. Oggi abbiamo ricevuto un messaggio da Padre Carlos Lahoz, sacerdote amministratore della diocesi di Almaty. E sono buone notizie che desideriamo condividere con tutte voi, che con amore e preghiera state accompagnando questo nuovo cammino dell’Istituto in Asia.

Ecco, lui dice così dirigendosi a sr Cecilia Pedroza S. in un messaggio whatsApp, accompagnato da questa foto:

“Buongiorno! Non dovranno fare la quarantena. E sono arrivate bene, sono a Kapchigai. Questi tre sacerdoti [che sono nella foto] abitano a Kapchigai: due polacchi e un spagnolo. E grazie a voi, che fate tanto per il Signore! Vi aspettiamo anche a voi, che volevate venire insieme con loro. Quando Dio vorrà”.

In questo nuovo inizio missionario continuiamo ad affidare queste nostre Sorelle all’amore della Consolata, rileggendo quanto la nostra Direzione generale scrisse nella lettera del 25 dicembre 2018:

“Davvero, Sorelle, la Consolata stende il suo manto, la sua capulana, la sua kanga, il suo aguayo, il suo sarong su di noi, sul corpo dell’Istituto, sua creatura, attirandoci a Lei, nel suo grembo, in una azione di rigenerazione che ci purifica, ci riporta all’essenziale, sollecita in noi la comunione, il percepirci e viverci sempre di più come unico corpo, al di là di ogni confine geografico, culturale, generazionale, situazionale”.

E come unico corpo preghiamo con fede per le nostre Sorelle in Kazakistan:
Proteggi Padre, la tua Famiglia e mantieni in essa il tuo spirito!”

dalla direzione generale della Missionarie della Consolata




Kirghizistan e Kazakistan: Una Chiesa «in germoglio»

Testo di suor Dalmazia Colombo – foto Missionarie della Consolata |


Il 2020 sarà un anno di grazia per le missionarie della Consolata perché si apriranno per loro gli immensi orizzonti dell’Asia centrale. Ben otto missionarie dall’Africa, dall’America e dall’Europa andranno a testimoniare il Vangelo in due paesi a maggioranza musulmana, il Kazakistan e il Kirghizistan, dove gli Ortodossi sono circa il 20% della popolazione e i Cattolici un’esigua minoranza.

Per quanto sembri scontato, il punto sta qui: noi siamo «per i non cristiani». Questo è il nostro carisma, il nostro dono specifico a tutta la Chiesa.

Quando il nostro Istituto fu fondato dal beato Giuseppe Allamano nel 1910, fu ai non cristiani africani che egli inviò le sue prime missionarie. Il gruppo, formato da tredici sorelle, partì per il Kenya nel 1913.

Al Kenya, nel corso degli anni si aggiunsero Tanzania, Etiopia, Somalia, Mozambico, Togo, Liberia, Guinea Bissau, Libia e Gibuti (dove siamo ancora oggi, eccetto Somalia e Togo).

Dopo la Seconda guerra mondiale l’Istituto si aprì all’America inviando missionarie in Brasile, Colombia, Argentina, Usa, Venezuela, Bolivia, paesi dove si continua a mantenere viva l’attenzione verso i non cristiani, presenti specialmente nelle periferie e fra le minoranze etniche, in zone povere e isolate.

In tutti questi paesi, le missionarie della Consolata, con le loro molteplici attività, hanno contribuito alla fondazione e/o al consolidamento delle Chiese locali, fino a sentire, in alcuni casi, esaurita la loro opera di prima evangelizzazione. Allora, è diventata prassi lasciare le parrocchie e le opere ben avviate ad altre forze apostoliche e spingersi verso nuovi orizzonti, finché, negli anni ‘90 lo sguardo ha cominciato a posarsi sull’Asia, il continente con la minore percentuale cristiana di tutto il mondo. Tale sguardo si è fermato allora sulla Mongolia.

La Mongolia

Il progetto di vita missionaria nella piccola porzione di Chiesa già presente in Mongolia (114 battezzati nel 2002, ndr) è stato elaborato in sintonia con gli elementi che i due istituti, i missionari e le missionarie della Consolata, hanno al centro del loro carisma: essere testimoni della presenza di Dio in mezzo ai poveri, divenire pellegrini che camminano con la gente, apprezzandone i valori, e dialogare con gli appartenenti alle grandi religioni.

I missionari e le missionarie della Consolata hanno raggiunto la Mongolia il 27 luglio 2003, stabilendosi nella capitale Ulaanbaatar, per imparare la lingua e penetrare nel tessuto sociale culturale e religioso del popolo, per conoscere la realtà e i bisogni della gente mediante la vicinanza, il dialogo e l’amicizia.

Il 19 settembre 2006 è stata aperta una nuova missione ad Arvaiheer, distante 420 chilometri dalla capitale. «Qui i missionari – racconta con emozione suor Gertrudes Vitorino, mozambicana, che faceva parte del gruppo – provarono l’emozione e la gioia di pronunciare il nome di Gesù e di annunciarlo in mezzo a un popolo, di religione buddista, che non aveva mai sentito parlare di Lui».

Oggi in Mongolia i cristiani sono quasi un migliaio e ad Arvaiheer si è formata una piccola comunità con 30 battezzati.

Se dai frutti si conosce la bontà dell’albero, viene spontaneo comparare lo stile di missione scelto in Mongolia a un albero buono, che ha dato frutti buoni: semplicità di vita e accoglienza, intensa preghiera, realizzazione di piccoli, ma significativi, progetti, come le docce calde pubbliche, la scuola materna informale, il doposcuola e il cammino di cura per alcolisti.

Nuove presenze in Asia

Nel 2011 la decima assemblea capitolare delle missionarie della Consolata – suprema autorità collegiale dell’Istituto -, che aveva come motto «Sospinte dallo Spirito consolatore», invitò tutte le missionarie a «lasciarsi sfidare da nuovi orizzonti missionari con lo zelo e la disponibilità delle prime sorelle». Dopo riflessioni e approfondimenti si arrivò alla decisione di studiare la possibilità di aprire nuove presenze in Asia tenendo conto di alcuni criteri:

  • L’Asia è il futuro della missione (Redemptoris Missio, N. 91).
  • Noi siamo per i non cristiani (Costituzioni MdC, art. 3).
  • La necessità di sostenere e rafforzare le poche presenze religiose in Asia.

Perché in Kirghizistan e in Kazakistan?

In fedeltà alla metodologia del fondatore, che inviò i suoi in Kenya dopo una lunga e accurata ricerca sulla possibilità di realizzare il fine dell’Istituto di «annunciare il Vangelo ai non cristiani», iniziò il cammino di raccolta di informazioni per capire dove si sarebbe potuta avviare una nostra nuova presenza in Asia.

Nelle ricerche vennero coinvolti mons. Savio Hon Thai Fai, segretario della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, e membri di altri istituti missionari già presenti in Asia.

Su consiglio di questi esperti, furono fatte ricerche in Cina, Indonesia, Bangladesh, Thailandia, Kazakistan, Kirghizistan. Nel corso del cammino, alla luce dei criteri che erano stati posti alla base della ricerca, la rosa dei paesi candidati andò assottigliandosi lasciando sul campo il Kazakistan e il Kirghizistan.

I viaggi di esplorazione

Due consigliere generali, suor Cecilia Pedroza e suor Lucia Bortolomasi, quest’ultima già missionaria in Mongolia, visitarono diverse volte le due ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale. Lì presero contatti con le autorità religiose e con alcuni gruppi di persone vicine alla piccola realtà di cattolici presenti in quei paesi, e valutarono che sarebbe stato possibile avviare nuove presenze secondo i criteri proposti dal Capitolo generale del 2011 e confermati nel Capitolo generale del 2017.

Filmati, power point, foto, relazioni sulle ricerche fatte furono presentati più volte a tutto l’Istituto rafforzando e confermando, da parte di tutte le missionarie, la bontà della scelta di avviare, entro il 2020, nuove presenze consolatine in Asia centrale.

Dove andremo?

Il 2 febbraio 2019 la direzione generale ha comunicato i nomi delle sorelle che partiranno nel 2020: quattro per il Kazakistan e quattro per il Kirghizistan. Sono le veterane Adriana Medina e Claudia Graciela dalla Colombia, Ivana Cavallo da Boves, Cuneo, Judith Kitoti dal Tanzania, Luisa Felipe Munguambe dal Mozambico, e le «esordienti» Adanech Mitiku Shawo dall’Etiopia, Hellen Njoki Waithera e Zippoorah Wanjiku Mwaniki dal Kenya.

L’11 marzo 2019, pochi giorni dopo l’incontro a Roma con mons. Josè Luis Mumbiela Sierra, vescovo di Almaty (Kazakistan), e padre Anthony Corcoran, gesuita e amministratore apostolico del Kirghizistan, in visita ad limina dal papa insieme ad altri otto vescovi e amministratori apostolici dell’Asia centrale, la direzione generale ha comunicato i luoghi nei quali si avvieranno le due comunità.

  • In Kazakistan, nella diocesi di Almaty, a Janashar, un paese a circa 40 chilometri dalla città più popolosa del paese, dove esiste una piccola comunità cristiana e la diocesi ha costruito la casa dove le missionarie potranno abitare, con l’aggiunta di alcuni locali per attività ancora da definire.
  • In Kirghizistan, nell’unica amministrazione apostolica, la comunità sarà a Dzalal Abad, una cittadina nella zona Sudoccidentale del paese, a 600 chilometri dalla capitale Biškek, ma relativamente vicina a Janashar.

Il 1° ottobre 2019, due delle sorelle partenti, Adriana Medina e Judith Kitoti, hanno ricevuto il mandato missionario da papa Francesco nella semplice cerimonia che ha segnato l’inizio del mese missionario speciale.

Si parte presto

Le nuove aperture sono ormai alle porte. La direzione generale, nella lettera che comunicava le ultime decisioni riguardo le aperture in Asia centrale, così concludeva: «Grazie a tutte voi sorelle, per le molteplici espressioni di appoggio e di condivisione per le nuove aperture.

Sappiamo che la costituzione delle due nuove comunità ha significato dei sacrifici e dei tagli nei paesi da cui le sorelle scelte provengono, ma sappiamo anche quanta vitalità e benedizione questa scelta verso “i non cristiani” dona al corpo dell’istituto nel cammino di rinascita.

Continuiamo ad accompagnare il processo con la preghiera, l’interesse, l’appoggio e l’affetto, perché veramente è un evento di famiglia che ci coinvolge tutte. La Consolata ci precede là e attende il nostro arrivo.

Senza il coinvolgimento di tutte e la solidarietà di tanti amici e sostenitori delle nostre missioni, le nuove aperture in Asia rimarrebbero per le missionarie della Consolata solo un sogno!

Insieme, in cordata, cercheremo di aiutare la crescita di questa chiesa che papa Francesco, nel discorso ai vescovi dell’Asia centrale ha definito “una Chiesa in germoglio”».

Suor Dalmazia Colombo


Repubblica del Kazakistan

Il Kazakistan si trova nell’Asia centrale. Per estensione è il 9° paese del mondo. Gran parte del suo territorio è pianeggiante e collinare desertico o semidesertico. Una vasta area attorno al Mar Caspio è sotto il livello del mare (-132 m). Ai confini con Kirghizistan e Cina, nel punto di incontro delle tre nazioni si innalza la maggior vetta kazaka, il Khan Tengri (6.995 m) nella catena del Tian Shan che significa Montagne Celesti.

Popolazione

Prima dell’indipendenza, nel periodo dell’Unione sovietica, la componente di popolazione kazaka era inferiore al 50% per l’entrata nel paese di molti russi, ucraini, polacchi e di altre nazionalità. In seguito al ritorno ai paesi di origine degli immigrati, la situazione è decisamente cambiata con i Kazaki che costituiscono ora il 63% della popolazione. La città più popolosa è Almaty, con 1.801.713 abitanti, capitale dello stato fino al 1997.

Tradizioni

La cultura affonda le sue radici nella natura nomade della gente e nell’Islam, che è la religione maggioritaria. Le steppe semiaride e gelide d’inverno, in primavera si trasformano in prati sconfinati ideali per la pastorizia, risorsa essenziale per il popolo kazako che ha sviluppato un’antichissima tradizione di tolleranza e di accoglienza.

La vita nomade del popolo ha sempre avuto come alleati e simbolo i cavalli, attorno ai quali si sono sviluppati usi e costumi, compresa l’abilità a cavalcare. Si dice che i kazaki siano stati gli inventori delle staffe. Sono abilissimi a scagliare le frecce mentre il cavallo galoppa. Famose le esibizioni di tali abilità nelle feste e manifestazioni anche oggi.

Chiesa cattolica

La Chiesa cattolica in Kazakistan, si è formata a partire dagli anni ‘30 del secolo scorso ad opera di alcuni sacerdoti deportati dal regime sovietico che si rivolgevano soprattutto ai non kazaki. Per decenni visse nella clandestinità affidata alla trasmissione della fede a livello familiare, specialmente da nonni ai nipoti. Nel settembre del 2001, papa Giovanni Paolo II visitò la piccola comunità cattolica che con l’indipendenza aveva acquisito nuovo vigore. L’attuale organizzazione territoriale comprende tre diocesi, e una amministrazione apostolica: arcidiocesi di Astana, diocesi di Almaty e di Karaganda, amministrazione apostolica di Atyau. A queste si aggiunge l’amministrazione apostolica per i fedeli cattolici di rito bizantino in Kazakistan e nell’Asia centrale.

Grazie alla presenza missionaria nel paese, vi è una crescita di kazaki che si convertono al cattolicesimo, soprattutto nella capitale Nur-Sultan (che fino a marzo 2019 si chiamava Astana).

Da.Co.

  • Lingue ufficiali   Kazako, Russo (entrambe ufficiali)
  • Capitale            Nur-Sultan (già Astana – 1 milione di ab.)
  • Forma di governo          Repubblica semipresidenziale
  • Indipendenza da Urrs    21 dicembre 1991
  • Superficie 2.724.900 km² (9 volte l’Italia)
  • Popolazione      17.572.000 ab. (stime 2019)
  • Nome abitanti Kazaki
  • Religione          Musulmani 70%, Cristiani ortodossi 26%, Cattolici 1,14%, altre religioni o senza 3%
  • Confini Cina, Russia, Kirghizistan, Uzbekistan, Turkmenistan
  • Valuta  Tenge kazako


Repubblica del Kirghizistan

Il Kirghizistan è un aspro paese dell’Asia centrale che sorge lungo la Via della Seta, l’antica carovaniera tra la Cina e il Mediterraneo a metà strada tra Medio ed Estremo Oriente. È un paese che vanta la presenza di una popolazione molto cordiale, ospitale e disponibile.

Il nome Kirghizistan deriva da una parola che significa «siamo 40». Si tratta di un riferimento ai 40 clan che in origine formavano la nazione e che si riflette sulla bandiera composta da un sole giallo con 40 raggi distanziati in modo uniforme dal centro. Oggi la popolazione è formata in gran parte da Kirghisi (65%) e Uzbeki (13%). Il resto sono Russi, Polacchi, Tedeschi e altre nazionalità, nella maggior parte figli e nipoti delle deportazioni sovietiche.

Geografia

Il territorio aspro e difficile del Kirghizistan, nel cuore dell’Asia, è un groviglio di fiumi e montagne che superano i 7.000 metri e offre una delle più belle architetture naturali del mondo con la catena montuosa del Tien Shan e l’altopiano del Pamir: il primo lo separano da Cina e Kazakistan, il secondo lo uniscono al Tagikistan. La maggior parte della popolazione vive nelle zone di pianura che occupano appena un settimo della superficie totale.

Poche sono le città, pochi i comfort, pochi i servizi sociali. I trasporti si contano su una mano. Chi sceglie di vivere in questo paese, vive esperienze fuori del tempo ed è colpito dalle usanze della vita nomade, tipica del popolo kirghiso, gente temprata per sopravvivere alla natura e per questo molto ospitale con il prossimo.

La tradizione

La popolazione dei villaggi, dedita alla pastorizia, vive nelle bellissime iurte, le classiche tende dei pastori che hanno la caratteristica di essere fresche d’estate e calde d’inverno. Sono il simbolo più antico dei villaggi e della popolazione itinerante. Il viaggiatore viene accolto nelle iurte al suono del komuzy, il tradizionale strumento a corde. Sempre nelle tende, le famiglie si riuniscono per prendere le decisioni più importanti e condividere i pasti. Pasti semplici e gustosi nei quali le pietanze principali sono il plot, composto di un misto di riso e carne, e lo shorpo, una zuppa di carne e verdure.

Chiesa cattolica in Kirghizistan

La Chiesa cattolica ha una storia recente in quanto solo nel 1997, dopo l’indipendenza, Giovanni Paolo II vi fondò una missio sui iuris. Nel 2006, Benedetto XVI elevò la circoscrizione al rango di amministrazione apostolica che comprende l’intero territorio. Dalla fondazione a oggi i cattolici sono passati da 200 a circa 500: lo 0,01% della popolazione. In Kirghizistan vi sono tre parrocchie con cinque religiosi e cinque religiose che diverranno nove con l’arrivo a Dzalal Abad delle missionarie della Consolata.

Da.Co.

  • Lingue ufficiali   Kirghisa, Russo (entrambe ufficiali)
  • Capitale            Bishkek
  • Forma di governo Repubblica parlamentare
  • Indipendenza da Urrs    31 agosto 1991
  • Superficie 199.957 km²
  • Popolazione      5.959.121 (stima 2019)
  • Nome abitanti   Kirghisi
  • Religione          Musulmani 75%, Cristiani ortodossi 20%, Cattolici 0,01%, altre religioni o senza 5%
  • Confini Cina, Kazakistan, Tagikistan, Uzbekistan
  • Valuta  Som kirghiso




Attorno al fuoco, nella casa comune


Dal Kenya alla foresta amazzonica brasiliana. È questo il percorso di Mary Agnes Nieri Mwangi, missionaria della Consolata che dal 2000 vive nella Missione Catrimani in Terra indigena yanomami (Tiy). Sorretta da un incredibile entusiasmo e ponendosi sempre dalla parte delle donne. Anche quando si tratta di affrontare tematiche complesse come la poligamia o delicate come l’infanticidio.

Boa Vista. Nella capitale di Roraima suor Mary Agnes Nieri Mwangi, missionaria della Consolata, è di passaggio. Ha (temporaneamente) lasciato la Missione Catrimani, in terra yanomami, per partecipare a una serie di riunioni. Il momento storico è delicato perché il nuovo presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, sta mettendo in discussione molte conquiste indigene. Come ha denunciato il Consiglio indigenista missionario (Cimi), poche ore dopo la sua entrata in carica (1 gennaio 2019), Bolsonaro ha varato misure impattanti. La Funai, l’organizzazione federale per la protezione e la promozione dei diritti indigeni, è passata dal ministero della Giustizia a quello della Donna, famiglia e diritti umani, diretto da Damares Alves, pastora evangelica. Allo stesso tempo, la Funai è stata privata delle sue competenze in fatto di terre indigene, che sono state trasferite al ministero dell’Agricoltura, diretto da Tereza Cristina, imprenditrice agricola. Il risultato di queste misure è che le due uniche donne del governo Bolsonaro incarnano palesi e giganteschi conflitti d’interesse sotto i quali rischiano di rimanere schiacciati i diritti dei popoli indigeni. In tutto questo, l’Amazzonia, da tempo in grave sofferenza, rischia ora di subire un attacco letale con l’apertura indiscriminata alle imprese minerarie e ai latifondisti.

CATRIMANI_la maloca

Cacciatori e contemplatori

Suor Mary, com’è stato passare dal suo Kenya alla terra degli Yanomami?

«Arrivare in Amazzonia, nelle terre indigene, per me è stata una novità molto grande. Ma ancora più grande è stata la gioia di conoscere popoli diversi dalla mia realtà. Quando arrivai a Catrimani, mi sembrava di essere in quelle missioni del mio paese nei primi anni del Novecento. Oggi è un gioiello».

Molto spesso il primo salto culturale che ci si trova ad affrontare è quello linguistico. Lei ha avuto problemi?

«No, perché il mio paese è plurilingue. Si parla inglese, kiswahili e poi il kikuyu, la mia lingua. In Kenya e in Italia ho imparato un po’ d’italiano. Quando entrai a Catrimani non parlavo né la lingua portoghese né quella indigena. Nei primi cinque mesi, in attesa di partecipare a un corso di portoghese, cominciai a studiare la lingua locale, lo yanomae. Dato che spesso è l’unica che viene parlata dagli Yanomami, conoscerla è essenziale. Si tratta di una lingua orale. Anche se, nel corso degli anni, noi missionari abbiamo svolto vari progetti di alfabetizzazione».

Suor Mary, volendo dare una sintetica definizione dei popoli indigeni, cosa direbbe?

«Che sono popoli amici. Che sanno accogliere. Che c’è tanto da imparare dal modo in cui loro ti ricevono».

E degli Yanomami?

«Anche se non sembra perché sono cacciatori, cioè uomini d’azione, gli Yanomami sono persone a cui piace raccontare, ascoltare e contemplare. Noi abbiamo l’abitudine di chiedere: “Come stai?”. Loro no, perché come stai lo vedono. Si tratta di una domanda inutile. Invece, è molto importante chiedere: «Cosa pensi?». È quasi un modo di salutare l’altro. E mettersi nella disposizione di ascoltarlo».

Mary Agnes Nieri Mwangi, missionaria della Consolata

Maloca, comunità, famiglia

Maloca è il termine generico per indicare un’abitazione che ospita più famiglie indigene. Lei come descriverebbe la maloca degli Yanomami?

«C’è una ricerca dell’armonia che è difficile da spiegare. Per prima cosa, quando costruiscono la loro casa comune, gli Yanomami hanno sempre un pensiero: dov’è il centro del mondo? L’armonia si cerca anche nelle attività esterne alla maloca che vanno condivise attraverso una proposta. Non si dice: “Oggi andiamo a cacciare lì”. No, questa non è la comunicazione yanomami, che invece dice: “Ho pensato, mi sembra che sia bene andare lì. Cosa ne pensate?”. Questi sono momenti comuni, ma ci sono anche quelli dedicati al nucleo familiare».

E, all’interno della casa comunitaria, cosa distingue una famiglia?

«Ogni nucleo familiare ha il suo fuoco. Non essendoci divisioni, se si vuole sapere quante famiglie ci sono nella maloca basta contare i fuochi. Ogni fuoco, una famiglia».

E all’interno della maloca e della famiglia come crescono i bambini?

«Imparando direttamente. I bambini più grandicelli prendono in braccio quelli più piccoli. Quelli di 2 o 3 anni sanno già fare il fuoco e già prendono in mano il coltello. Un tempo io mi preoccupavo, ma la mamma subito interveniva per dirmi che non capitava nulla. Alla fine anch’io ho trovato un equilibrio tra la cura esagerata dei bambini occidentali e la libertà d’imparare dei piccoli yanomami. Quanti di loro vanno al fiume a pescare e poi preparano quello che hanno trovato. Anche il cibo viene condiviso con gli adulti. Non esiste la distinzione cibo per adulti e cibo per bambini, come invece io ero abituata».

Banane per tutti, dunque?

«Sì, l’alimento preferito dagli Yanomami è la banana. Poi ci sono la manioca con la quale fanno una specie di pane, patate dolci e frutti della foresta, pesce e carne di selvaggina o di maiale. Per gli Yanomami esistono due tipi di fame, tanto che hanno una parola specifica – naiki – per parlare di fame da mancanza di carne e un’altra – ohi – per tutto il resto. La caccia è in pratica un’attività quotidiana: ogni giorno c’è qualcuno che la pratica. Se non va il papà, va il figlio o il cugino. Chi va un giorno, non va il giorno successivo perché deve preparare gli strumenti da caccia, in primo luogo le frecce».

I misteri dello sciamano

Chi è e che ruolo riveste lo sciamano – detto xapuri o xapiri – nella società yanomami?

«Prima di tutto, lo sciamano è una persona molto disponibile. Se arriva qualcuno a chiedere i suoi servizi, lui si alza dall’amaca e va. Non ho mai sentito qualcuno rifiutarsi. In generale, sciamano è una persona che, per tutta la sua vita, coltiva “il sentire con”, il condividere le preoccupazioni altrui».

Per «sentire» come dice lei, occorre però sempre assumere la yakoana, che è una sostanza allucinogena.

«È vero, gli sciamani usano la yakoana, perché aiuta nella intermediazione tra loro e gli spiriti. Anch’io – da infermiera – ho pensato alla condizione sciamanica come a un effetto allucinogeno indotto da questa droga (detto tra virgolette). Tuttavia, io ho visto che ci sono sciamani che riescono a fare i loro riti curativi senza necessariamente assumerla. In uno stato di sobrietà.

Io vedo in questo la forza dell’amore, anche se loro non parlano in questi termini ma soltanto di cura. Lo sciamano – inoltre – porta nel presente la memoria della comunità. Essendo loro dei popoli senza memoria scritta, questa funzione è essenziale».

Suor Mary, ci aiuti un po’ a fare chiarezza sui termini: si dice sciamano, xapuri o xapiri?

«Il termine che gli indigeni usano non è sciamano. Il termine è xapuri o xapiri a seconda del territorio yanomami considerato. Perché? Xapuri (xapiri) è anche il nome degli spiriti che lavorano con queste persone. Nel momento in cui lo sciamano è in contatto con lo spirito non è lui che parla, non è lui che cura: lui incarna lo spirito. In quel momento lui è xapuri. Accade, per esempio, nel momento finale della vita quando lo sciamano sentenzia: “Non c’è più nulla da fare per evitare la morte”. Parole dure da ascoltare, ma tutti i presenti le considerano parole dello spirito e non della persona fisica che hanno davanti agli occhi. Detto questo, per me lo sciamanesimo rimane un mistero».

Antropofagia e infanticidio: Yanomami primitivi?

Le ossa del defunto – trattate in una certa maniera – vengono mangiate dai parenti. Ciò ha fatto parlare di cannibalismo. «Il loro modo di trattare i morti è qualcosa che noi dobbiamo imparare. Oggi i nostri cimiteri sono pieni. Se noi pensiamo che, dopo morta, una persona diventi cenere, gli Yanomami agiscono cremando i cadaveri e mescolando nel cibo le ossa polverizzate. Di qui si è arrivati a sentenziare: gli Yanomami mangiano i morti. Chi parla così non conosce bene la loro cultura, il perché delle cose che si fanno. È un peccato. Non sempre quello che io vedo e penso è giusto. Questa è una cosa che mi dà molto fastidio».

Altra questione molto delicata è quella dell’infanticidio. Un altro elemento spesso usato per attaccare gli Yanomami come primitivi o peggio. Cosa ci può dire sull’argomento?

«Per prima cosa, voglio dire che infanticidio è una parola abusata. In tutti questi anni tra loro, io ho visto quanto le donne yanomami curino i loro bambini. Si provi a immaginare la vita nella foresta: tu devi andare a cacciare, cercare frutta, eccetera. Se hai bambini piccoli, devi pensare a come portarli con te. È molto comune vedere una Yanomami con un bimbo sulla schiena o sul davanti.

Ricordo che un giorno venne una donna a chiedermi di accompagnarla al posto di salute per mostrare che il suo bambino era morto: non voleva essere accusata di averlo ucciso. Io l’accompagnai. Se una donna ha già un bimbo piccolo e rimane incinta, chiede a un’altra di tenerlo. Tra loro le donne si aiutano. Insomma, prima di parlare di infanticidio, occorre pensare, perché il tema è molto delicato».

La poligamia: responsabilità e sorellanza

Rimaniamo in tema di bambini.  Quanti sono in media per famiglia?

«In media sono cinque per famiglia. Ma un uomo può arrivare anche a dieci, perché può avere più mogli. Dipende dalla sua forza e capacità di lavorare. Chi ha più di una moglie, in genere ne ha due. L’uomo yanomami è responsabile, cioè si prende cura delle mogli e dei figli. Le mogli vivono assieme nella stessa maloca. Alla fine sono come sorelle».

Lei parla di capacità di lavorare. Oggi ci sono Yanomami che lavorano per il governo guadagnando uno stipendio.

«Quando io arrivai le comunità yanomami non conoscevano i soldi. Per loro non avevano significato. Poi, quando alcuni indigeni divennero agenti di salute o microscopisti, cominciarono a ricevere una busta con il denaro. Nessuno pensava a depositarlo dato che si era in foresta. Dunque, lo riponevano in un posto qualsiasi e lì rimaneva.

Poco a poco le cose sono cambiate e i giovani yanomami hanno imparato a maneggiare il denaro. Ricordo che, quando andavamo in città, io li accompagnavo nei negozi. Se compravano – ad esempio – una camicia, davano i soldi e non aspettavano neppure il resto. Questa era una conseguenza del sistema della casa comune: quando hai quello di cui necessiti, il resto lo puoi condividere. Oggi i popoli indigeni conoscono i soldi. Sanno che, se ne hanno, possono ottenere qualcosa. E ciò può essere un pericolo».

La terra degli Yanomami e l’invasione dei garimpeiros

A parte la corruzione portata dai soldi dei bianchi, da fuori arriva un altro grande pericolo.

«È così. Gli Yanomami vivono su un territorio molto buono: le piante crescono senza bisogno di troppe cure, c’è acqua, il clima è buono. Purtroppo, ci sono anche i minerali che attraggono molti garimpeiros. Le garimpeiras sono un’eccezione».

Si tratta di persone singole o di vere imprese?

«Ci sono i garimpos che dietro hanno un padrone e ci sono altri che hanno un singolo minatore. Il fenomeno è molto complesso».

Tra i tanti danni prodotti dai garimpeiros, c’è l’inquinamento delle acque con il mercurio. Questo problema si è manifestato anche alla Missione Catrimani?

«Già negli anni Novanta i missionari hanno scavato un pozzo per non bere l’acqua del fiume contaminata da mercurio. In questi anni da noi c’è meno inquinamento, mentre è aumentato in altre zone. Certamente non possiamo dare per scontato che nel Catrimani non ci sia mercurio perché nella sua parte alta ci sono garimpos. Neppure siamo sicuri che l’acqua del nostro pozzo, che sta vicino al fiume, sia pulita».

Senza strade è meglio

Suor Mary, per tenere gli indigeni lontani dai bianchi la soluzione migliore è che non ci siano strade. Si tratta di un’affermazione esagerata?

«Io credo che la strada non sia per gli indigeni. Sono persone che non hanno bisogno di strade perché sono popoli della foresta. Loro hanno… il Gps nella testa (lo ripete due volte ridendo e indicando con le dita la sua testa, ndr).

Quando cammino con loro, io a volte non riesco ad orientarmi, a capire dove sono. A volte non sono capace neppure di trovare il sole perché non riesco a vederlo. Allora mi chiedono: “Ma cosa cerchi?” “Il sole”, rispondo io. “Ma come? È qui! Non lo vedi?”. E si mettono a ridere. La stessa cosa mi accade con i sentieri che io non vedo mentre loro sì. Voglio dire che ciò che io non vedo loro invece lo vedono. Dunque, la strada non è per i popoli indigeni, ma è per quelli come noi che non hanno il Gps nella testa».

Nessuna strada la raggiunge però la Missione Catrimani è un luogo d’incontri.

«È così. Pur nella loro grande semplicità, alla missione ci sono strutture che non si trovano altrove. Per questo è il luogo dove la Sesai, l’Isa, Hutukara e anche alcune facoltà universitarie federali organizzano incontri. Siamo arrivati a ospitare anche 200 persone che dormivano ovunque».

Catrimani, suore davanti alla missione

Donne indigene, donne yanomami

Suor Mary Agnes, lei lavora con le donne indigene. Come sono state accolte le sue iniziative nella comunità yanomami?

«All’inizio ci fu molta sorpresa. Gli uomini yanomami si chiedevano (suor Mary Agnes ride di gusto mentre racconta, ndr): “Cosa vogliono fare con le donne? Che razza di incontro è?, Cosa hanno da imparare le donne?, Tutto quello che c’è da imparare s’impara nella comunità”. Per me invece erano esperienze molto interessanti, un sogno che si avverava: lavorare con le donne. Dal 2002 accompagno le donne agli incontri. Il gruppo era composto da alcune donne, un uomo e una suora».

Dalla partecipazione agli incontri tra donne indigene siete passati all’organizzazione. Com’è avvenuto questo cambiamento?

«Era il 2006. Eravamo in sei: quattro donne, un uomo ed io. Andammo dalla Missione Catrimani alla Terra Raposa Serra do Sol. In quell’occasione le donne yanomami mi dissero: perché non lo facciamo anche da noi? Rimasi molto sorpresa da quella proposta, ma segnò l’inizio del nostro percorso».

Quando ci fu il primo incontro di donne indigene ospitato presso la Missione Catrimani?

«Organizzammo il primo incontro nel 2008, un’assemblea aperta anche a donne non-yanomami, progetto reso possibile dall’appoggio della Cei. Alla fine riuscimmo ad avere soltanto un aereo per quattro indigene da fuori, ma le donne yanomami arrivarono numerose da vari luoghi con bambini e mariti.

Fu più interessante la preparazione che la stessa assemblea. Gli uomini mi chiedevano: “Chi cucina se le donne sono sedute ad ascoltare?”. Io mi divertivo. Comunque, riuscimmo ad organizzarci. Le donne erano sedute in cerchio al centro della casa comune e attorno, sulle amache, c’erano uomini e bambini. Non c’era un vero tema dell’incontro. Il tema era lo stare insieme e parlare sulla vita della donna, yanomami e non yanomami.

Negli anni successivi abbiamo dovuto limitarci a invitare le Yanomami. Nel 2010 c’è stato un incontro dedicato alla salute. Nel 2018, per la prima volta, l’incontro – il decimo della serie – si è svolto fuori dalla Missione Catrimani, nella regione di Demini, quella di Davi Kopenawa».

La malaria a Catrimani

Suor Mary, per concludere, in foresta la malaria è ancora molto diffusa?

«Il problema è serio, anche se da tempo noi non contiamo morti. Alla missione siamo attrezzati con un microscopista. L’esame per scoprire la malaria è semplice: lo può fare anche un qualsiasi Yanomami che sappia leggere e scrivere. Questa circostanza ha aiutato molto a non avere eventi mortali. Il fatto che ci siano tanti casi, si pensa che dipenda dagli spostamenti dei garimpeiros e degli stessi indigeni».

Dunque, la malaria c’è, ma oggi è affrontabile. Perlomeno alla Missione Catrimani.

«Sì, perché la Missione Catrimani è un’oasi nella foresta. Un piccolo gioiello».

Paolo Moiola

Terminologia:

  • maloca – la casa comune degli indigeni;
  • sciamano / xapiri-xapuri – intermediario con il mondo degli spiriti;
  • yakoana – sostanza allucinogena utilizzata dagli sciamani (xapiri-xapuri);
  • infanticidio – l’uccisione volontaria del neonato;
  • endo-cannibalismo / antropofagia – forma di cannibalismo rivolta alle persone del proprio gruppo;
  • poligamia – matrimonio nel quale un uomo o una donna possono avere più consorti contemporaneamente;
  • ohi / naiki – fame generica e fame di carne nella lingua yanomae;
  • manioca – arbusto tropicale che fornisce tuberi radicali ricchi di amido;
  • garimpos / garimpeiros – miniere e minatori illegali;
  • mercurio – metallo pesante usato nella purificazione dell’oro e dell’argento;
  • Funai, Sesai – organizzazioni del governo brasiliano per i diritti indigeni (Funai) e per la salute indigena (Sesai);
  • Isa – Instituto Socioambiental, organizzazione civile brasiliana a difesa dei diritti socioambientali;
  • Hutukara – la più importante tra le associazioni degli Yanomami; è guidata da Davi Kopenawa.

(pa.mo.)

 




Somalia, terra di martirio. La beatificazione di suor Leonella Sgorbati

Testi di Enrico Casale e Marco Bello |


La Cattedrale di Mogadiscio dedicata alla Consolata così come è oggi dopo essere stata bombardata.

Il 26 maggio prossimo, a Piacenza, sarà beatificata suor Leonella Sgorbati, missionaria della Consolata. Il 17 settembre 2006 a Mogadiscio suor Leonella è stata freddata con sette colpi sparati a bruciapelo da due killer che non sono mai stati né indagati né giudicati. Con lei è morto anche il somalo musulmano Mahmmed Mahmud, sua guardia del corpo. Suor Leonella aveva 65 anni, di cui 36 passati al servizio in Kenya e poi in  Somalia. Infermiera e formatrice di infermieri, aveva cercato di seminare la pace nel cuore di ragazze e ragazzi senza speranza nel futuro. Ci piace credere che ci sia riuscita, anche perché la scuola da lei fondata continua a funzionare. Vogliamo ricordare in queste pagine la sua storia, intimamente legata alla Somalia, il non-paese, che tuttavia esiste. Anche se ce lo siamo dimenticato.

Marco Bello


Indice:


Il paese inesistente.

La situazione oggi e le forze in campo

Eccetto le due zone autonome non riconosciute, Somaliland e Puntland, la Somalia resta altamente instabile. Il governo è debole e sostenuto (poco) dall’estero. Chi comanda sono i clan e i miliziani jihadisti. Restano presenti sul terreno eserciti di diverse aree del mondo. Mentre il turco Erdogan aumenta i suoi legami (e la sua influenza).

Jazera Beach, la spiaggia di Mogadiscio oggi – AFP PHOTO / Mohamed ABDIWAHAB

Quella somala è la storia di un fallimento nazionale e internazionale. Dal 1991, con la caduta del presidente dittatore Mohammed Siad Barre, il paese del Corno d’Africa vive in una costante instabilità politica e militare. La vecchia Somalia, diventata indipendente nel 1960, è ormai spezzata in tre tronconi. Al Nord, il Somaliland che si è dichiarato indipendente ed è politicamente stabile, ma che finora non è stato riconosciuto a livello internazionale. Nel centro, la regione del Puntland che, sebbene ancora formalmente legata a Mogadiscio, è diventata autonoma, con una propria struttura amministrativa e militare. Infine, il Sud dove le fragili istituzioni di Mogadiscio sopravvivono grazie all’aiuto della comunità internazionale. Le rivalità tra i clan e, soprattutto, la forza di al Shabaab, una milizia legata ad al Qaeda che controlla ampie parti del territorio, mina la possibilità di una ripresa per il paese. A ciò si aggiunge una nuova minaccia: la nascita delle prime cellule dell’Isis formate da ex miliziani fuoriusciti da al Shabaab e da guerriglieri.

Un vento di speranza

Il 16 febbraio 2017, poco più di un anno fa, sulla Somalia soffiava un vento di speranza. Dopo un complesso processo elettorale (che non prevedeva il suffragio universale, ma il voto di grandi elettori espressione dei clan) è stato eletto presidente Mohamed Abdullahi Mohamed, detto Farmajo. La fiducia riposta in lui si basava su un curriculum di tutto rispetto. Ambasciatore della Somalia negli Stati Uniti d’America dal 1985 al 1989, dall’ottobre 2010 al giugno 2011 aveva ricoperto la carica di primo ministro. Non solo, ma, da anni, Farmajo possiede la doppia cittadinanza somala e statunitense, un dettaglio che gli garantisce un sostegno aperto da parte del governo di Washington.

La sua elezione ha quindi destato molte aspettative nella popolazione che ha visto in lui la personalità in grado di portare il paese fuori dalla palude politico-militare in cui è impantanato. Ma il compito è, in realtà, molto difficile. Oggi, la Somalia è uno dei paesi più poveri del mondo: il 43% della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno e dipende quasi totalmente dagli aiuti umanitari, il cui flusso però è compromesso dall’insicurezza generale e dai continui furti. La siccità, una successione di raccolti poveri e un rapido aumento dei prezzi dei prodotti alimentari e del carburante hanno aggravato la condizione socioeconomica somala causando varie crisi alimentari. Attualmente, più di sei milioni di somali, su un totale di circa 14 milioni, necessitano di cibo e un milione è fuggito all’estero per cercare scampo.

«Il presidente Formajo – spiega mons. Giorgio Bertin, vescovo di Gibuti e amministratore apostolico di Mogadiscio – sta facendo del suo meglio. A volte, però, ho l’impressione che le istituzioni statali stiano in piedi solo grazie all’appoggio esterno. Il sostegno estero è comunque relativo perché i partner internazionali hanno loro agende che non sempre coincidono con quella somala. Il presidente dovrebbe impegnarsi maggiormente a sganciarsi dai meccanismi interni ed esterni che lo vincolano, per cercare l’unica cosa che conta veramente: l’appoggio della popolazione più che l’appoggio internazionale».

Sospetti Al Shabaab – UN Photo/Tobin Jones

Eserciti stranieri

Attualmente c’è una massiccia presenza militare straniera nel paese. Dal 2007, l’Unione africana, con l’autorizzazione delle Nazioni unite, mantiene una forza composta da 21mila soldati e 550 poliziotti. Ne fanno parte reparti di Burundi, Etiopia, Ghana, Gibuti, Kenya, Nigeria, Uganda e Sierra Leone. Il ruolo di Amisom, questo il nome della missione, è stato fondamentale nel contrastare il diffondersi delle milizie jihadiste. Ma la missione ha comunque pagato un prezzo altissimo in vite umane. I dati ufficiali non sono mai stati diffusi, ma si stima che nei combattimenti siano morti almeno duemila soldati.

Anche l’Unione europea mantiene un proprio contingente nel paese con il compito di formare i militari del neonato esercito somalo. Questa missione, denominata Eutm Somalia, è comandata da un generale italiano e fa perno su un nucleo di soldati italiani. Nel paese ci sono anche altre presenze militari. Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, nello scorso autunno ha portato il contingente a stelle e strisce a 500 uomini, il numero più elevato dal 1992 quando le truppe americane parteciparono all’operazione «Restore Hope». La Gran Bretagna ha poi una propria base a Baidoa nella quale le truppe speciali formano i soldati di Mogadiscio.

Arrivano i turchi

Sullo scenario somalo è comparso recentemente anche un nuovo attore: la Turchia. A ottobre, Ankara ha inaugurato in Somalia la sua più grande base militare all’estero. Nella grande struttura, che a regime ospiterà più di diecimila soldati, i militari turchi addestreranno i colleghi somali. Costata cinquanta milioni di dollari, la caserma è più di un’installazione militare. Essa è il segno del forte sostegno che il governo di Ankara offre a quello di Mogadiscio.

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha recentemente rafforzato i legami con la Somalia sulla base della comune adesione agli ideali dell’islam politico. Erdogan ha visitato Mogadiscio due volte. Nel 2011 è stato il primo leader non africano in vent’anni a visitare la nazione devastata dalla guerra. Negli ultimi tempi è nata una collaborazione che ha avuto forti ricadute sul terreno. Aziende pubbliche e private turche hanno costruito scuole, ospedali e infrastrutture. Il governo di Ankara ha offerto molte borse di studio e ad alcuni ragazzi somali è stata offerta la possibilità di studiare in Turchia. Anche l’interscambio commerciale è in rapida crescita. Nel 2010 le esportazioni turche in Somalia ammontavano a 5,1 milioni di dollari, nel 2016 a 123 milioni. Nel giro di sei anni la Turchia è passata dal 20° al 5° posto tra i principali esportatori in Somalia.

Guy Oliver/IRIN

E l’Italia?

L’impegno turco supera ormai di gran lunga quello dell’Italia, ex potenza coloniale che, fino alla caduta di Siad Barre, ha avuto un solido rapporto con la Somalia. Attualmente, secondo quanto riporta il quotidiano finanziario «Il Sole 24 Ore» (del 18/01/2018, ndr) dei 165 milioni stanziati da Roma il 21 dicembre 2017 per la cooperazione internazionale, 13 sono destinati a cinque progetti che verranno realizzati in Somalia. Il primo prevede lo stanziamento di 3,7 milioni di euro al Fondo fiduciario delle Nazioni unite che promuove iniziative per il consolidamento dello stato di diritto in Somalia. In questo contesto, per esempio, «è prevista la ristrutturazione dell’edificio della Corte suprema e la costruzione della prigione dello stato regionale di Galmudug per migliorare le condizioni delle struttura nazionale giudiziaria». «Il secondo progetto stanzia 3,2 milioni di euro per finanziare il programma Farms Ifad e, in particolare, per migliorare in modo sostenibile la sicurezza alimentare della comunità del Puntland», con particolare attenzione agli sfollati. «Il terzo progetto contribuisce ad affrontare le sfide legate alla ricostruzione e allo sviluppo infrastrutturale della Somalia distrutte dal conflitto. E lo fa con uno stanziamento di un milione di euro a favore del Somalia Infrastructure Trust Fund della Banca africana di sviluppo. Il quarto progetto stanzia tre milioni per lo sviluppo di filiere produttive agro tecnologiche nelle regioni centrali e meridionali del paese». L’ultimo progetto, due milioni di euro, andrà ad «agevolare e sostenere gli sforzi del governo somalo e delle autorità regionali nella lotta alla disoccupazione e contribuire così alla stabilizzazione della regione del Corno d’Africa».

Rovine dell’hotel Al-Uruba – AU-IST/Tobin Jones

I fondamentalisti

Nonostante questi sforzi in campo politico, militare ed economico, continua nel paese la forte instabilità. Al Shabaab non controlla più le grandi città costiere, ma ha comunque una solida presenza nelle province dell’entroterra. Governata a lungo da Abdi aw-Mohamed, alias Godane (ucciso da un bombardamento Usa nel 2014), nel 2015 la milizia islamica è stata scossa da faide interne che sembravano averne minato la solidità e la capacità operativa. In quei giorni si pensava che i jihadisti fossero stati sconfitti e che si potesse, in qualche modo, riportare la pace in Somalia. Sotto la direzione di Abu Ubaidah però le formazioni islamiche hanno ripreso la loro compattezza e sono tornate ad organizzare attacchi contro le forze dell’Amisom, le ambasciate, i luoghi frequentati da stranieri.

A fianco di al Shabaab, hanno preso vita anche alcune cellule legate allo Stato islamico. Guidate da Abdulqadr Mumin, ex predicatore in Gran Bretagna e Svezia, per il momento hanno piccole dimensioni, ma si sono dimostrate capaci di unire i clan e i sub-clan più piccoli e da sempre esclusi dalla politica somala. Di esse fanno parte, oltre agli ex militanti di al Shabaab delusi, anche miliziani stranieri provenienti dal Medio Oriente dopo la sconfitta dell’Isis in Iraq, Libia e Siria.

«Sì, l’Isis è presente in Somalia – conferma mons. Giorgio Bertin -. Anche la stampa locale ne ha parlato. Le cellule avrebbero base soprattutto nel Puntland, la regione semiautonoma». La presenza dei miliziani di al Baghdadi desta preoccupazione perché in un video reso pubblico a dicembre i jihadisti invitano a «dare la caccia» ai non credenti e ad attaccare le chiese e i mercati. Gli Usa hanno lanciato raid con droni partiti dalle basi in Etiopia, contro gli affiliati dell’Isis facendo numerose vittime.

Ma gli attentati da parte degli islamici continuano, soprattutto a Mogadiscio, la capitale. Basta ricordare l’attacco del 14 ottobre 2017, uno dei più sanguinosi degli ultimi anni, con oltre 300 vittime. «Gli attacchi sono numerosi – afferma mons. Bertin -. Per la popolazione locale la situazione è meno drammatica. Lo è soprattutto per gli stranieri che vedono colpiti i loro luoghi di ritrovo e per questo motivo hanno bisogno di protezione. Quello che è auspicabile è che la popolazione si ribelli a questi attentati e che sia sempre più unita alle forze di sicurezza, e a quelli che cercano di riportare un po’ di legge e ordine in Somalia».

Enrico Casale

Ethiopian National Defence Forces in Hudur, capitale di Bakol Somalia – AU UN IST/Mohamud Hassan


Dall’indipendenza a Formajo

Cronologia essenziale

  • Il presidente della Somalia Mohamed Abdullahi Mohamed – AFP PHOTO / SIMON MAINA

    1960, 1 luglio – Proclamazione dell’indipendenza. Aden Abdullah Osman Daar viene eletto presidente.

  • 1969, 21 ottobre – Colpo di stato dell’esercito, il Consiglio rivoluzionario supremo designa Mohamed Siad Barre, comandante in capo dell’esercito e ispiratore del colpo di stato, come presidente. È rieletto nel 1979 per la seconda volta, e nel 1986 per il terzo mandato.
  • 1988, aprile – Firma di un accordo di pace con l’Etiopia, dopo la guerra dell’Ogaden del 1977-1978.
  • 1989, 9 luglio – Il vescovo cattolico mons. Pietro Salvatore Colombo viene ucciso con un solo colpo di pistola al cuore, nei pressi della cattedrale. L’assassino resterà sconosciuto. Nel 1991 non c’è più nessuno a custodire la cattedrale che durante la guerra civile – iniziata quell’anno e ancora in corso – sarà saccheggiata, bombardata, distrutta e le tombe dei vescovi violate per opera di forndamentalisti islamici.
  • 1989, 14 luglio – Manifestazione dopo l’arresto di capi spirituali musulmani radicali (450 morti).
  • 1990, 6 luglio – Allo stadio di Mogadiscio la guardia presidenziale spara sulla folla che contesta il discorso di Siad Barre. Le vittime sono 62.
  • 1990, agosto – Alleanza di diverse fazioni ribelli, inizia un’offensiva per rovesciare il presidente.
  • 1991, 26 gennaio – Il presidente Mohamed Siad Barre viene destituito. Al suo posto Ali Mahdi Mohamed.
  • 1991, 18 maggio – Il Nord si dichiara indipendente con il nome di Somaliland e capitale Hergheisa.
  • 1991, 18 novembre – Il presidente Ali Mahdi Mohamed viene rovesciato dal generale Mohamed Farah Aidid.
  • 1992, 3 dicembre – Inizia l’operazione militare Restor Hope, eseguita dagli Usa sotto l’egida delle Nazioni Unite.
  • 1993, 23 marzo – Risoluzione dell’Onu che crea l’Operazione delle Nazioni Unite in Somalia (Onusom II).
  • 1993, 3 ottobre – Nella battaglia di Mogadiscio vengono uccisi 18 militari statunitensi e un casco blu per la caduta di un elicottero abbattuto dai miliziani. I morti somali sono centinaia. È il fallimento di Restor Hope.
  • 1994, 20 marzo – La giornalista Ilaria Alpi e l’operatore Miran Hrovatin, entrambi italiani, sono assassinati a Mogadiscio. Stavano conducendo un’inchiesta sui rapporti tra funzionari italiani e Siad Barre, alla fine degli anni Ottanta. Lavoravano anche su una pista di traffici illeciti di armi e rifiuti.
  • 1994, 29 marzo – L’ultimo militare statunitense lascia il paese. Un anno dopo finisce la missione Onusom II.
  • 1996, 1 agosto – Muore il presidente Aidid, gli succede il figlio Hussein Mohamed Farah.
  • 1998, 1 agosto – Il Puntland, nel Nord Est, si dichiara regione autonoma.
  • 2003, 5 ottobre – La missionaria laica Annalena Tonelli viene assassinata con un colpo alla nuca, a Borama, nel Somaliland, dove dirige un centro medico.
  • 2004, agosto – Inaugurazione a Nairobi di un parlamento di transizione in esilio. A dicembre Abdullahi Yusuf Ahmed è eletto presidente di transizione.
  • 2006, febbraio – Prima sessione del parlamento di ritorno dall’esilio, a Baidoa.
  • 2006, febbraio – Scontri a Mogadiscio tra «i signori della guerra» e i miliziani delle corti islamiche. Vinceranno questi ultimi.
  • 2006, 4 settembre – Firma di un accordo di pace provvisorio tra il governo di transizione e le corti islamiche. I negoziati falliranno a novembre.
  • 2006, 17 settembre – Assassinio di suor Leonella Sgorbati, missionaria della Consolata, a Mogadiscio. I responsabili non saranno mai giudicati.
  • 2006, dicembre – L’Etiopia entra in guerra contro le corti islamiche e conquista Mogadiscio insieme al governo di transizione.
  • 2007, gennaio – Gli Usa iniziano dei raid aerei nel Sud del paese contro i jihadisti.
  • 2007, febbraio-aprile – L’Onu autorizza una missione africana per il mantenimento della pace, Amisom. Il governo si installa a Mogadiscio, dove continuano i combattimenti.
  • 2008, agosto – Gli islamisti riprendono Kisimayo.
  • 2009, aprile – Imposizione della Sharia, la legge islamica.
  • 2009, settembre – I miliziani di al Shabaab dichiarano la loro alleanza ad Al Qaeda. Continuano gli attentati contro membri del governo e del parlamento, l’Amison e anche la moschea di Mogadiscio.
  • 2011 – L’Onu decreta lo stato di «emergenza fame» in diverse regioni somale.
  • 2012, settembre – Hassan Cheikh Mohamoud è eletto presidente dai deputati e subito scampa a un attentato.
  • 2017, febbraio – Mohamed Abdoullahi Formajo eletto presidente. A ottobre un attentato a Mogadiscio causa oltre 300 vittime.

Ma.Bel.

Forze della Missione dell’Unione Africana in Somalia (AMISOM) a Kismayo – Phil Moore/IRIN


Leonella Sgorbati,

formatrice di pace in mezzo alla guerra. La suora con il cuore «extra large»

Se lo aspettava, in fondo al suo cuore, il martirio. Il rischio era grande, eppure ogni giorno andava nell’ospedale spinta dall’amore per i suoi studenti e dalla fede in Dio. Pur molto amata in Kenya, dove aveva insegnato e curato per 30 anni, aveva scelto di stare a Mogadiscio per
costruire con le ragazze e i ragazzi che formava come infermieri un futuro migliore. Perché ci credeva, suor Leonella, che un giorno anche la Somalia avrebbe visto la pace.

Sono le 12,30 di domenica 17 settembre 2006. Suor Leonella Sgorbati, 65 anni, sta attraversando la strada che separa l’Ospedale Sos, dove lavora, dal Villaggio Sos, dove vive con altre quattro consorelle, missionarie della Consolata. Torna a casa dopo la consueta mattinata di lezione. A Mogadiscio la situazione è molto difficile e gli stranieri sono presi di mira. Le sorelle non si allontanano mai dai due compound, eccetto che per recarsi all’aeroporto quando devono uscire dal paese. Anche per attraversare quell’unica strada, le suore hanno la scorta.

Nel breve tempo dell’attraversamento, due uomini compaiono da dietro un taxi e fanno fuoco su suor Leonella e Mohammed Mahmud, la sua guardia del corpo, che muore subito. Suor Leonella viene trasportata all’ospedale, dove muore poco dopo con sette proiettili in corpo. Le sue ultime parole sono: «Perdono, perdono, perdono».

A quasi dodici anni da quel giorno, grazie a un grande lavoro delle sue consorelle, la missionaria sta per essere beatificata, il 26 maggio a Piacenza. «Nel marzo dell’anno scorso è stato riconosciuto il martirio di suor Leonella – ci racconta suor Renata Conti, postulatrice generale -. Nel Capitolo del 2011 decidemmo di iniziare la causa di beatificazione. Abbiamo così raccolto la documentazione e realizzato un’inchiesta diocesana approfondita, ascoltando molti testimoni. Il presidente della commissione d’inchiesta era monsignor Giorgio Bertin, vescovo di Gibuti e amministratore apostolico della Somalia. I risultati ci hanno dato ragione e papa Francesco ha emesso il decreto di beatificazione lo scorso 8 novembre».

Infermiera e formatrice

Giunta in Kenya nel 1970, infermiera, lavora nel Consolata Hospital a Mathari, Nyeri e al Nazareth Hospital in Kiambu nei pressi di Nairobi. Si rimette poi a studiare ottenendo due diplomi di livello universitario e diventando formatrice di infermieri. Un passaggio fondamentale della sua esistenza. «Il lavoro in ambito sanitario le fece, ben presto, capire quanto fosse fondamentale preparare personale qualificato che, poco per volta, potesse assumere i ruoli fino allora portati avanti dalle suore. Per fare questo, era necessario istituire delle scuole per infermieri. Suor Leonella sognava in grande: non si sarebbe mai accontentata di qualsiasi risultato, voleva raggiungere alti livelli di qualità. Non era facile, oggettivamente, sebbene fosse entusiasta e capace, alle volte doveva piegarsi di fronte alla difficoltà o impossibilità», scrive suor Renata in un documento sulla vita della beata. «Assunta la direzione della scuola per infermieri a Nkubu, nel Meru (Kenya), una delle sue prime preoccupazioni fu quella di conciliare le regole con la formazione: era infatti chiara per lei l’esigenza di un sistema di insegnamento che includesse una formazione integrale dei giovani. Era proprio il suo punto fermo, ci teneva che gli studenti crescessero umanamente e spiritualmente, che diventassero dei professionisti competenti, ma anche degli operatori sanitari con un cuore accogliente, al servizio della persona che avevano davanti».

La superiora col sorriso

Dal 1993 al 1999 è superiora regionale delle missionarie della Consolata in Kenya, rieletta per due mandati consecutivi. È molto amata, per il suo sorriso accogliente e per un cuore grande. Durante le visite come superiora spesso cita l’Allamano: «Bisogna avere tanta carità da dare la vita. Noi missionari siamo votati a dare la vita per la missione».

Scrive su una circolare per le consorelle del Kenya: «Noi, sia individualmente, che come comunità, dobbiamo renderci disponibili al processo dell’incarnazione del Figlio in noi per poter essere la consolazione del Padre. Cosa significa questo in pratica? Significa accogliere che il Figlio sia libero in ciascuna di noi, in me, libero di perdonare attraverso la mia persona a chi mi reca offesa, libero di spezzare il pane della bontà, della comprensione nella comunità, libero di farmi percorrere l’itinerario che il Padre ha fatto fare a lui, con le scelte che il Padre indica. […] Libero di amare attraverso di me con l’amore più grande, l’amore che va fino alla fine, che è più forte dell’odio e dell’inferno, nella verità, nella pratica di ogni giorno e di ogni momento».

Una scuola per la Somalia

Nel 2001 viene chiamata in Somalia, per fondare una scuola per infermieri sul modello di quella che ha diretto in Kenya.

Il paese ha già vissuto 10 anni di guerra. «L’ospedale Sos era l’unica struttura sanitaria di Mogadiscio che lavorasse in ambito pediatrico a titolo gratuito. Era stata questa Ong (Kinderdorf International) a progettare la scuola per infermieri e a coinvolgere le missionarie della Consolata nella partecipazione e realizzazione del Somali Registered Community Nursing», scrive suor Renata. «La gente la voleva fortemente: erano dieci anni che non si formavano infermieri e medici in Somalia».

Ma il paese è allo sbando e il fondamentalismo musulmano ha oramai preso piede e ogni attività condotta da stranieri, per di più cristiani, è guardata con sospetto. Continua suor Renata nel suo scritto: «In Somalia, al di là della fatica, le sfide erano molteplici su tutti i fronti: anzitutto, il metodo formativo di suor Leonella doveva essere adeguato alla nuova situazione di insegnamento come esigevano le autorità civili. Era, inoltre, indispensabile una formazione integrale che servisse a far crescere i giovani umanamente, in modo da poter servire meglio la vita fragile e ferita dei malati. Come proporre, però, i valori su cui lei aveva sempre fatto leva, in un ambiente musulmano? Si dovevano ricercare elementi comuni tra cristianesimo e islam. Era necessario dimostrare che le nozioni scientifiche che lei promulgava non erano contro il Corano. Bisognava convincere i ragazzi, e l’ambiente in generale, che lei non faceva proselitismo, anzi, che rispettava e valorizzava il dialogo interreligioso. Eppure, c’era chi non ci credeva e pensava che suor Leonella usasse la scuola per convincere i giovani a farsi cristiani».

Una presenza costante

Le missionarie della Consolata erano arrivate in Somalia nel 1924, inviate, in quel tempo, dal fondatore Giuseppe Allamano in persona, che aveva detto al primo gruppo: «Partite, andate tra musulmani; sarà un campo duro, arido, non importa, lavorate, seminate, non aspettate frutti per cinquant’anni, poi il seme frutterà». Da allora c’era sempre stata una presenza costante, divenuta l’unica cattolica ufficiale. Ma nel 1991, a causa della guerra, le religiose hanno dovuto ridurre drasticamente le attività. Vi è rimasto un piccolo gruppo, di quattro, talvolta cinque sorelle, che lavorano come volontarie all’ospedale Sos Kinderdorf International, Ong presente nel paese dal 1983, che opera in favore dei bimbi senza famiglia o in difficoltà. «Una presenza che la Santa Sede di chiedeva di mantenere», spiega suor Renata.

L’assassinio di suor Leonella e della sua guardia del corpo spezza questa continuità. «Noi saremmo rimaste – ci racconta suor Renata – ma l’Ong ci impose di andare via. Il giorno stesso del viaggio della salma di suor Leonella a Nairobi, le nostre sorelle dovettero partire. E non siamo mai più tornate. Tuttavia diciamo che per noi la Somalia non è “chiusa”, ma “sospesa”; ci fosse uno spiraglio di luce potremmo eventualmente tornare».

Quando è arrivata in Somalia suor Leonella non c’erano scuole per infermieri in tutto il paese. Lei ne ha creata una di buon livello e riconosciuta dall’Oms sia per ragazzi che ragazze.

«Inoltre, lei era simpatica, gioviale, capace di farsi voler bene. I giovani, i suoi allievi la adoravano. E anche questo era mal visto, perché i radicali musulmani dicevano che convertiva i ragazzi al cristianesimo. Era una novità formare anche le ragazze. Di fatto si dava una speranza a questa gioventù, ma questo non è piaciuto ai fondamentalisti islamici perché formare i giovani è, per loro, un rischio». Con tutta probabilità è questo il motivo per cui è entrata nel mirino di qualche gruppo islamista.

Pressioni e intimidazioni

«In quel paese non era permessa l’evangelizzazione, si poteva solo testimoniare il Vangelo con la vita. La Somalia era, ed è, per il 99.99% musulmana con forze interne tendenti all’estremismo islamico. Vi erano manifestazioni frequenti e reazioni impreviste e violente nei confronti dei pochi cristiani, e questi erano costretti a visitare le suore di nascosto perché avevano molta paura di venire scoperti. I fondamentalisti cercavano, con tutti i mezzi, di forzare le sorelle, quattro in tutto, ad abbracciare la loro fede. Suor Marzia Feurra (superiora della comunità, oggi in missione a Gibuti, ndr) più volte fu assediata dai fondamentalisti perché diventasse musulmana: non potevano accettare che la loro gente fosse curata e aiutata da cristiani.

Sul giornale locale scrissero molte volte contro l’Ong Sos e contro le suore, avvertendo la gente di guardarsi bene da loro perché stavano cercando di fare proseliti. La gente, però, non dava peso a quanto veniva scritto, sapeva che era solo propaganda, ed ebbe sempre una grande fiducia nelle sorelle. Tutto questo e altro ancora, richiedeva una prudenza non comune perché non si era mai sicuri se il fratello che ti stava dinanzi era un amico o un nemico», racconta suor Renata.

Inoltre nel periodo in cui suor Leonella viene uccisa, c’è molta tensione a livello mondiale. Il 12 settembre, 5 giorni prima dell’uccisione, papa Benedetto aveva pronunciato il discorso di Ratisbona, nel quale una citazione dell’imperatore bizantino Manuele II il Paleolgo1, è stata ritenuta particolarmente offensiva per i musulmani, e in un clima già incendiario, ha creato reazioni a livello planetario. Dall’indignazione di alcune cariche islamiche ufficiali, alle manifestazioni di piazza, a violenze contro chiese e strutture cattoliche nel mondo, fino a minacce di morte verso il papa stesso.

Ratzinger esprimerà poi «vivo rammarico» per quelle reazioni sottolineando che: «Il mio era un invito al dialogo franco e sincero». Ma il danno è compiuto e chi vuole approfittare della situazione internazionale, e soprattutto dell’impunità che garantita da questa tensione, lo ha già fatto.

«“Noi dobbiamo dimostrare ai cristiani chi siamo”, dicevano nelle moschee. Ma gli unici cristiani in Somalia erano le nostre sorelle», ricorda suor Renata.

Una presenza che continua

Un fatto importante è che la scuola per infermieri fondata e organizzata da suor Leonella è ancora funzionante. «Il livello è un po’ sceso, ma continua a formare giovani», assicura la postulatrice. «È gestita oggi da ragazzi e ragazze che suor Leonella ha formato e fatto crescere. Lei aveva questo approccio: formare le persone locali affinché prendano in mano le opere». Una visione lungimirante dunque, che non si ferma al tempo di una presenza esterna, ma vuole gettare radici profonde.

Perché il martirio

Suor Simona Brambilla, superiora delle Missionarie della Consolata, ricorda così la beata: «Rivisitare il percorso di suor Leonella fino al suo martirio e oltre, significa venire a contatto col mistero della vita di una persona amata e amante. Significa affacciarsi su una vita che è porta tra cielo e terra, tra grande e piccolo. Significa essere ammesse a varcare, con trepidazione e gratitudine, una soglia sacra, una porta di Dio. Questo è il senso del nostro celebrare suor Leonella: celebrare un mistero di amore e dolore, di vita e di morte, intrecciate in un sacro, fecondissimo abbraccio; celebrare la consegna totale di Leonella al suo sposo, ma anche di Dio alla sua sposa.

Così, suor Leonella consegnava la sua vita: “La tua vita, il tuo amore, il tuo sangue… riceva la mia vita, il mio amore, il mio sangue… mi sento povera, incapace, accoglimi ugualmente, sono certa del tuo amore e della tua accoglienza”».

Chiediamo a suor Renata i suoi sentimenti sulla beatificazione: «Sono molto felice perché io ci credo a questo martirio. Non è stato un incidente. Suor Leonella si è preparata a questo evento, per tutta la vita. Nel cuore ha sempre avuto un’adesione costante al Signore, anche con alti e bassi come ognuno di noi. Era una persona molto radicale, nelle sue scelte». Il governo italiano di allora a non ha fatto nulla per scoprire la verità sull’assassinio della connazionale. Il ministro degli Esteri era Massimo D’Alema. Ricorda suor Renata: «Non fecero assolutamente niente. All’inizio dell’inchiesta ecclesiastica, avevo tentato andando alla Farnesina, ma mi hanno detto: “È meglio che non indaghi, è meglio non esporsi”. Inoltre non c’è stato nessun processo in loco. Abbiamo accolto questo fatto con dispiacere, ma non c’è stato alcun intervento da parte ufficiale».

Le spoglie di suor Leonella sono portate a Nairobi, dove il 21 settembre 2006, viene celebrato il funerale alla presenza di tantissima gente, autorità, missionarie e missionari, operatori dell’Ong, amici.

«Suor Leonella è morta inseguendo la visione di una Somalia stabile e pacifica – dice monsignor Giorgio Bertin durante l’omelia per il suo funerale2. «Lei era convinta che una nuova Somalia, guarita dal flagello della guerra civile è possibile. […] La sua vita, il suo sorriso e la sua innocenza ci dicono che un mondo nuovo è possibile, una nuova Somalia è possibile. Lei fu ispirata dalla convinzione che il nuovo mondo che Gesù è venuto ad annunciare è già cominciato qui sulla Terra. E non è una coincidenza che morì insieme a un uomo musulmano. […] Vivere insieme, nonostante le differenze, richiede la conversione del cuore, speranza, determinazione e perseveranza».

Marco Bello

Note

(1) «Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava».
(2) Agenzia Cisa, 21 settembre 2006.


«Ho vissuto con una santa»

Il ricordo di suor Marzia, che è stata in Somalia con suor Leonella

Funerale e sepoltura di sr Leonella Sgorbati

Suor Leonella era una persona del tutto normale, con le sue doti e le sue fragilità. Amava la sua vocazione e la sua famiglia religiosa, metteva tutto il suo entusiasmo nel realizzare la missione che Dio le aveva affidato e pur di realizzarla non guardava al sacrificio.

Amava le sorelle, ed era sempre presente alle attività comuni, la ricreazione per lei era sacra.

Anche nei momenti di tensione per la difficile situazione che stavamo vivendo a causa della guerra, lei aveva sempre quel senso di «humor» e cercava di tirarci fuori.

Penso che facesse la differenza l’intensità d’amore con cui lei agiva, facendo sì che le cose ordinarie diventassero straordinarie.

Suor leonella aveva un fuoco dentro che la divorava e questo si percepiva nel suo comportamento: voleva aiutare tutti, salvare tutti, si prendeva a cuore i problemi di ognuno e scherzosamente diceva che avrebbe voluto ritirare tutti i fucili della Somalia.

Aveva un carattere molto forte e volitivo con la sua tenacia e costanza riusciva a superare tante situazioni difficili e di rischio. La chiamavamo il «vulcano», sempre in eruzione. Aveva idee e progetti nuovi da presentare, tutti molto belli e utili per la gente, ma dovevamo fare i conti con la situazione che stavamo vivendo, che non ci permetteva di espanderci perché eravamo persone non gradite, e in tanti modi eravamo tenute d’occhio e sotto controllo.

Molte volte ci siamo trovate in situazioni veramente difficili e queste richiedevano da noi un discernimento non facile: «Partire o restare?». Partire voleva dire mettere in salvo la nostra vita che ha il suo valore. Restare voleva dire rischiare, ma di fronte alle necessità della gente nessuna di noi si sentiva di lasciare la missione, perché l’ospedale SOS era l’unico centro che aiutava i poveri e salvava tante vite.

Al mattino arrivando in ospedale si vedeva molta gente che pazientemente aspettava il proprio turno per essere visitata: donne a rischio della vita per i parti difficili, bambini disidratati e denutriti ecc. Di fronte a queste emergenze dimenticavamo tutti i nostri problemi ed eravamo felici di stare con la gente e donare loro un aiuto concreto. Ci dava tanto coraggio la parola del nostro padre fondatore, il Beato Allamano, che incoraggiava la fedeltà alla missione anche a costo della vita.

Quando suor Leonella è giunta in Somalia la situazione religiosa e politica andava sempre più deteriorandosi, e la lotta tra i gruppi si faceva sempre piu serrata, creando sempre nuovi focolai di guerra che davano tanta insicurezza.

Al contrario del Kenya, un paese libero dove la chiesa è una forza, la Somalia è un paese chiuso e a rischio, dove tutto è sotto controllo e la piccola chiesa viveva come nelle catacombe. Nessun segno religioso, tutto era stato distrutto, la cattedrale bruciata e le chiese rase al suolo.

L’unico Tabernacolo presente in Somalia era in casa delle suore e noi eravamo l’unica presenza di chiesa, anche se avevamo la messa solo ogni tre mesi, perché era impossibile la presenza di un sacerdote, la presenza di Gesù Eucaristia ci dava tanta energia e tanta forza per continuare il cammino.

Il pensiero di tenere questa piccola presenza di Chiesa Cristiana in un paese totalmente musulmano ci dava tanta speranza e ci aiutava a superare le tante difficoltà di ogni giorno.

Per suor Leonella la Somalia ha avuto un impatto molto forte. Per lei questa impotenza è stata come un martirio, ma non si è mai scoraggiata, mai ha ceduto le armi, e anche se con tanta fatica, ha sempre cercato di ubbidire alla limitazione dell’ambiente perché Gesù Eucaristia era la sua forza.

suor Marzia Feurra

Annalena Tonelli


Gli italiani uccisi in Somalia, terra dell’impunità

Quattro omicidi. Quattro italiani. Tanti sospetti. Mons. Salvatore Colombo, Annalena Tonelli, Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sono le vittime di quattro casi che collegano in modo misterioso e drammatico l’Italia alla Somalia.

Monsignor Salvatore Colombo

Quella di mons. Salvatore Colombo è una storia dimenticata. Vescovo di Mogadiscio, viene assassinato il 9 luglio 1989. L’assassino è rimasto senza nome né volto, e non si sa perché abbia ucciso il prelato e se, dietro quell’omicidio, ci fossero mandanti eccellenti. È stato il regime a ucciderlo? Oppure c’erano altri interessi? Una possibile pista, ricostruita da «Avvenire», potrebbe essere quella delle tante ombre della cooperazione italiana in Somalia. Un ex agente dei servizi segreti italiani Aldo Anghessa è perentorio: «Monsignor Colombo era contro la Giza, cioè una delle maggiori imprese italiane in affari con il regime di Barre». Questo lo portò a scontrarsi contro i poteri forti di Mogadiscio. Il vescovo inoltre si rifiutava di distribuire gli aiuti della Caritas come chiedeva Barre, che pretendeva andassero a chi diceva lui. Anche questo potrebbe avergli attirato le ire del dittatore somalo. Nessuno ha mai indagato. E oggi, dopo la distruzione della cattedrale di Mogadiscio e dei suoi archivi, ricostruire la vicenda e risalire ai colpevoli è diventato impossibile.

Su di lui si può leggere: Massimiliano Taroni. Mons. Salvatore Colombo, vescovo dei poveri e martire della carità, Ed. Velar, 2009.

Annalena Tonelli

Anche il caso di Annalena Tonelli rimane (in parte) irrisolto. Forlivese, laureata in legge a Bologna, si trasferisce a Nairobi a 26 anni come missionaria laica. Da quel momento non lascia più l’Africa e lavora per aiutare poveri e ammalati. «Il mio primo amore – dirà – furono i malati di Tbc, la gente più abbandonata, più respinta, più rifiutata». La Tonelli studia una cura per guarire la Tbc in sei mesi contro i 12 o i 18 necessari fino ad allora, ma gli ammalati devono rimanere nel luogo di cura, non a casa. Lei mangia pochissimo, dorme quattro ore a notte, possiede due tuniche e uno scialle e si concede solo, ogni tanto, un po’ di caffè. Di fronte all’emergenza Aids, inizia a occuparsi anche dei malati colpiti da quel virus. Si attira le invidie dei capi locali. Alcuni di essi organizzano manifestazioni contro di lei perché «accoglie i malati di Aids e contagia una comunità di puri». La accusano poi ingiustamente di prendere i contratti dell’Onu senza coinvolgerli e consultarli. Nonostante i tentativi di riappacificazione, le tensioni rimangono. Il 5 ottobre 2003, Annalena viene uccisa con un colpo di fucile nel suo ospedale di Borama, in Somaliland.

Ilaria Alpi e Miran Hrovatin

Oscuri anche i motivi della morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, giornalista e cineoperatore della Rai, freddati il 20 marzo 1994 a Mogadiscio. Da allora processi, commissioni parlamentari e inchieste giornalistiche non sono riusciti a fare chiarezza sulla vicenda. Ciò che si sa è che i due giornalisti del Tg3 erano in Somalia per seguire il ritorno in patria del contingente italiano inviato in missione di pace nel Corno d’Africa. La Alpi però stava indagando su un traffico di armi e rifiuti tossici che coinvolgeva «i signori della guerra» locali e navi provenienti dall’Italia. Nel caso si mescolano interessi italiani e somali, depistaggi. Le note del Sismi (servizi segreti italiani) del 1994 confermano i risultati di molte inchieste giornalistiche svolte negli anni: «Ilaria Alpi è stata uccisa perché indagava su un traffico di rifiuti e armi. I mandanti vanno ricercati tra militari somali e cooperazione». Sono passati ormai 24 anni e ricostruire una verità giudiziaria è sempre più complesso. Non rimane che tessere le fila di un contesto politico e militare per ottenere almeno una verità storica.

Enrico Casale

20 ottobre 2017. preghiera in piazza dopo l’attacco terroristico del 14 ottobre che ha lasciato 276 persone uccise e oltre 300 ferite –  AFP PHOTO / Mohamed ABDIWAHAB


Un sacerdote a Mogadiscio

Incontro con il cappellano militare degli italiani

È un’eccezione: oggi un prete cattolico in Somalia può essere solo quello dell’esercito. Padre Stefano Tollu spiega la sua scelta e ci racconta, da una posizione di osservazione privilegiata, la vita nella capitale somala e gli incontri clandestini con i rarissimi cristiani di quel paese. Una comunità che si autodefinisce «in via di estinzione».

È l’unico sacerdote cattolico a Mogadiscio. Un prete in un mondo musulmano. Non è un parroco e neppure un religioso. È il cappellano del contingente militare italiano di Eutm, la missione di formazione e addestramento delle forze armate somale. Padre Stefano Tollu non è però estraneo all’Africa. Per anni ha servito come salesiano in Angola e Kenya. Oggi la sua missione è, forse, più difficile di quella svolta un tempo: offrire assistenza spirituale ai militari e al personale delle organizzazioni internazionali in un contesto particolare come quello somalo. Un ambiente complesso nel quale ha avuto occasione di incontrare anche il leader della piccola comunità cristiana locale che vive nascosta.

Missionario con le stellette

La strada di padre Tollu dall’Angola alla Somalia non è stata facile né lineare. È lui stesso a raccontarla: «Nasco come salesiano di don Bosco e, dopo gli studi di filosofia, ho vissuto undici anni in Angola e Kenya dove mi sono formato teologicamente e pastoralmente. Nel 2015, al mio ritorno in Italia, ho preso la scelta sofferta di non continuare a servire il Signore nei salesiani. È emersa la possibilità di svolgere il servizio presso l’Ordinariato militare. Ho accettato. Nel 1991-92 avevo svolto il servizio militare di leva negli alpini. Quello è stato un momento fondante della mia personalità e della mia spiritualità. Allo stesso tempo, ho sempre avuto amici nelle forze armate. Come capellano lavoro tra professionisti, spesso messi alla prova da situazioni complesse, alle quali rispondono con sacrificio e dedizione, non sempre riconosciute».

Non porta armi, non ha una preparazione militare. Il suo è un servizio spirituale. «L’esperienza missionaria mi ha aiutato molto – continua -, poiché mi ha dato la capacità dell’ascolto e della temperanza, ma anche la propensione all’elasticità e all’incontro verso l’altro. In questa nuova dimensione ho scoperto una purificazione interiore del mio servizio sacerdotale, laddove è aumentata la mia attenzione non al “fare”, ma all’essere strumento del Signore. È stato per me traumatico il non sentirmi compreso in questa mia scelta. Tante persone che per anni mi sono state vicine sono rimaste sorprese dal mio andare con i militari. Sono stato etichettato come “prete guerrafondaio” o traditore, parole forti che mostrano come non sia compreso il nostro servizio da tanti fratelli cristiani. Ho scoperto però in queste sofferenze, grazie alla preghiera e alla sana solitudine, la forza necessaria per camminare in questa nuova strada della mia vocazione».

Padre Stefano incontra i militari, li visita nei loro uffici, parla e scherza. Entra in confidenza con loro. E i militari si aprono a lui. Gli raccontano i loro problemi spirituali e personali. Nella sua diversità si sente sempre missionario «poiché sono in costante movimento, andando alla ricerca dell’altro, del fratello, porgendogli e condividendo con lui il Signore, nella mia fragile povertà umana». Lo scorso anno gli viene offerta la possibilità di tornare in Africa al seguito della missione italiana in Somalia. Padre Tollu accetta.

Soldati dell’AMISOM – AU UN IST/Ilyas A. Abukar

Somalia blindata

«L’opportunità di svolgere la mia missione all’estero mi fa sentire a casa – osserva -. Sono al servizio del contingente italiano, ma con il permesso del mio vescovo e delle forze armate, mi sono messo a disposizione del personale non italiano, assistendo anche i lavoratori ugandesi presenti nella nostra base, i soldati del Burundi della base accanto alla nostra, i lavoratori di Fao, Nazioni Unite e Ong. Le mie messe sono una bellissima Babilonia di preghiere in italiano, francese, inglese, kirundi, swahili e altre lingue ancora».

A Mogadiscio è l’unico sacerdote cattolico. In tutta la Somalia, compresi i pastori protestanti, i religiosi cristiani sono quattro o cinque. «Il cappellano militare del contingente del Burundi, padre Albino, lavora nel Nord della Somalia – osserva padre Stefano -. In sei mesi ci siamo visti due volte. Con piacere accompagno i suoi ragazzi di nazionalità burundese ed è una bellissima testimonianza di unità della Chiesa. Ho avuto il piacere di celebrare l’Eucarestia del Natale con il pastore Rodriguez, battista, cappellano degli Usa. Lui si trova a Gibuti e, nell’impossibilità di seguire i suoi connazionali qui a Mogadiscio, ha chiesto la mia disponibilità. La risposta era scontata poiché, prima ancora che me lo chiedesse, mi ero messo a disposizione di tutti». Difficile invece per lui incontrare i musulmani. «La realtà islamica è frammentata con leader legati a diverse scuole coraniche – chiarisce -. Non ho avuto il piacere di incontrarli. Mi auguro che, nel futuro, una volta liberato il paese dalle infiltrazioni terroristiche, si possano creare le condizioni per corrette e benevoli relazioni con i fratelli di fede islamica».

Il primo ministro della Somalia, Abdiweli Sheikh Ahmed, ferma un accordo col governo del Puntland il 14 ottobre 2014 – Unisom

Cristiani nascosti

Più complessa invece la relazione con i somali. La situazione di insicurezza in cui versa il paese, i continui attentati (3-4 volte a settimana a Mogadiscio) impediscono un ruolo strutturato all’esterno della base. «Quando esco con i militari, accompagnandoli nei luoghi dove svolgono l’addestramento delle truppe somale – osserva -, lo faccio sempre rispettando le norme di sicurezza. Giubbotto antiproiettile, elmetto e un soldato che rimane sempre al mio fianco. Raramente posso uscire e, quando ciò accade, è per condividere un pezzetto della quotidianità di una parte dei miei ragazzi».

La Somalia però lo ha impressionato. Così diversa dal Kenya e dall’Angola che ha conosciuto in passato eppure non così disastrata come viene presentata all’estero. «Quando ho attraversato Mogadiscio ho avuto la sensazione di una città spaventata, con la popolazione abituata a convivere con la paura, con l’insicurezza, con la non progettazione del futuro – racconta -. Rispetto a Luanda, capitale dell’Angola, tuttavia, ho notato maggiore pulizia e una migliore organizzazione. Un esempio: nella favelas della Lixeira dove ho vissuto per anni c’era un solo dentista per un milione di persone. Qui ne ho visti svariati. Allo stesso tempo, la militarizzazione della città, in risposta alle orribili azioni di al Shabaab, mi rattrista».

Nei suoi giorni nella capitale somala ha avuto l’occasione di fare un’esperienza unica per un sacerdote: incontrare i cristiani somali che, pur perseguitati, continuano a professare la loro fede in clandestinità e fra mille pericoli. Ho potuto conoscere Mosè – racconta padre Tollu -: è un cristiano cresciuto nella realtà del Protettorato italiano e poi nella Somalia indipendente, ma ancora molto legata al nostro paese. In molti lo considerano il portavoce dei cattolici somali. Lui definisce la sua comunità come una realtà in via di estinzione». Da una ventina di anni a questa parte ha infatti preso piede una versione intollerante della fede coranica. Al Qaeda e la sua filiale locale, al Shabaab, sono una minaccia continua per i musulmani non fondamentalisti e per i cristiani. Negli ultimi mesi si è poi affacciato anche lo Stato islamico che ha creato le prime basi nel Puntland. Un ulteriore pericolo per i cristiani locali. Il rischio arriva anche all’interno delle stesse famiglie dei cristiani. È ancora padre Tollu a parlare: «Mosè mi ha raccontato che “quelli nati dagli anni ‘90 in poi”, così li ha chiamati, sono diventati intolleranti e non comprendono i loro vecchi che professano il cristianesimo. Allora gli anziani fuggono, si allontanano dai loro figli e dai loro nipoti, perché potrebbero far loro del male». Mosè ha mostrato a padre Tollu una lista di cristiani morti recentemente, alcuni per cause naturali, altri per cause violente. «Gli ho promesso di ricordarli nella Santa Messa – dice padre Tollu -. Mosè, triste in volto, mi ha risposto: “Ecco lui e lei sono stati uccisi dai figli dei loro figli. Ormai la violenza è nelle case e noi, che siamo rimasti in pochi, rischiamo la vita ogni giorno”».

I pochi fedeli cattolici non possono avere un’assistenza spirituale continua. «Al momento – conclude – non esistono le condizioni di sicurezza per un sacerdote per svolgere serenamente il suo servizio a Mogadiscio. Mi auguro che in futuro, una volta liberato il paese dalle infiltrazioni terroristiche, si possano ricreare le condizioni minime per la presenza cristiana nella città. Ho promesso di pregare per loro durante la Messa. Siamo uniti nella preghiera quotidiana, fratelli in Cristo perseguitati e obbligati a nascondere la nostra fede».

Enrico Casale

Bambini somali a scuola nel campo di rifugiati di  Dollo Ado, Ethiopia. – J. Ose/UNHCR


Video su suor Leonella Sgorbati

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