Missionari martiri. I molti Romero

 

Il 24 marzo la Chiesa italiana celebra la giornata dei missionari martiri. Secondo il rapporto annuale di Fides nel 2023 sarebbero stati 20 quelli uccisi mentre erano impegnati nell’annuncio in contesti difficili. Le loro storie di «cristiani normali» sono la testimonianza della presenza viva del Vangelo tra gli ultimi.

Sono le 21 del 29 marzo 2023. Fratel Moses Simukonde Sens, 35 anni, viene ucciso da un proiettile nei pressi di un posto di blocco militare a Ouagadougou, capitale del Burkina Faso.

Originario dello Zambia e attivo dal 2016 prima in Niger e poi in Burkina Faso, fratel Moses, membro dei Missionari d’Africa (padri Bianchi) è uno dei venti «battezzati impegnati nella vita della Chiesa morti in modo violento» nel 2023 censiti dal rapporto annuale di Fides, l’agenzia di stampa delle Pontificie opere missionarie.

Gli altri diciannove sono un vescovo, otto sacerdoti, un altro religioso non sacerdote, un seminarista, un novizio e sette tra laici e laiche. «Quest’anno il numero più elevato torna a registrarsi in Africa – scrive Stefano Lodigiani, curatore del rapporto -, dove sono stati uccisi nove missionari: cinque sacerdoti, due religiosi, un seminarista, un novizio. In America sono stati assassinati sei missionari: un vescovo, tre sacerdoti, due laiche. In Asia […] quattro laici e laiche. Infine in Europa è stato ucciso un laico».

Il rapporto di Fides sottolinea che la normalità di vita è l’elemento che accomuna tutte le vittime: nessuna azione eclatante o impresa fuori del comune che avrebbero potuto farle entrare nel mirino di qualcuno. «Scorrendo le poche note sulla circostanza della loro morte violenta troviamo sacerdoti che stavano andando a celebrare la Messa o a svolgere attività pastorali in qualche comunità lontana; aggressioni a mano armata perpetrate lungo strade trafficate; assalti a canoniche e conventi dove erano impegnati nell’evangelizzazione, nella carità, nella promozione umana. Si sono trovati a essere, senza colpa, vittime di sequestri, di atti di terrorismo, coinvolti in sparatorie o violenze di diverso tipo».

Giornata di preghiera

Per ricordare questi venti missionari, ma anche tutti i cristiani, cattolici e di altre confessioni, che nel mondo ogni anno perdono la vita mentre testimoniano la fede in Cristo, la Chiesa italiana celebra il 24 marzo la Giornata di preghiera e digiuno in memoria dei missionari martiri.

Istituita nel 1992 su proposta Movimento giovanile delle Pontificie opere missionarie, ora Missio Giovani, si è deciso di celebrarla nel giorno dell’anniversario dell’uccisione, nel 1980, di monsignor Oscar Romero in Salvador: un difensore degli oppressi, assassinato dagli oppressori.

La giornata è l’occasione per ricordare tutte le situazioni difficili nelle quali i cristiani, laici e consacrati, comunicano il Vangelo, spesso tramite la promozione umana, la difesa dei diritti degli ultimi, la tutela dell’ambiente.

Online, sul sito di missioitalia.it si possono trovare diversi strumenti per celebrarla. Tra essi, anche una scheda di presentazione di un progetto missionario che i Missionari della Consolata hanno attivato in Marocco nella missione di Oujda per soccorrere i migranti che transitano attraverso il confine tra Algeria e Marocco con il sogno di arrivare in Europa.

Luca Lorusso




Festival della Missione 2022. Svelare l’umano condivisibile


Quattro giorni di convegni, aperitivi missionari, mostre, laboratori, spettacoli. Cento ospiti, centoventi testimonianze, duecento volontari, trentamila partecipanti. Grandi quantità legate a grande qualità e profondità nell’affrontare temi cruciali. Per la vita della Chiesa e della società.

Arriviamo alle colonne di San Lorenzo, a Milano, nel pomeriggio di giovedì 29 settembre.

Sta per iniziare uno dei molti eventi in programma in questa piazza fino a domenica 2 ottobre nella cornice del secondo Festival della Missione. Il cielo è incerto se chiudersi o lasciare il campo a un sole intenso e caldo.

Qui c’è il cuore della movida milanese e, allo stesso tempo, il cuore storico della chiesa Ambrosiana. La basilica sorta tra il IV e il V secolo, infatti, è tra le più antiche della città, e oggi si trova in un contesto di vie molto affollate non distanti dal Duomo, disseminate di bar, locali e negozi.

Sul sagrato, nello spazio suggestivo tra la facciata della chiesa e le antiche colonne, è allestito un palco con megaschermo. L’immagine proiettata è quella di un gomitolo composto da fili di diversi colori dal quale ne esce uno rosso a comporre la parola «missione». È il logo del Festival: un globo terrestre che non presenta confini ma i colori intrecciati dell’umanità. Il tema dell’intero evento è «Vivere perdono»: un gioco di parole nel quale il dono è, allo sesso tempo, causa e fine del vivere.

Diverse file di sedie iniziano a riempirsi di persone attorno alla statua che troneggia al centro della piazza: l’imperatore Costantino, quello che firmò nel 313 d.C. il famoso editto di Milano che concesse libertà di culto ai cristiani.

La missione in piazza

La prima edizione del Festival della Missione si è tenuta a Brescia nel 2017 (cfr MC dicembre 2017, p. 14). Un’occasione di festa, incontro e scambio missionario così entusiasmante da convincere i due organismi promotori, la fondazione Missio e la Cimi (Conferenza degli istituti missionari italiani di cui fanno parte 14 istituti ad gentes: 6 femminili e 8 maschili), a organizzarne, cinque anni dopo, una seconda edizione.

In entrambe le manifestazioni, sia a Brescia che a Milano, la missione si è fatta presente in piazza, tra la gente.

Ma perché portare in strada la missione e i «suoi» temi?

Di certo perché «la ricchezza delle esperienze missionarie è ricchezza per tutti» – come ha detto don Giuseppe Pizzoli, direttore della fondazione Missio, alla conferenza stampa di presentazione del 19 settembre -, e quindi vale la pena portarla tra la gente, raccontando le storie di persone che nel mondo vivono «per dono», come ha aggiunto Lucia Capuzzi, giornalista di «Avvenire» e direttrice artistica del Festival, parafrasando il tema della quattro giorni.

Di certo per «far crescere la missione nella società italiana», nella convinzione che «la fede si rafforza donandola e non difendendola» – come ha chiosato in quella stessa sede padre Fabio Motta, missionario del Pime e rappresentante della Cimi -.

Ma anche per portare in superficie e porre all’attenzione di tutti, cristiani e non, alcune «tracce dell’umano condivisibile: gli spazi, i valori, le sfide, i sogni che ci accomunano tutti come esseri umani», come ci dirà Agostino Rigon, direttore generale del Festival, che sentiremo dopo la sua conclusione.

I linguaggi della missione

Quando abbiamo deciso di partecipare al Festival e abbiamo letto il programma degli eventi sul sito festivaldellamissione.it, siamo stati colpiti dalla varietà di temi e di ospiti. Il mondo missionario vuole comunicare con la città attraverso i linguaggi che gli sono propri: quelli della testimonianza, della Scrittura, della fede, della spiritualità, della teologia; ma anche tramite quelli (che non gli sono estranei) dell’economia, della politica, dell’ecologia integrale, dei diritti umani, dell’etica, della giustizia.

Forse perché impegnati quotidianamente a confrontarsi faccia a faccia con i poveri, gli ultimi, gli scartati di ogni latitudine, con i conflitti, le conseguenze dei cambiamenti climatici e dello sfruttamento indiscriminato della terra, i missionari non possono fare a meno di domandarsi (e domandare) il perché, e di denunciare quali sono i meccanismi che schiacciano nella marginalità la maggior parte della popolazione mondiale (la «violenza strutturale», direbbe Johan Galtung, o le «strutture di peccato», secondo Giovanni Paolo II).

Storie di «semplici» missionari

Dato che diverse iniziative del Festival si terranno in contemporanea, a malincuore siamo costretti a scegliere.

Parteciperemo ad alcuni incontri nei quali «semplici» suore, famiglie, sacerdoti missionari racconteranno le loro esperienze in terre lontane (o vicine).

Ascolteremo, ad esempio, suor Dorina Tadiello, sorella comboniana, già missionaria in Uganda, a Roma e Verona, che da due anni fa parte della comunità intercongregazionale di Modica, provincia di Ragusa, composta da sacerdoti e suore di diversi istituti religiosi che condividono la vita e la fede per fare accoglienza di persone migranti.

Sentiremo le parole appassionate di don Dante Carraro, medico cardiologo dall’87, sacerdote dal ‘91, e dal 2008 direttore dell’Ong Medici con l’Africa Cuamm, con la quale viaggia spesso in Angola, Etiopia, Mozambico, Tanzania, Sierra Leone, Sud Sudan, Repubblica Centrafricana e Uganda.

E poi la testimonianza ricca e colorata di Chiara Bolzonella e suo marito Mauro Marangoni che, con tre anni di missione fidei donum in Kenya alle spalle e cinque figli, hanno fondato nel padovano, assieme ad altre tre famiglie, la comunità Bethesda per condividere il Vangelo nella forma dell’accoglienza e dell’animazione spirituale.

Di giustizia, diritti, vangelo e altro

Parteciperemo poi ad altri eventi nei quali sentiremo parlare di giustizia riparativa dalla ministra Marta Cartabia (che verrà in seguito sostituita nel nuovo governo da Carlo Nordio) con il prof. Adolfo Ceretti, grande promotore della restaurative justice in Italia come all’estero; di «economia che uccide» dall’ex presidente del consiglio Mario Monti con suor Alessandra Smerilli, figlia di Maria Ausiliatrice, insegnante di Economia politica e Segretaria del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo umano integrale del Vaticano. Ascolteremo Patrick Zaki in collegamento dal Cairo parlare di diritti umani e della sua situazione di attivista sotto processo nel suo paese; il cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana, condividere riflessioni sull’annuncio della Parola; il leader indigeno Adriano Karipuna denunciare la situazione di violenza e devastazione subita dal suo popolo e dalla foresta Amazzonica.

Parteciperemo, tra le altre cose, al laboratorio sull’agenda 2030 e a una sfilata di moda «etica».

Faremo anche un aperitivo missionario e visiteremo una delle mostre allestite in diversi luoghi della città.

non solo Numeri

Nell’arco dei quattro giorni del Festival più di cento ospiti si alterneranno sul palco in trenta eventi e convegni, centoventi missionari «testimonieranno» la loro esperienza agli «aperitivi» organizzati in ventisette bar e bistrot del centro, saranno coinvolte dieci piazze, quattro musei, ci saranno otto mostre, undici percorsi artistici con visite guidate in basiliche e chiese, quattordici presentazioni di libri e incontri con gli autori, sei proiezioni di documentari, cinque spettacoli, dieci laboratori per bambini, ragazzi e giovani, un torneo di calcetto, una serata di racconto e sfilata di moda. I partecipanti saranno circa 30mila.

Semi di futuro

Guardandoci attorno, mettiamo a fuoco alcuni volti di missionari conosciuti, alcune famiglie, molti giovani, veli di suore.

C’è un gruppo un po’ chiassoso che si infila nell’edificio dell’oratorio della parrocchia di San Lorenzo. Lì è stata allestita «Casa Missione»: stanze con tavoli e sedie, una macchinetta per il caffè, il bagno, un fasciatoio, un luogo per riposare nelle pause tra una conferenza e la proiezione di un documentario, e magari mangiarsi un panino facendo due chiacchiere con qualche sconosciuto che diventerà presto un volto amico.

Ci avviciniamo a uno dei gazebo del Festival per la registrazione. Uno dei duecento volontari ci consegna il libretto con l’elenco di tutte le proposte. Abbiamo la conferma che a molte non potremo partecipare, ma siamo consolati dalla promessa di ritrovare, in seguito, molti dei contenuti del Festival sul web. Alcuni degli incontri ai quali non potremo partecipare li potremo fruire a casa, andando sul canale Youtube
@FestivaldellaMissione.

Il volontario ci sorride e, prima che noi ci allontaniamo, ci consegna una bustina di carta contrassegnata con il logo e i colori della kermesse. «Vivere per dono» c’è scritto. Dentro alla bustina si sentono rotolare alcuni semi di piante a sorpresa. È l’auspicio di questo secondo Festival della Missione: essere un seme da piantare nella terra con la fiducia che qualcosa di buono e bello spunterà.

Luca Lorusso

Fare rete per dire la missione

A distanza di qualche settimana dal Festival, abbiamo sentito alcuni dei protagonisti del dietro le quinte per raccogliere impressioni «a freddo»: Agostino Rigon, direttore generale del Festival, padre Piero Masolo, direttore operativo, ed Elisabetta Grimoldi, del consiglio direttivo.

Elisabetta Grimoldi

Elisabetta è una laica missionaria saveriana, promotrice del coordinamento dei laici missionari legati ai diversi istituti ad gentes in Lombardia e, tra le altre cose, membro del Suam (l’organo della Cimi per l’animazione missionaria). È manager per un’azienda multinazionale. Si fa chiamare Betty: «Da qualche anno sono nel comitato dei laici lombardi legati agli istituti missionari di cui fanno parte anche le Famiglie missionarie a Km0 e i laici fidei donum. Già da tempo lavoravamo in rete, poi il Festival ci ha spronato a farlo ancora di più. Io sono stata scelta come rappresentante dei laici a livello nazionale, e, durante la preparazione, con Emanuela Costa (Famiglie missionarie Km0) e Claudia Del Rosso (di Missio), abbiamo cercato di aprire i confini della rete coinvolgendo realtà come il Mato Grosso, la Papa Giovanni XXIII e altre».

Le chiediamo cosa le è piaciuto di più del Festival. «Il dono dell’accoglienza, i legami creati tra tante reti. Il fatto che le relazioni proseguono ancora oggi. Questo significa che la rete non aveva come unico fine quello dell’evento. C’è desiderio di continuare assieme. Poi mi sono piaciuti i contenuti, e il fatto che ci fossero tante realtà a costruirli. Infine, il tentativo di intercettare chi è fuori dal mondo missionario e dalla Chiesa».

Padre Piero Masolo

Padre Piero Masolo è un missionario del Pime (Pontificio istituto missioni estere), sacerdote dal 2008, è stato sette anni in Algeria. Lavora al centro missionario della diocesi di Milano. La sua funzione di direttore operativo del Festival ha aiutato a raccordare «la macchina» organizzativa con il territorio. Gli chiediamo se, secondo lui, l’obiettivo dei promotori di far incontrare i tanti soggetti del mondo missionario tra loro e di comunicarsi al di fuori è stato raggiunto. «Sì. I feedback sono positivi. Intanto le 30mila presenze sono già un dato importante. Poi dobbiamo tenere conto anche del grande lavoro fatto nel “pre Festival”. Volevamo che il tutto fosse un percorso e non un evento: è il percorso che può dare frutto. Oggi, ad esempio, molte persone in diocesi ci chiedono di aiutarli a trasformare in realtà quotidiana l’atmosfera di incontro del Festival. Si cammina». Chiediamo quali sono le ricadute positive per la chiesa missionaria di quanto fatto: «Uno: non è vero che la missione è una ciliegina sulla torta. È, anzi, quel filo rosso del logo che tiene assieme il gomitolo. La Chiesa è missionaria, oppure non è. È lo spirito con il quale appartenere alla Chiesa. Questo penso che sia stato recepito da chi ha seguito il Festival. Due: l’evento dice anche che uniti non si è insignificanti. A volte noi missionari ci lamentiamo di non venire ascoltati. Ok, ma noi come ci proponiamo? Il Festival ha provato una modalità nuova di proporre la missione a tutti, e mi pare ci sia riuscito».

Agostino Rigon

Agostino Rigon è il direttore generale del Festival. Ha alle spalle sei anni di Messico e molti anni di lavoro missionario in Italia. È l’attuale direttore dell’ufficio missionario di Vicenza. «Il desiderio dal quale è nato il Festival era triplice. Uno: superare l’autoreferenzialità dei soggetti missionari, vincere la fatica di interfacciarci tra di noi e con il mondo. Il secondo desiderio era quello di aiutare lo svelamento dell’umano condivisibile: non volevamo che il Festival fosse un’occasione per parlarci addosso, volevamo, invece, portare in evidenza gli spazi, i valori, le sfide che ci accomunano tutti come umani. Per questo il Festival ha ascoltato anche voci estranee al mondo ecclesiale. Terzo: mettere in luce la bellezza del Vangelo come dono per la vita del mondo. Attraverso il racconto delle storie di molti missionari, mostrare che ci sono ragioni di vita che ispirano uomini e donne a vivere e a servire l’umanità».

Questo triplice desiderio si è realizzato? «Io direi di sì. Non come obiettivo raggiunto, ma per i passi avanti fatti. Ad esempio, la Cimi e Missio non avevano mai lavorato insieme con tanta corresponsabilità e convergenza di visione, e mai avevamo creato una tale rete di alleanze con cui parlare dell’umano condivisibile».

Anche ad Agostino domandiamo cosa è piaciuto di più della manifestazione: «La sinodalità: nel consiglio direttivo eravamo decine di soggetti diversi e ho visto che tutte le cose fatte con un’intesa comune sono state quelle più belle. La sinodalità intesa come esperienza di relazioni e corresponsabilità molto pratica e concreta.

Un altro aspetto è “la contaminazione”: abbiamo visto che è possibile condividere valori e sfide, sogni e speranze con molte più persone di quante immaginassimo. A volte ci consideriamo un’isola che lavora controcorrente, invece c’è una moltitudine di gente che condivide tante cose e ha sete e fame di fare sistema e impegnarsi con altri».

E adesso cosa si fa? «È un discernimento che spetta a tutti, non solo agli organizzatori del Festival. Sono stati proposti metodi, idee, occasioni, ma poi bisogna che ciascuno li faccia propri».

Il prossimo Festival? «L’idea è di fare il Festival ogni 3 anni, ogni volta in una sede diversa. Il prossimo potrebbe essere nel centro Italia o al Sud… ma è tutto da verificare».

L.L.

Un laboratorio sinodale

I quattro giorni del Festival della Missione di Milano, che hanno visto la partecipazione di 30mila persone, non sono stati «solo» un evento, ma l’apice di un percorso che, cominciato nel 2020 con la sua ideazione e progressiva attuazione in una serie di iniziative «pre Festival», prosegue ancora oggi con il «post Festival».

Promosso da Fondazione Missio (Cei) e Cimi (Conferenza istituti missionari in italia) e realizzato dall’Arcidiocesi di Milano in rete con più di 70 partner, sia ecclesiali che laici, tra istituzioni, sponsor, diocesi lombarde, media, enti formativi, associazioni, Ong, fondazioni, il Festival è stato, ed è ancora, un laboratorio di «sinodalità».

Padre Piero Masolo, missionario del Pime, direttore operativo del Festival, fa un elenco di diciannove ambiti nei quali la «sinodalità» della rete messa in campo dagli organizzatori si è espressa nei mesi scorsi, a volte a livello nazionale.

Per citarne solo alcune, ricordiamo le proposte didattiche che hanno raggiunto 64mila studenti nelle scuole dell’interland milanese nell’anno scolastico 21/22; i progetti di giornalismo a livello universitario; i gemellaggi internazionali tra gruppi di ragazzi del Nord e del Sud del mondo; la proposta di un song contest rivolto ad adolescenti e giovani, sfociato nel concerto del 2 ottobre a Milano; il cosiddetto «cantiere festival», cioè l’organizzazione di eventi, conferenze, serate, testimonianze, spettacoli, momenti di preghiera, di dialogo interconfessionale e interreligioso, giornate di spiritualità da parte dei centri missionari diocesani, degli istituti missionari, di altre congregazioni religiose, monasteri, gruppi di tutta Italia; i percorsi di giustizia riparativa per i detenuti di Agrigento e Campobasso, e sul dialogo islamo-cristiano nelle carceri di Busto Arsizio e di San Vittore a Milano.

Dal «pre Festival», a fine settembre si è passati al Festival. Dai quattro giorni di Milano, si è passati ora al «post». Succederà presto, anche se non sappiamo ancora quando, che dal «post» si passerà a un nuovo «pre» che ci accompagnerà a un nuovo percorso.

L.L.

 




Stati Uniti. Alaska, l’ultima frontiera

Un’aquila calva in inverno nel National Kenai Fjords Park, in Alaska. Foto Jeff Carpenetti – NPS.

Sommario

Alaska, il pianto dei ghiacciai

Viaggio nello stato Usa più grande e spopolato

Nel 49° stato degli Usa – posto a ridosso del Circolo polare artico – il cambio climatico è molto più evidente che altrove. Come dimostra il rapido scioglimento dei ghiacciai con tutte le conseguenze che ciò comporta. Eppure, oggi si discute su come portare le trivellazioni petrolifere in altre aree dello stato. Aree ancora intonse e selvagge.

Seward (Kenai). È una fila di cippi in legno, ciascuno con segnato un anno: 1830, 1917, 1926, 1951, 2015… Distano qualche decina di metri l’uno dall’altro: più recente è l’anno, maggiore è la distanza tra un cippo e l’altro, una distanza che misura il regresso del ghiacciaio. I numeri parlano da soli. Tra il 1815 e il 2015, esso si è ritirato di 2,5 chilometri con una progressione costante: da 19,7 metri all’anno a 29,4 (2006-’10) a 44,5 (2011-’15). In questi ultimi anni poi, l’«eccezionale» (secondo la University of Alaska-Fairbanks) incremento delle temperature medie ha ulteriormente accelerato il ritmo dello scioglimento.

Quei cippi in legno sono come lapidi funerarie che rammentano, a chiunque voglia vedere, l’agonia di Exit, questo il nome del ghiacciaio, il più accessibile tra i 35 ospitati dall’altopiano di Harding, nel Kenai Fjords National Park, sulla penisola del Kenai, a Sud di Anchorage, la città più grande (290mila abitanti) dell’Alaska.

Il ritiro di Exit è impressionante, ma probabilmente il sentimento più forte è la tristezza di vedere una meraviglia della natura contrarsi, rattrappirsi come un corpo che invecchia. Exit è soltanto uno degli oltre 27mila ghiacciai (dato 2021) dell’Alaska, che, in totale, occupano circa il 5 per cento del suo territorio (costituito a Sud dalla taiga e a Nord dalla tundra).

Oggi l’Alaska – 49° stato ad aderire agli Usa (3 gennaio 1959), il più grande (quasi sei volte l’Italia) e il meno popolato (meno di 800mila abitanti) – è la rappresentazione plastica e tangibile dei mutamenti climatici.

L’Alaska sta sperimentando profonde alterazioni ambientali dovute a eventi meteorologici estremi e mutamenti nel clima storico. Le conseguenze – temperature più alte, perdite di ghiaccio marino, riduzione del manto nevoso, degradazione del permafrost, inondazioni, incendi, acque dell’oceano più calde e cambiamenti dell’ecosistema (sia marino che terrestre) – stanno producendo impatti sulla vita quotidiana degli abitanti dello stato.

L’innalzamento della temperatura varia notevolmente da regione a regione, con il riscaldamento nelle parti settentrionali e occidentali che è doppio rispetto al tasso riscontrato nell’Alaska Sudorientale. L’International Arctic Research Center (Iarc, Università di Fairbanks, 2019) ha, infatti, registrato temperature fino a 3,2 gradi Celsius più elevate nelle zone settentrionali, fino a 2,0 gradi Celsius nelle zone meridionali e fino a 1,1 gradi Celsius lungo le coste e negli arcipelaghi.

Lo sbocco finale di Exit, ghiacciaio da anni in drammatica ritirata. Foto Paolo Moiola.

Se crescono più alberi

Le poche strade dell’Alaska hanno caratteristiche precise: dritte, lunghissime e praticamente senza traffico, si addentrano tra la taiga o la tundra. La taiga è l’ambiente tipico dell’Alaska meridionale. Più si procede verso il centro e verso Nord, più gli alberi si riducono in dimensioni (diventano piccoli e sottili) e numero, fino a scomparire del tutto, dando origine alla tundra. Tuttavia, negli ultimi anni, a causa dei mutamenti climatici, questa ha mostrato una crescita verde (greening, più piante) maggiore rispetto alla media nel lungo periodo. Un fenomeno evidenziato anche nei parchi nazionali dall’innalzamento della cosiddetta «linea degli alberi» (treeline). Come nel parco del Denali dove il passaggio dalla taiga alla tundra si distingue nitidamente. «Guardate – ci fa notare Laurie, una guida del parco -, oggi gli alberi crescono più in alto. Con conseguenze a catena, in primis sulla fauna».

Per ammirare il parco dall’alto e in particolare il Denali (per quasi un secolo chiamato Monte McKinley), per prominenza la terza montagna al mondo (6.138 metri), il piccolissimo aeroporto di Talkeetna è la base di partenza migliore. Fondata nel secondo decennio del Novecento, con circa mille abitanti ufficiali, la cittadina è, a conti fatti, una strada fiancheggiata da una fila di ristorantini e negozietti.

Entriamo al Village Arts and Crafts, uno dei piccoli empori aperti a beneficio dei turisti. Alla cassa c’è Ruth Cook, la proprietaria, una donna anziana e minuta. «Sono qui da tutta la mia vita – racconta con voce amichevole -, e ho visto tante cose cambiare. Sono cresciuti i turisti, i rifiuti e la mancanza di rispetto. E, soprattutto, i mutamenti causati dall’aumento delle temperature».

Anche se oggi il cielo è molto coperto e la pioggia incombente, i piccoli velivoli decollano da Telkeetna: volare sulla catena montuosa del Denali è un’esperienza imperdibile perché permette di ammirare lo spettacolo delle vette e dei ghiacciai. E, infatti, le aspettative sono ampiamente ripagate. Tuttavia, ai nostri occhi inesperti la visione dall’alto non consente di distinguere i segni della malattia climatica. Segni che invece appaiono evidenti in un’altra zona geografica.

Will Popoli non ha ancora vent’anni e studia geologia e storia all’Amherst College, nel Massachusetts. A McCarthy-Kennicott, all’interno del vastissimo parco nazionale Wrangell St. Elias, sta facendo esperienza come guida con l’agenzia St. Elias Alpine Guide.

Mentre, con i ramponi ai piedi, camminiamo sul Root Glacier, ci spiega le cose essenziali del ghiacciaio: i detriti morenici, la colorazione blu del ghiaccio e, soprattutto, la sua progressiva riduzione. «Sì, penso che in Alaska stia accelerando la velocità con cui i ghiacciai si stanno sciogliendo. Questo è un fatto molto preoccupante». Il Root è un affluente del Kennicott, il ghiacciaio principale. Le ricerche degli scienziati confermano che questo continua a ritirarsi ed espandere l’area coperta da detriti.

Dominio conservatore

Va riconosciuto che i 16 parchi nazionali dell’Alaska, a cui vanno aggiunti i National wildlife refuges (rifugi nazionali per animali selvatici), hanno finora rappresentato una diga contro gli interessi dei politici repubblicani e le mire dei signori del petrolio. Ma cosa pensano gli alaskani della situazione ambientale del loro stato?

Nelle conversazioni, la sensazione è che nessuno neghi gli effetti della crisi climatica, ma – allo stesso tempo – sono in molti a ritenere i mutamenti ambientali come un fenomeno naturale negando o sminuendo le responsabilità umane. Una constatazione questa che trova spiegazione (anche) nella storia dell’Alaska.

Già dal 1867 (anno in cui gli Usa l’acquistarono – a prezzo di saldo – dalla Russia zarista), la regione è stata terra di conquista del Gop (Grand old party), il partito conservatore statunitense che, per Dna, considera il cambio climatico alla stregua di una fake news. Come hanno dimostrato anche le elezioni locali (sia primarie che suppletive) dello scorso 16 agosto (e quelle di mid-term dell’8 novembre), dominate da esponenti repubblicani, eccezion fatta per la performance della democratica Mary Peltola, candidata di etnia Yup’ik, il maggiore tra i popoli indigeni dello stato (che, in totale, rappresentano il 21% della popolazione). La Peltola ha sconfitto addirittura Sarah Palin, l’ex governatrice (ed esponente del Tea Party) sostenuta da Trump.

Per ironia della sorte, le votazioni alaskane di agosto si sono tenute nello stesso giorno in cui un redivivo Joe Biden firmava la legge nota con l’acronimo di Ira (Inflation reduction act of 2022), un piano in cui sono previsti 369 miliardi di dollari di investimenti per l’energia e il contrasto ai cambiamenti climatici.

Vista aerea di un tratto della catena del Denali.

Andare oltre Prudhoe Bay?

La crisi climatica che ha investito l’Alaska è certificata da decine di studi scientifici, eppure oggi non si discute su come contrastare o, almeno, mitigare la contrazione dei ghiacciai. No, si discute di come portare le trivellazioni petrolifere nel Nord dello stato, al di fuori di Prudhoe Bay (davanti al Mar Glaciale Artico), il sito dove, da 45 anni, si estrae il petrolio dell’Alaska. Lo stato è il sesto produttore statunitense, ma la produzione è in costante declino dal 1990, arrivando oggi a 448mila barili al giorno contro i due milioni di un tempo (dati Eia, 2020).

L’espansione avverrebbe sia a Nord Ovest (nella National petroleum reserve-Alaska) che a Nord Est, nella ragione al confine con il Canada e nota come Arctic national wildlife refuge, paradiso ancora incontaminato dei caribou (renne selvatiche), ma anche di orsi (compresi quelli polari), volpi artiche, alci, buoi muschiati e lupi grigi. Dopo il permesso di esplorazione petrolifera nell’area concesso da Trump già nel dicembre 2017, il presidente Biden è riuscito – almeno per ora – a fermare il progetto (ordine esecutivo del 20 gennaio 2021).

Tuttavia, la partita non è certamente chiusa, soprattutto nella National petroleum reserve-Alaska, dove – sotto la superficie della tundra – sono state individuate vaste riserve d’idrocarburi.

Qui il progetto di trivellazione della ConocoPhillips – noto con il nome di Willow project – è stato approvato da Trump nel 2020, fermato dai tribunali nel 2021 e ancora in corso di valutazione da parte dell’amministrazione Biden da luglio 2022.

In agosto, i cartelloni elettorali di Lisa Murkowski, senatrice repubblicana dell’Alaska (considerata moderata e ben vista anche da alcuni avversari perché anti trumpiana), erano visibili anche nei posti più impensabili e disabitati dello stato.

La senatrice ha ottimi rapporti con l’industria petrolifera e, in particolare, proprio con la ConocoPhillips, il principale produttore (con ExxonMobil e Chevron che seguono a distanza) dell’Alaska, compagnia da cui lei ha ricevuto anche fondi per la propria campagna elettorale. Non stupisce, pertanto, che la Murkowski appoggi il Willow project. «Produrrà – scrive la senatrice – fino a 160mila barili di petrolio al giorno e creerà oltre duemila posti di lavoro ben pagati per gli abitanti dell’Alaska». Ben diversa è la posizione degli scienziati e della Wilderness society: Willow è una bomba al carbonio (carbon bomb) che aggiungerebbe più di 250 milioni di tonnellate di CO2 all’atmosfera nei prossimi 30 anni e probabilmente stimolerebbe la costruzione di strade, oleodotti e impianti di lavorazione.

Come prevedibile, il progetto è altamente divisivo tra gli stessi nativi. L’Arctic slope regional corporation (Asrc), società degli Iñupiat (creata nel 1972 in seguito all’Ancsa, la legge sulle terre), lo appoggia, mentre gli indigeni ambientalisti (per esempio, quelli riuniti nell’Alaska climate alliance) lo contrastano con forza. Ma si tratta di una lotta impari perché l’industria petrolifera è «la vacca sacra della politica dell’Alaska» (the sacred cow of Alaskan politics), secondo la definizione dell’Earth island institute di Berkeley.

Disastri ambientali e dollari

Lo si capisce anche a Valdez, tra le penisole, i fiordi e i «ghiacciai di marea» (quelli che terminano nell’acqua del mare) dello stretto Prince William.

Il suo piccolo porto ha un fascino particolare, con i pescherecci, i battelli turistici e gli uccelli in attesa dei resti del pesce che, appena sbarcato sulla banchina, viene subito tagliato e ripulito da addetti rapidissimi. Più lontana e defilata, confusa nella nebbia, c’è un’altra banchina, molto anonima. Alla fonda c’è una lunga nave cisterna e sulla terraferma, posti in posizione sopraelevata, dei grandi serbatoi circolari e un lungo serpente di tubi. È la stazione finale del Trans Alaska pipeline system (Taps), l’oleodotto che, dal 1977 e per 1.300 chilometri, attraversa l’Alaska da Nord a Sud.

Le sue tubazioni, innalzate a un metro dal terreno (per questioni di permafrost), affiancano la strada da Prudhoe Bay a Fairbanks (seconda città dello stato, situata a circa 200 chilometri dal Circolo polare artico) fino al terminal di Valdez. È da qui che, nel marzo del 1989, partì una superpetroliera della multinazionale Exxon che s’incagliò poco dopo riversando nel golfo dell’Alaska milioni di litri di petrolio, producendo uno dei peggiori ecocidi (morirono, tra l’altro, balene, lontre marine, salmoni, uccelli marini, aquile) della storia moderna, con l’inquinamento di duemila chilometri di costa e 28mila chilometri quadrati di oceano: a 33 anni da quel disastro non si è ancora tornati alla normalità.

Eppure, nonostante problemi e rischi ambientali, il petrolio e l’oleodotto che lo trasporta continuano a foraggiare gran parte del bilancio dell’Alaska e sono anche un persuasivo strumento politico, come ben sa Mike Dunleavy, il governatore repubblicano dello stato. Già a luglio, con la dovuta enfasi accentuata dalla vicinanza delle elezioni (poi vinte), Dunleavy aveva annunciato che, dal 20 settembre, a ogni residente alaskano sarebbe stata pagata la somma di 3.200 dollari come dividendo derivante dallo sfruttamento delle risorse petrolifere e minerarie dell’Alaska. In realtà, il Pfd (Permanent fund dividends) non costituisce una novità, considerato che viene distribuito ogni anno dal 1976 rappresentando per molte famiglie una fonte di reddito importante in uno stato con un costo della vita elevatissimo.

Trivelle versus ambiente

Alla fine, anche in Alaska, il dibattito è sempre lo stesso: una visione economicista e di corto respiro (lo sfruttamento delle risorse petrolifere) ma molto ben pubblicizzata, contro una visione dell’esistenza più complessiva e più preoccupata del futuro della «casa comune».

«The last frontier», si legge sovente sulle targhe automobilistiche dell’Alaska. In verità, l’ultima frontiera territoriale è divenuta l’ultima frontiera climatica: luogo simbolico in cui i ghiacciai si sciolgono a un ritmo sempre più sostenuto, ma dove l’homo politicus prosegue con tracotanza su strade che, al di là delle circostanze attuali (guerra e tensioni internazionali), la natura e la storia hanno già bocciato.

Paolo Moiola

Uno scorcio dell’altopiano di Harding nel Kenai Fjords National Park. Foto Paolo Moiola.

Da Jack London ad Alex

Autobus 142, ultima fermata

Un elicottero della Guardia nazionale preleva il famosissimo autobus 142 dalla foresta del Denali (19 giugno 2020); oggi il mezzo è esposto all’Università di Fairbanks. Foto Alaska National Guard Public Affairs.

Jack London e Charlie Chaplin, ma anche il fumetto di zio Paperone. Personaggi diversi con storie diverse, ma con un elemento in comune: l’Alaska e la corsa all’oro che, a fine Ottocento, richiamò in quelle regioni almeno centomila cercatori. Il californiano Jack London aveva solo 21 anni quando – era il 1897 – sbarcò in Alaska per fare fortuna. Non trovò il prezioso metallo, ma trovò la fama scrivendo due piccole gemme della letteratura The call of the wild (Il richiamo della foresta) e White Fang (Zanna bianca).

L’attore e regista Charlie Chaplin in realtà non girò The gold rush (La febbre dell’oro) in Alaska, ma ricreò quei luoghi in maniera stupefacente considerando che correva l’anno 1925. Sia la versione muta del film che quella sonora (uscita nel 1942) sono considerati capolavori del cinema mondiale.

Nel 1947 arrivò anche zio Paperone (Uncle Scrooge), i cui ideatori fanno risalire la sua immensa fortuna all’oro trovato nel fiume Klondike, nella regione canadese dello Yukon, ai confini con l’Alaska.

Non cercava l’oro, ma una diversa esperienza di libertà il giovane Alex Supertramp (soprannome di Chris McCandless) che, nell’agosto del 1992, morì di fame e di stenti in un vecchio autobus – verniciato di bianco e verde e segnato con il numero 142 – abbandonato dal 1961 nelle foreste dell’Alaska, vicino al Denali National Park. La sua storia, tanto straordinaria quanto tragica, è stata raccontata in un libro (di Jon Krakauer) e poi in un film (di Sean Penn) dal titolo Into the wild. Il 19 giugno 2020 l’autobus 142 (conosciuto come «Magic bus») è stato trasportato all’Università dell’Alaska, a Fairbanks. Ultima fermata per una moderna icona di libertà.

Pa.Mo.

 

Non chiamateli Eschimesi

I popoli nativi

In Alaska, ci sono oltre centosettantamila indigeni (alaskan natives) divisi in una decina di gruppi principali. Il loro destino non è dissimile da quello dei popoli autoctoni di altre regioni del mondo: la difficile lotta per la terra e per preservare la propria cultura. Con un problema in più: la cooptazione nel sistema dei bianchi attraverso una legge del 1971.

Anchorage. Nel buio della stanza, i volti illuminati dei nativi risaltano sul grande schermo interattivo. Ognuno racconta la propria storia. Una storia incredibile, a lungo tenuta nascosta e ancora oggi poco conosciuta.

«Durante gli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta – si legge -, i nativi del Nord dell’Alaska furono deliberatamente esposti a radiazioni senza esserne a conoscenza o senza il loro consenso. Gli esperimenti inclusero la somministrazione di pillole ad alta radioattività di iodio (I-131) per studiare come l’ambiente freddo influisse sulla ghiandola tiroidea. I rifiuti radioattivi furono bruciati vicino ai villaggi per testare come le radiazioni si diffondessero nell’Artico».

Gli esperimenti rientravano nell’ambito del «Project Chariot» della Commissione statunitense per l’energia atomica il cui obiettivo dichiarato era la creazione di una baia per costruire un porto a Point Hope, un piccolo e isolatissimo villaggio Iñupiaq, attraverso l’utilizzo di ordigni atomici.

L’installazione – chiamata «cold treatment» (trattamento a freddo) – si trova nello spazio Alaska Exhibition all’interno dell’Anchorage Museum, il moderno e interessantissimo museo della più grande città alaskana.

La vicenda del Project Chariot e quanto raccontato nella sala dedicata ai popoli nativi dell’Alaska (Smithsonian arctic studies center gallery) porta ad affermare che la storia dei nativi dell’Alaska è identica a quella di tanti altri popoli indigeni invasi, uccisi, conquistati o schiavizzati dai bianchi.

Un Athabascan con i propri cani da slitta (1936). Foto esposta all’Anchorage Museum.

Cittadini di seconda classe

Il quattordicesimo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, che prevede la cittadinanza a chi nasca sul territorio nazionale, risale al 1868. Incredibilmente ne rimasero esclusi i nativi americani. Non avendo la cittadinanza statunitense, non potevano vantare diritti sulla terra, a tutto beneficio dei bianchi. Essi furono cittadini di seconda classe per ben 56 anni. Infatti, soltanto nel 1924 il Congresso emanò l’«Indian citizenship act» che concedeva la cittadinanza (e, quindi, il diritto di voto) anche a loro. Tuttavia, alcuni stati vietarono ai nativi di votare ancora per decenni. L’ultimo a conformarsi al dettato costituzionale fu il Maine nel 1954.

Per vedere posto un limite al processo di assimilazione e riconosciuto il diritto all’autodeterminazione, i nativi dovettero però attendere fino al 1934, quando il presidente Roosevelt firmò l’«Indian reorganization act». Ancora più lunga fu l’attesa per la completa libertà religiosa che arrivò soltanto nel 1978 con l’«American indian religious freedom act».

I nativi dell’Alaska e l’Ancsa

Era comune riferirsi ai popoli nativi dell’Alaska e delle altre regioni artiche (Siberia, Nord del Canada e Groenlandia) con il termine di «Eschimesi» (Eskimo, in inglese). L’etimologia non è chiara, spaziando da «fabbricanti di racchette da neve» a «mangiatori di carne cruda» a «scomunicati» (perché non cristiani). Introdotto dai colonizzatori bianchi, il termine andrebbe evitato essendo considerato razzista e dispregiativo, oltre che generico, visto che si riferisce a etnie con tratti fisici e culturali (ad esempio, la lingua) diversi.

La riscossa indigena iniziò il 5 novembre 1912 quando undici nativi (del gruppo dei Tlingit) e una nativa fondarono la Fratellanza dei nativi dell’Alaska (Alaska native brotherhood, Anb), seguita nel 1914 dalla Sorellanza (Alaska native sisterhood, Ans).

Le due organizzazioni si prefiggevano la promozione della solidarietà tra le popolazioni autoctone, il raggiungimento della cittadinanza statunitense (ottenuta nel 1924), l’abolizione del pregiudizio razziale e il riconoscimento dei diritti economici attraverso l’attribuzione dei titoli sulla terra e sulle risorse minerarie, nonché la difesa del salmone, loro alimento essenziale.

Dopo l’ammissione nell’unione statunitense come 49° stato, avvenuta il 3 gennaio 1959, l’Alaska divenne ancora di più terra di conquista.

Nel 1966, Willie Hensley, un Iñupiaq nato poche decine di chilometri sotto il Circolo polare artico, fondò la Federazione dei nativi dell’Alaska (Alaska federation of natives, Afn) allo scopo di difendere le terre indigene.

La questione fondiaria divenne esplosiva nel 1968, quando la Atlantic-Richfield Company (Arco, oggi Bp Amoco) scoprì ingenti riserve di petrolio a Prudhoe Bay, sulla costa artica dello stato, e, successivamente, propose la costruzione fino al porto di Valdez di un oleodotto (il Trans Alaska pipeline, Tap), che transitava su territori indigeni.

Una soluzione fu trovata con la legge sulla risoluzione dei reclami dei nativi dell’Alaska (Alaska native claims settlement act, Ancsa), firmata da Richard Nixon il 18 dicembre 1971. «Una pietra miliare nella storia dell’Alaska e nel modo in cui il nostro governo tratta i nativi», commentò il presidente. Per essi la legge stabilì un’assegnazione di terre (44 milioni di acri, pari a circa il 13 per cento dell’intero territorio), una compensazione monetaria (quasi un miliardo di dollari) e un’organizzazione dei nativi in società a scopo di lucro (corporations, 12 più una nata in seguito) e villaggi (200) attraverso cui gestire le terre da loro occupate e i profitti derivanti dallo sfruttamento delle risorse minerarie (petrolio, in primis). L’impatto dell’Ancsa sulle popolazioni autoctone fu enorme dando loro potere e influenza, ma non fu privo di conseguenze negative su stili di vita e cultura.

Una famiglia di nativi in una foto esposta al Museo di Anchorage. Foto Anchorage Museum.

Chi sono, quanti sono

Stando agli ultimi dati (U.S. Census bureau, 2020), oggi in Alaska si contano 172.712 indigeni, pari al 21,86 per cento della popolazione, la percentuale più alta tra gli stati americani.

Secondo l’Alaska federation of natives (Afn), si distinguono una decina di gruppi principali distribuiti in specifiche regioni del paese: Iñupiaq e Yup’ik di San Lorenzo (Alaska Nordoccidentale, Mare di Bering e isola di San Lorenzo); Yup’ik e Cup’ik (Alaska Sud occidentale); Athabascan e Dena’ina (Alaska interna); Alutiiq (o Sugpiaq; nel Kenai, Kodiak, Prince William Sound) e Aleut (o Unangax, sulle isole Aleutine); Eyak, Tlingit, Haida, Tsimshian (Alaska Sud orientale). Per consistenza i gruppi maggiori sono gli Yup’ik (34mila), gli Iñupiaq (20.800) e i Tlingit (14mila).

Le comunità native più isolate, quelle non raggiungibili via strada (chiamate «bush communities»), vivono ancora oggi della pesca (salmone e halibut, soprattutto) e della caccia di animali selvatici (renne-caribou e alci-moose, in primis).

Mary Peltola: «I am pro fish»

Per i popoli indigeni dell’Alaska una buona notizia è arrivata lo scorso agosto (e ribadita l’8 novembre nelle elezioni di mid term) con l’entrata di una loro rappresentante nel Congresso degli Stati Uniti. Lei – Mary Peltola, democratica di etnia Yup’ik – è la prima nativa alaskana eletta deputata a Washington.

Nata a Bethel, sul fiume Kuskokwim, cinquanta anni fa, la donna è un avvocato e una politica specializzata nella difesa della pesca in Alaska. Tanto che, sul suo sito, lei dichiara: «I am pro fish» (Sono a favore del pesce) e «Fighting for our fish is critical to preserving our Alaska way of life» (Lottare per il nostro pesce è fondamentale per preservare il nostro stile di vita alaskano). Non sono affermazioni esagerate. In effetti, la pesca – quella del salmone, in particolare – è un’attività vitale per le popolazioni autoctone. La stessa Peltola racconta di aver iniziato a pescare con il padre all’età di sei anni.

Oggi la pesca è un’attività in grave rischio, soprattutto la pesca del salmone, il pesce più pregiato e richiesto. Nella loro migrazione fiume-oceano-fiume, i salmoni tornano indietro in numero sempre minore. Tra le possibili cause vengono annoverati i cambiamenti climatici, l’acidificazione degli oceani e i troppi pescherecci stranieri. Per i molti nativi che ancora vivono di questa attività il problema è diventato una questione di sopravvivenza.

Paolo Moiola

Strumenti di assimilazione

I nativi e la trappola del petrolio

«Appartenevo – ha raccontato Willie Hensley, Iñupiaq, tra i fondatori dell’Alaska federation of natives – a quella generazione che stava ancora cacciando e pescando e vivendo in tende di zolle e usando i cani per muoversi. C’erano pochissimi soldi allora e abbiamo dovuto lottare davvero. Ricordo di avere avuto molti denti marci fino alle gengive e nessuno che si prendesse cura di essi. Abbiamo davvero lavorato sodo. Era una vita normale; era solo una vita dura. Semplicemente non avevamo reti di sicurezza».

Oggi, per i nativi dell’Alaska le «reti di sicurezza» ci sono, ma anche altre cose sono cambiate e non per il meglio. Dopo la scoperta dei giacimenti petroliferi, nel 1971 la legge del Congresso statunitense, nota con l’acronimo di Ancsa (Alaska native claims settlement act), ha in gran parte eliminato le rivendicazioni sulla terra da parte dei popoli indigeni a favore della creazione di società a loro affidate (Alaska native regional corporations e Alaska native village corporations). Queste società – create sulla base di zone geografiche ed etnicamente connotate – sono nate come entità private orientate al profitto.

Tra le 13 società regionali, le principali sono la Arctic slope regional corporation degli Iñupiat, la Nana regional corporation, anch’essa con azionisti Iñupiat, la Aleut corporation degli Unaganx, la Doyon corporation degli Athabasca, la Calista corporation degli indigeni Yup’ik, Cup’ik e Athabasca. Sui siti web di queste compagnie sono magnificati i benefici arrivati alle popolazioni locali, ma non tutti sono d’accordo.

Già negli anni Settanta, anche prima della costruzione della Trans Alaska pipeline, Eben Hopson (1922-1980), leader iñupiaq e politico democratico, aveva avvertito dei pericoli insiti nel denaro derivante dal petrolio. In un suo discorso pubblico, affermò: «La politica dell’Artico non è più la politica delle persone, ma è la politica del petrolio». E aggiunse: «La politica del boom petrolifero crea dipendenza».

In questi anni sono aumentati i nativi preoccupati per uno sviluppo fondato su petrolio e gas, sviluppo che implica inevitabili impatti ambientali (e culturali) in uno stato già colpito duramente dagli effetti del cambiamento climatico. Vanno menzionati, per esempio, il Native movement, l’Alaska climate alliance, l’Alaska native oil and gas working group.

Questi gruppi si oppongono ai nuovi progetti petroliferi e propongono di puntare sulle energie rinnovabili diversificando l’economia dello stato. Tuttavia, al cospetto delle società dei nativi e delle compagnie petrolifere, la loro voce è ancora un sussurro. Almeno per il momento.

Pa.Mo.

Un tratto dell’oleodotto Tap, che attraversa taiga e tundra dell’Alaska per 1.300 chilometri. Foto U.S. Geological Survey.

Cacciatori di pellicce e missionari

Religione e chiese in Alaska

I primi non indigeni s’insediarono in Alaska all’inizio del 1700. Dopo di loro, arrivarono anche i missionari, prima gli ortodossi russi, poi gli anglicani e i cattolici.

Hope (Kenai). A lato della strada forestale, ad alcuni chilometri da Hope, villaggio che in inverno non raggiunge i cento abitanti, c’è una chiesetta in legno. Al momento non è aperta, ma le evidenze esteriori dimostrano che è funzionante. A parte quelle di Anchorage, Fairbanks e Jeneau – le tre principali città dello stato – la maggior parte delle chiese (di tutte le confessioni) dell’Alaska sono strutture isolate, solitarie, in apparenza abbandonate.

Questo non significa che in questo territorio la religione non sia una presenza importante. Al contrario, anche qui l’offerta religiosa – se così possiamo chiamarla – è molto ampia, anche se relativamente recente.

Fino alla fine del 1600, la regione era abitata esclusivamente da popoli indigeni, stimati attorno alle 80-100mila persone che seguivano religioni sciamaniche. Fu all’inizio del 1700 che, dalla confinante Russia, arrivarono i primi esploratori, cacciatori e commercianti attratti dal business delle pellicce. Il più famoso fu Grigory Shelekhov, che nel 1784 massacrò centinaia di indigeni dell’arcipelago di Kodiak, salvo poi chiedere all’imperatrice Caterina di Russia l’invio di missionari ortodossi. La prima missione fu fondata nel settembre del 1794 sull’isola di Kodiak dal monaco Herman (Germano d’Alaska) che subito e fino alla sua morte (nel 1837) si distinse nella difesa della popolazione indigena, schiavizzata dai mercanti russi.

Nel 1799 Nikolaj Petrovič Rezanov e lo stesso Shelekhov fondarono la Compagnia russo americana (Rac), una compagnia commerciale partecipata da molti esponenti dell’impero russo, con sede nell’attuale Sitka. I nativi, esperti cacciatori, venivano arruolati con la forza. È per la loro difesa che si battè una parte importante della Chiesa ortodossa russa in Alaska.

Di essa va ricordata soprattutto la figura e l’opera di padre Ivan Veniaminov (in seguito, Innocenzo d’Alaska). Nato in Siberia nel 1797, arrivò in Alaska (prima in Analaska sulle isole Aleutine e poi nell’attuale Sitka) nel 1824 assieme alla famiglia, e vi rimase, con alcune interruzioni, fino al 1867, quando venne nominato metropolita di Mosca. Persona eclettica, primo vescovo ortodosso dell’Alaska, Veniaminov si distinse subito in quanto, al contrario dei colonizzatori, instaurò un rapporto paritetico con i popoli nativi (prima Aleuti, poi Tlingit), rispettandone tradizioni e lingua.

Un totem, simbolo culturale di Eyak, Tlingit, Haida e Tsimshian. Foto Wikimedia.

Politica coloniale e missionari

Dopo gli ortodossi russi, nell’Ottocento, dal confinante Yukon inglese (canadese dal 1869), arrivarono sparuti gruppi di missionari anglicani.

La situazione cambiò con la vendita – avvenuta con il trattato sottoscritto il 30 marzo 1867 (la Russia zarista si riteneva proprietaria di quei territori senza considerare i suoi veri abitanti) – dell’Alaska agli Stati Uniti.

I primi cattolici ad arrivare nella regione furono gli Oblati attorno al 1871, viaggiando sullo Yukon, il fiume artico divenuto scenario della corsa all’oro alla fine dell’Ottocento. Furono gli Oblati a fondare, nel 1879, la prima chiesa cattolica: Santa Rosa di Lima, sull’isola di Wrangell.

All’epoca del passaggio agli Stati Uniti, l’Alaska era abitata soprattutto dai popoli nativi. Come sempre accade durante i processi di colonizzazione, all’inizio l’idea guida fu quella dell’assimilazione: gli indigeni sarebbero dovuti diventare come i colonizzatori, abbandonando la propria cultura, incluse le credenze religiose.

Come affermava il rapporto annuale del Consiglio dei commissari indiani per il 1869, «Si ritiene che la religione del nostro benedetto Salvatore sia l’agente più efficace per la civiltà di qualsiasi popolo». Per lungo tempo ancora la politica coloniale degli Stati Uniti in Alaska si fondò sull’idea che gli indigeni dovessero «essere portati sotto l’influenza cristiana dai missionari».

L’Università dell’Alaska-Anchorage (Uaa) ha analizzato una foto del 1914 scattata alla scuola della St. Mary’s Mission ad Akulurak (delta dello Yukon-Kuskokwim, sul mare di Bering). In quella immagine si vede un gruppo di studenti nella sala mensa e, sulla parete dietro di loro, un poster con la scritta «Please, do not speak eskimo» (Per favore, non parlare eschimese).

Fu John Collier, commissario per gli affari indigeni dal 1933 al 1945, a iniziare a battersi per la libertà religiosa degli indiani d’America, mettendo in discussione i divieti locali e regionali alle cerimonie e alle pratiche tradizionali. Tuttavia, soltanto con l’American indian religious freedom act (Airfa) dell’agosto 1978, legge firmata dall’allora presidente Jimmy Carter, venne formalmente riconosciuta la piena libertà religiosa dei popoli indigeni. Nel firmare la legge, il presidente ammise che, a dispetto del primo emendamento della Costituzione Usa, «in passato, agenzie e dipartimenti governativi hanno occasionalmente negato ai nativi americani l’accesso a siti particolari e interferito con pratiche e costumi religiosi».

Una piccola chiesa cristiana tra i boschi di Hope (Kenai). Foto Paolo Moiola.

Le Chiese in Alaska, oggi

Le statistiche più affidabili sulle fedi religiose in Alaska risalgono a uno studio del Pew Research Center (The 2014 U.S. Religious landscape study). Secondo i ricercatori dell’istituto, i cristiani sarebbero il 62% della popolazione adulta. Questa percentuale si dividerebbe in: 22% di evangelici (cioè protestanti non tradizionali), 16% di cattolici, 12% di protestanti (storici), 5% di ortodossi (di cui 4% di ortodossi russi). La Chiesa cattolica dell’Alaska conta su due diocesi: quella di Anchorage-Juneau e quella di Fairbanks. Entrambe hanno uffici che si dedicano alle relazioni con i popoli indigeni dello stato.

Al riguardo, va ricordata l’esperienza di Stan Jaszek, missionario polacco arrivato in Alaska nel 2002. Padre Jaszek, appartenente alla diocesi di Fairbanks (la più estesa degli Stati Uniti), ha lavorato per 15 anni nei villaggi del delta dello Yukon-Kuskokwim, tra i Yup’ik, lo stesso popolo nativo cui appartiene anche Mary Peltola, prima indigena dell’Alaska eletta al Congresso Usa. «Il popolo Yup’ik è profondamente radicato nella natura, quindi comprende intuitivamente la connessione tra il mondo fisico e quello spirituale», ha spiegato padre Jaszek.

Paolo Moiola

Natale e Babbo Natale

La festa e il business

North Pole, agosto. Il nome di questa cittadina può trarre in inganno. In realtà, a dispetto di esso, il North Pole (Polo Nord) dista ancora 2.700 chilometri e il Circolo polare artico più o meno 200. La cittadina di North Pole – meno di tremila abitanti, a circa 20 chilometri da Fairbanks, seconda città dell’Alaska – ospita una base militare, ma è conosciuta soprattutto per la presenza della Santa Claus House, il negozio di Babbo Natale, fondato nel 1952.

La rivendita è in posizione commercialmente strategica, sorgendo accanto alla Richardson Highway. Colore bianco candido con geometrie rosse e, sui muri, tanti disegni di renne, slitte, Babbi Natale, folletti. Detto questo, la struttura esterna non ha nulla di memorabile: forse dipende dai 20 gradi di questo caldo agosto, forse il tutto si dovrebbe vedere con la neve. Entrando, però, il giudizio non cambia.

Alberi di Natale, addobbi per alberi di Natale, maglioni con le renne, pantaloni, cappellini, tazze dipinte, dolci in tema. È un tripudio dell’inutile, dell’eccessivo e del kitsch.

E tutto, o quasi, pare essere più per un pubblico di adulti che di bambini. Il sito internet del Santa Claus racconta delle sue lettere intestate e personalizzate spedite (a partire da 9,95 dollari) a bambini di tutto il mondo e delle migliaia di lettere ricevute da ogni dove (a cui però – viene precisato – «non è possibile rispondere»).

In un recinto poco distante dal negozio, a lato del grande parcheggio, ci sono anche le renne, quelle vere. Probabilmente non sono contente di essere lì, con una temperatura inusuale e non libere di «volare» come vuole la tradizione.

Nessuna ragione per non credere alla felicità natalizia in offerta speciale, ma che la Santa Claus House sia soltanto una redditizia trovata commerciale è ben più di un’impressione.

Pa.Mo.

Un’entrata della Santa Claus House, a North Pole, nei pressi di Fairbanks. Foto Paolo Moiola.

Ha firmato questo dossier:

Paolo Moiola
Giornalista redazione MC; ha viaggiato in Alaska lo scorso agosto.

Fonti principali

Per la storia dei popoli nativi e dell’Alaska: Harry Ritter, Alaska’s History, West Margin Press, 2020; Steve J. Langdon, The Native People of Alaska, Greatland Graphics, Fairbanks 2022.

Per clima e problemi ambientali, per i parchi nazionali, per i nativi, per le istituzioni statali:
https://uaf-iarc.org/
https://www.nps.gov/
https://www.alaska.gov/
https://www.anchoragemuseum.org/

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La piccola donna dal grande destino

testo di Marco Bello |


Qualche mese fa, per caso, mi trovai tra le mani il libro La locanda della sesta felicità, di A. Burgess. È la biografia di una missionaria inglese del secolo scorso in Cina. Una donna modesta che fece cose grandi, e lasciò il segno. Una storia da conoscere.

«Il Dio di Gladys era per lei un’armatura impenetrabile alle frecce e alle pallottole che il mondo mortale poteva lanciarle. La sua fede era incrollabile […]. Nessun problema teologico la turbò mai: le paure e i dilemmi intellettuali soffiavano al di sopra del suo capo, a un livello stratosferico». Così scrive Alan Burgess, scrittore e biografo, a cui si deve la prima biografia della missionaria inglese Gladys Aylward, nel suo «The small woman», pubblicato nel 1957 (e tradotto in italiano un anno dopo con il titolo «La locanda della sesta felicità»).

Gladys era nata nel 1902, a Edmonton, un sobborgo a Nord di Londra, da una famiglia della working class. Non aveva mai viaggiato, «non ero mai stata oltre a poche miglia da casa mia», avrebbe confessato un giorno. Da giovane (erano gli anni ‘20 del XX secolo) amava danzare e andare a teatro, e voleva fare l’attrice. Non era molto alta, poco più di un metro e cinquanta, aveva i capelli neri, occhi vispi e tipico accento londinese. Dall’età di 14 anni iniziò a lavorare come cameriera nelle case dei ricchi e non era mai stata particolarmente religiosa.

Una sera, mentre con alcuni amici stava per andare a ballare, in una via affollata di Londra, fu presa in mezzo a un gruppo di giovani che entravano in una chiesa. Senza volerlo si trovò a seguire la funzione. «Quella sera, per la prima volta nella mia vita, realizzai che Gesù Cristo, figlio del Dio vivente, era morto per Gladys Aylward. Questa percezione mi scosse e avrebbe alterato la mia intera vita», avrebbe scritto molti anni dopo. «Corsi a casa, mi buttai sul letto e pensai: Dio se sei vero mostrati, e se lo farai, prometto che io farò qualsiasi cosa mi chiederai».

La giovane donna non frequentava una chiesa, aveva poca dimestichezza con la Bibbia e non sapeva pregare. Iniziò a cercare se stessa. Un giorno lesse su un periodico che in Cina c’erano milioni di persone che non avevano mai sentito parlare di Cristo. «Pensai che era terribile passare la propria vita senza Cristo. Qualcuno avrebbe dovuto fare qualcosa». Cominciò allora a parlare con persone istruite, con competenze e posizioni sociali migliori delle sue, pensando che sarebbero dovuti intervenire loro. Ma nessuno la prese sul serio. Propose, infine, a suo fratello di partire lui per la Cina, promettendo che lo avrebbe aiutato. Lui rifiutò e la prese in giro, ma poi le disse: «Se davvero pensi che qualcuno debba andare, perché non vai tu stessa?».

Il fratello l’aveva messa davanti a uno specchio, e Gladys sprofondò nel dubbio: «Non ho mai fatto nulla di importante, non sono istruita, non ho soldi, non so predicare, non conosco nulla della chiesa». Ma arrivò a una conclusione: «Feci al Signore due promesse: se mi avesse mostrato la via, sarei andata io in Cina e non avrei mai più chiesto a nessuno di fare quello che lui avrebbe chiesto a me».

Non idonea

Il primo passo fu un periodo di prova presso il China Inland Mission, un’istituzione inglese che preparava e inviava missionari in Cina dal 1865. Ma dopo tre mesi il direttore le disse che non era idonea a diventare missionaria, perché, per il suo basso livello di istruzione, non avrebbe mai imparato il cinese e la teologia.

Gladys non si perse d’animo, sentiva forte la chiamata, e decise di partire da sola, senza l’appoggio di alcuna organizzazione. Però non aveva soldi né contatti. Riprese a lavorare duro, a servizio, facendo il massimo dell’economia. Per andare in Cina, all’epoca, c’erano due possibilità: per nave o per treno attraverso la Transiberiana. Questa seconda opzione era in quegli anni – fine anni ‘20 – altamente sconsigliata, a causa di una guerra non dichiarata tra Cina e Unione Sovietica ai confini della Manciuria, proprio dove passava il treno. Ma era molto meno cara. Gladys non volle sentire ragioni, e comprò, a rate, il biglietto.

Intanto studiava la Bibbia, e andava anche a tentare prediche pubbliche, che non godevano di grande considerazione, allo speaker’s corner di Hyde Park. Ebbe l’occasione di leggere diversi libri sulla Cina, quando fu a servizio da sir Francis Younghusband, che vi aveva lavorato.

Per le sue origini, Gladys era cresciuta nel mondo protestante anglosassone, anche se, per lei, quello che contava era essere cristiana.

In quel periodo, durante una funzione in una chiesa metodista, sentì dire che una missionaria in Cina, Jeannie Lawson, di 74 anni, cercava una giovane missionaria per portare avanti il suo lavoro. Fu come un colpo di fulmine, e Gladys scrisse subito una lettera alla Lawson, la quale, dopo mesi – i tempi dell’epoca -, rispose che l’avrebbe accettata.

Il viaggio

Il 15 ottobre 1932, Gladys Aylward partì dalla stazione londinese di Liverpool street. Aveva due valigie: una conteneva vestiti e l’altra, cibo in scatola, biscotti, un fornello ad alcool, una padella, una teiera e un po’ di riso. Aveva con sé pochissimi soldi. A salutarla al binario c’erano la madre, il padre e la sorella, che non sapeva quando e se avrebbe rivisto. Non lo fece a cuor leggero, fu un grosso sacrificio lasciare la famiglia e il paese. Non aveva mai viaggiato all’estero, non era mai stata su un traghetto, né su un treno a lunga percorrenza.

«Non ho mai chiesto il permesso ai miei genitori. Ho detto loro che sarei partita. Erano i miei soldi ed era la mia vita. E pensavo che stavo facendo quello che Dio voleva che facessi. Quindi, anche se non capirono, essi accettarono e mi lasciarono andare», avrebbe raccontato.

La sua determinazione, e forse una dose di sana sprovvedutezza, la aiutarono, ma la spinta fondamentale fu la fede in quello che credeva fermamente Dio le avesse chiesto: andare a parlare di Cristo ai cinesi.

In quell’epoca, una giovane donna (aveva 28 anni) non viaggiava da sola. La guerra, sebbene non dichiarata, c’era eccome, e la corsa del treno fu interrotta nella città siberiana di Čita. Gladys rischiò di morire di freddo in Siberia, poi di essere trattenuta in Unione Sovietica. Ma fortunosamente qualcuno la salvò e, pure senza un soldo, da Vladivostok – dove era stata deviata a causa del conflitto – prese una nave che la portò in Giappone. Anche lì, a Kobe, una coppia di missionari la aiutò, e finalmente giunse nella città portuale cinese di Tientsin, dove fu accolta in una missione ben strutturata. Jeannie Lawson era conosciuta, e si sapeva che lavorava nello Shanxi, una provincia montagnosa e selvaggia a Nord Ovest di Pechino. I missionari del Tientsin mission center la affidarono al signor Lu, un uomo d’affari che stava partendo per quella terra. Anche quello sarebbe stato un viaggio lungo e faticoso. Presero il treno per un lungo tratto e poi un autobus.

Arrivarono a Zézhou dopo un mese e Gladys fu accolta da due anziane missionarie che le indicarono dove abitava Jeannie, a Yangcheng, ad alcuni giorni di viaggio. Non c’erano strade, e l’unico mezzo per arrivarci era a dorso di mulo.

Jeannie la missionaria

L’incontro con Jeannie Lawson non fu caloroso. La missionaria scozzese era una donna brusca e, dopo 50 anni di servizio in Cina, non era facile da trattare per una giovane appena arrivata. In città non c’erano altri cristiani, e loro erano chiamate «diavoli stranieri»: i bambini scappavano e gli adulti tiravano loro del fango.

La regione era costantemente percorsa da mulattieri che con i loro muli trasportavano le merci tra le città e i villaggi fortificati sulle colline. Jeannie ebbe un’intuizione: «Se apriamo una locanda per mulattieri, diamo loro alloggio e un pasto caldo, potremo anche intrattenerli con delle storie – cosa che di solito amano – e racconteremo le storie di Cristo. I commercianti, poi, viaggiando porteranno questi racconti nell’intera provincia».

Fu così che nacque la «Locanda delle otto felicità», sembra in riferimento alle otto virtù confuciane, ma anche alle beatitudini del Vangelo di Matteo. Gladys aveva il compito di piazzarsi sul percorso dei muli in arrivo in città, e di tirare nel cortile della casa il primo della fila, in modo che gli altri seguissero. Era questa la maniera di procurarsi i clienti. Jeannie dava la zuppa ai mulattieri e intanto raccontava passi del Vangelo, mentre Gladys badava ai muli.

«Sebbene Jeannie non mi abbia mai insegnato a mangiare il cibo cinese con le bacchette, o qualcosa sui costumi locali, e neppure mi abbia mai dato un consiglio su come imparare la lingua, [da lei] imparai come pregare e guadagnare le anime delle persone per il mio Signore», avrebbe scritto poi Gladys.

Dubbi e segni

Ingrsso della locanda nel 2006

Un anno dopo il suo arrivo, Jeannie morì. Gladys si ritrovò sola, arrivata da poco e, per di più, donna e straniera. La situazione delle donne all’epoca non era molto libera: «Adesso credevo che, in quanto giovane donna da sola, avrei dovuto andarmene. Inoltre, in Cina le donne non uscivano mai da sole, erano sempre accompagnate da un uomo della famiglia o da un servitore. E se non c’era questa possibilità, non uscivano di casa. […] Mi sentivo rinchiusa. Desideravo uscire. Ero giovane, ero contenta, volevo essere libera. E adesso ero chiusa in un piccolo cortile, che ogni sera si riempiva di animali e uomini». Mentre si chiedeva perché Dio l’avesse portata in quella città sperduta, unica cristiana, ed era presa dai dubbi su come procedere, pregava per un segno. Inoltre, Jeannie aveva una piccola rendita come missionaria, che con la sua morte si era estinta. Si presentava anche un problema economico.

In quegli anni Chang Kai-Shek, il capo di stato, divenuto cristiano, aveva messo al bando l’antica, e invalidante, usanza di bendare i piedi delle bimbe, che poi sarebbero rimasti piccoli e rovinati per sempre. Servivano ufficiali del governo che, a dorso di mulo o a piedi, percorressero il paese per sensibilizzare le popolazioni sulle nuove regole.

Il nome della locanda nel 2006: il vecchio cortile di Gesù

Il mandarino (capo politico) di Yangcheng si presentò in pompa magna nel cortile della locanda, e chiese (piuttosto ordinò) a Gladys di essere l’ispettrice dei piedi della sua area. Il motivo: era l’unica donna con «piedi grandi» e sarebbe servita da esempio. «Io rifiutai. Ero andata in Cina per Gesù Cristo e non volevo mischiarmi con questioni di governo, piedi e politica. […] Ma lui non se ne andava». La piccola donna iniziò a pregare nel suo intimo, non sapeva come uscire da quella situazione. Poi sentì come una voce, ebbe un’illuminazione: essere ufficiale del governo le avrebbe permesso di viaggiare in tutta la regione, incontrare e parlare con la gente nei villaggi più remoti, e ricevere pure un compenso economico. «Occorre dare tutti se stessi. Dio in quel momento non aveva bisogno delle mie mani, ma dei miei piedi! E li ebbe». Disse al mandarino che accettava, ma essendo lei una missionaria, avrebbe pure parlato alla gente della vita di Cristo. Il politico – che sarebbe poi diventato un suo caro amico, e si sarebbe convertito al cristianesimo – non vide in ciò nulla di cui preoccuparsi.

Gladys divenne nota e rispettata in Yangcheng e in tutta la zona. Iniziarono a darle il nome di Ài Wĕi Dé, ovvero «la virtuosa». Un giorno venne chiamata per sedare una rivolta nella prigione, e non senza paura, vi riuscì. Suggerì quindi migliorie, che furono adottate, per rendere la vita dei carcerati meno dura, e riuscì a predicare il vangelo anche tra di loro.

Gladys Aylward iniziava a inserirsi nella società delle montagne dello Shanxi, ma rimaneva comunque l’unica straniera. I più vicini erano i missionari di Zézhou con i quali fece amicizia. Sentiva che qualcosa nella sua vita non andava e, inoltre, come donna, molte cose non poteva farle.

«Pregai per avere un compagno […] La gioia di avere qualcuno con cui scalare le montagne, discutere, cantare e pregare. Ma non arrivò». Gladys avrebbe poi detto in un colloquio: «[Dio] lo chiamò, ma lui non arrivò mai». Il tempo passava e Gladys pensò che il Signore non l’avrebbe lasciata sola, e forse sarebbe arrivata una compagna di missione. Ma ancora nulla.

«Nove soldi»

Un giorno Ài Wĕi Dé assistette a una scena raccapricciante. Una megera maltrattava un bambino vestito di stracci. Era in vendita, in quell’epoca succedeva. «Lo vuoi comprare?», disse la megera. Gladys non se l’aspettava, e non aveva quasi denaro con sé. La commerciante di bambini insistette e alla fine la missionaria offrì quello che aveva, nove soldi. Era una bambina, e fu soprannominata Novesoldi: «Comprai la bambina. Fu il primo atto di quella che sarebbe stata la mia completa sottomissione al Signore. Non avevo compreso che stavo comprando la mia prima figlia, una bimba che stava entrando nella mia vita per significare molto. Dopo di lei arrivarono, uno dopo l’altro, gli altri, tutti in maniere differenti, in varie circostanze, ognuno così diverso in carattere e temperamento. Pregai Dio per loro. Egli ci nutrì, ci vestì. La situazione divenne caotica, ma eravamo molto felici. A un certo punto avevo 40 bambini. Chiesi a Dio di non mandarmene altri per favore. Ma il Signore non sempre risponde alle tue preghiere come ti aspetti».

Nel frattempo, Gladys Aylward decise di prendere la cittadinanza cinese, per sentirsi meglio in mezzo alla gente, diventò ufficialmente Ài Wĕi Dé. Anche se, nella pratica, poco cambiò.

La grande traversata

Erano gli anni in cui cominciava la seconda guerra sino-giapponese (1937-45), che faceva parte di una vasta strategia di occupazione dell’Asia da parte del Giappone. In Cina si opponevano all’invasione l’esercito regolare nazionalista, ma anche i guerriglieri comunisti. La guerra arrivava da Est e inizialmente la gente delle montagne a Yangcheng non pensava di esserne coinvolta. Invece iniziarono i bombardamenti della città che crearono morte e distruzione. Gladys si adoperò organizzando i primi soccorsi. Portò i suoi bambini in un villaggio di montagna e faceva la spola con la città per aiutare. Ma poi i militari giapponesi arrivarono e commisero atti efferati. Gladys fu anche picchiata, riportando lesioni interne che le avrebbero poi creato problemi di salute e fu ferita da una pallottola alla schiena. Intanto gli orfani che raccoglieva aumentavano, perché, a causa della guerra, molti bambini restavano soli e vagavano per le campagne.

Quando la situazione stava per precipitare, la piccola donna decise che era il momento di partire per portare i bimbi in salvo da morte certa. Ne aveva circa un centinaio, una ventina dagli 11 ai 15 anni, tra i quali Novesoldi, e un gran numero di piccoli dai quattro anni in su. Si congedò dal mandarino, che non avrebbe mai più rivisto e che l’aiutò con un po’ di cibo per i primi giorni. Poi, il chiassoso gruppo, con lei unica adulta, partì a piedi verso le montagne, direzione Ovest. Era all’incirca il marzo del 1940.

Fu una scelta molto coraggiosa, da un’analisi superficiale si potrebbe dire incosciente. In realtà fu, come sempre per Ài Wĕi Dé, dettata da una grande fede, che le dava forza e una determinazione travolgente.

Dopo quasi due settimane arrivarono sulle sponde del Fiume Giallo che segna il confine Ovest tra lo Shanxi e lo Shaanxi. Tutti i villaggi erano stati abbandonati e la popolazione sfollata aveva attraversato il fiume per fuggire ai giapponesi. Non c’erano più barche. Gladys e i bambini erano allo stremo, affamati e sporchi, ma non si trovava da magiare. Se non avessero attraversato il grande fiume, sarebbero morti.

Dopo tre giorni, comparve un ufficiale dell’esercito nazionalista che pattugliava il fiume. Vedendoli in quello stato, e stupito di quella strana compagine, si adoperò per fare venire delle barche dall’altra riva e i 100 bambini con Gladys poterono proseguire.

Ci vollero ancora giorni, a piedi e poi su un treno merci, ma Ài Wĕi Dé riuscì a portare tutti i suoi bambini al sicuro, nei pressi della città di Xian (Shaanxi), dove erano stati allestiti dei campi profughi per la gente che fuggiva da Est. Avevano percorso oltre 400 km attraversando le montagne.

Gladys Aylward era però in pessime condizioni di salute. Perse conoscenza, fu curata e accudita alla missione di Xingping e all’ospedale della missione battista di Xian. Senza le cure sarebbe morta. Ci vollero mesi, ma si riprese.

In seguito lavorò nelle città Lanzhou (Gansu) e Chengdu (nello Sichuan, più a Sud ).

Cina addio

Gladys Aylward tornò in Inghilterra nel 1949 grazie all’interessamento di un’associazione statunitense, che le pagò il biglietto. Lasciò la Cina a malincuore, dopo tanti ripensamenti. Perché tutto ciò che amava era lì. Aveva bisogno di cure, inoltre con la vittoria dei comunisti iniziarono le persecuzioni delle religioni. Lei non voleva causare problemi a chi stava aiutando.

«Ci incontrammo, io e la famiglia (i ragazzi e bambini, ndr), per l’ultima volta in un campo fuori dalla città di Chengdu. Avevo deciso che era tempo di partire. Mettevo in pericolo chi stava con me perché, sebbene avessi un passaporto cinese, e fossi cinese nei miei pensieri, nel mio amore, nella mia lingua, nei vestiti e in tutto tranne che nel viso, avevo ancora la faccia di una straniera».

In Inghilterra si adoperò per i migranti cinesi, e per promuovere la missione. Voleva tornare in Cina, ma le autorità le rifiutarono l’autorizzazione.

Ài Wĕi Dé andò ad Hong Kong nel 1958, ancora sotto controllo britannico. La città era invasa di profughi arrivati dalla Cina popolare. Qui si prese cura di loro e contribuì a fondare la Hope Mission che li accoglieva.

Si trasferì quindi a Taiwan, dove, sull’isola di Formosa, i nazionalisti cinesi, guidati da Chang Kai-Shek, avevano fondato la Repubblica cinese.

Affittò un hotel chiuso a Beitou, appena fuori Taipei, la capitale, e vi fondò un orfanotrofio, il Gladys Aylward orphanage. Nei primi anni ‘60 arrivò dall’Inghilterra una giovane ad aiutarla, Kathleen Longton: finalmente Gladys ebbe la sua compagna di missione.

Nel 1959 acquistò un terreno a Muzha grazie all’aiuto della Ong statunitense World Vision e vi costruì un orfanotrofio che nel 1963 chiamò Bethany nursey school.

Un’opera che continua

Il 3 gennaio 1970 Gladys Ài Wĕi Dé morì per le complicazioni di una semplice influenza, poche settimane prima di compiere 68 anni. Il suo fisico ormai cronicamente debilitato non andò oltre. Ma la sua opera continua, e si espande. Un gruppo di suoi collaboratori presero in mano la struttura nel 1971.

Una missionaria inglese Linda McFerren vi ha poi lavorato 26 anni con i colleghi cinesi (1992-2018). Nel 2010 la struttura ha cambiato statuto per adattarsi alla mutazione della società, e il nome è diventato Bethany children’s home. Un moderno centro per accoglienza di bambini e adolescenti (0-18 anni) in difficoltà. Il centro sperimenta un metodo innovativo di assistenza famigliare degli orfani. Oltre a continuare con i progetti di reinserimento, realizza servizi di sostegno per bambini svantaggiati e appoggio diretto alle famiglie problematiche.

Marco Bello
(fine prima puntata)

 




Nodi da sciogliere

È da poco passata la bella festa della nostra Consolata, mentre mi accingo a stendere queste note per il prossimo mese. E mi ritorna alla mente la «Maratona di preghiera» voluta da papa Francesco per pregare Maria, nel mese di maggio, in una trentina di santuari sparsi per il mondo. Ho cercato di collegarmi, ogni sera, in quasi tutte queste tappe, commovendomi, ogni volta, nel vedere i diversi modi con cui ogni comunità di credenti (anche nei paesi più lontani, piccoli, o poveri) si rivolgeva alla Madre del Signore per chiedere protezione, conforto e… guarigione in questa interminabile pandemia di Covid-19.

Dunque, un vero tour missionario, «di quelli che non trovi tanto sulle carte geografiche – ha scritto qualcuno – ma disegnato sulle pareti del cuore; una “mappa” dello spirito, incorniciata da due sole linee: una orizzontale a unire i compagni di strada, l’altra orientata verso l’alto, a legare la terra al cielo in quel dialogo di vita che si realizza nella preghiera».

E la maratona si è (ovviamente) conclusa a Roma, nella casa (o meglio, nei giardini) del Papa che, in un gesto di profondo affetto filiale, ha anche voluto incoronare l’immagine della «Madonna che scioglie i nodi», di cui egli è particolarmente devoto.

Nodi che sono stati evocati col loro nome preciso: la nostra relazionalità ferita dalla solitudine e indifferenza; il dramma della violenza, scatenata soprattutto in famiglia durante il coronavirus; la disoccupazione crescente, con particolare attenzione a quella giovanile e femminile; la ricerca scientifica, capace di scoperte da rendere accessibili a tutti, soprattutto ai più deboli e poveri; una pastorale nuova, che renda più dinamiche le comunità ed entusiasmi i giovani a costruirsi una famiglia e un futuro migliore. Cinque nodi, come i misteri del Rosario, anche se ce ne sarebbero molti altri…

Che bello, allora, pensare che nei nostri piccoli, ma tenaci sforzi per sciogliere questi nodi, siamo accompagnati dallo sguardo e dal cuore di Maria, per noi la Consolata, che è diventata «un po’ più missionaria» grazie alla tenace fiducia di Giuseppe Allamano, nostro padre e fondatore, il quale, con il suo esempio e i suoi insegnamenti, spinge tutti noi, suoi figli e figlie (ma anche i tanti suoi amici e devoti), a non stancarci mai di portare consolazione e speranza, proprio nel nome di Maria e «fino agli estremi confini della terra».

Sciogliendo nodi, per tessere legami di vera e universale fraternità.

padre Giacomo Mazzotti


Un nome che impegna

Giuseppe Allamano era convinto, e lo diceva apertamente, che la spinta per dare il via ai suoi due istituti missionari era partita dalla Madonna, alla quale attribuiva, senza nessuna esitazione, il titolo di «Fondatrice». Per questo, è stato un atto spontaneo e logico per lui chiamarli col nome di «missionari e missionarie della Consolata». Egli, tuttavia, non concepiva questo nome come un semplice titolo, ma, come lui stesso ha spiegato, come l’indicazione di un’identità e di un programma di vita dei suoi figli e figlie.

Due nomi, ma uno solo basterebbe

Un giorno, incoraggiando gli allievi a fare bene la novena della Consolata, l’Allamano ebbe a dire: «Ne portiamo il titolo come un nome e cognome». Sappiamo che, almeno nella nostra cultura, il nome e il cognome identificano una persona e, quando diventano una firma, la impegnano. Per l’Allamano il nome e il cognome dei suoi missionari, vale a dire ciò che li identificava e li impegnava, coincidevano con un unico termine: «Consolata».

Pochi giorni dopo, accingendosi a spiegare le Costituzioni, come è logico, incominciò dal titolo dell’Istituto. Ecco come si espresse: «Possiamo gloriarci di avere due titoli: quello della Madonna (Consolata) e quello del fine (missionari), ciascuno dei quali basterebbe».

Questa idea dell’Allamano ha uno spessore notevole: due titoli, ma uno solo sarebbe sufficiente. Quale dei due? Il nostro fondatore non si dilunga a spiegarlo, ma è ovvio che nella qualifica mariana l’Allamano comprendeva anche quella missionaria e viceversa. Ciò non stupisce, se consideriamo come lui abbia insistito perché i suoi figli e figlie fossero totalmente mariani e totalmente missionari. Oltre tutto, nel parlare familiare, li chiamava volentieri «missionari», ma qualche volta anche «Consolatini». Il che è tutto dire.

Spiegando alle suore questa duplice identità mariano-missionaria ebbe a dire: «Il nostro istituto si chiama: “Istituto missionarie della Consolata”, cioè noi siamo della Consolata e, tra quelli della Consolata, siamo i missionari. Il titolo di “missionari” è quello che determina il nostro istituto».

Come motto posto all’inizio del primo regolamento, l’Allamano aveva scelto il testo del profeta Isaia 66,19: «Et annuntiabunt gloriam meam gentibus» (E annunzieranno la mia gloria alle genti). Ovviamente, non ignorava che il profeta parlava della gloria di Dio che Israele avrebbe dovuto promuovere in mezzo ai popoli nei quali era stato disperso. Tuttavia, nella sua filiale pietà mariana, egli si permise di fare un’interpretazione devozionale, riferendo queste parole alla Madonna, a motivo della sua indissolubile unione con il Figlio per la redenzione dell’umanità. Dunque, i Missionari della Consolata, nella convinzione dell’Allamano, avrebbero dovuto impegnarsi per la gloria di Dio, e congiuntamente e subordinatamente per la gloria di Maria, attraverso l’annuncio del Vangelo e la salvezza delle anime.

Diventare ciò che il nome esprime

Portare il nome della Madonna è sicuramente un onore. L’Allamano ci ha invitato a sentirci orgogliosi di avere tale nome, ma non si è fermato lì. Forte della sua esperienza di educatore e concreto com’era, egli ha indicato dei percorsi di crescita proprio in forza del nome che la Consolata «si è degnata di imprestarci».

Scrivendo il 16 maggio 1914 a sr. Margherita Demaria, superiora delle missionarie in Kenya, concluse la lettera con queste incoraggianti parole: «Vi benedico ai piedi della nostra Patrona: dimostratevi sempre degne del nome che portate». Questa esortazione ad essere degni del proprio nome, perché era un dono della Consolata, è stata ripetuta altre volte. Per esempio: «Noi siamo un miracolo vivente delle grazie della Madonna; cerchiamo di meritarci ogni giorno di più il bel titolo che ci ha dato e state attente che un giorno o l’altro non ce lo tolga e ci dica: “non siete più Consolatine”, no, no, per carità».

Commentando la festa della Consolata appena celebrata, in una conferenza domenicale, disse: «Voi dovete essere santamente superbe di essere sotto la protezione della Consolata: il nome che portate deve spingervi a divenire ciò che dovete essere». Divenire ciò che indica e richiede il proprio nome per lui voleva dire che i suoi missionari e missionarie dovevano essere semplicemente dei «consolatori» di prima qualità, impegnati a portare ai fratelli e sorelle dei paesi di missione la vera «consolazione» che è la salvezza in Gesù.

Che questo modo di riflettere sia esatto, lo ha confermato il Sommo Pontefice nel messaggio che ci ha inviato per il centenario di fondazione dell’Istituto nel 2001, quando ci scrisse: «Con l’aiuto della Consolata, carissimi fratelli, diffondete la vera consolazione, la salvezza cioè che è Cristo, salvatore dell’uomo».

Figli prediletti e felici

Leggendo quanto ha detto l’Allamano sul rapporto dei suoi missionari e missionarie con la Consolata c’è da rimanere stupiti. Ha usato, infatti, espressioni così intense, che si possono spiegare solo se pensiamo al suo specialissimo rapporto con la Madonna che sognava di trasmettere, allo stesso livello, a quanti intendevano seguirlo.

Ed ecco qualcuna di queste belle espressioni, rivolte dall’Allamano alla Consolata, che possono valere per tutti coloro che seguono la sua spiritualità: «Non è infatti la SS. Vergine, sotto il bel titolo di Consolata, nostra madre, e noi suoi figli? Sì, madre nostra tenerissima, che ci ama come pupilla dei suoi occhi»; «Quando le diciamo (con S. Bernardo): “mostrati madre”, non ci potrebbe rispondere: “e tu ti regoli da figlio?”. Ci regoliamo noi da figli, da veri teneri figli?»; «Quanti ci vogliono bene perché ci chiamiamo: Missionari della Consolata»; «Siamo fortunati, perché la gente non può nominare noi senza nominare la Madonna Consolata».

Essere «della Consolata» è davvero un grande onore, ma anche un forte impegno che ci lega direttamente alla missione.

padre Francesco Pavese

 


Domenico Agasso, Fare bene il bene.
Giuseppe Allamano, Ed. Paoline, Milano 1990, pp. 198

Dal cuore di Torino ai quattro angoli del mondo

È morto la notte di San Silvestro del 2020, Domenico Agasso, giornalista originario di Carmagnola (To), dove era nato nel 1921, per molti un maestro, un precursore, un narratore di tempi, uomini e luoghi. Fu caporedattore a «Famiglia Cristiana», divenne poi direttore di «Epoca» e del settimanale diocesano torinese «Il Nostro Tempo». Nel 1978, aveva pubblicato una «Storia d’Italia» in otto volumi; autore di libri su papa Roncalli («Mi chiamerò Giovanni»), su papa Montini («Paolo VI. Le chiavi pesanti») e… per noi missionari/e della Consolata, nel 1990, sul beato Giuseppe Allamano, nostro fondatore: «Fare bene il bene».

Vogliamo, allora, ripresentare questa biografia, come segno di gratitudine all’autore che, con questo suo lavoro ha diffuso la conoscenza del fondatore dei Missionari della Consolata, rendendo più simpatica la sua figura e più accessibile la sua santità.

Biografia divulgativa

È una prima caratteristica di questo volume. Esso rappresenta un contributo prezioso di conoscenza, soprattutto sul piano della divulgazione. Il libro è scritto in uno stile essenziale e, nello stesso tempo, confidenziale, aderente alle cose, ma ricco di sfumature. Perciò, si lascia leggere come «un’appassionante avventura dello spirito».

Storia di un santo, nella storia di un tempo Un’altra caratteristica percorre tutte le pagine della biografia, la figura del canonico Allamano viene inserita nel suo contesto storico: quello delle colline monferrine di Castelnuovo e poi quello della Torino fine Ottocento, ricca di fermenti sociali e di santità. E Agasso riesce subito a far cogliere un dato importante: e cioè quanto siano strettamente intrecciate con le avventure terrene dei grandi santi sociali torinesi del secolo scorso.

L’autore, infatti, con pennellate essenziali ma sicure, inserisce la vita di Giuseppe Allamano nel contesto storico e religioso dei suoi tempi, ricostruendo con rara schiettezza le condizioni di vita del seminario, della Consolata, del Convitto, della diocesi, del mondo piemontese, della stessa Chiesa universale. Con misura e discrezione fa poi emergere le virtù coltivate con fedeltà inalterata da questo prete dotto e schivo, paziente e deciso, preciso e autorevole, obbediente e profetico, ordinato nello studio e nella vita, fisicamente gracile e instancabilmente creativo di opere e di fondazioni.

Il «mondo» torinese dell’Allamano

Nei suoi 46 anni di servizio come rettore del santuario della Consolata l’Allamano si ritrova al centro di un universo vivo, popolato di personaggi che hanno lasciato un segno profondo nella storia di Torino e in quella della chiesa. Diventa, così, uno dei protagonisti della «piccola Torino» del suo tempo, e una figura di riferimento per il clero della sua epoca.

L’autore sottolinea che, con Giuseppe Allamano, la Torino dei mestieri e delle botteghe artigiane, ora affacciata sul futuro industriale, apprende (o ri-apprende) il gusto di sentirsi a casa propria sotto le volte sacre del santuario della Consolata. La molta gente che, sempre più numerosa, affolla il santuario è attratta dall’aria nuova che vi spira. L’Allamano rinnova e amplia le strutture, ma anche lo «stile» delle celebrazioni, della pietà e, soprattutto, dell’accoglienza. Molti lo aspettano al confessionale; altri lo cercano in sacrestia per un consiglio, un aiuto, o mettono nelle sue mani un problema di famiglia. È questa folla che lo aiuta a far nuova la Consolata.

Apertura missionaria

Egli, però, non si è accontentato: ha saputo mettere questa «marea di gente» in stato di missione. Lo sottolinea il cardinal G. Saldarini, nella prefazione: «Sacerdote diocesano, formatore di preti secolari, canonico della cattedrale, presente e attivo in tutte le iniziative spirituali, caritative e sociali della diocesi, dai giornali cattolici alle società operaie, l’Allamano porta nella chiesa che è in Torino la coscienza che essa deve essere missionaria, in senso universale, proprio perché è chiesa, chiesa cattolica, e la “missione” è la sua identità e quindi la condizione della sua vitalità».

Gran parte del volume è così dedicata all’azione dell’Allamano come fondatore di due istituti missionari e come organizzatore, assieme al fedele canonico Giacomo Camisassa, delle spedizioni missionarie e responsabile ultimo della direzione da imprimere al lavoro di evangelizzazione. I problemi delle missioni e dei missionari sul campo affluiscono alla sua stanza al santuario della Consolata. Ed egli vi si immerge, li fa suoi e per questo perviene a una comprensione dei problemi di missione in Africa con la sicurezza di chi vi si è preparato con anni di studio; è l’uomo della missione moderna, con la straordinaria capacità di vedere, e in qualche modo vivere, le situazioni e i problemi senza muoversi dalla sua terra: andando dalla Consolata al duomo, dalla Consolata alla casa madre, dal confessionale agli esercizi spirituali. Il libro di Agasso è la testimonianza di questo cammino silenzioso, che porta dal cuore di Torino ai quattro angoli del mondo.

Questa biografia del beato Allamano, afferma ancora il cardinale, «ha tutta la capacità di far ritrovare la “bella immagine del prete”, ridestare nei giovani l’entusiasmo dei grandi ideali apostolici, tener viva in tutto il popolo di Dio la coscienza e la cooperazione missionaria… Per questo mi sento di augurare che questa biografia del nuovo beato Giuseppe Allamano… sia conosciuta da tanti, preti e laici, dai giovani soprattutto. Sono convinto che molto può derivare da questo incontro. Perciò non temo di esortare i giovani a leggerla».

padre Giacomo Mazzotti




Haiti: rapiti sette religiosi e tre famigliari in un colpo solo


Sulla situazione sociale esplosiva ad Haiti abbiamo parlato nel numero di marzo di MC. Così come del problema del dilagare del rapimento, come diffuso strumento di generazione di reddito.

Il numero di rapimenti ha subito un brusco aumento nel primo trimestre di quest’anno: sono stati censiti 142 casi tra gennaio e marzo, circa tre volte quelli del primo trimestre 2020 (51).

Il fine settimana scorso (10-11 aprile) si è verificato un record in questo senso, perché 12 sono state le persone rapite di cui sette membri della chiesa haitiana.

Domenica 11 nella zona di Croix-des-Bouquet, comune alla periferia Nord-Est della capitale Port-au-Prince, aveva luogo la cerimonia di insediamento del nuovo parroco, padre Arnel Joseph, a Ganthier.

Ma alcuni degli invitati alla celebrazione non sono mai arrivati. Si tratta di due religiose, suor Anne Marie Dorcélus e suor Agnès Bordeau (francese) e cinque religiosi, di cui i padri Evens Joseph, Michel Briand (francese), Jean Nicaisse Milien e Joel Thomas della Società dei preti di Saint Jaques, e padre Hugues Baptiste, dell’arcidiocesi di Cap-Haitien. Come anche tre membri della famiglia del padre Joseph. Sono stati tutti portati via da un gruppo di banditi armati.

È il più grosso rapimento di gruppo di religiosi finora registrato. La Conferenza haitiana dei religiosi (Chr) ha protestato per l’inefficienza del governo nel combattere al piaga dei rapimenti.

Poche ore prima, nella notte tra sabato e domenica, era stato rapito il Gran maestro della loggia massonica Grande Oriente di Haiti, l’avvocato Yves Benoit Jean-Marie.

Il medico Trevant Valembrun, noto e attivo in diversi ospedali della capitale era invece stato rapito sabato 10.

I riscatti chiesti sono sovente di alcuni milioni di dollari, che poi sono negoziati al ribasso. Viste alcune liberazioni recenti, è chiaro che i soldi sono pagati. Il gioco, insomma, funziona.

Il primo ministro Joseph Jouthe durante una conferenza stampa martedì 13 aprile ha dichiarato di aver preso disposizioni contro questi atti di criminalità. Jouthe ha sostenuto in passato di aver smantellato la gang (gruppo criminale) chiamato «400 mwenzo», che controlla Croix-des-Boquets, ed è la probabile responsabile dei rapimenti di domenica.

La polizia resta incapace di combattere le bande che imperversano nel paese, che le autorità stimano essere circa 175.

Si ricorda che il presidente Jovenel Moise, il cui mandato è scaduto il 7 febbraio scorso, è rimasto in carica, pretendendo, grazie a un cavillo costituzionale, che la sua scadenza sia lo stesso giorno del 2022. Moise ha l’appoggio dei principali partner internazionali di Haiti, quali Nazioni Unite, Usa, Unione europea. Il suo governo, de facto, sta organizzando una modifica della Costituzione haitiana, che porterebbe allo smantellamento di molti diritti acquisiti dalla fuga di Jean-Claude Duvalier (febbraio 1986) ad oggi. Il sistema della gang è in realtà un meccanismo funzionale a questa operazione, che si può leggere anche come un golpe istituzionale.

Marco Bello

© Valerie Baeriswyl / AFP




Eccoci! Ora spetta a noi…

testo della Fesmi, Federazione della Stampa missionaria italiana |


«In questo anno, segnato dalle sofferenze e dalle sfide procurate dalla pandemia da Covid-19, il cammino missionario di tutta la Chiesa prosegue alla luce della parola che troviamo nel racconto della vocazione del profeta Isaia: “Eccomi, manda me” (Is 6,8). È la risposta sempre nuova alla domanda del Signore: “Chi manderò?”. Questa chiamata proviene dal cuore di Dio, dalla sua misericordia che interpella sia la Chiesa sia l’umanità nell’attuale crisi mondiale».

Noi riviste, siti e realtà editoriali impegnate nell’informazione e nell’animazione missionaria ci sentiamo interpellati dalle parole che Papa Francesco scrive nel suo messaggio per la Giornata missionaria mondiale 2020. «Eccomi, manda me» è un invito che sentiamo rivolto in maniera particolare al nostro compito di comunicatori in questo momento in cui tanti fratelli e sorelle sono alla ricerca di una parola vera di speranza per alleviare tante paure e chiusure rese ancor più evidenti dalla pandemia.

«Eccoci, manda noi». A raccontare che davvero «siamo tutti sulla stessa barca». Il Papa lo ripete oggi a noi, riproponendo le parole da lui pronunciate la sera del 27 marzo in una piazza San Pietro deserta. Perché l’esperienza del Coronavirus ha reso evidente quanto una malattia possa renderci ugualmente fragili, da una parte all’altra del mondo. Ora spetta a noi il compito di far vedere che anche in questa grande tragedia che ha già portato via più di un milione di vite sono sempre i poveri a pagare il prezzo più alto. Come tocca a noi mostrare che anche per tanti altri mali che affliggono il mondo di oggi è così. Che anche le guerre alimentate dai profitti dell’industria delle armi, la povertà prodotta da uno sfruttamento iniquo delle risorse e del lavoro di fratelli e sorelle, il dramma della fame già da alcuni anni tornata a crescere in troppe aree del mondo, la distruzione del creato che, in nome del profitto di pochi, spoglia la vita di intere comunità, sono virus davanti ai quali nessuno può sentirsi davvero immune.

«Eccoci, manda noi». Ad accompagnare chi anche in questo tempo difficile sceglie di lasciare tutto e parte per annunciare il Vangelo di Gesù. Perché anche là dove tutto sembrerebbe suggerire un prudente ripiegamento, noi sappiamo che «nessuno è escluso dall’amore di Dio». E allora tocca a noi mantenere aperto lo sguardo sulle strade nuove che lo Spirito continua ad aprire nelle periferie. Narrare la fede testimoniata a prezzo della vita sulle frontiere più sofferte, la speranza seminata sui banchi delle scuole di ogni latitudine, la carità che trasfigura ciò che agli occhi del mondo sembrava piccolo e inutile. Tocca a noi far sì che la testimonianza che ci arriva dalle Chiese dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina scuota ancora le nostre comunità uscite quanto mai spaesate da un’esperienza che ci costringe ad uscire dalla comodità rassicurante del «si è sempre fatto così».

«Eccoci, manda noi». A scoprirci «tessitori di fraternità». Nel tempo dell’isolamento forzato, durante la pandemia, abbiamo sperimentato la nostalgia delle nostre relazioni di familiarità e di amicizia. Ora tocca a noi far sì che non resti solo un sentimento vago, ma questa consapevolezza diventi la primizia di un’umanità nuova. Tocca a noi far scoprire che in missione persone di culture e religioni diverse si incontrano per riconoscersi insieme figli e figlie dell’unico Dio. Che gli ostelli o gli ospedali realizzati grazie alla generosità di tanti hanno la loro porta aperta per accogliere tutti. E che guardare negli occhi ogni persona è sempre il primo passo per costruire percorsi di riconciliazione anche là dove le ferite lasciate dai conflitti sono più profonde.

«Eccoci, manda noi». In un mondo dell’informazione dove le notizie parrebbero avere orizzonti ogni giorno più ristretti, vogliamo essere coloro che aiutano a tenere aperta la mente e il cuore. Per partecipare anche noi alla missione della Chiesa, oltre la paura del mare in tempesta.

1° ottobre 2020
riviste e siti degli Istituti missionari italiani,
associati nella Federazione della stampa missionaria italiana (Fesmi)


Da guardare: Tessitori di Fraternità

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I Perdenti 56. Suor Leonella, amore come medicina

testo di don Mario Bandera |


Il 26 maggio 2018 è stata beatificata a Piacenza – sua città natale – suor Leonella Sgorbati delle missionarie della Consolata, uccisa nel 2006 in Somalia. Era una consacrata dagli ideali cristallini, aveva dedicato completamente la sua vita missionaria a formare personale locale per gli ospedali in Africa. Nel 2000 aveva accettato di lasciare il Kenya, dove era arrivata nel 1970, per andare ad aprire una scuola per infermieri a Mogadiscio pur consapevole dei rischi che correva in un territorio sconvolto dalla violenza della guerra e dall’estremismo della jihad islamica. Ogni giorno si affidava serenamente e con estrema fiducia a Dio.

Suor Leonella, il cui nome di battesimo era Rosa, era nata nel 1940 a Rezzanello di Gazzola (Piacenza). La sua vocazione l’aveva portata a entrare nell’Istituto delle missionarie della Consolata. Nell’anno in cui è stata uccisa era fra le ultime quattro religiose presenti in Somalia. Tutti gli altri missionari avevano dovuto abbandonare il paese negli anni Novanta, a causa dell’affermazione di gruppi islamisti integralisti e dell’assenza totale delle istituzioni statali, nel contesto di una guerra civile scoppiata nel 1986, e ancora in corso anche se con minore intensità.

La sua testimonianza, il suo sacrificio, restano una delle pagine più luminose e intense della storia dell’Istituto delle missionarie della Consolata.

Suor Leonella, come nasce la tua vocazione?

Il desiderio di donare tutta la vita a Dio è nato in me a 16 anni: in quel lontano giorno – aprile 1956 – leggendo la sua Parola, mi sono sentita «abitata» come se il Signore mi volesse tutta per Sé. Ho provato una tale emozione che in seguito avrei scritto nel mio diario: «Da quel momento capii che non mi sarei sentita mai più sola, ma abitata da Lui».

Un vero scossone per la tua giovane vita, non è così?

Che ha avuto una conseguenza decisiva per la mia esistenza in quanto, riflettendo su quello che stavo vivendo, ho deciso che mi sarei fatta suora… che avrei cercato di vivere per Cristo, e di parlare a tutti del suo amore.

Questi ardori giovanili, sono diventati scelte concrete con il passare degli anni.

Difatti, undici anni dopo sono entrata nell’Istituto delle suore missionarie della Consolata e nel momento della mia professione religiosa mi è stato dato il nome di Leonella.

E poi come si sono sviluppati gli avvenimenti della tua vita consacrata?

Dopo aver compiuto il noviziato e gli studi in infermeria e ostetricia, nel 1970 ho realizzato il sogno di partire come missionaria per il Kenya, dove sono restata 30 anni, interrotti solo da tre rientri in Italia. Agli amici e familiari, che mi chiedevano perché non facessi ritorno più spesso in patria, rispondevo: «Un po’ per gli impegni, un po’ per scelta», ma rassicuravo tutti che non ero diventata selvatica, anche se mi sentivo sempre più africana.

Il tuo lavoro in Kenya in che consisteva?

Dopo i primi anni, appena ho avuto la qualificazione per l’insegnamento, mi è stata affidata la formazione delle infermiere e ostetriche locali. Ho svolto questo servizio soprattutto all’ospedale di Nkubu, vicino alla città di Meru. Con le ragazze aspiranti infermiere ci volevamo un bene dell’anima, tant’è che pur essendo le allieve numerose, riuscivo a stabilire un rapporto profondo e personale con ciascuna di loro.

Ma viste le tue capacità, a questi primi impegni se ne sono aggiunti ben presto altri, non è vero?

Negli anni successivi, sono stata nominata caposala di pediatria al Nazareth Hospital vicino Nairobi, ho conseguito un diploma universitario per dirigere la scuola per infermieri, e, dulcis in fundo, nel ’93 sono stata scelta come superiora delle missionarie della Consolata in Kenya.

La tua competenza nel vasto campo sanitario del Kenya era ampiamente riconosciuta da tutti.

A tal punto, che sono stata chiamata a far parte del Consiglio nazionale degli infermieri, con sede a Nairobi. Ho avuto così modo di partecipare alla stesura del progetto dell’anno 2000 del ministero della Sanità del Kenya «Salute per tutti», che aveva l’obiettivo di creare nelle zone rurali, dove è concentrata l’80% della popolazione, centri sanitari autogestiti.

Proprio allora, però, ti è arrivato un invito al quale non ti sei sentita di dire di no.

Infatti, sempre nel 2000, ho ricevuto una proposta dalla Somalia, dove era rimasto solo un piccolo gruppo di mie consorelle che lavoravano come volontarie nell’Ospedale Sos, Kinderdorf International, l’unica struttura sanitaria presente a Mogadiscio che offriva cure gratuite in ambito pediatrico.

Naturalmente hai accettato.

Sapevamo che c’era urgente bisogno di una scuola per infermieri e infermiere, per questo ho detto di sì. Una volta giunta in Somalia, con molti sacrifici, siamo riuscite ad aprire una modesta struttura.

Nel 2006, si sono diplomate le prime 34 infermiere. Per l’occasione ho voluto che la cerimonia fosse davvero molto solenne e formale. I diplomandi erano tutti con la toga universitaria e in alta tenuta. L’avvenimento senza precedenti in Somalia, è stato trasmesso dalla tv locale, e anche in Kenya.

Qualcuno però ha cominciato a far circolare la voce che tu stavi trasformando questi giovani convertendoli al cristianesimo.

I più fanatici, vedendo i ragazzi con le toghe, dicevano che li avevo già vestiti da «padri», cioè come i missionari. Io non ho fatto caso a queste illazioni piene di acredine nei nostri confronti, ma bisogna pur dire che nel 2006 la Somalia era pervasa da fortissime tensioni, e pur muovendoci nella realtà di Mogadiscio con molta prudenza e nel rispetto di tutti, eravamo ben consapevoli di essere «in trincea», senza difesa alcuna. Per questo le nostre giornate avevano un tempo cospicuo dedicato alla preghiera e alla contemplazione.

Funerale e sepoltura di sr Leonella Sgorbati


Dopo il 12 settembre 2006, giorno del discorso di papa Benedetto XVI a Ratisbona, scoppiano proteste in tutto il mondo islamico alimentate dai gruppi più radicali. Le consorelle, più avanti, racconteranno di una mattina in cui suor Leonella, che si alzava molto presto per pregare, aveva detto loro con aria sconvolta che «si doveva pregare e offrire molto per il papa e per la Chiesa perché aveva sentito dalla radio che il mondo musulmano era in grande agitazione a causa di un discorso del papa a Ratisbona».

Il 17 settembre è domenica, suor Leonella ha terminato la lezione alla scuola infermieri dell’ospedale e sta rientrando al Villaggio Sos dove abita, situato dall’altra parte della strada, quando viene colpita a morte. Sette pallottole per lei e la sua guardia del corpo, Mohamed Mahamud Osman, musulmano e papà di quattro figli, che muore nel tentativo di difenderla. Lei viene portata ancora viva in ospedale, dove tanti somali si offrono per le trasfusioni di sangue. Una consorella, Marzia Ferra, racconterà così i suoi ultimi istanti: «Era ancora viva, sudava freddo, ci siamo prese per mano, ci siamo guardate e prima di spegnersi come una candelina, per tre volte mi ha detto: “Perdono, perdono, perdono”». Una parola, ripetuta tre volte, che sgorga dal cuore pieno di amore di un’autentica testimone cristiana dei nostri tempi.

Suor Leonella resta nella memoria della grande famiglia missionaria come una donna dalla mente brillante e dal carattere solare e allegro, sempre pronta alla battuta di spirito. «Il suo sorriso aperto e schietto, la generosità nel servire, l’allegria e l’affabilità che faceva stare bene coloro che le erano vicino, sono qualcosa di indelebile e un caro ricordo per una luminosa missionaria della Consolata come suor Leonella».

Don Mario Bandera

*Al martirio di suor Leonella è stato dedicato il dossier su MC maggio 2018.

Quadro della beatificazione di suor Leonella Sgorbati




Pakistan: Una chiesa piccola ma tenace

Testo di Marta Petrosillo e foto di ACS, Aiuto alla  Chiesa che soffre |


In Pakistan la chiesa è piccola e perseguitata, ma anche apprezzata da molti per le sue opere. I missionari che lavorano nel paese tra scuole, ospedali, evangelizzazione, sono persone forti, determinate e di grande fede.

«Vivo da molti anni in Pakistan. La difficile missione in questa terra islamica dà tanto valore alla mia vita paolina. Mi sento privilegiata a stare tra questi cari cristiani perseguitati. Con la loro fede e testimonianza, mi evangelizzano. Come Paoline abbiamo un compito, un ruolo, una missione apostolica significativa. Ci sentiamo e siamo riconosciute come “sorelle della Bibbia” che lavorano per raggiungere il popolo con la Parola di Dio. Un dono per la nostra vocazione, un impegno, una passione, una scelta del cuore. Lui mi ha condotta in tutti questi anni; mi ha dato gioia, amore e grazia. La sua tattica spirituale è inconfondibile: chiama alla missione attraverso non pochi sacrifici e chiede sempre distacco…». Così scriveva suor Daniela Baronchelli, figlia di San Paolo, che ha vissuto trentasette dei suoi ottantasette anni di vita – conclusasi il 23 marzo 2019 – in Pakistan.

In una terra difficile

Suor Daniela amava profondamente il Pakistan, terra difficile, a volte ostile, così come amava il popolo pachistano tutto, sia cristiano che musulmano. Al punto che, come lei stessa ci ha confidato, dal 2016 aveva scelto di non tornare più in Italia. «Oramai è questa la mia terra, e voglio essere sicura di morire qui». Oggi la sua tomba, nel cimitero cristiano di Lahore, è meta di pellegrinaggio delle tante persone che ha aiutato.

Come lei, tantissimi altri missionari hanno trascorso la loro vita nel paese asiatico, contribuendo in modo determinante all’evangelizzazione e allo sviluppo della piccola minoranza cristiana, ma anche dell’intera popolazione. Come sempre, infatti, nonostante le modeste dimensioni della comunità cattolica – appena l’1% dei 190 milioni di abitanti -, la Chiesa ha fatto molto, e continua a fare moltissimo in ambito educativo e sanitario.

Il ruolo dei missionari

I primi missionari giunsero in queste terre da Portogallo, Francia e Gran Bretagna, al seguito delle potenze coloniali. La prima chiesa cattolica in Punjab, a Lahore, fu costruita intorno al 1597 dai gesuiti provenienti dallo stato indiano di Goa, allora colonia portoghese. Più tardi, il cristianesimo fu portato principalmente dall’impero britannico, alla fine del Settecento e nell’Ottocento. Questo è evidente se si guardano i centri urbani fondati dagli inglesi, come la città portuale di Karachi dove si erge la maestosa cattedrale di San Patrizio, una delle chiese più grandi del Pakistan, oppure le chiese di Rawalpindi, dove gli inglesi si stabilirono.
Il ruolo dei missionari è stato fondamentale: molte congregazioni sono all’origine della nascita delle diverse diocesi. I cappuccini hanno dato vita a quella di Lahore, gli Oblati di Maria Immacolata al vicariato apostolico di Quetta, la Società missionaria di San Giuseppe di Mill Hill alla diocesi di Islamabad Rawalpindi.

La scuola, tra le altre cose

«Sono davvero molto grato e ho profondo rispetto per l’immensa opera compiuta dai missionari europei in Pakistan. Questi religiosi hanno giocato un ruolo determinante per lo sviluppo della nostra Chiesa», ci dice il cardinale Joseph Coutts, unico porporato del paese.

Il viso del cardinale s’illumina ricordando i tanti missionari che ha incontrato nel suo cammino, prima di sacerdote e poi di vescovo, e che hanno fatto parte della sua vita fin da prima della sua nascita: «I miei genitori sono stati sposati nel 1940 dall’allora parroco della cattedrale di St. Patrick, James Cornelius van Miltenburg, un francescano olandese poi divenuto arcivescovo di Karachi e in seguito di Hyderabad».

Molte delle scuole cattoliche del Pakistan sono nate grazie all’opera dei missionari. «Oggi le nostre scuole continuano il lavoro dei primi missionari», afferma il cardinal Coutts notando come nel paese vi siano oltre 300 istituti cattolici. A Karachi ve ne sono 56, di cui tre situati nel compound della cattedrale. E – come abbiamo potuto osservare di persona – non è raro che all’orario di uscita degli studenti, l’auto del porporato debba faticare un bel po’ per entrare dal cancello principale.

L’educazione è essenziale in un paese nel quale l’analfabetismo sfiora in alcune zone l’85%. «Le nostre scuole sono molto apprezzate, anche dai musulmani, perché insegniamo valori come la fratellanza. Nei nostri istituti hanno studiato anche ex presidenti, così come molti impiegati pubblici, militari, ambasciatori e altri funzionari».

«Libri, non mattoni»

A Youhanabad, quartiere cristiano di Lahore, vive un religioso che incarna la bellezza della chiesa pachistana. È padre Edward Thuraisingham, degli Oblati di Maria Immacolata. È giunto in Pakistan dallo Sri Lanka ormai 40 anni fa. Si è sempre dedicato ai poveri e in particolar modo all’educazione dei bambini. Padre Edward è fortemente impegnato a salvare dalla schiavitù, attraverso l’istruzione, i figli dei lavoratori delle fornaci di mattoni (vedi MC 8-9/2019 p. 20).

In queste fabbriche, intere famiglie sono costrette a lavorare per pochi euro al mese, spesso allo scopo di restituire debiti contratti con i proprietari della fornace. «Libri, non mattoni», è il motto del religioso che ha aperto ben cinque scuole per questi ragazzi e per altri bimbi orfani o appartenenti a famiglie povere. Durante una nostra visita a Lahore, padre Edward ci ha accompagnato in una di esse, poco distante da una fabbrica di mattoni. La struttura è, in realtà, una parte della stessa casa di Solomon Bhatti e di sua moglie Sabbah, che insegnano anche a leggere e a scrivere ai piccoli alunni di età compresa tra i 5 e i 15 anni. «Pensiamo a tutto noi, libri, retta scolastica e divise – ci dice padre Edward -. Se dovessero affrontare delle spese, le famiglie non li manderebbero a scuola. Anzi, in realtà non è sempre facile convincere i genitori, perché in molti preferiscono che i figli li aiutino a fabbricare mattoni». Proprio mentre parla con noi, padre Edward viene informato da uno degli insegnanti che un bambino si è presentato a scuola senza scarpe. Prontamente il sacerdote fruga nelle sue tasche per racimolare qualche rupia e provvedere ad acquistarne un paio. I vestiti del sacerdote sono logori e macchiati del fango della fabbrica, e il suo pakol, berretto tipico dell’Afghanistan e di alcune zone del Pakistan, ha probabilmente qualche anno. Ma padre Edward non se ne cura e riserva ogni singola donazione ai suoi bambini.

«L’istruzione è l’unica via per uscire dalla schiavitù delle fornaci e da un destino segnato come quello di tanti cristiani qui in Pakistan», afferma raccontando come una delle sue ex alunne, Lina, sia oggi microbiologa alla Nasa.

Ospedali missionari

Un altro fiore all’occhiello legato alla presenza dei missionari in Pakistan sono gli ospedali cattolici. A Karachi abbiamo visitato l’Holy Family Hospital, oggi considerato uno dei migliori ospedali della città. La struttura è stata fondata nel 1948 dalle Medical Mission Sisters, un ordine religioso femminile con sede a Philadelphia, Usa, in un momento in cui esistevano pochissime strutture sanitarie in Pakistan. La fondatrice delle Medical Mission Sisters, la dottoressa Anna Dengel, arrivò nel 1920 a Rawalpindi per lavorare come medico. Poi si trasferì a Karachi. Oggi l’ospedale è gestito da suor Mary.

«Suor Mary è stata un dono del cielo per noi – ci ha raccontato il cardinal Coutts -. Si dedica giorno e notte al nostro ospedale che, pur essendo una struttura cattolica, conta soltanto uno o due medici cristiani. Per il resto il personale è composto soprattutto da musulmani e da qualche indù. Noi lavoriamo così: tutti insieme. Ed è anche attraverso strutture come l’Holy Family Hospital che diffondiamo i nostri valori cristiani».

La Madre Teresa del Pakistan

Una vera e propria icona della sanità pachistana è suor Ruth Katherina Martha Pfau, nota come la Madre Teresa del Pakistan. Nata nel 1929 a Lipsia, in Germania, da genitori cristiani luterani, nel 1957 la Pfau, dopo essersi laureata in medicina, si unì all’ordine delle Figlie del Cuore di Maria a Parigi. Nel 1960 fu inviata nell’India meridionale, ma un problema con il visto la costrinse a rimanere a Karachi.

Aveva solo 31 anni suor Ruth quando, un giorno per caso, visitò il lebbrosario vicino alla stazione ferroviaria della città. Fu allora che decise di dedicare il resto della sua vita al popolo pachistano e alla battaglia contro la lebbra fino alla sua morte avvenuta il 10 agosto 2017.

In una piccola capanna del lebbrosario diede vita a un piccolo centro per le cure, poi divenuto il Centro di lebbra Marie Adelaide. Iniziò a viaggiare in tutto il paese per curare i malati di lebbra, principalmente i bambini che spesso venivano abbandonati dalle loro famiglie, oppure chiusi in piccole stanze per tutta la vita.

Grazie ai suoi continui sforzi, nel 1996 l’Organizzazione mondiale della sanità dichiarò il Pakistan uno dei primi paesi in Asia ad aver controllato la lebbra. Le autorità pachistane la nominarono consigliere federale per la lebbra presso il ministero della Sanità nel 1979, e nel 1988 le concessero la cittadinanza, un fatto piuttosto raro, considerando che quasi tutti i missionari stranieri, pur essendo in Pakistan da decenni, sono costretti a rinnovare il visto ogni anno e con non poche difficoltà.

Il popolo la ama, come dimostra la cura con cui tantissimi tengono in ordine la sua tomba nel cimitero di Gora Qabaristan a Karachi, che abbiamo avuto modo di visitare. Proprio lì abbiamo incontrato delle persone che, pur non conoscendola, si recano spesso a pregare di fronte alla sua lapide. «Siamo stati anche al suo funerale – ci racconta Hamid, circa una cinquantina d’anni -, è stato emozionante, tante persone erano lì per ringraziarla». Suor Ruth ha avuto l’onore dei funerali di stato. Dietro al feretro, durante la camera ardente, uno striscione ricordava i 57 anni di servizio per sconfiggere la lebbra e risollevare le sorti degli emarginati del Pakistan, e riportava la frase: «È difficile dimenticare qualcuno che ti ha donato così tanto».

Pakistan, Sr. Daniela Baronchelli (Figlie di San paolo – Paoline), St. Paul Book Center in Karachi

Le postine di Dio

Il lavoro dei missionari non riguarda ovviamente soltanto l’ambito umanitario, ma anche la cura pastorale e l’evangelizzazione. Le Figlie di San Paolo sono le uniche a distribuire la Bibbia cattolica nel paese. Abbiamo visitato una delle loro librerie a Karachi. Nella grande metropoli pachistana il bookshop si trova nel caotico quartiere di Saddar. La cattedrale di San Patrizio non è molto distante, ma la presenza musulmana è ovunque. Uomini con abiti e copricapo islamici affollano il marciapiede di fronte alla libreria.

Le suore, oltre a libri cattolici di dottrina e spiritualità, rosari, cd e dvd su temi cristiani, vendono anche immagini sacre, cosa che dai musulmani viene considerata un peccato grave.

Come ci racconta suor Agnese Grones, missionaria del bellunese in Pakistan dal 1980, nel 2005 la polizia effettuò un raid nella libreria dopo che, dalle colonne del quotidiano nazionale «Nawa-I-Waqt», estremisti locali avevano accusato i cristiani di vendere cd contenenti caricature della morte di Maometto. Alcuni leader musulmani avevano perfino emesso una fatwa, un verdetto di condanna, contro i filmati e chiesto l’apertura di una causa per blasfemia contro le suore. Spesso i talebani fanno circolare dei biglietti con la scritta: «Chiudete o morirete». Ma, pur coscienti del pericolo, le missionarie non si danno per vinte.

«All’inizio è stato difficile – ci dice suor Agnese -, ma ora è questa casa mia. Anzi quando d’estate torno in Italia, mi rendo conto che non sono più abituata neanche al freddo delle mie montagne». Per sicurezza, le religiose vestono «alla pachistana» con il tipico abito shalwar kameez celeste e lo scialle bianco, ma tutti ovviamente sanno chi sono quando le vedono girare per le diverse basti (le grandi periferie di Karachi) per insegnare il catechismo ai bambini e spiegare alle mamme l’importanza di educare i propri figli alla fede.

In tutto il Pakistan le Paoline distribuiscono catechismi e Bibbie e hanno persino un cineforum itinerante grazie al quale proiettano ovunque film sulle vite dei santi e altri video per diffondere i valori cristiani. «Siamo coscienti del pericolo, ma è un rischio che tocca tutti i cristiani in Pakistan – ha più volte testimoniato suor Daniela Baronchelli -. Distribuire la Bibbia è una grande gioia per noi che siamo le suore della Bibbia, le postine di Dio».

Marta Petrosillo
portavoce di Acs Italia




Faccia dura come pietra

Una moto rombante mi sveglia di soprassalto. Sono le 3 di notte. Nel silenzio per diversi minuti seguo le accelerate assordanti del superbiker che si dirige verso il cuore della città. Il sonno se n’è andato e mi domando che gusto ci sia a svegliare la gente così. Una bravata? Una scommessa con amici? Una dimostrazione di «onnipotenza» da postare sui social? Il grido di libertà di un paladino che non si lascia imbrigliare dalle regole di un perbenismo noioso?

Quale sia la risposta non lo so, la fantasia però mi spinge a immaginare il superbiker come uno che si ritiene il coraggioso contestatore di una società addormentata. Questo mi richiama altre immagini di eroi che spopolano nelle cronache quotidiane e sui social: ragazzi che si filmano mentre si prendono a botte in piazza, torturano un povero vecchio, terrorizzano un loro coetaneo, imbrattano muri, treni e monumenti, violentano compagne di classe, minacciano i loro insegnanti, saltano sui tetti, si fanno selfie in bilico sul vuoto, sfidano i divieti, pestano i migranti, rubano in un supermercato, bullizzano un senzatetto. Una lunga lista di oscenità, viste da alcuni come prove di «coraggio» e vissute come antidoto alla noia e al vuoto interiore.

Questi pensieri, poi, ne suggeriscono altri, ancora più cupi, che riguardano altri coraggiosi eroi, sprezzanti delle ipocrisie del politicamente corretto: quelli che dalle tribune politiche, o dai social, urlano di porti chiusi, «legittima» difesa, più armamenti, invasori da cacciare, difesa dei confini, prima gli italiani, Ong trafficanti di uomini, navi da demolire. Il tutto sulla testa del parlamento e della gente attraverso decreti d’urgenza sempre più aspri fatti circolare sui social (a beneficio dei «60 milioni» di fans) prima che nei documenti ufficiali del governo.

Ma queste cose non si devono pensare, né tanto meno scrivere su una rivista missionaria. «Vi siete svenduti alla sinistra? Cattocomunisti! Da quando in qua fate politica? Non sono affari che riguardano la missione. Guardate piuttosto alle vostre malefatte come Chiesa, all’Inquisizione, alle crociate, ai soldi del Vaticano. E i preti pedofili, e il papa eretico?» (per citare solo alcuni dei commenti più moderati che si trovano sui social).

Infine si intromette il Vangelo di Luca che ci sta accompagnando in questo anno 2019. Luca presenta Gesù che, dopo l’assassinio di Giovanni Battista, rende la sua faccia dura come pietra e comincia a marciare davanti ai suoi discepoli verso Gerusalemme dove sa che sarà «innalzato». I suoi sono convinti che «innalzato» significhi «portato in alto» (sulle spalle di schiavi) alla maniera dei grandi del tempo e secondo le aspettative popolari: per esprimere potere, autorità, prestigio, regalità, distruzione dei nemici. Lui invece è ben cosciente che il suo essere innalzato significherà andare sulla croce, come uno schiavo, un oggetto, e non come un uomo. Ancor meno come un re. Questo non lo ferma, anche se ne ha paura (vedi al Getsemani). Anzi, va avanti con più determinazione.

A quelli che desiderano seguirlo e che riescono a tenere il suo passo, non promette soldi, poltrone, privilegi, successo, popolarità, ma un «Dio vicino» in una vita sobria, essenziale, dura ed esigente, in una vita da nomade. Gesù educa i suoi a essere persone contente del «pane quotidiano», senza il peso e i legacci delle preoccupazioni, senza l’ansia per cose pur essenziali come la casa, il cibo, i vestiti. Vuole «angeli» (nel significato originale di messaggeri) la cui prima parola sia «pace a voi»: non l’annuncio di regole, riti, imposizioni, formalità, divieti, ma di gioia, festa, fraternità, bellezza, condivisione, comunione, amore reciproco, rispetto, accoglienza, perdono. Gesù cerca persone che lo seguano con coraggio e testimonino che Dio è amore e Padre di tutti, e ha un occhio di riguardo proprio per chi è disprezzato o ignorato da coloro che si ritengono «i buoni e giusti».

«Gli ultimi sono i primi»: non sono solo parole, ma una scelta di vita. Anche a costo di scandalizzare i «giusti», che per difendere il bene del popolo lo appendono alla croce.

Avere coraggio oggi non è fare le cose che raccolgono consensi, rendono popolari nel branco, fanno avere più voti, ma scegliere di stare dalla parte dell’uomo, «tutto» l’uomo, ogni uomo, perché uomo.


#ChiAmaVa è il claim scelto dall’equipe di comunicazione social della Fondazione Missio per il prossimo ottobre missionario. L’obiettivo della Campagna è di valorizzare il dinamismo della missione: chi ama si mette in movimento, è predisposto all’incontro e, come cristiano, trasmette la bellezza del Vangelo.



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