Irriducibili sognatori

Editoriale. | Di Gigi Anataloni |


Mentre scrivo si stanno contando i voti. Populismo e destre sembrano alla riscossa. C’è chi esulta e c’è chi piange. «Metà Italia contro élite e migranti», titola un giornale. Quando leggerete queste righe, forse avremo già un nuovo presidente del consiglio e un nuovo governo. Il devoto di san Gennaro o chi ha in tasca il rosario della mamma? Oppure si deciderà di andare a una nuova votazione? Bisognerebbe essere indovini per saperlo.
Fare il commentatore politico non è mia competenza ma, come cittadino, prete e missionario, non posso essere indifferente a quanto succede, soprattutto di fronte alla svolta populista e razzista che intravedo nel paese che amo e di cui sono orgoglioso. Paese che, tra l’altro, ha uno dei tassi più alti di mescolamento genetico al mondo (le analisi sul nostro Dna ce lo confermano), visto che da tempi immemori è stato luogo di incontro e scontro tra i popoli più diversi. L’Italia deve molta della sua bellezza e genialità proprio alla sua diversità.
Quasi tutti i commentatori concordano nel dire che uno degli elementi che ha favorito i vincitori è stata la questione dei migranti, come se fossero loro la causa della mancanza di lavoro e dell’insicurezza diffusa. Noi, da irriducibili sognatori che siamo, continueremo a sostenere, incoraggiati da quei tantissimi italiani che danno più ascolto al cuore che alle paure della pancia, che i migranti non sono un pericolo, ma un valore; che sono persone, uomini e donne come noi, non alieni o nemici, e vanno trattate con giustizia, rispetto e dignità, senza falsi paternalismi o pregiudizi. Giustizia richiede pratiche burocratiche snelle ed efficienti, accoglienza in strutture adeguate e non mezze prigioni, e inserimento, integrazione, scuola, lavoro regolare, salari giusti e cittadinanza a chi è già italiano di fatto (jus soli e affini). Giustizia è anche eliminazione delle nuove schivitù, della tratta, dello sfruttamento dei minori, del lavoro nero. Giustizia è anche dire no al paternalismo e creare con i migranti rapporti seri basati su correttezza e responsabilità, diritti e doveri, e rispetto delle leggi, senza condonare atteggiamenti antisociali o mafiosi.
La paura e l’esagerata percezione di insicurezza stanno spingendo molti ad armarsi, imitando?i nostri eterni modelli e rivali nordamericani. La corsa alle armi non è solo degli individui, ma anche degli stati. La nostra bella nazione, che nella sua Costituzione rigetta la guerra, ha aumentato le spese militari almeno del 4,5% rispetto al 2017, e del 25,8% rispetto al 2006, ed è una delle prime produttrici e venditrici di armi al mondo. Noi, da irriducibili sognatori, continueremo a sostenere che la pace non si ottiene né mantiene con le armi, ma con il dialogo, il rispetto, l’aiuto reciproco tra le nazioni, la difesa dell’ambiente, il commercio equo, un’economia solidale e la lotta alla povertà. Che a livello personale l’arma più potente è il perdono e la nonviolenza, e che gratuità, volontariato, servizio, condivisione, aiuto a chi è nel bisogno e rispetto delle diversità sono più forti e danno più sicurezza di porte blindate, di regolamenti razzisti, di armi in casa, di ronde e vigilantes. Siamo incoraggiati dal fatto che il nostro paese è davvero ricco di gruppi, associazioni e movimenti che «lottano» per la pace e la nonviolenza e sono attivi nel volontariato e nel servizio alla comunità. Questo è bello e dà tanta speranza.
C’è un germe di speranza anche nelle elezioni appena svolte: l’affluenza alle urne ha battuto tutte le previsioni di astensionismo, soprattutto tra i giovani. Questo significa che, nonostante certi politici fallimentari e autoreferenziali, gli italiani credono ancora nella «Politica» e nella partecipazione alla vita del paese, e sono coscienti «del diritto, che è anche dovere, di usare del proprio libero voto per la promozione del bene comune» (Gaudium et Spes 75). Perché «la comunità politica esiste in funzione di quel bene comune, nel quale essa trova significato e piena giustificazione e che costituisce la base originaria del suo diritto all’esistenza» (GS 74). Noi, irriducibili sognatori, continueremo a credere che il futuro non è dei corrotti, dei venduti ai grandi poteri economici, di chi mette i suoi interessi al primo posto o è affamato di potere, dei mafiosi e dei massoni, ma di quegli uomini, cristiani e non, che, presa «coscienza della propria speciale vocazione nella comunità politica», si impegnano in prima persona, «sviluppando in se stessi il senso della responsabilità e la dedizione al bene comune» (GS 75).?«Bene comune» che, oggi più che mai, ha dimensioni planetarie, visto che ogni scelta politica, economica e ambientale ha effetti su tutta l’umanità.

Gigi Anataloni

_________________________
P.S. MC non ha cambiato titolo. Quest’anno la testata ricorda i 120 anni della rivista, fondata dal beato Allamano nel 1899 come il bollettino «La Consolata» dell’omonimo santuario di Torino. Dal 1901 il bollettino ha due anime: il santuario e le missioni d’Africa. Così nel 1928 si divide in due pubblicazioni: quella del santuario e «Missioni Consolata» che è la voce dei missionari.




Cari missionari, lettere dai lettori

Usukhjargal

Usukhjargal è un simpatico bimbetto di 7 anni, che abita in una gher (la tradizionale tenda mongola) alla periferia di Arvaiheer, capoluogo polveroso della provincia dell’Uvurkhangai, in Mongolia, tra le montagne Khangai e la steppa che dirada verso il deserto. Ha l’occhio vispo di un bambino pieno di vita, mentre scende la collina stringendo la mano callosa di papà Jargalsaikhan che da tre anni aiuta noi missionari con i lavori manuali.

Sette anni fa i medici avevano sconsigliato alla mamma di portare a termine la gravidanza, sulla base di (presunte) mal-
formazioni, o più probabilmente perchè prevedevano un parto difficile, che avrebbe creato loro fastidi. Ed eccolo qui ora, saltando e correndo nel cortile della missione, con le immancabili gote rosse e il sorriso sulle labbra. I genitori sono stati così felici di averlo avuto che l’hanno ritenuto un dono di Dio e hanno chiesto per lui il battesimo quando aveva poco più di un anno.

È stato tra i bimbi del primo gruppo del nostro asilo informale ospitato in una gher dal 2013. L’asilo e iniziato con lui ed è un progetto che si sta rivelando molto positivo: sono molte le famiglie che per povertà ed emarginazione non riescono ad iscrivere i propri figli alle scuole materne statali. Così abbiamo pensato di crearne una con mezzi molto semplici e poco dispendiosi, valorizzando gli elementi culturali più sentiti, come appunto l’abitare nelle gher.

Usukhjargal adesso frequenta la seconda elementare, ma continua a venire tutti i giorni alla missione, dove si unisce agli altri bambini del doposcuola. In un’altra gher calda (anche quando fuori fa meno trenta) e accogliente, bambini e ragazzi delle scuole vengono a fare i compiti e a giocare, assistiti da due signore della comunità.

Il volontariato qui è ancora una novità, ma queste due mamme hanno capito che possono rendersi utili con quello che sanno fare e sono di esempio a tutti. Una di loro è Otgonbayar, la mamma di Usukhjargal. Cerchiamo così di promuovere la cultura della gratuità che fa ancora fatica ad affermarsi in un paese che sta emergendo da 70 anni di comunismo.

Due volte alla settimana Usukhjargal (insieme a tutti gli altri bambini e adulti che lo desiderino) viene a farsi la doccia alla missione, dove da otto anni è attivo un servizio di docce e bagni pubblici gratuiti. Nelle gher ovviamente non c’è acqua corrente e l’igiene personale è dunque ridotta al minimo, per non dire che è molto sacrificata.

All’asilo e al doposcuola cerchiamo di provvedere cibo buono e salutare, per supplire alle carenze vitaminiche di un’alimentazione poco variegata e talvolta insufficiente.

Un giorno, mentre Usukhjargal faceva la fila per lavarsi le mani prima di merenda, ho visto un bambino che gli bisbigliava all’orecchio. Mi sono avvicinato e ho sentito dire: «Sai che bello, mio papà adesso non beve più! Alla sera vediamo insieme la tv e non ci sono più urla e oggetti che volano dentro la  nostra gher…». È infatti un vero cammino di guarigione quello che il papà dell’amichetto di Usukhjargal ha intrapreso con un gruppo di uomini che si trovano regolarmente alla missione per cercare insieme una via che li faccia uscire dall’alcolismo, vera piaga sociale da queste parti. La missione è qui per tutti e può mettere in atto questi segni di prossimità e aiuto se è sostenuta da persone di buona volontà.

Guardando giocare Usukhjargal, non posso che ringraziare Dio per tutti coloro che in questi anni ci stanno permettendo di prenderci cura di lui e di tanti altri come lui, piccoli e grandi. È il miracolo della solidarietà che si rende concreto attraverso la Fondazione Missioni Consolata Onlus. Grazie.

Giorgio Marengo
Arvaiheer, 16/02/2018

Grazie per il dossier sui migranti

Buongiorno,
ho conosciuto la vostra bellissima rivista qualche anno fa, quando sono passato un po’ per caso alla Consolata con i miei studenti in visita di istruzione a Torino. Innamorato dei contenuti e del vostro stile, ho volentieri fatto l’abbonamento alla rivista, che ricevo e leggo sempre con attenzione.

In particolare ho trovato davvero fatto bene, sintetico ma insieme esaustivo, il dossier pubblicato nel numero di gennaio a firma di Daniele Biella, circa i migranti e il reportage dalla nave Aquarius. Poiché tratto spesso con i miei alunni temi che puntano a sensibilizzarli e a superare i molti, troppi luoghi comuni sull’argomento, vorrei poter diffondere il dossier a titolo informativo, anche in ambito comunale (sono consigliere comunale nel mio paese e accogliamo alcuni richiedenti asilo, ma con purtroppo molti pregiudizi tra i cittadini).

Dino Caliaro
27/01/2018

 

Grazie di cuore. Le ricordo che dal nostro sito è possibile scaricare il dossier come pdf e poi stamparlo.

Preghiere e novene

Gentilissimi,
seguo sempre con grande interesse la vostra rivista. Volevo dare un mio piccolo contributo inoltrandovi alcune preghiere, orazioni, novene a cui sono legate promesse molto potenti e/o grandi indulgenze. Ovviamente non è mia intenzione dirvi cosa dovete o non dovete pubblicare, solo queste preghiere mi hanno aiutato molto e credo possano aiutare anche tante altre persone. Così ho pensato di suggerirvene alcune, che magari già conoscerete o già avrete pubblicato, sperando arrivino a quante più persone possibile. Sperando di fare cosa gradita ringrazio in anticipo per l’attenzione e porgo distinti saluti

Monia
27/02/2018

Cara Monia,
le confesso che quando ho ricevuto la sua email con la lista di ben ventitré novene e preghiere (da quella – a me ignota – alla «Sacra Spalla» alla «Via Crucis» – che con le novene ha ben poco da spartire), il primo pensiero è stato «un altro spam. Cestina». Poi ci ho ripensato perché poteva diventare un’opportunità per questa pagina di dialogo con i lettori. Il tema della preghiera, sul quale ormai da oltre un anno sta scrivendo don Paolo Farinella, sta suscitando molto interesse perché tocca il cuore della vita cristiana. In questo contesto è abbastanza chiaro che stiamo cercando di proporre uno stile di preghiera biblicamente e liturgicamente fondato, provando a evitare devozionalismi e pietismi, pur rispettando la vera «pietà popolare» e le sue ricche tradizioni.

Noi che viviamo dopo il Concilio Vaticano II abbiamo ricevuto un dono grandissimo: quello dell’Eucaristia – la «messa» – che è passata da «rito e obbligo» a «celebrazione e incontro» di salvezza nello spezzare la Parola (finalmente comprensibile a tutti) e il Pane. L’Eucarestia è al cuore della nostra preghiera, tutto il resto viene da quel fare memoria viva della Pasqua e alla messa tutto ritorna per diventare offerta gradita a Dio.

Le «preghiere, orazioni, novene a cui sono legate promesse molto potenti e/o grandi indulgenze», possono anche aiutare, ma hanno il rischio di mantenere in noi una falsa concezione di Dio, un Dio che ha ripetutamente bisogno di essere supplicato e che ascolta solo se si recitano con fedeltà e insistenza certe formule.

Che contrasto tra la prolissità e ripetitività di molte novene e la sobrietà della preghiera di Gesù. Ai discepoli che gli chiedono «insegnaci a pregare» (Lc 11,1-4), lui offre solo la brevissima preghiera del «Padre», senza fare promesse, senza mettere condizioni né sul numero di volte né per quanti giorni né sulle modalità (in piedi, seduti, inginocchiati…).

Quando Gesù dorme sulla barca nella tempesta (Mc 4, 37-40 – figura della Chiesa e di noi nelle difficoltà della vita) ai discepoli spaventati non dice di pregare i salmi, di fare rituali, di recitare speciali invocazioni: chiede solo di avere fede.

E quando nella stessa barca vanno in panico perché non hanno «pane» (Mc 8,14-21) li rimprovera perché «non hanno capito» il miracolo del pane, cioè l’Eucarestia, il «Pane di vita» spezzato per noi e sempre presente in mezzo a noi. Anche per noi, nelle acque tempestose dei nostri tempi, la forza viene dalla fede che sostiene la nostra preghiera, non dal numero e tipo di preghiere che recitiamo. Gesù ci ha fatto una promessa: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Impariamo a camminare con lui, sapendo che c’è sempre, anche se a volte sembra dormire.

Galeano

Eduardo Galeano (AFP files / Pabro Porciuncola)

Solo adesso ho letto l’articolo su Galeano, contenuto nel numero di dicembre della rivista. Sono allibito nel leggere le dichiarazioni di Gianni Minà sul Venezuela, e soprattutto a leggerle su una rivista come Missioni Consolata. Quanto viene detto dai giornali occidentali, compreso il nostro Avvenire, sulla disastrosa situazione dei diritti umani dei venezuelani viene trattato con disprezzo dal giornalista. Le recenti elezioni della Costituente sono state vinte da Maduro? Ma queste elezioni sono state illegali, il presidente Maduro non aveva nessun diritto di eliminare il Parlamento, eletto comunque democraticamente, in un paese dominato prima da Chavez e adesso dall’ex camionista Maduro, e di sostituirlo con la Costituente. L’opposizione non ha potuto fare niente per fermare lo strapotere dei chavisti e decine di persone sono state uccise dalla polizia durante le manifestazioni di protesta in difesa della democrazia. I venezuelani sono alla fame, già decine di bambini sono morti di stenti e la colpa non è certo dei cosiddetti «servizi di intelligence nordamericani». La colpa è dell’arroganza del potere e dell’incapacità di far fronte ai bisogni della popolazione, ridotta a fare lunghissime code di fronte a negozi che non hanno quasi nulla da vendere. D’altronde, Gianni Minà è ben conosciuto per la sua amicizia con Fidel Castro prima e adesso con Raùl, il fratello che ha preso il potere. I cubani stanno un po’ meglio dei venezuelani, per loro fortuna, ma Gianni Minà non dovrebbe dimenticare che i Castro hanno accumulato un’immensa fortuna nel povero paese caraibico; l’attuale presidente Castro controlla direttamente tutta l’economia cubana, e ne ha approfittato largamente. Non è la prima volta che su Missioni Consolata vengono pubblicati articoli molto discutibili, già anni fa avevo letto le lodi della «presidenta» cilena Michelle Bachelet che. come tutti sanno, è una sostenitrice della «salute riproduttiva», cioè dell’aborto. Ma che linea ha scelto Missioni Consolata? Il fondatore sarebbe d’accordo se fosse ancora vivo? Perché non vi leggete gli ottimi articoli che Avvenire ha dedicato alla crisi venezuelana? E l’Avvenire non è certo al servizio delle «agenzie di informazione nordamericane». Da una rivista cattolica mi aspetto come prima cosa un’informazione corretta, non di regime. Distinti saluti.

Franco Eustorgio Malaspina
Milano, 03/02/2018

Caro Sig. Malaspina,
grazie di averci scritto. Le confesso che mi ha sorpreso che sia «allibito» di fronte a quanto ha scritto Minà sul Venezuela visto che sembra conoscere le frequentazioni dello stesso e quindi sapere bene come la pensa. Circa la «presidenta» Michelle Bachelet (di cui abbiamo scritto nel maggio e giugno 2014) è certamente discutibile nel suo appoggio alla «salute riproduttiva», ma ha pagato con la prigione e la tortura il suo impegno politico, mentre il generale Pinochet, pur devoto della Madonna, non ha esitato a imprigionare, torturare e uccidere i suoi oppositori.

Non siamo né fans di Castro né di Chávez, tantomeno di Maduro. I Castro, come dice lei, hanno pur accumulato un’immensa fortuna, ma non risultano certo nella lista dei più ricchi del mondo. Quel signore che fa spedire pacchi a mezzo mondo e vuole mettere il «braccialetto» ai suoi operai perché lavorino «meglio», è immensamente più ricco di loro e di tanti altri.

Se poi ci segue in rete, avrà visto che sulla nostra pagina Facebook abbiamo segnalato più e più volte proprio le pagine di Avvenire sia sul Venezuela che su altre gravi situazioni del mondo. Ammetto che su questa rivista non abbiamo più pubblicato articoli specifici sulla situazione di quel paese (l’ultimo è dell’agosto 2016). E questo è un errore, anche se continuiamo a seguirne la drammatica situazione grazie ai nostri missionari e agli amici che abbiamo sul posto.

Che direbbe poi il nostro Fondatore? Nel nostro piccolo, noi cerchiamo di fare un’informazione documentata e approfondita che permetta al lettore di farsi la sua opinione su situazioni, fatti e persone. Su questo l’Allamano non penso avrebbe da obiettare. Scriviamo «slow news» (facendo il verso al fast food) proprio perché non vogliamo imporre niente a nessuno, ma servire la verità con una speciale attenzione ai poveri, agli emarginati e a quelli che sono ignorati dalla grande comunicazione. Non siamo esenti da errori e possiamo sbagliare. Riportare fatti e opinioni di persone che non vivono o sono contro i principi cristiani non è sposarne le idee e rinunciare alla nostra fede e religione. Siamo pronti a essere corretti e a confrontarci su fatti e idee. Per questo la ringraziamo ancora della sua email.

Petrolio causa di tensioni nel mondo

Nell’articolo sull’Ecuador (MC 12/2017) si parla della curiosa proposta dell’ex presidente Correa di chiedere un contributo alla comunità internazionale per non estrarre petrolio da una zona ecologicamente sensibile. Non si vede bene quale comunità sarebbe interessata a dare un contributo a un presidente sudamericano, che poi potrebbe diventare un Maduro, il quale forse si fa pagare in proprio per non estrarre più il petrolio venezuelano, convenientissimo ma con aziende in preda al marasma e con attrezzature che mancano anche dell’ordinaria manutenzione.

Ma probabilmente sono interessate le banche Usa che han prestato i soldi alle società che praticano il fracking devastando l’Ovest di Usa e Canada, ma assicurando loro l’autonomia energetica. Se il petrolio scende stabilmente sotto i 50 euro falliscono sia le società che le banche, e finora l’unico costosissimo sistema di non farlo scendere è di impedire la produzione in Iraq e Siria, attizzando continue complicatissime guerre, e possibilmente d’ora in poi razionare gli acquisti dall’Iran. E mantenere uno stato di tensione che impedisca anche solo di progettare un investimento per l’estrazione sottomarina dal Mediterraneo orientale, tra Cipro e l’Egitto, l’area più incasinata del mondo, ma con petrolio e gas molto convenienti.

Claudio Bellavita
02/02/2018

Lascio la risposta a Paolo Moiola, autore dell’articolo.

La proposta dell’ex presidente Correa è stata ritirata dallo stesso (quando era ancora in carica) a causa della scarsa risposta avuta a livello internazionale. L’idea era rivoluzionaria in quanto avrebbe consentito di salvaguardare uno scrigno mondiale di biodiversità qual è quella parte di Amazzonia ecuadoriana. Senza parlare della mancata emissione di CO2 nell’atmosfera che avrebbe contribuito a mitigare le conseguenze del cambio climatico. Quanto all’eventuale trasformazione di Correa, egli non è più presidente e vive in Belgio, paese della moglie. Dunque, il rischio che diventi un altro Maduro – come paventa il lettore – non sussiste.

 




Niger: Jihadisti, eserciti e migranti nel paese più povero del mondo

Testo e foto di Marco Bello |


La rotta del Sahara è stata affrontata da generazioni di nigerini. Cercavano un lavoro in Libia. Ma oggi nel paese arabo la vita per uno straniero è insostenibile. Anzi, un «nero» è diventato merce di scambio, vacca da mungere, moneta sonante. In fuga da detenzioni arbitrarie e torture, migliaia di persone cercano di tornare a Sud. Qui li aspettano le famiglie, ma anche siccità e scarsità di lavoro.

Zinder. «Vogliamo che la nostra gente resti qui, al villaggio. E possa lavorare la terra anche durante la stagione secca, quando non cade una goccia d’acqua». Chi parla è Galadima, capo villaggio di Guirari, nel comune rurale di Gouna. Siamo nella regione di Zinder a oltre 900 km a Est dalla capitale Niamey, nel Niger profondo. Ma ci troviamo a poco più di 110 km dal confine con la Nigeria, il gigante africano, che da sempre estende qui la sua influenza economica, commerciale, religiosa.

Guirari è un grosso villaggio isolato, in quanto non vi arrivano strade asfaltate, rare da queste parti, ma solo piste di sabbia o laterite. Le grandi direttrici del Niger sono due: una attraversa il paese da Ovest a Est, dalla capitale al confine con il Ciad, a Ngugmi, nei pressi di quello che era il lago Ciad oggi quasi prosciugato. Il lago definisce un confine quadruplo: Niger, Ciad, Nigeria e Camerun. L’altra strada asfaltata arriva dalla Nigeria, a Sud, e giunge fino ad Agadez e Arlit a Nord, dove l’asfalto termina bruscamente per diventare una pista di sabbia. Le due s’incrociano a Zinder, seconda città del Niger, già capitale e sede dell’antico sultanato del Damagram (dal nome della zona in lingua locale) creato nel 1720. Uno dei più importanti nella storia del Niger.

Due stagioni

Non siamo nel deserto, ma in una zona semiarida, di sabbia, poca terra, laterite e arbusti. Diffuse sono le acacie e altre piante spinose più basse. Qui la gente si è adattata a coltivare una terra povera, che dà frutto durante i mesi di pioggia, da giugno a inizio settembre. In quel periodo si coltivano alcuni cereali, miglio e sorgo, di varietà adattate a questa scarsità di acqua e nutrienti nel sottosuolo. Con i loro grani, si ricava una farina che, preparata come una specie di polenta, costituisce l’alimento base della popolazione. Se piove con regolarità, il raccolto sarà buono e il granaio di casa, dopo il raccolto, potrà tornare pieno, sperando che la scorta duri fino all’anno prossimo. Ma spesso le piogge sono irregolari e il raccolto dell’anno, l’unico, è povero. Il cibo scarseggerà e sarà crisi alimentare.

Dove non ci sono alternative, nei mesi della stagione secca gli uomini lasciano i villaggi e vanno a cercare lavoro in altre zone, e paesi. In particolare, in Nigeria e in Libia. Una migrazione stagionale, storica, che spesso dura alcuni anni. Quella che i nigerini chiamano «esodo», termine che indica l’ampiezza del fenomeno.

Continua Galadima: «Durante la stagione secca, dopo aver finito il lavoro dei campi, molti dei nostri giovani partono. Ma io preferisco che restino al villaggio, in aiuto ai genitori. Vanno in Nigeria, in Libia. Non vogliamo che lo facciano». Non c’è gente che vuole andare in Europa? Chiediamo. «No, ma abbiamo ancora molti giovani in Libia, dove la loro situazione oggi è critica. Vogliamo fare in modo che possano lavorare qui anche nella stagione secca». E continua: «In questa zona abbiamo un sottosuolo fertile. Qui arrivava molta acqua, che irrigava più di 200 ettari. Il problema è che due dighe, Gapati e Zermo, adesso bloccano le acque della valle di Korama». Si riferisce a un avvallamento non lontano dal villaggio, una depressione orografica che raccoglieva molte acque piovane, conservandole anche durante i mesi secchi e permettendo la coltivazione di ortaggi per molti mesi dell’anno.

Un’alternativa

Dalla metà del 2016 è attivo nella zona un progetto dell’Ong Cisv onlus di Torino, cofinanziato dall’Unione europea che prevede proprio la sistemazione di perimetri irrigui, in modo da permettere la coltivazione di ortaggi durante la stagione secca, grazie all’acqua di pozzi scavati in un’area di 70 ettari.

Maman Daoda è il presidente di un’associazione di contadini, che si organizzano per lavorare nella valle di Korama durante la stagione secca. «Siamo pronti, vogliamo lavorare, in alternativa alla partenza per la Nigeria.

Con la mobilitazione della popolazione fatta dal progetto, poca gente è partita quest’anno. Se parti, quando torni, trovi tuo fratello che, rimanendo, ha potuto lavorare più di te.

Quando la stagione delle piogge comincerà, chi è rimasto (anche nei mesi secchi, ndr) ha potuto lavorare la terra e mettere da parte qualcosa per comprare i materiali e quindi coltivare il campo durante la stagione delle piogge, e potrà comprarsi da mangiare nel periodo nel quale il lavoro è più duro». Nei mesi di giugno e luglio infatti, il lavoro fisico è maggiore, ma le scorte dell’anno precedente sono quasi o totalmente finite.

La voce delle autorità

Lasciamo il villaggio di Giuirari, con le sue speranze su un futuro nel quale i giovani non dovranno più emigrare, e incontriamo il capo del corpo forestale, nella prefettura di Mirriah (capoluogo del dipartimento), che commenta: «Sono stato in visita nella valle di Korama e ho incontrato la popolazione. Stavano facendo la divisione delle parcelle di terreno che saranno assegnate a ciascuno per coltivare ortaggi. Parlando con loro sono stato contento, perché ho capito che molti hanno rinunciato a partire per la Libia o la Nigeria. Grazie a questo intervento avranno del lavoro. Normalmente, finita la campagna agricola dei cereali, la gente incrocia le braccia, ma ora ha delle risorse importanti che possono essere sfruttate anche nel periodo morto». E conclude: «Si tratta di famiglie molto povere che non riescono a soddisfare i propri bisogni alimentari nell’arco dell’anno con la sola coltivazione di cereali».

Anche il prefetto in persona, avvolto nel suo grand boubou da grande capo, ci parla della sua visione in merito: «Questo intervento permetterà ai più poveri di arrivare a essere autosufficienti, grazie a un appoggio iniziale che viene dato loro. Dovranno essere un po’ più attivi, perché diventano degli attori che contribuiscono al miglioramento della propria condizione di vita. Ma anche individui che, da un momento all’altro, iniziano a contribuire allo sviluppo dell’economia locale. Inoltre, altre comunità potranno ispirarsi alle tecniche e metodologie messe in campo dal progetto, in modo che questi insegnamenti diventino duraturi e diffusi sul territorio».

I disperati di Birji

Partiti da Mirriah, ci spostiamo una cinquantina di chilometri a Nord di Zinder. Gli alberi si fanno più radi, sono rimpiazzati da bassi cespugli spinosi, la sabbia invade la strada asfaltata e la laterite affiora dal sottosuolo. Ma non siamo ancora nel vero deserto. Anche qui vi sono villaggi di agricoltori che condividono una terra bellissima, ma povera, con popolazioni di allevatori nomadi, i Peulh, i quali si spostano di continuo con le loro mandrie in cerca di pascoli ed acqua.

Ci accompagna madame Nana Aicha Mamadou, responsabile dell’associazione locale Sa3d (Sahel action pour la democratie et le developpement durable, ovvero «Sahel azione per la democrazia e lo sviluppo sostenibile»). Una realtà nuova della società civile di Zinder, che ha la specificità di essere composta in maggioranza da donne.

Arrivati al villaggio Birji, ci dirigiamo nel cortile della scuola elementare, l’edificio più grande in mattoni e cemento. Qui ci aspetta una folla di uomini, molti dei quali piuttosto giovani. Sono vestiti in modo un po’ diverso dai contadini. Hanno giubbotti, giacche o berretti di fattura occidentale, anche se sgualciti e di certo non all’ultima moda. Sono seduti a semicerchio e scrutano gli ospiti venuti da lontano. Sapremo più tardi che sono oltre un centinaio.

Birji è il villaggio più grande, e quindi di riferimento, di una zona particolarmente svantaggiata, in quanto non ha avvallamenti o aree orografiche come la valle di Korama, che raccolgano l’acqua durante le piogge. Inoltre, qui la falda acquifera è molto profonda, e realizzare dei pozzi che forniscano una buona quantità d’acqua anche in stagione secca è più costoso che altrove.

Quest’area – ci racconta madame Nana – è zona particolarmente depressa, segnata quindi da emigrazione stagionale. Questi uomini sono le braccia valide dei villaggi, che lasciano la famiglia durante la stagione secca per andare a lavorare in Libia o in Nigeria.

Ma qualcosa negli ultimi tempi è cambiato. I fattori sono due. Le maggiori difficoltà per affrontare il viaggio, a causa della nuova legge nigerina per il contrasto alla migrazione clandestina, che ha reso più complesso spostarsi e in molti casi occorre farlo clandestinamente. Ma soprattutto le condizioni di lavoro e di sicurezza in Libia.

Inferno Libia

Nassirou ha 35 anni e faceva l’agricoltore a Birji. Lavorava la terra ma non guadagnava abbastanza. Decise dunque di partire, come alcuni suoi conoscenti prima di lui: «Nel 2006 sono andato in Libia per la prima volta dove ho lavorato per un padrone arabo in un allevamento di polli. Vi sono rimasto due anni, durante i quali mandavo i soldi a casa. Poi sono tornato». Nassirou è ripartito una seconda volta per la Libia e vi è rimasto tre anni, senza particolari problemi. «Vi sono andato per la terza volta, ma qualcosa era cambiato». Mentre Nassirou ci racconta come è andata, il suo volto ricorda il terrore: «Quando avevo finito il mio periodo di lavoro, con un gruppo di connazionali siamo partiti per tornare in Niger. Sulla strada del rientro ci hanno catturati e riportati in città dove ci hanno venduti. Hanno assaltato con le armi il mezzo su cui viaggiavamo, ci hanno obbligati a scendere e ci hanno messi nel cassone di un pick up, con le mani legate con corde e catene dietro la schiena». Nassirou ci mostra i segni delle catene ai polsi. «Siamo stati sette ore legati e senza mangiare, e ci hanno poi chiusi in una camera dove non ci hanno dato né acqua né cibo. Io ho passato due mesi rinchiuso in una stanza dalla quale non si vedeva il sole. Mi hanno fatto spogliare e indossavo solo le mutande».

Nassirou era detenuto in una prigione clandestina nella città libica di Beni Walid: «Durante due mesi siamo stati maltrattati, mentre aspettavamo i soldi per essere liberati. Ci hanno dato un telefono dicendoci: “Se conosci qualcuno in Libia chiamalo e parlagli della tua condizione. Lui dovrà telefonare alla tua famiglia, al paese, per dire di mandare i soldi affinché tu sia liberato”. Così siamo riusciti ad avvisare che eravamo prigionieri».

La famiglia di Nassirou, a Birji, ha venduto due vacche e ha mandato i soldi a un suo compaesano in Libia, affinché li versasse su un conto segnalato. «Il giorno che i soldi sono arrivati, mi hanno preso e mi hanno picchiato. Poi mi hanno portato a Tripoli e liberato. Non riuscivo neanche a stare in piedi, ma grazie ad altri nigerini che mi hanno soccorso, ho ripreso un po’ le forze. Poi mi hanno pagato un biglietto per rientrare.

Altri prigionieri che erano con me invece sono morti. C’è ancora gente rinchiusa in queste prigioni, a soffrire. È sempre così, ti mettono una catena al collo e puoi morire facilmente. Ho visto anche persone di Sudan, Ghana, Mali, Nigeria».

Nassirou non ha più intenzione di andare in Libia. È tornato da sette mesi e ha lavorato nei campi durante luglio e agosto, ma adesso sta cercando di capire che lavoro fare.

A caccia di «neri»

Accanto a lui il più giovane Innousa, 27 anni, ha qualcosa da raccontare: «Non ho mai avuto problemi con il mio padrone in Libia. Ma alla fine del mese venivano da noi i ladri, di notte, per prenderci i soldi. Ed eravamo obbligati a darglieli. Vivevo nella città di Ubari, ma oggi la situazione si è totalmente degradata diventando molto insicura. Io sono stato assaltato due volte da banditi, che mi hanno puntato delle armi al petto chiedendomi tutto quello che avevo. Adesso ti assaltano anche di giorno, non solo di notte. E quando sei in casa devi barricarti dentro, ma rischi che rompano la porta per assaltarti. Se devi uscire a comprare qualcosa è meglio chiedere al tuo padrone per non farti vedere in giro. Quando sei in macchina con lui per fare delle commissioni, rischi che vi fermino e dicano al padrone: “Vogliamo lui”. Alcuni lasciano i loro lavoratori nelle mani degli assaltatori. Se prendi un taxi, rischi che il tassista ti porti dai banditi o dalla polizia dove ti maltrattano. Ormai non vedi subsahariani in giro, stanno tutti nascosti».

Continua Innousa: «Abbiamo capito che c’è complicità tra polizia e bande armate. Gli arabi contro i neri. Anche il tuo padrone può tradirti e consegnarti. È pure successo che facessero irruzione in una casa, e portassero via delle persone (dei migranti, ndr). E non si sa più nulla di loro. Scompaiono. Non so se vengono venduti oppure uccisi». Innousa non vuole più sentire parlare di Libia: «Non ci torno più, assolutamente».

Saidou, 40 anni, ha avuto esperienze simili e ci spiega perché è partito: «Mi sono sposato, ma non avevo di che nutrire la mia famiglia, quindi ho seguito l’esempio di altri amici. Ma ultimamente è diventato difficile mandare i soldi alla famiglia, mentre prima era la normalità». Poi indica la terra del suo villaggio: «Guardate qui intorno, non c’è niente da fare, come è possibile vivere così. Adesso i giovani non sanno che lavoro fare, non avendo più l’opportunità di andare in Libia».

Sono molti i ragazzi, gli uomini che ci fissano, oggi, nel cortile della scuola primaria di Birji. Alcuni portano occhiali da sole e fanno il viso da duri. Altri hanno semplicemente lo sguardo perso nel vuoto. Altri ancora sono incuriositi dagli ospiti stranieri.

Issaka, 47 anni, ha la barba bianca. Lui ne ha fatti tanti di viaggi in Libia. Ma adesso ci dice: «Prima era molto vantaggioso andare in Libia a lavorare. Ma è finito quel tempo. C’è solo sofferenza laggiù.

Nessuno vuole più partire. Il problema oggi è far ritornare quelli che sono là, non tanto scoraggiare i giovani dal partire».

Issaka ha lavorato il campo nell’ultima stagione piovosa, ma non ha un lavoro sicuro: «Mi piace l’orticoltura, e sto cercando anche di fare del piccolo commercio o dell’allevamento. Ma per ora non ho nulla».

Rientri di massa

Nel mese di dicembre scorso il governo del Niger ha organizzato un rimpatrio di massa di nigerini dalla Libia. Ha messo a disposizione un aereo per i voli di rientro da Tripoli e ha chiesto assistenza all’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni, organismo delle Nazioni Unite) per organizzarlo. L’Oim, nella sua sede libica. ha aiutato a identificare i nigerini e farli partire, con un procedimento chiamato «rimpatrio umanitario assistito», orientato a persone detenute nei centri illegali o appena uscite da essi.

La sede Oim di Niamey ha organizzato una prima accoglienza e ha messo a disposizione i mezzi per il rientro nelle aree di origine. L’obiettivo era il rimpatrio di 4.000 persone. Nel momento in cui abbiamo contattato gli operatori dell’Oim Niamey, erano già stati effettuati 1.500 rimpatri. Il Niger è l’unico paese africano che si è impegnato in un’azione di questo tipo a protezione dei propri connazionali.

Costruire una possibilità

Chiediamo a madame Nana, attenta osservatrice della situazione nella regione e a livello nazionale, che prospettive ci sono: «Qualche anno fa, a Zinder c’era un grande transito di migranti dalla Nigeria. Gente di varia nazionalità, addirittura dal Ghana, che passavano da Kano e poi qui, per andare verso Agadez. Da circa un anno osserviamo una riduzione drastica di questi convogli.

Questo perché il passaggio in Libia è diventato molto difficile. Anche i nigerini della regione, che vi lavoravano, sono tornati e non riescono più a partire. Chi aveva l’abitudine di andare in Libia, adesso cerca la via della Nigeria per trovare lavoro. Questa è una migrazione storica, almeno per la nostra popolazione».

Madame Nana insiste sul fatto che il governo sensibilizza, scoraggia chi vuole andare in Libia, mentre non fa la stessa cosa per la Nigeria. Il grosso problema, insiste, è che queste popolazioni depresse avevano nelle rimesse dei lavoratori stagionali, un ingresso economico essenziale: «Come aiutare chi ritorna dalla Libia? Come associazione locale abbiamo un programma per loro. Ma occorrono i fondi. Se si chiede alla gente di non andare in Libia occorre proporre loro un’alternativa, trovare loro un lavoro».

Marco Bello




Niger, frontiera d’Europa

Testi e foto di Marco Bello |


Per la sua posizione strategica il Niger è diventato il principale paese di passaggio di ogni traffico illecito, in particolare quello dei migranti. Oggi chi non è riuscito a traversare il Mediterraneo – e non è morto – fugge dalle persecuzioni dei libici, e tenta la via del ritorno. Ma spesso si trova bloccato a metà strada senza soldi. Qui l’Unione europea vorrebbe fermare il flusso di gente verso Nord. E per farlo utilizza soldi ed eserciti.

Niamey. La città di sabbia con le sue case basse color ocra pare sempre uguale. Tranquilla e lontana dalla frenesia di molte metropoli africane, più che una capitale di uno stato potrebbe essere un grande villaggio. Ogni tanto nei quartieri si incrocia un cammello che procede dondolando dietro al suo padrone inturbantato. Eppure qualche novità c’è. Negli ultimi anni il traffico automobilistico è aumentato notevolmente, e questo nonostante siano stati costruiti due svincoli stradali, uno dei quali sulla centralissima rotonda che dà accesso al ponte Kennedy, quello storico dei due che collegano le due sponde del fiume Niger. Il più recente è stato realizzato dai cinesi – grandi amici del Niger – nel 2011 e un terzo è in previsione, sempre ad opera dei cinesi, per quest’anno.

Ma le novità sono anche altre, meno visibili.

Ci avviciniamo al centrale Rond-point de la Liberté (rotonda della libertà), nei pressi del Grand marché, il mercato principale della capitale. Qui abbiamo l’appuntamento con Cheick Ahmed Touré, che si presenta come agente consolare della Guinea Conakry in Niger. Il signor Touré, guineano, ha già una certa età e ha passato gli ultimi 40 anni della sua vita in questo paese. Pacato e gentile, indossa una giacca grigia che gli conferisce una certa autorevolezza. Il suo sguardo sereno ci scruta da dietro le lenti di vistosi occhiali.

Oramai da alcuni anni Touré è diventato il punto di riferimento dei migranti guineani, ma anche senegalesi, ivoriani, maliani in transito per la capitale nigerina. In maniera totalmente volontaria e gratuita, Touré si è organizzato per aiutare in tutti i modi possibili questi giovani, oggi in fuga dalla Libia, ieri in viaggio verso quel paese.

Il nostro uomo ci aspetta per portarci in uno dei tre «Foyer» (o centri) nei quali accoglie migranti di passaggio. Lo seguiamo. Dietro al rond-point imbocca una stradina, quasi un vicolo. Ci fa parcheggiare. A piedi ci conduce in un viottolo tra case in banco (pronuncia bancò: fango e paglia essiccato al sole, materiale di costruzione tradizionale, molto usato in ambito rurale e ancora, talvolta, nel centro della capitale). Accediamo a un cortile che sembra quello di un quartiere periferico o di un villaggio: terra battuta, frammenti di muri in fango scrostati, qualche panca di legno grezzo, un via vai di persone.

Qui siamo subito circondati da alcuni giovani che ci squadrano con sguardi tra il curioso e l’ostile. Ma noi siamo con «ton ton», lo zio, come i ragazzi chiamano Touré, l’appellativo che da queste parti è assegnato a persone più anziane, di cui si ha grande rispetto.

Centro Liberté (libertà)

I giovani del centro hanno storie terribili. Qualcuno accetta di raccontarle. «Avevo dei soldi della mia famiglia, ma ho perso tutto nel tentativo di andare in Europa, senza riuscire ad arrivarci. Ora sono a Niamey da due anni». Chi parla è Mohammed, 37 anni, di Faranah, in Guinea Conakry. «Qui mi arrangio, faccio il parrucchiere per guadagnare qualcosa. Sono il responsabile di questo Centro. Se in giro vedo un migrante sperduto, lo avvicino e gli chiedo se vuole venire a Liberté. In questo momento siamo circa 28. Al mattino usciamo tutti alla ricerca di qualche lavoretto. C’è qualcuno che sa fare un mestiere. Poi ci ritroviamo qui al pomeriggio, condividiamo qualche soldo per comprarci del riso da cucinare insieme e mettiamo da parte una quota per pagare l’affitto di questo posto».

Mohammed, occhiali da sole e faccia furba, parla un francese di base, ma sciolto, gesticola e ha un  modo di fare spigliato, di chi è a proprio agio. Ha tentato due volte di andare in Libia. La prima volta ha raggiunto il Sudan, ma in Ciad si è procurato una pallottola che gli ha trapassato il torace, senza ledere organi vitali. Ci mostra le due cicatrici (entrata e uscita) e dice che sono stati quelli di Boko Haram, la setta terrorista molto attiva nella regione del lago Ciad (Sud Est del Niger). Ma non spiega le circostanze. È stato operato a Ndjamena, capitale del Ciad, dove un connazionale lo ha aiutato economicamente. «Mi sono scoraggiato e ho deciso di tornare verso casa, ma preferisco guadagnare qualche soldo qui e non rientrare a mani vuote».

Circondati da giovani in piedi che ci scrutano, siamo seduti su una panca di legno, perché in Africa gli ospiti sono sacri. Il signor Touré ci racconta: «Cerco di assistere i miei compatrioti ma anche altre persone della Cedeao (Comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest, ndr) in difficoltà. Li indirizzo subito verso uno dei tre centri di accoglienza che seguo, dove oggi ci sono un totale di oltre 70 persone. Quando ho qualche soldo lo do loro per le prime necessità. Inoltre cerco di metterli in contatto con associazioni e Ong internazionali. Ad esempio ho portato qui la Croce rossa danese, che ha fornito loro medicine, e ci ha promesso un aiuto in cibo e soldi per l’affitto.

Chi vuole rientrare nel proprio paese lo accompagno all’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim). Ma alla gente non piace il loro sistema, perché l’agenzia (dell’Onu, ndr) organizza dei bus per riportarli nei propri paesi, dando loro solo 60.000 franchi (circa 91 euro, ndr), che è una miseria rispetto a quanto hanno speso per tentare la traversata, e pure una cifra insignificante per iniziare una nuova attività economica.

Per quelli che restano nei centri, verifico chi sa svolgere un mestiere e cerco di indirizzarlo in uno dei vari cantieri della città».

Niger, caput mundi

Il Niger, paese sconosciuto in Europa fino a qualche anno fa, è oggi balzato alla ribalta delle cronache a causa di due elementi chiave: è diventato uno dei principali paesi di passaggio, e traffico, di migranti dagli stati subsahariani verso la Libia, da dove si tenta il salto verso l’Italia; è centrale nella lotta al terrorismo jihadista in Africa (vedi box).

Solo i francesi lo conoscono da tempo perché, oltre ad averlo colonizzato, fin dall’indipendenza (1960) sfruttano i suoi giacimenti di uranio (di cui è terzo produttore al mondo), indispensabile per le centrali termonucleari che producono oltre il 72% dell’elettricità transalpina.

Il Niger è come un imbuto dove si incrociano due flussi migratori principali. Quello dall’Ovest (Senegal, Mali, Guinea, Sierra Leone, Liberia, Costa d’Avorio, ecc.) in passaggio da Niamey, e quello dal Sud (Nigeria, Camerun, Centrafrica, ecc.) di passaggio da Zinder o altre località. I due flussi si incontrano ad Agadez, ultima città nel deserto, dove poi i migranti si dividono tra chi passa in Algeria a Tamanrasset per entrare in Libia da Est e chi passa da Dirkou e Madaua ed entra in Libia dalla frontiera Sud (vedi cartina). Per questo il Niger è diventato il primo paese a Sud del Sahara, dove i governi europei, Italia compresa, vogliono stabilire una nuova frontiera per bloccare gli africani. L’Italia sta investendo nel paese, con l’invio, per la prima volta nella storia, di un ambasciatore (Marco Prencipe) nel 2017 e l’inaugurazione della nuova ambasciata, avvenuta lo scorso 3 gennaio con l’intervento del ministro degli Esteri Angelino Alfano in persona. È del gennaio di quest’anno l’approvazione in parlamento dell’invio di militari italiani in Niger, ufficialmente per la lotta alla migrazione clandestina e al terrorismo (vedi box qui sopra).

Proprio per il contrasto ai flussi migratori, il Niger ha firmato degli accordi con l’Unione europea alla Valletta (novembre 2014), grazie ai quali il paese riceve dei finanziamenti. Così nel 2015 l’Assemblea nazionale (il parlamento) del Niger ha votato una legge (la 36 del 2015) che, entrata in vigore a fine 2016, ha reso illecita qualsiasi attività connessa con la migrazione. Tale legislazione prevede anche un grande dispiego di forze militari e di polizia per il controllo delle frontiere, delle città e delle direttrici di transito dei migranti.

Chiediamo al signor Touré conferma degli effetti della legge: «Ci sono ancora migranti che tentano di andare in Libia, ma sono rari, perché c’è una politica di contenimento, per cui fin dalla frontiera si impedisce loro di entrare in Niger. Prima (della legge, ndr) qui era pieno di migranti sugli autobus di linea delle tre principali compagnie che viaggiano nel Nord. Stavano a Niamey anche una o due settimane, il tempo necessario per ricevere i soldi dalle famiglie e continuare il viaggio, oppure che i passeur (coloro che organizzano i viaggi, o trafficanti) si organizzassero per farli partire. Ora è diventato tutto clandestino, perché sanno di essere ricercati. Prima non si nascondevano».

Migranti di ritorno

Un altro aspetto che ha fatto invertire il flusso, ovvero non solo ridurre quello di andata verso Nord, ma incrementare quello verso Sud dei cosiddetti «migranti di ritorno», è il cambiamento del trattamento che i libici, le varie milizie, riservano da qualche anno ai migranti subsahariani.

«Sono partito per la Libia due volte». Ci racconta Alì Diubate, un ragazzone di 32 anni, di Kankan, Guinea, incontrato al Centro Liberté. «La prima è stata il mese di gennaio 2017. Mi hanno preso molti soldi sulla strada. Sono passato da Agadez e Arlit in Niger, poi da Tamanrasset in Algeria. Lì abbiamo preso una macchina 4×4 per la Libia. I passeur ci hanno messi in un foyer, un posto dove ci hanno chiesto i soldi. Siamo poi passati in un altro foyer, stesso sistema. Appena siamo arrivati a Tripoli ci hanno rinchiusi. Ci hanno legati e torturati, dicendo di chiamare i famigliari, altrimenti ci avrebbero uccisi. Mi hanno fatto un video con il mio cellulare mentre mi maltrattavano e mi hanno imposto di metterlo su Facebook, affinché lo vedessero parenti e amici, per chiedere loro un riscatto. La famiglia ha mandato 3.500 euro che i carcerieri si sono spartiti e poi mi hanno liberato. Sono arrivato al porto, dove si parte con i barconi, ma lì era anche peggio. Hanno preso tutti i soldi che mi erano rimasti. Con altri siamo stati obbligati a fare i lavori forzati. Poi ho deciso di ritornare, sono fuggito e sono arrivato qui a Niamey. Dopo quattro mesi sono ripartito, sono tornato a Tripoli, ma è stato di nuovo terribile». Alì ci mostra dei vistosi segni sulle braccia, le cicatrici prodotte dalle torture. «Ho fatto altre due settimane nella loro prigione, ma sono riuscito a scappare e sono tornato qui».

Alì vive al Centro Liberté da due mesi e lamenta che mancano i soldi per pagare l’affitto del tugurio dove ci troviamo, che però è il solo riparo per lui e i suoi compagni. «Se andassi all’Oim mi aiuterebbero a raggiungere Conakry (capitale della Guinea). Ma io sono il primogenito della mia famiglia, ho preso tutta l’eredità e l’ho persa. Due volte. Ho tre sorelle e due fratelli più piccoli. Quando ero in prigione, l’ultima volta, mi hanno mandato ancora dei soldi. Hanno venduto le vacche, il terreno della casa, per farmi liberare. Tutto è perso. Devo riuscire a mettere qualcosa da parte prima di tornare e ricominciare un’attività in Guinea».

I migranti di ritorno si ritrovano nella capitale nigerina, che è la prima grossa città sul loro percorso di ripiego. Sono fuggiti dalle persecuzioni e dalle torture dei libici, ma hanno impoverito le loro famiglie di origine. I più, invece di rientrare a casa, restano bloccati in questo paese, uno dei più poveri del mondo, alla ricerca di qualche lavoro, che difficilmente permetterà loro di mettere da parte le cifre che hanno dissipato per pagarsi il viaggio.

Se vuoi tornare a casa

L’ufficio dell’Oim di Niamey, vista la sua posizione strategica, ha acquisito negli ultimi anni sempre più importanza e ottenuto fondi. Una giovane funzionaria italiana ci racconta: «A partire dal 2016 sono cresciute le domande di assistenza per il ritorno, mentre prima c’erano molti passaggi per andare verso Nord. Adesso vediamo una frammentazione delle rotte, perché quelle principali sono presidiate dalle forze dell’ordine. I passeur hanno continuato in modo nascosto creando nuove rotte secondarie, evitando i centri e talvolta anche i pozzi nei deserti».

L’Oim Niger può contare su cinque centri di transito, ad Arlit, Dirkou, Agadez nel Nord e due a Niamey, dove se ne sta aprendo un terzo. Qui, chi chiede assistenza all’Oim, viene identificato, rifocillato, aiutato psicologicamente e attende di essere rimpatriato con un mezzo dell’agenzia. I casi vulnerabili, come i minori o donne con particolari problemi, e le persone dei paesi più lontani, sono rimpatriati in aereo. «Nei centri la maggior parte sono migranti di ritorno, ma ci sono anche quelli che, in viaggio verso Nord, decidono di non proseguire», continua la funzionaria.

L’Oim fornisce anche sostegno al governo del Niger, come formazione e fornitura di attrezzature alle autorità consolari.

Capita, al signor Touré, di entrare in contatto con giovani subsahariani che stanno tentando l’avventura verso la Libia. L’anziano agente consolare cerca di dissuaderli: «Quando li incontriamo li portiamo in questi centri e li facciamo parlare con quelli che hanno subito sevizie e torture (in Libia, ndr) in modo che si scoraggino nel continuare. Molti dicono: “Dobbiamo partire, preferiamo morire nel deserto che morire a casa nella miseria”. Una volta è venuto qui l’ambasciatore della Guinea e l’ho portato a incontrare i migranti. Uno di loro era originario dello stesso villaggio dell’ambasciatore. Lui ha cercato di convincerlo, gli avrebbe pagato un volo per tornare a casa, ma l’altro continuava dicendo che era partito con l’intenzione di riuscire. Abbiamo fatto di tutto, ma il ragazzo è partito. Tre mesi dopo mi hanno chiamato per dirmi che era morto. Nel suo gruppo erano sei, tre di loro hanno accettato che pagassimo loro il bus e sono ritornati al paese. Ogni tanto mi chiamano per dirmi che stanno bene, hanno dei piccoli progetti e si sono reintegrati. Come uno che ha realizzato un pollaio e la cosa funziona per lui».

Chi vende chi

Boubacar Oullaré è appena arrivato al Centro Liberté. Ha 28 anni e parla un ottimo francese. Ci dice di essere laureato in giurisprudenza. Aveva un grande sogno, quello di arrivare in Europa. A casa, in Guinea, ha lasciato una moglie e due figli piccoli. Ci spiega i meccanismi del viaggio: «La transazione passa prima attraverso passeur africani (qui l’intervistato intende i subsahariani, ovvero africani di carnagione scura, ndr). Con loro si fa Agadez, Arlit, Tamanrasset. Questi ti vendono ai Tuareg. Da Tamanrasset a Djanet, che è la frontiera tra Algeria e Libia, ti portano i Tuareg, che poi ti vendono ai Tubu (toubou) della Libia. Essi ti portano fino a Tripoli. Qui ti mettono in un foyer, dove chiedono delle somme ai tuoi genitori, per farti traversare oppure per liberarti. Si tratta in realtà di prigioni clandestine, non hai libertà, e ti propongono con la forza degli affari loschi che non puoi rifiutare. Se paghi la somma richiesta ti portano sulla costa. Qui ti prendono tutto, i tuoi abiti, anche la cintura, perché si viaggia su gommoni, e non si vuole rischiare di forarli. Si parte, ma ci sono spesso battelli che si rovesciano nell’acqua. In questo caso, se ti recuperano le navi internazionali sei salvo, perché ti portano in Italia. Se invece sei in acque libiche ritorni in Libia. Noi non abbiamo avuto fortuna – dice con un’enorme delusione sul volto -. Siamo naufragati in acque libiche. Tornati sulla costa avevo speso tutti i soldi. Ho dovuto di nuovo chiamare i miei genitori affinché mi aiutassero. Per questo motivo in Guinea non abbiamo più nulla. Tutti i beni di famiglia sono andati in fumo».

E conclude sconsolato: «Io adesso ho vergogna di presentarmi al mio paese, sono partito e ho preso una somma colossale per il viaggio. Tutto è perso. Siamo qui, e la nostra unica speranza è in Dio».

Lasciando il Centro Liberté i ragazzi, inizialmente ostili, sembrano patire il distacco con questi visitatori stranieri che, in qualche modo, rappresentano la loro terra promessa. Qualcuno di loro parla ad alta voce nella propria lingua, qualcun altro ci dà la mano e ci guarda negli occhi tristemente, sembra dire: «Italiano, domani tornerai in Europa in poche ore con l’aereo. Io ci ho provato e ho perso tutto. Ho rischiato pure la vita. Ti prego, non lasciarmi qui».

Marco Bello

Aqmi, Isis nel Sahara e Boko Haram

Nella morsa jihadista

Il Niger ha un ruolo centrale nella lotta al terrorismo in Africa Occidentale. È in guerra da anni con diversi gruppi armati, appoggiato da eserciti stranieri che ne approfittano per tenere un piede sul suo territorio.

Il Niger è anche al centro della geopolitica della guerra contro i jihadisti. A Nord e Nord Ovest si confronta con le formazioni terroristiche del Sahara e Sahel. Sono i gruppi come Al Qaida nel Maghreb Islamico (Aqmi) e Stato Islamico nel Grande Sahara, una realtà costituita da una galassia di gruppi armati che ora si alleano, ora si combattono e imperversano in Mali e in Burkina Faso. In Mali dal 2012 è in corso una guerra, in cui sono intervenuti l’esercito francese, quello tedesco (con la sua più grande missione militare all’estero) e la Missione delle Nazioni Unite Minusma (13.000 uomini di 26 nazionalità), oltre alle Forze armate maliane (cfr. MC giugno 2017).

In Niger questi gruppi compiono attacchi sporadici, a volte anche incisivi – l’ultimo di rilievo risale al 4 ottobre 2017, quando morirono 5 soldati nigerini e 3 statunitensi -, ma non presidiano alcuna area specifica. Il governo di Mahamadou Issoufou, al potere dal 2011, e rieletto nel 2016, ha infatti sempre avuto un buon controllo del vasto territorio nigerino.

L’altro nemico è a Sud Est, dove la setta fondamentalista Boko Haram impegna sul campo di battaglia diversi eserciti nell’area delle quattro frontiere del lago Ciad. Qui Niger, Ciad, Nigeria e Camerun sono riuniti nella Forza multinazionale mista. In questo contesto intervengono anche i francesi e i droni statunitensi (cfr. MC ottobre 2016 e dicembre 2015) in partenza dalla base franco-statunitense nei pressi dell’aeroporto di Niamey, dove anche l’esercito tedesco sta costruendo la propria base. In tre anni di guerra aperta contro Boko Haram sono centinaia le vittime nigerine (civili e militari) e migliaia gli sfollati nella regione di Diffa. Lo scorso 17 gennaio c’è stato un attacco a una base militare nigerina a Toumour nei pressi di Diffa con almeno 7 morti, al quale sono seguiti bombardamenti aerei della forza multinazionale. Circa un mese prima, fonti militari confermavano l’uccisione di 387 presunti integralisti da parte delle forze armate con l’appoggio dei droni (questi solo recentemente sono stati armati). Il 2 luglio, invece, il villaggio Nguelewa, sempre nei pressi del lago Ciad, era stato attaccato: nove abitanti uccisi e 39 donne e bambini presi in ostaggio. Il primo rapimento di massa nel paese.

Il Niger fa anche parte della coalizione militare G5 Sahel con Mauritania, Mali, Burkina Faso e Ciad per combattere i gruppi jihadisti presenti nella regione. Forza che opera in stretta collaborazione con l’operazione Brakhane (4.000 militari francesi con mezzi, dispiegati nei paesi saheliani contro i jihadisti dal 2014). I governi hanno deciso la creazione di un fondo fiduciario per i finanziamenti necessari a operare, circa 423 milioni di euro per il primo anno. A marzo la forza dovrebbe diventare operativa sul terreno lanciando l’operazione Pagnali, come definito dall’incontro di Parigi, tra i 5 ministri della Difesa africani e quello francese, Florence Parly.

Marco Bello

 

Militari italiani in Niger: addestrare o occupare?

Operazione «scarponi» nella sabbia

Anche l’Italia si appresta a inviare militari e mezzi in Niger. L’ottica è quella di bloccare i migranti in Africa, ma con i numeri previsti è impossibile controllare le frontiere. Mentre i costi rischiano di lievitare.

Il parlamento italiano ha approvato nel gennaio scorso la missione militare in Niger (contestata dal mondo missionario italiano, ndr). Nell’arco di sei mesi, nel paese saheliano potrebbe essere schierato un contingente di 470 uomini. Quale sarà il suo compito? Il generale Claudio Graziano, capo di stato maggiore della Difesa, ha affermato che non sarà una missione di combattimento. I nostri militari dovranno «addestrare i militari nigerini per renderli capaci di contrastare efficacemente il traffico di migranti e il terrorismo». «In realtà – afferma Gianandrea Gaiani, direttore della rivista Analisi Difesa -, la missione partirà in sordina con lo schieramento di 120 uomini che saranno impiegati per la costruzione di una base logistica a Niamey e per compiti addestrativi. Sarà poi il governo che uscirà dalle elezioni di marzo a decidere se mantenere la missione in questo assetto o ampliarla, affidandole anche i compiti di controllo della frontiera con la Libia dalla quale passano i traffici di uomini, droga, sigarette, ecc.». Indiscrezioni parlano dell’invio dei nostri militari a Madama, in mezzo al Sahara, al confine libico, postazione attualmente occupata da truppe francesi.

Facendo un passo indietro, da dove nasce l’esigenza di questa missione? «La missione – prosegue Gaiani – vuole rispondere alle richieste del Niger di avere un supporto nel contenimento del fenomeno dell’immigrazione. Non è un’esigenza nuova. Nel 2014 ero in Niger e l’allora ministro degli Esteri, oggi ministro dell’Interno, Mohammed Bazoum mi disse: “Con l’Italia c’è un rapporto storico, perché Roma non ci aiuta, formando i nostri uomini e fornendoci i mezzi, per contenere l’immigrazione bloccandone le rotte?”. Nel 2014 però, l’Italia era impegnata nell’operazione Mare Nostrum e non era interessata a inviare uomini in Niger. Oggi le condizioni di politica interna ed estera in Italia sono cambiate e c’è un rinnovato interesse da parte di Roma nel contenere l’immigrazione direttamente in Africa. Il Niger diventa quindi la prima linea sulla quale combattere il traffico di esseri umani, ma non solo».

Il 27 settembre 2017, Niamey e Roma hanno firmato un’intesa che prevede aiuti per 50 milioni di euro e l’invio immediato di 120 uomini. «Da giugno – osserva Gaiani -, la missione potrebbe crescere ulteriormente. Sarà il nuovo governo a stabilire se mantenere un contingente ridotto oppure se aumentarlo e quali missioni affidargli. A mio parere, se la missione sarà quella di controllare i confini tra Niger e Libia, 470 uomini potrebbero essere pochi per presidiare un’area così vasta. I militari sul terreno dovrebbero infatti avere il supporto di elicotteri, droni, mezzi di terra, apparati elettronici, ecc. Ciò aumenterebbe il costo della missione e lo sforzo logistico e operativo delle nostre forze armate».

In Niger gli italiani collaboreranno con altri contingenti? «I militari italiani – conclude Gaiani – lavoreranno insieme alle forze armate francesi che sono impegnate in Niger nella lotta al terrorismo. La presenza di soldati italiani, insieme a quella di militari tedeschi e spagnoli, permetterà a Parigi di ridurre il proprio contingente (e quindi di contenere le spese in bilancio) ma, allo stesso tempo, la Francia avrà la possibilità di mantenere una forte presenza nell’area».

Enrico Casale




Scuse e perdono


Testo di Gigi Anataloni |


«Care Divany e Madina, scusateci».

Leggi tutta la rivista di Gennaio-Febbraio 2018 nello sfogliabile. La puoi anche scaricare tutta o solo le pagine che interessano.

Così cominciava su Vita.it del 12 dicembre scorso l’articolo che Daniele Biella – autore del dossier di questo mese – ha dedicato a Divany e Madina. «Divany, originaria del Camerun, è morta annegata a tre anni nelle acque a 30 miglia dalla Libia nel naufragio del 6 novembre 2017». Il suo corpo non è mai stato ritrovato. «Medina Husein, afgana di sei anni, è stata investita da un treno merci alla frontiera tra Croazia e Serbia lo scorso 21 novembre 2017». Il corpo è stato restituito ai suoi genitori solo dopo diversi giorni. «Nessun pietismo, ma un atto di estrema denuncia sì. Le due piccole hanno trovato la morte alle frontiere europee, che siano di terra o mare: frontiere che chi cerca rifugio da guerre o violenze non può attraversare oggi in modo legale e che quindi mettono a rischio la vita di tutti, bambini e adulti. Con i trafficanti a guadagnarci cifre stellari e con intere famiglie con più nulla da perdere che provano a passare confini in ogni condizione, venendo poi respinti dalle autorità (come accaduto alla famiglia di Madina qualche minuto prima della tragedia)». In copertina abbiamo messo la foto di Madina scattata da Silvia Maraone (dell’Ong Ipsia delle Acli) il 12 luglio scorso nel campo profughi di Bogovadja in Serbia. La storia di Divany, invece, è parte di quanto ci racconta Gennaro Giudetti alle pagine 43 e 44 del dossier. Leggere quelle storie fa venire i brividi. Mentre causano tristezza e sdegno certi commenti che purtroppo spopolano sui social a proposito dei migranti.
La vicenda di Divany e Madina ci obbliga a riflettere, perché è emblematica di un dramma che sta attraversando questi primi decenni di un secolo pieno di promesse ma anche di grandi paure. La morte delle due bambine non è un caso isolato, un’eccezione imbarbarita. I minori sono tra le prime vittime di un esodo che riguarda milioni di persone e di cui noi, in Europa, conosciamo solo le frange marginali e forse addirittura più qualificate. Fossero anche in 200mila quelli che sono arrivati in l’Italia nel 2017 per poi disperdersi in Europa, non sono che briciole di fronte agli oltre 500mila (Rohingya) in Bangladesh, ai 600mila (siriani) in Giordania, ai 700mila in Etiopia, quasi un milione in Iran, oltre un milione in Libano, un milione e mezzo in Pakistan, più di due milioni in Turchia, senza contare le masse di rifugiati interni ed esterni del Sud Sudan (800mila), della Somalia (800mila fuori, 1,5 milioni dentro), e di Eritrea, Yemen, Repubblica Democratica del Congo, Nigeria e paesi del Sahel, Colombia e Venezuela. E l’elenco è incompleto.
«Oggi stiamo assistendo ai più elevati livelli di migrazione mai registrati: 65,6 milioni di persone in tutto il mondo, un numero senza precedenti, sono state costrette a fuggire dal proprio Paese. Di queste, circa 22,5 milioni sono rifugiati, più della metà dei quali di età inferiore ai 18 anni». Questo scrive l’agenzia dell’Onu per i rifugiati (Unchr) sul suo sito. Sono cifre da spavento (i dati forniti dall’Oim, Organizzazione internazionale per i Migranti, sono anche più elevati), mentre prosperano gli affari dei mercanti di armi, dei trafficanti di uomini, dei ladri di risorse naturali e di minerali strategici. E invece di una risposta internazionale coordinata ed efficace che affronti i problemi alle radici e metta l’economia e la finanza sotto il controllo della politica, vediamo i paesi ricchi costruire nuovi muri, aumentare i controlli e fomentare nuove guerre e tensioni in punti nevralgici del mondo.
Per questo è urgente avere il coraggio di dire a tutte le Madina e Divany del mondo non solo «scusateci», ma soprattutto «perdonateci». Perché le scuse rischiano di lasciare le cose così come stanno, senza sentire il bisogno di cambiare. Chiedere scusa è già un bel passo perché è riconoscere di aver sbagliato. Il chiedere perdono però è molto di più: è riconoscere lo sbaglio e assumerne la responsabilità per un impegno a cambiare mentalità e modo di agire. È anche mettere nelle mani dell’altro la propria persona. È stabilire relazioni profonde. Il dramma mondiale dei rifugiati e migranti richiede una rivoluzione nel pensiero e nel modo di agire.
«Offrire a richiedenti asilo, rifugiati, migranti e vittime di tratta una possibilità di trovare quella pace che stanno cercando, richiede una strategia che combini quattro azioni: accogliere, proteggere, promuovere e integrare». Così scrive papa Francesco nel suo messaggio per la giornata della pace. Quattro azioni coordinate di cui la prima, accogliere, è la fondamentale. Accogliere non è solo un fatto logistico. Ricevere i migranti e chiuderli dentro a «simil campi di internamento», non è accoglienza. Accogliere è conoscere e farsi carico della persona del rifugiato, del suo dramma, dei suoi sogni. Accogliere è vedere la persona per quello che è, essere umano come me con un nome e una storia, e non uno stereotipo, un pericolo, una minaccia. Accogliere è creare relazioni nuove, costruire un futuro per tutti insieme, senza isolarsi nella difesa dei propri privilegi o identità. Accogliere è amare. Per questo a Divany e a Madina non basta chiedere «scusa», ma bisogna dire «perdonateci».

Gigi Anataloni

 

Testi Suggeriti:

 




Migranti: reportage dalla nave Aquarius

 


Testi e foto di Daniele Biella |


Sommario

L’umanità sulle grandi acque.

«In mare eravamo pronti alla morte».
L’esperienza su una nave di soccorso nel Mediterraneo.

Sos Mediterranée.

Cosa (non) vediamo in Libia.
I Diritti umani violati e l’accordo Italia-Libia.

«Ho visto cose terribili».
La testimonianza di un volontario italiano.

E come li accogliamo.
Da dove e perché.

fake news.

1: 35 euro al giorno.

2: malaria e nozze.

 


L’umanità sulle grandi acque

Daniele Biella è nostro collaboratore da diversi anni. Alla fine della scorsa estate ha avuto l’opportunità di accompagnare il viaggio di una nave della Ong Sos Mediterranée in zona Sar, la zona di ricerca e salvataggio del Mare Mediterraneo ai confini con le acque territoriali libiche. Da quell’esperienza è nato questo Dossier. Un reportage dalle «grandi acque», accompagnato dall’analisi del controverso accordo Italia-Libia, dal racconto di un volontario, testimone della strage in mare del 6 novembre avvenuta con qualche responsabilità della Guardia costiera libica finanziata dall’Italia, da una panoramica sul perché e da dove vengono i migranti e su come li accogliamo, e da qualche spunto sulle fake news che sul tema delle migrazioni trovano terreno fertile.

Luca Lorusso


«In mare eravamo pronti alla morte»

L’esperienza su una nave di soccorso nel Mediterraneo

Ecco, scandito per singoli giorni, il reportage del nostro viaggio sull’Aquarius, a documentare quanto accade oggi nel «Mare Nostrum», da sempre conosciuto per la bellezza delle sue acque ma, negli ultimi anni, sempre più associato alla morte di migliaia di persone che annegano nel tentare la fuga verso una vita migliore.

Siamo partiti da Catania l’8 settembre scorso in 40, siamo tornati a Trapani il 16 in 411. Questo è stato il carico umano della nave Aquarius dell’Ong (organizzazione non governativa) Sos Mediterranée.

Tra i 40 della partenza, 14 erano ufficiali e marinai, 12 membri della squadra di Sos Mediterranée, 10 dell’èquipe medica dell’Ong Medici senza frontiere (Msf) e quattro giornalisti, tra cui il sottoscritto.

Gli altri 371 erano persone migranti provenienti da 16 nazioni diverse, recuperate da gommoni in difficoltà in mare aperto e tolte, quindi, a morte certa. Tutte salvate nella quinta giornata di navigazione, il 14 settembre. È questo – salvare persone – che le navi delle Ong fanno dal 2015, a fianco delle imbarcazioni della Guardia costiera italiana e delle Marine militari di vari stati europei.

L’arruolamento

La chiamata arriva 72 ore prima dell’inizio della missione: «Sei stato selezionato come uno dei quattro giornalisti a bordo della ventisettesima rotazione della nave Aquarius», mi dice un membro dello staff a terra dell’Ong Sos Mediterranée (ci sono diversi gruppi di volontari che prestano servizio sulla nave e si alternano a rotazione, ndr.). Sapevo già che, in caso di chiamata, i tempi sarebbero stati stretti: passaporto alla mano e organizzazione familiare effettuata, parto. Come giornalista impegnato da anni a narrare le migrazioni forzate e i drammi in mare e lungo le altre frontiere, ritenevo l’esperienza diretta su una nave umanitaria un passo fondamentale del mio lavoro.

Una volta tornato sulla terraferma, la mia frase più frequente sarà: «Dovrebbero passare tutti un periodo su una nave come l’Aquarius, per capire come stanno le cose e quindi per raccontarle in modo corretto».

«L’opinione pubblica deve sapere»

Eccomi quindi nella cabina 14 dell’Aquarius assieme a un esperto giornalista della radio pubblica francese, Raphael Krafft. Gli altri due colleghi, anch’essi navigati reporter, sono il fotografo Tony Gentile e il videomaker Antonio Denti, entrambi dell’agenzia Reuters. «Consideratevi parte dell’equipaggio fin da subito: di fronte a un’emergenza, anche voi siete chiamati ad aiutare a salvare vite», ci viene detto da Madeleine Habib, australiana coordinatrice delle attività Sar (Search and rescue, ricerca e soccorso) dell’Aquarius. Sono lei e Marcella Kraay, responsabile dell’èquipe medica di Msf – che opera sulla nave grazie a un contratto con Sos Mediterranée – i punti di riferimento del personale umanitario della missione. «Documentare quello che avviene è importante. Per questo chiediamo ai giornalisti di venire a bordo con noi: l’opinione pubblica deve sapere da fonti dirette il dramma in atto nel Mar Mediterraneo», aggiunge Madeleine.

I primi due giorni

I primi due giorni sulla nave, il 9 e il 10 settembre, passano attraverso una serie di incontri conoscitivi ed esercitazioni: iniziamo, alle 8.15 del mattino, con un incontro collettivo che si ripeterà ogni giorno e che riguarda le informazioni sulla rotta, sulle necessità a bordo, e sugli eventuali salvataggi. Ci viene spiegato quali saranno le fasi del viaggio: il warm up, ovvero le esercitazioni iniziali, lo sprint, cioè il recupero di persone in mare, e la marathon, il ritorno alla terra ferma al porto indicato dalla Guardia costiera italiana (l’Imrcc, Italian maritime rescue coordination centre, il Centro italiano di coordinamento del soccorso marittimo). È l’Imrcc che, dalla propria sede centrale di Roma, coordina le navi in mare, sia le proprie che quelle delle Ong, dell’agenzia europea Frontex e i mercantili di passaggio.

Dopo l’incontro del mattino, andiamo a conoscere il comandante della nave e seguiamoL’esercitazione medica per le situazioni di emergenza, in particolare sul massaggio cardiaco, tenuto da Margherita Colarullo, medico di Msf. Margherita è una dei pochi italiani (mezza dozzina) a bordo in questa rotazione. Gli altri provengono da diversi paesi dell’Europa, ma anche da altri continenti. L’età media è di 30-35 anni.

Ancora, facciamo la simulazione di evacuazione generale, quella di un attacco di pirateria (in cui bisogna recarsi in una zona della nave a chiusura ermetica, chiamata citadel), e si approfondisce la conoscenza della tipologia di persone vulnerabili che potrebbero essere recuperate. Msf ha previsto una serie di braccialetti di diverso colore per segnalare, per esempio, i minori stranieri non accompagnati (Msna), le persone con malattie (che vengono prese in cura già a bordo) e i casi estremamente vulnerabili, come le persone con tutta evidenza vittime di violenze.

La prima notte di navigazione e la giornata successiva non sono facili dal punto di vista fisico: il mare è molto mosso. Dato però che sono tra quelli che non accusano malesseri, ne approfitto per ascoltare le storie e le motivazioni che hanno portato le persone a bordo a passare mesi in mare per salvare vite. «Quando nel 2015 stavano arrivando centinaia di migliaia di persone sull’isola greca di Lesbo dalla Turchia sono andato sulle spiagge ad aiutare. È stata un’esperienza che non dimenticherò mai, mi ha fatto capire quanto ognuno di noi può essere utile per gli altri», mi racconta Iasonas Apostolopoulos, 29 anni, originario della Grecia continentale. «Finita l’emergenza lì, ho capito che potevo ancora dare il mio contributo: ho fatto pratica di soccorso e sicurezza in mare e ho chiesto e ottenuto di imbarcarmi sulle navi delle Ong nel Mediterraneo centrale, fino ad arrivare qui sull’Aquarius». Iasonas ha salvato, con le proprie mani, centinaia di persone issandole a bordo dei rhib, i gommoni di soccorso. Purtroppo ne ha recuperate anche altre senza vita. Nonostante la giovane età di molti, trovo un incrocio di professionalità e umanità che non dimenticherò, e che getta luce utile a fugare tutte le ombre che si sono create nell’estate 2017 sull’operato delle Ong in mare.

Terzo e quarto giorno: l’arrivo in zona Sar

Quando il maltempo si placa, l’acqua diventa placida. «Bisogna stare all’erta, perché con il mare calmo i trafficanti fanno partire i gommoni», spiega Max Avis, uno dei soccorritori più esperti a bordo, 29enne come Iasonas, nato in Inghilterra ma vissuto soprattutto in California. È lui il punto di riferimento delle operazioni di salvataggio, ovvero la prima persona che, con un mediatore culturale al seguito, parla con le persone migranti quando un barcone in pericolo viene avvistato e raggiunto dai rhib. Max cerca di infondere tranquillità nei migranti e distribuisce giubbotti di salvataggio prima di issarli a bordo.

Una volta arrivati nella zona Sar, ovvero in quella parte di Mediterraneo che arriva fino a 12 miglia di distanza dalle coste libiche in cui si fa l’attività di ricerca e soccorso, nel pomeriggio della terza giornata simuliamo un salvataggio.

Sono per me momenti molto intensi, anche perché Sos Mediterranée dà l’opportunità ai giornalisti di salire a bordo dei gommoni di soccorso e quindi di vivere in prima persona le manovre di contatto con l’imbarcazione in pericolo. Per la simulazione issiamo sul gommone dei manichini. Più tardi dovremo issare persone.

Mi fa impressione rendermi conto che tutto questo succeda veramente nel 2017, in un mare splendido in cui avvistiamo gruppi di delfini giocare con le onde create dalla nave.

Nel solo 2016, l’anno peggiore di sempre, sono state ben 5.096 le vittime nel Mediterraneo, e 3.081 all’11 dicembre 2017 in cui sono diminuite le partenze per effetto di accordi critici come quelli tra Unione europea e Turchia o tra Italia e Libia. Rispetto all’anno precedente, nel 2017 è aumentata la probabilità di non farcela: a morire oggi, tra quelli che tentano la traversata, è una persona ogni 42, mentre nell’annus horribilis 2016 si era al rapporto di uno ogni 51.

Durante le esercitazioni, pensare alle migliaia di persone abbandonate in acqua dai trafficanti è disarmante. Si è da soli in quel mare così grande, in balia delle onde, con un’alta probabilità di non rivedere mai più la terra.

La prima chiamata

Una volta entrati nella zona di possibili segnalazioni di imbarcazioni in pericolo, gli operatori della squadra Sar si alternano nei turni al ponte di comando, usando anche il binocolo, a fianco degli uomini dell’equipaggio.

La mattina del quarto giorno, mercoledì 13 settembre, arriva in effetti la prima chiamata del Imrcc di Roma per soccorrere un’imbarcazione nel mare a Ovest di Tripoli. Noi siamo a Est, per indicazione della stessa Guardia costiera italiana, quindi il luogo del soccorso è molto lontano dall’Aquarius: ci vorranno almeno 7-8 ore per arrivare. Per fortuna, dopo meno di tre ore, Imrcc richiama dicendo all’Aquarius che una nave militare tedesca è riuscita a fare il salvataggio e che non ci sono vittime. La giornata si conclude quindi con un sollievo generale, affiancato alla preoccupazione per l’indomani.

Quinto giorno: i salvataggi

E infatti, giovedì 14 settembre inizia con un rumore di elicottero sopra le nostre teste: è un mezzo militare del dispositivo europeo «Operazione Sophia» che pattuglia l’area contigua alla Libia. La chiamata all’Aquarius questa volta arriva a sorpresa dalla Guardia costiera libica per segnalare un gommone in avaria che loro non riescono a recuperare, a 25 miglia dalla costa. Una lancia con quattro militari libici arriva rapidamente fin sotto alla nostra nave. Temendo intimidazioni da parte loro, come è successo di recente verso alcune Ong (con tanto di spari in aria), la coordinatrice Sar chiede a tutti noi di andare in coperta. L’apprensione, però, si stempera quasi subito. I libici chiedono all’Aquarius di farsi carico del recupero. Successivamente, durante il salvataggio, rimangono a fianco dei due gommoni di Sos Mediterranée, collaborando in parte alle operazioni. Nel giro di tre ore, prima che l’acqua faccia affondare l’imbarcazione malridotta, iniziando da donne, bambini e casi medici problematici (per fortuna nessuno grave), 20 persone alla volta, i 142 occupanti del gommone vengono trasferiti dai soccorritori dell’Ong sulla Aquarius. Poco dopo, la Guardia costiera libica smonta il motore e brucia il mezzo, poi torna verso le proprie coste.

Un giovanissimo migrante subsahariano, appena salito sull’Aquarius, racconta: «I libici ci avevano intercettato e intimato di tornare indietro, ma il motore si è rotto in quel momento e quindi il vostro salvataggio è stato per noi un miracolo, altrimenti ora saremmo morti o di ritorno nelle prigioni libiche». Sono evidenti i segni delle torture sui loro corpi, così come la spossatezza delle donne, alcune delle quali in seguito testimonieranno alle operatrici di Msf gli abusi subìti nei centri di detenzione.

Subito donne e bambini sono condotti nello shelter, «rifugio», zona della nave al chiuso, mentre gli uomini rimangono sui vari ponti all’esterno, dove passeranno la notte. A tutti viene consegnato un kit comprendente una tuta, una coperta, un integratore energetico e una salvietta.

Poco dopo aver concluso il salvataggio, arriva un’altra chiamata, ancora dalla Guardia costiera libica, per altre 120 persone in difficoltà in mare aperto. Questa volta non c’è un’imbarcazione libica ad accompagnare l’Aquarius, quindi, date le maggiori condizioni di sicurezza, a noi giornalisti viene concesso di salire sui rhib.

Fortunatamente il gommone è in buone condizioni e nessuno è caduto in mare.

Basta Libia!

«No more Lybia», basta Libia, gridano in molti. Via dall’inferno dove hanno vissuto gli ultimi mesi. Verso una vita di sicuro non facile, ma migliore di quella che hanno lasciato alle spalle.

Nel tardo pomeriggio, alla fine dei due salvataggi, le persone recuperate sono 262: il più piccolo ha una sola settimana di vita ed è con i genitori, il più anziano ha 56 anni.

Ma non è ancora finita: a notte inoltrata, questa volta su indicazione di Imrcc, sono trasferiti da noi, dalla nave dell’Ong Save the children, la Vos Hestia, altri 109 migranti recuperati in un’altra zona delle acque internazionali. Arriviamo al totale di 371 persone, di 16 nazioni diverse, tra cui 54 minori non accompagnati.

«Ora fate rotta verso l’Italia, domani vi diremo il porto di sbarco», è l’indicazione della Guardia costiera italiana.

Sull’Aquarius si fa evidente la stanchezza di una giornata pazzesca, e tutti si addormentano, mentre la squadra di Sos Mediterranée rimane sveglio a turni per controllare la situazione generale.

Il ritorno verso l’Italia e lo sbarco

Il giorno dopo i salvataggi è un giorno fondamentale. Le persone, per la prima volta dopo mesi, se non anni, in cui sono state alla mercé di predoni del deserto, sfruttatori e trafficanti di ogni specie, finalmente hanno qualcuno di cui fidarsi: la sensazione è immediata, e molti si aprono sia con il team medico di Msf, sia con noi giornalisti.

Raccontano storie di speranza e di orrore, di quanto hanno subito in Libia e in altri luoghi dove l’umanità sembra essere stata dimenticata.

«Sono stato venduto cinque volte, mi trattavano come un oggetto, non una persona», mi dice un ragazzo 17enne proveniente dal Gambia. Poco lontano, un ragazzo non riesce a camminare bene per le conseguenze di colpi d’accetta ricevuti sui piedi.

Una donna piange disperata mentre guarda i bambini sani e salvi a bordo: non sono i suoi. I suoi li ha persi in un naufragio a luglio, prima di essere respinta dalla Guardia costiera libica. Erano tre, avevano 1, 3 e 5 anni.

Ci sono anche famiglie intere, scappate dai rapimenti sempre più frequenti a Tripoli, capitale della Libia, e ci sono famiglie siriane che hanno sperato fino all’ultimo che la guerra iniziata nel 2011 terminasse, ma alla fine hanno lasciato tutto per partire. Loro hanno pagato di più per il viaggio, attorno ai mille dollari a testa, e in cambio hanno ricevuto un «trattamento» migliore, senza violenze.

Gran parte delle persone dell’Africa subsahariana, con meno soldi a disposizione, hanno subito vessazioni quotidiane dai carcerieri, comprese le telefonate ai parenti per spillare loro soldi da inviare via money transfer.

Tutto il male del recente passato, però, scompare temporaneamente sulla nave che li ha salvati: partono i canti, i balli, prima sommessi, poi di festa collettiva. Sono momenti indimenticabili, di liberazione.

«Non sappiamo domani dove verremo mandati, ma l’importante è avercela fatta». «È come una rinascita, perché in mare eravamo pronti alla morte. Meglio infatti morire di speranza che rimanere in mezzo alle violenze libiche», sono alcune delle voci che raccolgo.

Intanto, i bambini giocano sia nella zona riservata a loro e alle donne, sia sul ponte della nave, e l’atmosfera è tranquilla. Non ci sono situazioni mediche gravi e, soprattutto, i tre salvataggi sono stati completi, senza nessuna salma da riportare a terra, come invece avviene in molti altri casi.

Io passo la giornata e quasi tutta la notte successiva a dialogare e ascoltare testimonianze, e ad aiutare gli operatori delle Ong: è talmente evidente la necessità di darsi da fare che non si può stare a guardare.

Terra (europea) in vista

Alla mattina dell’ultimo giorno di viaggio, ecco la terra: Sicilia, Italia, Europa. A colazione il texano Jay Berger, logista di Msf, spiega a tutto l’equipaggio come avverrà l’operazione di sbarco. Arriviamo a Trapani, dove in un paio d’ore tutte le 371 persone salvate in mare vengono fatte sbarcare. Portate nei presidi del ministero dell’Interno e delle Ong per i primi accertamenti, ricevono ulteriori visite mediche dopo quelle sulla Aquarius.

Scendiamo anche noi quattro giornalisti lasciando il posto ad altri colleghi che ci danno il cambio. La Aquarius ripartirà poche ore dopo, di nuovo verso la zona Sar, dove le navi di salvataggio in questo periodo sono poche, nonostante le partenze dalla Libia continuino.

È il momento dei saluti sia con lo staff che con i migranti, ed è emozionante, perché tutte queste persone, con cui ora ho stabilito un contatto, hanno davanti a loro un futuro nuovo, di certo difficile, ma almeno più sicuro. Persone, ognuna diversa dalle altre, «non numeri, ma volti e storie», come dice papa Francesco. È proprio così: donne e uomini come noi. Potremmo essere noi al loro posto se fossimo nati dalla parte sbagliata del mondo.

Daniele Biella

Sos Mediterranée

L’Ong italo-franco-tedesca Sos Mediterranée nasce nel 2015 in Germania e va nel mar Mediterraneo con la nave Aquarius (che prima era un’imbarcazione della Guardia costiera tedesca) nel febbraio 2016. Da allora fino allo sbarco dell’11 dicembre 2017, l’Aquarius, lunga 77 metri, ha salvato 25.646 persone: 11.261 nel 2016, 14.385 nel 2017. Ben oltre 25 le nazionalità di provenienza delle persone, sia dall’Africa che dal Medio Oriente.

Sito web: www.sosmediterranee.org


Cosa (non) vediamo in Libia

I Diritti umani violati e l’accordo Italia-Libia

Lo sappiamo da tempo: in Libia i migranti subiscono brutali forme di violazione dei loro diritti. Nonostante questo, l’Italia ha fatto un accordo con Al-Sarraj che mira a scoraggiarne la partenza. Così sono diminuite le partenze e i morti in mare, ma di fatto sono peggiorate le condizioni delle persone sulla terra ferma.

Quello che sta accadendo nel mar Mediterraneo e sulle coste libiche non si può più tacere. Ci sono filmati e testimonianze che ora pesano come macigni sulla Comunità internazionale, e sull’Europa in primis. Racconti che arrivano all’attenzione dell’opinione pubblica grazie al coraggioso lavoro di giornalisti disposti a rischi personali in nome della verità dei fatti, grazie alle stesse persone migranti che fanno conoscere la loro storia nonostante il rischio di ritorsioni, e grazie alla presenza in mare di soccorritori che partono con un preciso scopo: salvare vite umane.

Migliaia, se non decine di migliaia di esseri umani, prima di venire obbligati a partire affidandosi alla roulette russa del mare, sono vittime per mesi di violenza da parte di carcerieri e trafficanti.

Succede da anni, ma solo dall’autunno del 2017 se ne parla apertamente, dopo la strage del 6 novembre (almeno 52 morti causati dal comportamento scorretto delle autorità libiche, si veda box) e altri fatti angoscianti come quelli mostrati dal video della Cnn in cui si assiste a una compravendita di giovani dell’Africa subsahariana. Un vero e proprio commercio di «schiavi» in terra libica. Il 27 novembre, poi, hanno destato ulteriore indignazione le immagini di decine di bambini denutriti e coperti di piaghe recuperati dalla nave Aquarius dell’Ong Sos Mediterranée su indicazione del Imrcc di Roma. Sul peschereccio dal quale sono stati prelevati c’erano 421 anime. Prima di lasciare la terra ferma erano stati chiusi per mesi in condizioni più che disumane in prigioni illegali gestite dai trafficanti.

Un accordo

La Libia, che non ha firmato la Dichiarazione Onu sui diritti umani, è considerata uno dei luoghi più pericolosi al mondo. Per questo sta sollevando una forte discussione il fatto che, prima con un Memorandum del febbraio 2017, poi con un vero e proprio accordo nell’estate, il governo italiano abbia stretto un patto con quella parte della Libia governata dal premier Al Sarraj. L’Italia, in cambio del controllo delle partenze dei migranti, garantisce navi e formazione alla Guardia costiera del paese nordafricano, in particolare della città di Zawiya e, a detta degli stessi libici, un apporto economico (rimasto imprecisato).

Il problema è duplice: da una parte il «controllore» potrebbe benissimo essere anche il «controllato» (il miliziano trafficante che cambia casacca e diventa membro della Guardia costiera libica, come denunciato dal giornalista Rai Amedeo Ricucci); dall’altra in quelle zone si continua a combattere e nuove milizie si impossessano dei territori di altre, come avvenuto a settembre, quando quelle riconosciute da Al Sarraj sono state sconfitte da altre vicine al rivale, il generale Haftar che controlla gran parte della Cirenaica. La conseguenza è il caos totale per le persone migranti rinchiuse nei centri di detenzione in attesa di partire per l’Italia (più che di un improbabile rimpatrio): esse si trovano in balia degli eventi, esposte a un fuoco incrociato di libici contro libici e al rischio di essere di nuovo rapite o vendute e, ovviamente, trattate senza alcun rispetto dei diritti umani.

L’Unhcr, l’alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati, può entrare a visitare i campi di detenzione «ufficiali» solo con permesso delle autorità libiche. Quando lo fa, di solito trova situazioni ripulite per l’occasione, ma appena i detenuti riescono a parlare, raccontano di soprusi e compravendite di persone che avvengono anche lì, nei centri più controllati. La partenza per il mare è una liberazione, ma, da quando sono in atto i respingimenti, l’incubo è destinato a continuare, perché in caso di intercettazione da parte della Guardia costiera libica si è costretti a tornare. Questo, il ministro dell’Interno italiano Marco Minniti, promotore dell’accordo con la Libia, lo sa, ma la sua linea è quella di fare qualcosa in ogni caso per fermare gli arrivi in Italia. Per questo dopo il naufragio del 6 novembre 2017, nonostante l’appello del volontario di Sea-Watch Gennaro Giudetti, che ha visto da vicino la violenza delle autorità libiche, nonostante il video della Cnn e le prove delle torture subite dalle persone migranti in Libia, non ha cambiato la linea governativa rivendicando «la lotta ai trafficanti» e «la diminuzione del numero degli sbarchi».

Lo stesso ministro Minniti ha creato nel luglio 2017 un Codice di condotta per le Ong sull’onda del clamore di una campagna mediatica di attacco alle stesse organizzazioni, sospettate di essere d’accordo con i trafficanti, nonostante in un anno di accuse da parte di blogger, media e politici schierati con la «criminalizzazione della solidarietà», nessun fatto concreto sia mai stato accertato. Al momento una sola Ong, la tedesca Jugend Rettet, pur vedendosi riconosciuti i suoi fini umanitari, è stata indagata dalla Procura di Trapani per favoreggiamento all’immigrazione clandestina. Quasi tutte le organizzazioni non governative hanno firmato il Codice di condotta accordandosi con il ministero. Molte poi si sono rifiutate di tornare nelle acque internazionali, ma più per l’atteggiamento aggressivo della Guardia costiera libica che per le regole del Codice, che di fatto sono le stesse già in vigore in mare e già osservate anche dalla stessa Guardia costiera italiana. È l’atteggiamento libico il vero problema: da esso dipende se un salvataggio va a buon fine o se centinaia di persone trovano la morte. Una situazione inaccettabile.

Daniele Biella


«Ho visto cose terribili»

La testimonianza di un volontario italiano

Il 6 novembre 2017 c’è stata l’ennesima strage in mare. Almeno 52 morti, anche a causa del comportamento della Guardia costiera libica. Ce ne parla un testimone oculare.

Gennaro Giudetti ha 27 anni, è originario di Taranto e negli ultimi sette anni ha vissuto un anno in Albania con i Caschi bianchi in Servizio civile all’estero, poi come volontario in Kenya, nei Territori Palestinesi e in Libano per il corpo di pace Operazione Colomba dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII.

A maggio 2017 e a novembre si è imbarcato con l’Ong Sea Watch per partecipare, come mediatore culturale, alle operazioni di salvataggio e soccorso nel Mediterraneo, durante le quali ha dovuto personalmente trarre in salvo dall’acqua decine di persone, donne e bambini compresi.

Il 6 novembre 2017 è stato testimone di un naufragio che ha causato la morte di decine di persone. Sono state chiare fin da subito le responsabilità del personale della Guardia costiera libica presente sullo scenario. Giudetti è stato il primo a denunciare tutto questo, chiedendo in un appello su Vita.it di incontrare il ministro dell’Interno Marco Minniti e i membri del Parlamento europeo. Ecco il suo racconto di quei momenti drammatici, ripreso da giornalisti e politici di tutto il mondo, compresa la presidente della Camera Laura Boldrini, ex portavoce di Unhcr, Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati.

«Ciò che ho visto con i miei occhi»

«Non appena sono tornato a terra, dopo il naufragio del 6 novembre, ho deciso di raccontare a tutti quelli che vorranno ascoltare ciò che ho visto con i miei occhi.

Insieme ad altri volontari dell’Ong Sea Watch abbiamo tirato fuori dall’acqua, uno a uno, a braccia, 58 persone, salvandole dalla morte.

Di fronte a noi, la Guardia costiera libica ha agito in modo disumano, lasciando decine di uomini e donne in mare ad annegare, senza lanciare salvagenti e picchiando chi non voleva essere preso da loro per non tornare in Libia e voleva, invece, venire sulla nostra nave, dove vedeva al sicuro i fratelli, le mogli, i padri. È stato straziante vivere tutto questo.

Quel giorno eravamo a 30 miglia marine dalla Libia, in piene acque internazionali. L’Imrcc di Roma, la Centrale di comando della Guardia costiera, ci ha contattato per effettuare il salvataggio di un gommone in difficoltà, aggiungendo che sullo scenario avremmo trovato anche una nave della Marina francese con cui collaborare. Quando siamo arrivati sul punto indicato, però, abbiamo capito fin da subito che era già in corso un dramma».

Abbiamo dovuto farci largo tra i corpi

«Prima di noi e dei francesi era arrivata una nave della Guardia costiera libica, che aveva agganciato il gommone dei migranti. Il natante era bucato e c’erano decine di persone in mare. Alcuni indossavano il salvagente, molti altri non avevano nulla.

Dalla nave della Sea Watch 3 abbiamo lanciato i due gommoni di salvataggio. Io ero su uno di questi con altri tre componenti dell’equipaggio.

Abbiamo dovuto farci largo tra corpi di persone che erano già annegate per riuscire a raggiungere e cercare di recuperare quelli che invece erano ancora in vita. Abbiamo tirato a bordo i superstiti con le braccia. Dopo un po’ facevano talmente male che mi si stavano per bloccare. C’erano naufraghi che si attaccavano al mio collo mentre salvavo altri. Sono stati istanti tanto tragici quanto rischiosi.

A un certo punto ho visto un bambino che galleggiava davanti a me, apparentemente senza vita. Avrà avuto 3 o 4 anni. L’ho tirato su nel gommone con le mie mani, sperando in un miracolo. L’abbiamo riportato sulla nave e abbiamo provato a effettuare la rianimazione, ma purtroppo non c’è stato nulla da fare».

La Guardia costiera libica

«I militari libici sembravano non interessarsi delle persone che erano più lontane da loro. C’erano intorno alcuni corpi senza vita. Loro hanno lanciato delle corde alle quali le persone ancora in acqua si aggrappavano per salvarsi. Ma molti, sapendo che con la Guardia costiera libica sarebbero ritornati in Libia – dove oramai sono documentate le tante violenze commesse -, hanno iniziato a nuotare verso di noi non appena ci hanno visto. I libici all’inizio sembravano collaborativi, non ostacolavano chi si dirigeva verso di noi. Poi, però, hanno iniziato a fare un gesto folle: ci hanno lanciato addosso delle patate, mentre ci urlavano di andarcene. Nello stesso tempo si rendevano protagonisti di brutalità sulla loro nave: prendevano a frustate e bastonate chi era già a bordo ma cercava di alzarsi e ributtarsi in mare per venire da noi.

Nonostante ciò, tante persone continuavano a provare a sfuggire alla Guardia costiera libica, anche perché alcuni dei loro parenti erano già in salvo sui nostri gommoni e vedersi separati aumentava la loro disperazione. Improvvisamente, i libici hanno deciso di andarsene, a tutta velocità e senza una chiara motivazione.

Un elicottero militare italiano, presente sulla scena, si è abbassato di colpo, costringendoli a rallentare almeno per un attimo. La loro fuga ha aggravato il dramma già in corso. Molte persone, infatti, erano ancora in mare, attaccate alle corde e la motovedetta in movimento li ha messi in estremo pericolo.

Ho assistito a una scena orribile: un marito che si è aggrappato a una corda per scendere dopo avere sentito la moglie che lo chiamava dal nostro gommone, ma non sapendo nuotare aveva paura di lanciarsi in acqua. Proprio in quel momento la nave libica è partita e lui è rimasto appeso. Chissà cosa ne è stato di lui: noi non l’abbiamo potuto recuperare e non sappiamo se sia vivo o morto. Lascio immaginare quanto sia disperata ora sua moglie, così come la mamma del bimbo che ho visto annegare davanti ai miei occhi. Nelle ore successive al salvataggio ho passato molto tempo a cercare di consolarla, anche se è impossibile pensare di alleviare un trauma simile».

Fermare l’accordo con la Libia

«Come italiano ed europeo chiedo scusa alle persone la cui unica colpa è essere nati nella parte sbagliata del mondo. Queste donne, questi uomini, questi bambini, non sono solo numeri: sono esseri umani, con un nome, una faccia, e vorrei che tutto il mondo venisse sulle barche nel Mediterraneo per capire davvero come stanno le cose. Mi amareggia pensare che c’è chi liquida quanto accade con frasi come “c’è un’invasione che va fermata”. Credo che di fronte a questa tragedia dovremmo ascoltare la nostra coscienza.

E mi preoccupa l’accordo che il governo italiano ha fatto con la Libia e il modo in cui vengono utilizzate le navi donate alla Guardia costiera libica. Credo che si debba fermare o modificare immediatamente l’accordo con la Libia. Ora più che mai, nessuno può dire “chissà cosa succede veramente?”. Io c’ero, ho visto, ed è tutto vero. E quello che sta succedendo non deve succedere mai più».

Testimonianza di Gennaro Giudetti, raccolta da Daniele Biella


E come li accogliamo

Da dove e perché.

Vengono via da regimi oppressivi, da zone di conflitto, dai gruppi jihadisti. O anche «solo» da una condizione di povertà e di assenza di prospettive. L’Unione europea fatica a prendersi carico della loro sorte. L’Italia affronta la situazione nel tentativo di uscire dalla condizione di emergenza.

Da dove vengono e dove vanno le persone che migrano verso l’Europa? C’è la rotta libica, quella su cui ci concentriamo qui, ma non dimentichiamoci della rotta balcanica, diretta in particolare verso il Nord Europa, con passaggi anche a Est dell’Italia, vedi Trieste e Gorizia: migliaia di persone, bambini compresi, che puntano all’asilo politico venendo da nazioni come Siria, Afghanistan, Pakistan e Iraq e che oggi sono in gran parte bloccati in campi di accoglienza sulle isole o sulla terraferma greca o, in condizioni peggiori, ai confini dell’Est Europa. Una delle ultime vittime, lo scorso 23 novembre 2017, una bambina afgana di 6 anni investita da un treno merci al confine tra Croazia e Serbia: era stata appena respinta dalla polizia croata assieme alla propria famiglia.

La Libia è un collo di bottiglia

Per quanto riguarda la rotta libica, stiamo parlando di quello che viene spesso paragonato a un «collo di bottiglia», ovvero un luogo in cui le persone vengono assembrate dai trafficanti prima della partenza obbligata verso l’Europa. Molti, provenienti dall’Africa Subsahariana, non puntano al vecchio Continente, ma piuttosto alla Libia stessa come luogo di lavoro. Una volta giunti in Libia, però, si rendono conto che la scelta è sbagliata, anche per le atroci violazioni dei diritti umani che finiscono per subire e, non essendoci una rotta di ritorno, l’unica via d’uscita è la traversata del Mediterraneo. Verso la Libia convergono rotte migratorie sia dal Corno d’Africa (dall’Eritrea in particolare, dove c’è una decennale dittatura, ma anche dalla Somalia dove terrorismo e violenze sono pericoli quotidiani), sia da paesi in guerra come il Sud Sudan o il Congo, sia da altri paesi alle prese con diverse forme di terrorismo (si veda Boko Haram in alcune zone della Nigeria o gruppi jihadisti in Mali), persecuzioni governative o anche situazioni di dissesto climatico e povertà diffusa. Tutti motivi che spingono migliaia di persone, soprattutto giovani, a partire: i figli maggiori sono quelli su cui una famiglia punta, spesso indebitandosi. Quando il ragazzo arriverà alla meta, potrà iniziare a inviare denaro.

Ma non è solo in Libia il pericolo: ogni passaggio è rischioso, perché trafficanti e criminali comuni stabiliscono rotte ben precise e se non hai i soldi per percorrerle vieni lasciato indietro. Nel deserto del Sahara questo significa morte certa di stenti o a mano armata. Se superi deserto, Libia e mare, alla fine l’Europa la trovi.

In Italia, le maggiori nazionalità di arrivo nel 2017 sono state: Nigeria, Guinea Conakry, Costa d’Avorio, Bangladesh, Mali ed Eritrea (vedi tabella).

Il Regolamento di Dublino

Per il Regolamento di Dublino, in atto nell’Unione europea dal 1990 con una serie di modifiche successive non sostanziali, il primo paese d’approdo in Europa è quello in cui una persona deve chiedere asilo politico. Molti però non vogliono, perché hanno parenti o conoscenti altrove, e provano a passare illegalmente le frontiere di terra, per esempio tra Italia e Francia, Svizzera e Austria. Il risultato sono altre morti, come le cronache locali purtroppo riportano tra Ventimiglia, Como e Brennero.

A metà novembre 2017, dopo anni di lavori, finalmente il Parlamento europeo ha varato una riforma del Regolamento che supera il blocco del primo paese d’approdo, prevedendo l’invio della persona dal centro di prima accoglienza in nazioni diverse attraverso il sistema delle quote: ma tale riforma va approvata anche dal Consiglio europeo, composto dai capi di stato e di governo dei singoli membri Ue, che oggi su questo argomento ha posizioni molto rigide di avversione. I più contrari sono soprattutto i paesi dell’Est Europa, appartenenti al cosiddetto «Gruppo di Visegrad».

La prima accoglienza

In attesa di questo cambiamento, fortemente voluto dalla società civile italiana ed europea, il sistema di accoglienza prevede due fasi: la prima attraverso il meccanismo degli hotspot, e la seconda attraverso strutture dove le persone rimangono il tempo necessario a vagliare la loro domanda di asilo (protezione internazionale).

Gli hotspot sono luoghi in cui le persone vengono trattenute appena sbarcate, in attesa di ricevere la loro richiesta d’asilo. Ce ne sono una decina
distribuiti tra le isole greche e l’Italia, con situazioni diverse tra loro. In Grecia, infatti, in conseguenza dell’accordo tra Ue e Turchia del marzo 2016, migliaia di persone, bambini compresi, sono trattenute per mesi in attesa di una risposta sul loro ricollocamento. La situazione è particolarmente esplosiva sull’isola di Lesbo: nell’hotspot di Moria a dicembre 2017 erano presenti almeno 6mila persone, a fronte di una capienza di 2.500, molti in tende nonostante il freddo. Accade spesso che le persone migranti vengano addirittura rimandate in Turchia, considerato dall’Europa un «terzo stato sicuro» dove le persone non rischiano la vita. L’Europa però non prende in considerazione le dure condizioni dei campi profughi turchi in cui vivono in milioni, soprattutto siriani.

Gli hotspot italiani, invece, oggi funzionano meglio e le persone che ne hanno diritto – ovvero che hanno possibilità di chiedere asilo e non provengono da quegli stati con cui l’Italia ha accordi bilaterali di rimpatrio, come Marocco o Tunisia – vengono smistate nei centri di seconda accoglienza lungo la penisola e in quota residuale all’estero (le cose cambieranno, appunto, se il Regolamento di Dublino verrà modificato).

La seconda accoglienza

Le strutture di seconda accoglienza in Italia si basano su quote regionali e sono di due modelli: il Cas e lo Sprar. Il referente del ministero dell’Interno per i Cas (Centri di accoglienza straordinaria) è la Prefettura territoriale. Questa, con un bando, assegna un numero di persone in accoglienza a enti gestori che possono essere profit e non profit, in cambio di 35 euro per ospite. Di questi 35 euro al singolo ospite ne vanno 2,5, il resto è utilizzato dal gestore che deve spenderlo per i servizi previsti dal bando, altrimenti può essere denunciato per lucro. Le persone vengono alloggiate in strutture dell’ente stesso o che quest’ultimo affitta da privati.

Il secondo modello è quello dello Sprar (Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati): un’accoglienza gestita direttamente tra Ministero dell’Interno e Comune. Quest’ultimo riceve incentivi e, soprattutto, grazie alla «clausola di salvaguardia» emanata dal ministero nel 2016, può evitare Cas sul proprio territorio se completa la propria quota Sprar che è attorno ai tre richiedenti asilo accolti ogni mille abitanti.

Molti studi affermano come sia opportuno il passaggio graduale dal sistema Cas (chiamato anche «emergenziale») a quello Sprar («strutturale»). Oggi i dati, seppure indichino un ampliamento del sistema Sprar, parlano ancora di una forte presenza di richiedenti asilo nei Cas, a volte in sovrannumero rispetto al territorio in cui sono ospitati, con conseguente disagio sia per la popolazione locale che per i migranti stessi che trovano difficoltà di conoscenza reciproca. A fine 2016, a fronte di 170mila in accoglienza Cas, erano 34mila in Sprar (fonte Anci).

Il Piano nazionale d’integrazione

Dopo anni di tentennamenti, da qualche tempo anche il governo promuove la diffusione generale del modello Sprar e ha emanato a settembre il primo Piano nazionale d’integrazione: l’integrazione è la vera sfida da vincere al di là dell’accoglienza, per la quale, a parte evidenti casi di malaffare, l’Italia si distingue in positivo rispetto ad altri paesi europei.

Lo stato deve promuovere azioni sistematiche, non sperare solo nella buona volontà del singolo tessuto sociale. Altrimenti, in un momento in cui l’opinione pubblica è molto divisa sul tema dell’accoglienza anche per causa di un’informazione fatta male sia a livello di mass media che istituzionale, il rischio è quello di dividere la società su un tema che invece andrebbe affrontato in modo unitario, chiedendo conto all’Europa di una redistribuzione complessiva degli ospiti che oggi non avviene.

Daniele Biella


Fake news

1: 35 euro al giorno

«Solo il 5% dei richiedenti asilo in Italia è rifugiato». «Si prendono 35 euro al giorno». Benvenuti nel mondo delle notizie false, propaganda o fake news anti-migranti: un mondo pericoloso dove le paure vengono amplificate e le persone portate alla diffidenza estrema sia da politici senza scrupoli che da quegli stessi mass media che dovrebbero invece portare più chiarezza. Smascherarle è un lavoro lungo ma necessario (in inglese si chiama debunking, mentre la verifica dei fatti narrati fact-checking), anche se spesso le smentite, soprattutto nel mondo dei social network, non raggiungono  nemmeno la metà della portata di un articolo falso sparato in prima pagina e condiviso da migliaia di utenti.

In Italia, rispetto alla media dell’Europa, è alto il numero degli «analfabeti funzionali», ovvero delle persone che leggono frasi ma ne travisano il significato. Ma il dato che spaventa di più, in questo caso tutta l’Europa, raccolto dalla Stanford University, riguarda l’incapacità della maggior parte degli adolescenti – con punte dell’80% – di riconoscere una notizia tendenziosa o una pubblicità, nemmeno di fronte a prove evidenti, come il logo di un sito o di un prodotto. Il messaggio viene recepito come notizia vera e quindi assimilata.

«La credibilità delle notizie è il tema centrale di questi anni», conferma Stefano Pasta, giornalista e membro dell’Associazione Carta di Roma che porta il nome del documento firmato nel 2008 da Ordine dei giornalisti e Fnsi, il sindacato di categoria, proprio per «rispettare la verità sostanziale dei fatti osservati». Se uno studente «non riesce a riconoscere la palese falsità di una notizia è un problema che le agenzie educative devono affrontare aumentando con urgenza il loro senso critico», osserva Pasta. L’associazione Factcheckers, in questo senso, ha messo online gratuitamente un’efficace «Guida galattica per esploratori di notizie» (factcheckers.it/guida).

«L’altro fenomeno preoccupante da arginare e poi scardinare è la diffusione delle post-verità», riprende il referente di Carta di Roma. «Di fronte a una supposta notizia che ci sconvolge, facciamo prevalere il nostro stato emozionale sulla realtà dei fatti: i nostri sentimenti rendono vero quello che non lo è e la nostra interpretazione del mondo è falsata. È successo così, per esempio, con il tema delle allusioni alla collaborazione tra Ong in mare e trafficanti: nessun fatto concreto, ma notizie a cui molti hanno creduto perché spinti da sentimenti di paura e rifiuto, stimolati e orientati da persone abili a manipolare le coscienze». Come bloccare l’insinuarsi della post-verità? «Osservare a fondo la realtà, trovare fonti diverse che confermino o meno una notizia che ci salta all’occhio», continua Pasta. «E allargare i propri orizzonti: quanti di noi sanno, per esempio, che meno del 10 per cento dei profughi nel mondo viene verso l‘Europa?». Infatti i dati Onu parlano chiaro: tra i paesi che ne ospitano di più al mondo ci sono Turchia, Giordania, Libano, Colombia e due stati della stessa Africa, Kenya e Rwanda. A conti fatti, fake news e post-verità sono due facce della stessa medaglia e vanno affrontate assieme, ribattendo punto su punto. Solo il 5% dei richiedenti asilo in Italia è rifugiato? No, «rifugiato» è una delle tre forme legislative previste, le altre due sono «protezione sussidiaria» e «protezione umanitaria». La somma (su dati ministeriali) fa almeno 40% in prima udienza, 60% dopo l’appello, ovvero la quota di accoglienza delle domande di asilo è in media positiva in sei casi su dieci. «Si prendono 35 euro al giorno». No: 35 euro li prende l’ente gestore, al richiedente asilo ne vanno 2,50 al giorno, quindi circa 75 al mese.

D.B.

2: malaria e nozze

«Dopo la miseria, portano malattie», titolava il quotidiano Libero mercoledì 6 settembre 2017 sul caso di una bambina di 4 anni che a Trento aveva preso la malaria. E nel sommario: «Immigrati affetti da morbi letali diffondono infezioni». In questo caso l’Ordine dei giornalisti è intervenuto per denunciare il «rischio di incitamento all’odio», ma la notizia in questi termini è girata per giorni, ampiamente trattata con toni allarmistici anche nelle televisioni, mentre chi portava spiegazioni ragionevoli dell’accaduto non veniva preso in considerazione. «È stata una macroscopica falla nelle procedure, un errore umano, ovvero un’iniezione sbagliata con siringa già infetta da parte di un infermiere», è stato infine accertato dalle indagini a inizio novembre, ma questa notizia ha trovato rilievo su ben poche testate nazionali.

«Mi hanno piantato un coltello nella mano, è stato un africano».
Questo il grido di dolore di un controllore delle Ferrovie milanesi di Trenord. Era il 19 luglio 2017: notizia sotto i riflettori ovunque, sciopero successivo indetto dai colleghi, indignazione collettiva. Infuria la caccia all’aggressore, ma il 28 luglio emerge, grazie alle telecamere della stazione, la sconvolgente verità: «Se l’è fatto da solo». Nessun africano criminale! Denuncia dell’azienda e probabile licenziamento per il controllore. Nel frattempo però la notizia falsa, ma data per vera dalla maggior parte dei media e parecchio ghiotta per «sbattere il mostro in prima pagina», è girata, purtroppo, molto di più della smentita.

Il caso in Veneto del matrimonio combinato tra una bambina di 9 anni e un adulto musulmano di 35 che avrebbe usato violenza su di lei: bufala apparsa come notizia vera il 21 novembre 2017, prima sul Messaggero, poi su altre testate nazionali e addirittura riportata nella nota rubrica «Buongiorno» de La Stampa, curata dal pur attento giornalista Mattia Feltri, nonostante la smentita da parte delle forze dell’ordine fosse arrivata entro la sera stessa. Feltri la mattina successiva è dovuto correre ai ripari, perlomeno sulla versione online, dato che il cartaceo era già in edicola.

Un caso emblematico che ha strumentalizzato il problema delle spose bambine, non molto comune in Italia ma diffuso in altri paesi del mondo, allo scopo di alimentare l’islamofobia.

D.B.


Questo dossier è stato firmato da:

  • Daniele Biella Classe 1978, giornalista, collabora con diverse testate nazionali scrivendo di tematiche sociali, in particolare migrazioni e cooperazione internazionale. Ha all’attivo due libri: L’isola dei Giusti. Lesbo crocevia dell’umanità (Paoline, 2017) e Nawal, l’angelo dei profughi (Paoline, 2015). Interviene come referente di progetti educativi e formativi sul tema dell’accoglienza in scuole, assemblee cittadine e altri centri di aggregazione. In particolare, tramite il progetto «Con altri occhi», lungo l’anno scolastico 2016-2017, ha incontrato più di 5mila alunni di scuole primarie e secondarie. Al termine degli studi universitari ha vissuto in Cile, dove ha svolto un anno di servizio civile volontario nel corpo di pace «Caschi Bianchi».
  • A cura di: Marco Bello e Luca Lorusso, redazione MC.

 

Foto di questo Dossier

  • Tutte le foto, eccetto quelle di pp. 42-44 – che sono di Sea-Watch e.V. / Lisa Hoffmann, sono state scattate da Daniele Biella durante il viaggio sulla Aquarius.

 




Germania e la questione migratoria


Per navigare questo dossier

Dal nazionalismo all’accoglienza.
Germania: ieri, oggi, domani

«Wir schaffen das» («Ce la facciamo»).
Le sfide dell’immigrazione.

Il lungo percorso del dialogo.
Immigrazione e fedi religiose in Germania.

Schede.
Dati demografici

Le Chiese.
Alcune date storiche.

 


Dal nazionalismo all’accoglienza

Germania: ieri, oggi, domani

Dopo gli orrori nazisti, la Germania è cambiata in maniera profonda e sorprendente. Potenza economica e politica, è la seconda destinazione a livello mondiale per le migrazioni, subito dopo gli Stati Uniti. Nonostante alcune tensioni e la presenza di movimenti xenofobi («Alternativa per la Germania» e «Pegida»), la Germania di oggi è un paese aperto, plurale e inclusivo. Anche se ora occorre attendere le (inevitabili) conseguenze del voto del 24 settembre 2017.

La Germania è il paese europeo dove l’ideologia nazionalista, portata alle sue più estreme conseguenze, ha messo in atto i crimini più feroci contro l’umanità. Il mito della razza ariana propugnato dai nazisti, quello di una presunta purezza etnica da conseguire e preservare a ogni costo, l’eugenetica e lo sterminio sistematico degli ebrei e di altre minoranze, rappresentano un’onta di infamia che, volenti o nolenti, sarà legato ancora a lungo al nome di questo paese.

Questo anche in ragione del fatto che, a dispetto di casi straordinari ma episodici come quelli di un Dietrich Bonhoeffer e degli studenti della Rosa Bianca, l’opposizione interna al Reich hitleriano e alla messa in opera della soluzione finale ha riguardato solo un numero assai esiguo di individui, incapaci di impensierire in alcun modo la colossale macchina della morte messa in piedi dal regime nazista e dalla sua propaganda. A fronte di ciò, come scriveva nella sua «Storia della Shoah» lo storico Georges Bensoussan, furono un milione i tedeschi coinvolti direttamente o indirettamente nello sterminio degli ebrei, fra campi di concentramento ed esecuzioni di massa delle Einsatzgruppen (le famigerate «unità operative» guidate da Reinhard Heydrich), soprattutto nei territori dell’Europa orientale, dove trovarono in molti casi terreno fertile anche fra le popolazioni locali. Assai più numerosi, inevitabilmente, i tedeschi che sapevano, oppure fingevano di non sapere, pur avendo avuto di fronte a sé segni inequivocabili e avvisaglie chiarissime rispetto a quanto avveniva.

Ciononostante, chi conosce bene questo paese dall’interno, non può che guardare con sincera ammirazione al cambiamento sociale e culturale avvenuto nella Repubblica Federale dal dopoguerra ad oggi. Un mutamento che ha investito il mondo della politica e della cultura, nonché le coscienze di milioni di tedeschi che prima hanno riconosciuto gli errori e orrori compiuti nel passato e poi hanno tentato di cambiare se stessi e il paese senza reticenze e compromessi. Il risultato che abbiamo di fronte a noi è per molti versi sorprendente. La Germania odierna è un paese aperto, plurale e inclusivo, a dispetto delle sfide della convivenza e dell’accoglienza, e delle inevitabili tensioni che ne sono sorte negli ultimi anni.

Non solo: forse più di ogni altro paese, la Germania di oggi ambisce a rappresentare un baluardo della tolleranza nel mondo, in anni – quelli che stiamo vivendo – dove le campagne elettorali europee (e non solo: basti pensare a Trump negli?Stati Uniti) paiono segnate in modo sempre più netto da rigurgiti nazionalisti e razzisti, che si fanno avanti in modo rapido e spaventoso anche nei nostri media e nelle coscienze di molti di noi. Ed ecco allora che quella che è stata senza dubbio una tragedia e un’onta, quella dei crimini compiuti dai nazisti, si è trasformata per molti versi, inaspettatamente, anche in una risorsa e in un antidoto sicuro contro l’odio sempre più imperante nei confronti dei rifugiati e degli stranieri.

La Germania dopo il 24 settembre 2017

Certo, non è tutto oro quel che luccica. Anche in Germania si è fatta avanti una destra populista e xenofoba, quella del partito «Alternativa per la Germania» (Alternative für Deutschland, Afd). Nelle elezioni del 24 settembre l’Afd ha raccolto il 12,6 per cento dei voti e ben 94 seggi nel Bundestag. Un partito, questo, che come il movimento anti-islamico di Pegida (Patriotische Europaeer Gegen die Islamisierung des Abendlandes, Europei patriottici contro l’islamizzazione dell’Occidente), ad esso per molti versi associabile, raccoglie però consensi in modo assai più marcato nell’ex Germania orientale, dove gli spettri del totalitarismo comunista continuano a pesare. Ma non si tratta, purtroppo, in molti casi, solo di slogan e vuote parole. Crescono di frequenza anche le aggressioni, gli episodi di intolleranza e di violenza nei confronti del diverso, poco importa se si tratti di un rifugiato, di un musulmano o di un ebreo, tutti ugualmente colpiti negli ultimi anni. Eppure, considerando le sfide che il paese si è trovato ad affrontare soprattutto dal 2015 in poi, non si può che trarre un bilancio positivo, con una punta di invidia nei confronti di una macchina statale che è stata capace di reggere all’urto dei tempi, senza cercare facili capri espiatori o piegarsi, per mero interesse politico, agli slogan razzisti anche da noi fin troppo noti.

La crisi dei rifugiati (2015) e gli attentati (2016)

Dicevamo poc’anzi dello spartiacque epocale rappresentato per la Germania dal 2015. Ebbene, proprio da qui si deve partire per comprendere la situazione attuale: nel 2015 si era nel pieno della crisi dei rifugiati, quando erano in tanti – o, meglio, la quasi totalità – i giornalisti nostrani che, dal caldo delle loro poltrone a Roma e a Milano, davano politicamente per spacciata la Merkel, «colpevole», secondo molti di loro, di aver spinto troppo avanti la sua politica dell’accoglienza, nota come Willkommenskultur in tedesco. Le cifre degli arrivi, a ben guardare, sono davvero impressionanti, anche se oggi sappiamo essere un po’ inferiori a quelle gonfiate e diffuse dai media in quei mesi.

Sono stati 865.374 gli individui entrati illegalmente in Germania nel 2015, secondo i dati ufficiali riportati dalla polizia federale tedesca lo scorso anno. Fra questi, primi per paese d’origine sono stati i siriani (73.920), seguiti da afghani (38.750), iracheni (22.394) ed eritrei (17.225). Tutti, com’è facile notare, fuggiti da luoghi segnati da terrorismo, guerre o dittature feroci. Notevoli anche i dati di comparazione rispetto all’anno precedente. Dal 2014 al 2015 l’immigrazione dall’Afghanistan alla Germania è aumentata del 877%, dall’Iran del 1.005% e dall’Iraq (dove era in piena espansione lo Stato islamico) addirittura del 2.155%. Dati che rendono bene l’entità di un fenomeno che ha cambiato il volto del paese, ponendolo di fronte anche a una sfida politica e culturale di vaste proporzioni.

In Germania il 2015 non sarà ricordato solo per la crisi dei rifugiati. Anche il terrorismo, da molti anni assente, ha fatto il suo macabro ritorno nel paese provocando un mutamento dello scenario politico e della sicurezza altrettanto importante. Ricordiamo, su tutti, gli attacchi dell’estate di quell’anno, da Ansbach a Würzburg, entrambi rivendicati dall’Isis. L’anno successivo, invece, è stato funestato da episodi di ancor più vasta portata: la strage di Monaco di Baviera del 22 luglio 2016, dove hanno perso la vita 10 persone, e l’attacco terroristico al mercatino di Natale a Berlino, il 19 dicembre, costato 12 vittime. Non si è trattato in tutti i casi di attentati a sfondo religioso. Tutti, invece, i protagonisti di questi macabri eventi erano, almeno per origine, stranieri. Ebbene, il clima che si respirava nelle strade, il dibattito sui media e su internet di quei giorni, non è minimamente paragonabile all’odio e alla tensione che hanno segnato la brutta estate italiana che ci siamo appena lasciati alle spalle.

L’odio non fa breccia

Quali sono le ragioni di questa differenza, che sempre più si configura a livello europeo come un’eccezione? Perché l’odio non fa breccia che in modo marginale nella Germania odierna? La prima risposta, come detto, va ricercata forse nella storia. La Germania risorta dalle macerie del Terzo Reich, sopravvissuta al terrorismo della Raf e agli anni di piombo, ha in sé più di altre nazioni gli anticorpi per resistere alla spirale cieca della violenza islamista e del razzismo. A Berlino, a Dresda, a Amburgo, a Stoccarda – città che solo pochi decenni fa erano un cumulo di macerie – sono ancora in pochi ad essere disposti a invertire l’orologio della storia, a subire il fascino del sangue e ad auspicare un ritorno ai proclami di guerra e alle crociate.

Ma non basta. Un altro punto fondamentale da ricordare, a mio avviso, anche in termini comparativi rispetto all’Italia e ad altri paesi dell’Europa orientale, dove le sirene dell’intolleranza trovano oggi orecchie più recettive, è che qui l’integrazione di milioni di cittadini di origine straniera è ormai un fatto compiuto da decenni, almeno nelle grandi città del Sud e dell’Ovest. Là dove la presenza è più recente, come nell’ex Ddr, servirà inevitabilmente più tempo, come d’altronde da noi in Italia. Non dimentichiamo infine che ad Est, punto da non trascurare, i dati sulla povertà e sull’emarginazione sociale sono ancora assai più alti che in altre parti del paese, con il solito, triste profilarsi di una guerra fra poveri.

Le paure dei tedeschi: una classifica

Dati alla mano vediamo com’è articolata la società tedesca di oggi, dove la componente legata all’immigrazione, come detto, è in continua crescita. Sono 18,6 milioni i residenti di origine straniera in Germania, pari a oltre un quinto della popolazione totale, che ammonta a 81 milioni di individui. Si è avuto, a tal proposito, un aumento record nell’ultimo anno, il 2016: +8.5% secondo i dati dell’Ufficio statistico federale, ovvero il più alto in oltre un decennio. Un fenomeno ancor più marcato nei grossi centri urbani dove le opportunità di impiego sono assai maggiori. Prendiamo ad esempio Stoccarda, dove l’anno prima, nel 2015 – e sono gli ultimi dati disponibili – il 42,2% dei residenti era di origine straniera, con punte del 58,2% per i minorenni. Numeri importanti, tali da mutare profondamente il volto di una città, dalle scuole fino al lavoro e al tempo libero. Eppure, anche a livello di percezione diffusa, le città sono sicure, assai più che in Italia, e l’immigrazione non risulta oggi al primo posto fra le preoccupazioni dei tedeschi. Il cambiamento climatico (71%) e il timore di nuove guerre (65%) la fanno da padrona, secondo una recente ricerca riportata sul quotidiano Westdeutsche Allgemeine Zeitung, staccando la paura del terrorismo (63%) e, di molto appunto, quella degli immigrati (45%).

Un mosaico multiculturale (con tanti cittadini comunitari)

Ma vediamo ora quali sono, fra i cittadini stranieri residenti in Germania, i gruppi nazionali più rappresentati all’interno del mosaico multiculturale tedesco. Secondo i dati ufficiali dell’Ufficio statistico federale, primi sono i turchi, che nel 2016 toccavano quota 1 milione e 492mila, seguiti dai polacchi a 783mila unità. Terzi i siriani, pari a 637mila residenti, quarti invece noi italiani, 611mila (con una crescita di 15 mila individui rispetto all’anno precedente). Seguono rumeni, greci, croati, bulgari, afghani, russi e iracheni. Interessante notare come dal 2016 ad oggi il numero di migranti provenienti dagli altri paesi dell’Unione europea sia più che triplicato. In un solo anno, il 2016 appunto, risulta che siano stati 634mila i cittadini Ue che hanno scelto di vivere in terra tedesca. Non sono quindi solo i cittadini cosiddetti extracomunitari a immigrare. Una Germania che rappresenta la seconda destinazione a livello mondiale per l’immigrazione, seconda solo agli Stati Uniti, stando a una ricerca dell’Oecd pubblicata nel 2014.

Numeri a parte, se visto dall’interno, il melting pot in salsa tedesca sembra funzionare piuttosto bene. Se forte è l’impegno delle scuole e delle istituzioni religiose nel fronteggiare la diffidenza nei confronti dell’altro e il razzismo, è anche il mondo del lavoro a fare la differenza. Sono sempre di più le aziende che scelgono come lingua di lavoro l’inglese nei loro uffici, ed è grande la richiesta di manodopera in alcuni Land, come quelli del Sud, dove si è raggiunta quasi la piena occupazione. All’ingresso del quartier generale della Mercedes, che ha sede qui a Stoccarda, e dove si usa sempre di più la lingua di Shakespeare per lavorare, si legge in un banner: «Qui non c’è posto per il razzismo». Certo, ancora una volta, non è tutto oro quello che luccica, e non vi è dubbio che siano in molti a sfruttare i nuovi arrivati, cui vengono proposti a volte contratti da precari e con retribuzioni sempre più basse, con il risultato che le diseguaglianze avanzano rapidamente, creando sacche di povertà sinora sconosciute soprattutto in provincia, nelle periferie e nelle città del Nord e dell’Est del paese.

Non si può tuttavia trascurare, ed è il dato di gran lunga più incoraggiante, come la risposta più efficace alla crisi dei rifugiati e all’insorgere del razzismo sia giunta proprio dalla società civile tedesca, che ha dato il suo meglio mobilitandosi dopo il 2015. In Germania, le persone in vario modo impegnate nel volontariato sono 31 milioni (pari al 38% della popolazione), in Italia invece – per fare un raffronto – solo 6 milioni (pari al 10%). Una differenza che si spiega anche con la grande generosità dimostrata dalle associazioni, dalle chiese e da tanti semplici cittadini che hanno sentito il bisogno di impegnarsi in prima persona per fronteggiare quella che forse è la più grande sfida del nostro tempo: la sfida dell’accoglienza.

Simone Zoppellaro


«Wir schaffen das» («Ce la facciamo»)

le sfide dell’immigrazione

Si dice che l’immigrazione rappresenti per la Germania solo un’occasione per avere manodopera a basso costo. Questo probabilmente valeva ai tempi dei Gastarbeiter («lavoratori ospiti»). Oggi la situazione è diversa. Anche se i problemi non mancano. Come l’esistenza di profonde diseguaglianze e la scarsa mobilità sociale. Senza dimenticare la questione della vasta minoranza turca, divisa su Erdogan, il dittatore di Ankara su cui la stessa Europa rimane incerta.

Siamo alla fine di dicembre del 2015, in Germania, nel pieno della crisi dei rifugiati. Nel suo discorso di capodanno, il verde Winfried Kretschmann, governatore del terzo Land più popoloso della Federazione tedesca, quello del Baden-Württemberg, nell’affrontare il tema spinoso e dibattuto dell’immigrazione rievoca la sua esperienza familiare. I suoi genitori, racconta nel messaggio ai suoi concittadini, furono costretti a lasciare la Prussia orientale, ovvero l’odierna Polonia, alla fine della seconda guerra mondiale, e giunsero in Germania come profughi fra grandi stenti e perdendo anche un figlio, un fratello maggiore del governatore, allora appena nato. Kretschmann, politico navigato e fra i maggiori esponenti del suo partito a livello nazionale, ben lungi dal cadere nella mera aneddotica, sapeva di toccare con le sue parole una corda profonda per molti tedeschi. Come a dire: i drammi di ieri e di oggi, in fondo, non sono così diversi.

Si stima che furono fra i 12 e i 14 milioni i tedeschi espulsi o fuggiti nell’immediato dopoguerra dai paesi dell’Europa orientale occupati dal Terzo Reich. La larga parte di loro si rifugiò in Germania, ma furono in molti a cercare fortuna negli Stati Uniti, in Australia, e in altri paesi. Un dramma di proporzioni bibliche, inevitabilmente oscurato ieri come oggi dal collasso militare tedesco e dai crimini compiuti dal nazismo, ma non per questo meno doloroso. In?Germania sono tantissime le persone che hanno ancora nei ricordi familiari dei loro genitori o nonni episodi come questi. Un dramma che si è riproposto con l’arrivo a Ovest di circa 4 milioni di profughi provenienti dalla Ddr, l’ex Germania comunista, nel corso della sua storia quarantennale.

Questi due eventi insieme, che investirono nell’arco di pochi decenni – come si desume dalle cifre appena riportate – una fetta enorme della popolazione tedesca, contribuiscono a dare oggi una connotazione diversa, meno astratta, più personale e simpatetica, al fenomeno migratorio, e in particolare nei confronti di quanti – e sono tantissimi – fuggono da guerre e persecuzioni, rischiando spesso la vita. E non sarà un caso, allora, come ci ha raccontato in un’intervista la candidata al Nobel per la pace Nadia Murad, che lo stato del Baden-Württemberg sia uno dei pochi luoghi al mondo ad aver fornito rifugio e assistenza a circa duemila fra donne e bambini appartenenti alla minoranza degli yazidi, in fuga dalla persecuzione messa in atto dallo Stato Islamico. Una decisione, come ci ha spiegato la stessa Murad, dovuta a un interesse personale del già ricordato Kretschmann, cattolico praticante e figlio di profughi di guerra, che ha preso a cuore questa causa dimenticata da tutti. Non è difficile immaginare che per lui, come per tanti tedeschi, storie come questa risultino fin troppo famigliari, difficili da accantonare con una scrollata di spalle o con uno sbadiglio.

Neuer Markt, Hansestadt Rostock

Il precedente storico dei «Gastarbeiter»

Il peso della storia, di una storia tragica e ingombrante, ancora una volta, fa la differenza. Il movimento per la pace, quello per il disarmo e contro la vendita di armi (specie se alle dittature), le manifestazioni di piazza e le attività organizzate dal basso, dalla società civile, per l’accoglienza e per contrastare il razzismo, sono oggi realtà assai più diffuse in Germania che in molti paesi europei. Uno fiorire straordinario che parte dalle parrocchie, dalle feste di quartiere, dalle scuole e da quella galassia sconfinata che è rappresentata dall’associazionismo tedesco. Sbaglia, affidandosi spesso a un ottuso cinismo, chi afferma che l’immigrazione per la Germania rappresenti solo un’occasione per avere manodopera a basso costo per le imprese. Semmai si dovrebbe sottolineare, cosa spesso ignorata da molti, come l’afflusso di profughi e immigrati negli ultimi anni abbia creato – parallelo all’impegno del volontariato – anche moltissimi nuovi posti di lavoro per i tedeschi, dall’insegnamento della lingua, al campo sociale, fino alla mediazione culturale.

Ammirevole anche la qualità dei servizi offerti da centri informativi e uffici per l’immigrazione, dove il personale risulta disponibile, ben attrezzato a interagire con persone di diversa cultura, e parla diverse lingue. Un altro mondo, rispetto alle esperienze spesso frustranti e umilianti che devono subire molti stranieri in Italia o nelle nostre rappresentanze all’estero, dove il servizio risulta in tanti, troppi casi davvero scadente, quando non lesivo per l’immagine dell’Italia nel mondo. Certo, a nostra parziale discolpa bisogna sempre ricordare che il fenomeno migratorio in Germania ha radici più profonde rispetto a quelle del nostro paese, dove l’esperienza è ancora acerba e limitata. Radici che risalgono agli anni Cinquanta e al boom economico di una Germania federale risorta delle ceneri morali e materiali della caduta del nazismo.

Li chiamavano Gastarbeiter, «lavoratori ospiti», con un eufemismo neanche troppo velato che stava a significare che sarebbe stato meglio se, una volta compiuto il lavoro, se ne fossero tornati al loro paese. Ma ciò, come ben noto, nella larga parte dei casi non è avvenuto, e furono anzi in molti a portare con loro in Germania partenti e amici. Fra i primi ad arrivare come manodopera per l’industria tedesca ci siamo proprio noi italiani, insieme a greci, turchi, marocchini e portoghesi. Si trattava in molti casi di accordi bilaterali stretti fra l’allora capitale Bonn e i governi di questi paesi. Dopo l’erezione del muro di Berlino, nel 1961, che ebbe l’effetto di far diminuire i profughi provenienti dalla Germania orientale, aumentò ulteriormente la richiesta di manodopera e, di conseguenza, l’arrivo di immigrati necessari soprattutto alla crescita dell’industria.

L’altra faccia della medaglia: grandi diseguaglianze, scarsa mobilità sociale

Storie di sacrifici e di fatica, di umiliazioni, riscatti o fallimenti, come lo sono sempre quelle legate all’immigrazione, in qualsivoglia tempo e paese. Storie difficili, che solo in rari casi portano a un’ascesa sociale nelle file della borghesia per la generazione successiva. Un divario sociale, culturale ed economico che, inevitabilmente, continua a pesare anche negli immigrati di seconda e terza generazione, ovvero nei figli e nei nipoti degli operai arrivati in Germania nel dopoguerra e negli anni del boom. Come dichiarato in una recente intervista dalla cancelliera Merkel: «C’è ancora un divario significativo tra i giovani che hanno una storia d’immigrazione e i giovani che non ce l’hanno». Certo, esistono eccezioni importanti in tal senso, e sono sempre più frequenti. Ne ricordiamo due, brevemente: il leader del partito verde Cem Özdemir, di origine turca e circassa (regione storica del Caucaso, ndr), che è fra i protagonisti indiscussi della scena politica odierna; o, ancora, il nostro Giovanni di Lorenzo, direttore del settimanale Die Zeit, uno dei più prestigiosi del paese, cresciuto in Italia fino all’età di undici anni.

Eppure, come sottolineato anche dalla cancelliera, tanto resta ancora da fare. La Germania, dati alla mano, è uno dei paesi in Europa dove le disuguaglianze fra ricchi e poveri sono più alte e la mobilità sociale risulta ridotta ai minimi termini. Date queste premesse, la prospettiva di una completa parificazione sociale ed economica per le comunità di immigrati pare essere un obiettivo ancora lontano, innestando nei segmenti più fragili della popolazione, anche se in piccola parte, il germe dell’intolleranza, mentre parallelo, come vedremo, fra alcuni giovani immigrati cresce quello del radicalismo religioso. Ecco allora spiegata l’ascesa del partito «Alternativa per la Germania», che è riuscito per la prima volta nella storia del dopoguerra tedesco a riportare alla ribalta una politica, almeno in parte, riferibile alla galassia dell’estrema destra, infrangendo un tabù sociale e politico molto forte. Ma si tratta pur sempre, a ben vedere, di un unico partito, a fronte di uno schieramento politico – destra inclusa – che si mantiene compatto nel voler combattere la propaganda xenofoba e populista. Emblematico anche il panorama dei media, dove lo spazio dato a populisti e predicatori d’odio è incomparabilmente più basso che da noi.

Turchi che manifestano per Erdogan a Colonia. OLIVER BERG/dpa

Il caso della minoranza turca (e kurda)

Passiamo ora ad analizzare quello che è il fenomeno più rilevante, ma anche il più complesso e difficile, nella sfida dell’integrazione. Ci riferiamo al caso dei turchi tedeschi, la minoranza più rappresentata in Germania, come detto. Una comunità che, dopo la deriva autoritaria intrapresa dal presidente Erdogan nel loro paese, sta pagando oggi in prima persona, vuoi le tensioni interne alla comunità, sempre più marcate, vuoi i rapporti sempre più tesi fra Berlino e Ankara. Punto di svolta, da questo punto di vista, è stato il tentativo di colpo di stato in Turchia del luglio 2016, cui è seguita un’ondata di repressione senza precedenti contro giornalisti, politici, intellettuali e forze dell’ordine, che ha trasformato un paese relativamente liberale in una dittatura spietata.

Dopo il fallito golpe in Turchia, migliaia di turchi si sono riversati nelle strade di molte città tedesche – da Berlino a Monaco, da Hannover a Stoccarda – per festeggiare lo scampato pericolo. Ma, dopo l’euforia, è arrivata l’ora della vendetta, e tutti i nodi irrisolti sono venuti al pettine. Puntuale e immediata, la resa dei conti contro i sostenitori di Fethullah Gülen – predicatore turco in autoesilio negli Stati Uniti, accusato di essere l’uomo ombra dietro al colpo di stato – si è allargata anche alla Germania. Una tensione che si è manifestata ovunque, dalle associazioni alle piazze, fino anche alle moschee e alle scuole. Il tutto mentre lo scontro contro la minoranza kurda, dopo un periodo di parziale riavvicinamento, è tornato a precipitare, quando si moltiplicavano ancora una volta gli arresti e le vessazioni. Un dato non irrilevante per il nostro discorso, data la fortissima presenza kurda in Germania, che ha anche, al suo interno, una componente assai politicizzata, che è scesa in piazza più volte in diverse città tedesche, arrivando in alcuni casi allo scontro verbale e fisico con i sostenitori di Recep Tayyip Erdogan, altrettanto numerosi.

Il risultato è una comunità a tratti lacerata, costretta – volente o nolente – a scegliere fra una fedeltà sempre più esigente alla madrepatria turca e al suo dittatore, e quella a una Germania che guarda con sempre più sospetto ad Ankara, anche a causa dell’arresto di diversi cittadini tedeschi. Fra questi, ricordiamo il noto giornalista con doppia nazionalità Deniz Yücel, imprigionato il febbraio scorso con l’accusa di essere una spia. Emblematico anche il caso del già ricordato Cem Özdemir, che ha ricevuto continue minacce di morte, e proprio da membri della comunità turca tedesca, a causa delle sue posizioni politiche di supporto all’opposizione turca colpita e repressa, e che oggi è sotto scorta. Il politico verde, fra l’altro, è stato anche fra i promotori della risoluzione del parlamento tedesco sul genocidio armeno, approvata il 2 giugno 2016. Un riconoscimento che ha creato ulteriori tensioni e fratture nella comunità, dato il persistente negazionismo di Ankara nei confronti del genocidio perpetrato nell’allora Impero Ottomano. Senza dubbio, un momento di crisi dura come l’attuale la comunità dei turchi tedeschi non l’aveva mai vissuto nella storia recente.

Sicurezza e benessere per tutti

Ma la sfida per l’accoglienza e l’integrazione in Germania risulta più ampia, e per molti versi meno drammatica. Superata al meglio la crisi del 2015, ci sono ottime ragioni per poter sperare in uno sviluppo armonico della società, eludendo i rischi e le tensioni sempre insiti, volenti o nolenti, in una società aperta e multiculturale. Su tutto, continuano a risuonare nelle orecchie dei tedeschi, come in un ritornello, le celebri parole con cui Angela Merkel ha più volte commentato la crisi dei rifugiati: «Wir schaffen das», «Ce la facciamo».

La Germania, vuoi per la sua storia tragica e insieme di riscatto, vuoi per il ruolo politico ed economico sempre più rilevante che riveste a livello internazionale, ha in sé tutte le carte in regola per riuscire a offrire una prospettiva di sicurezza e relativo benessere a tutte le componenti di una società sempre più plurale, senza rischiare di ricadere in un passato che nessuno, almeno da queste parti, sembra oggi più rimpiangere.

Simone Zoppellaro


Il lungo percorso del dialogo

Immigrazione e fedi religiose in Germania

Nel variegato panorama religioso tedesco, le due principali Chiese, la cattolica e la protestante, sono in prima fila nella battaglia per l’integrazione degli immigrati e per l’accoglienza dei profughi. Con l’immigrazione è arrivata una crescita a due cifre dell’islam. In esso, accanto a una minoranza estremista vicina alla Stato islamico, si trova una maggioranza che ha accettato le regole della democrazia occidentale.

Il 19 ottobre 1945, a pochi mesi dalla capitolazione del regime hitleriano, i rappresentanti della Chiesa evangelica tedesca si riunirono a Stoccarda per riflettere sul ruolo e sulle complicità dei cristiani, e in particolare di una delle due anime principali del cristianesimo tedesco, quella protestante, rispetto agli orrendi crimini compiuti dal nazismo. Ne risultò un documento importante, noto come «Dichiarazione di colpa di Stoccarda» (Stuttgarter Schuldbekenntnis), in cui per la prima volta la Chiesa evangelica assunse la sua parte di responsabilità storica, per quanto non soffermandosi ancora in termini specifici sull’olocausto. Leggiamo nel documento: «Attraverso di noi infinita sofferenza è stata portata a molti popoli e paesi». Da parte sua, anche la Chiesa cattolica tedesca ebbe responsabilità importanti, fra cui quella di aver agevolato la fuga dalla Germania (soprattutto verso il Sud America, ndr), dopo la fine della guerra, a centinaia di criminali nazisti, grazie al rilascio di documenti di viaggio sotto falso nome.

Dietrich Bonhoeffer

Certo, non soltanto ai protestanti e ai cattolici tedeschi va attribuita la responsabilità di quanto avvenuto all’epoca del Terzo Reich, responsabilità che deve essere senz’altro condivisa ed estesa a ogni segmento sociale. Né è possibile tralasciare, d’altra parte, come già accennato, l’eroico sacrificio del teologo luterano Dietrich Bonhoeffer o dei giovani cattolici del movimento studentesco della Rosa Bianca, che pagarono con la vita l’opposizione al nazismo. Eppure, come dimenticare che le vie dell’odio e del sangue passarono anche da qui, attraverso una distorta interpretazione e stravolgimento del messaggio cristiano?

Tutto ciò premesso, ancora una volta, è giusto riconoscere come il cambiamento avvenuto in seguito non sia stato affatto una semplice formalità, una svolta determinata esclusivamente dalla contingenza di una sconfitta militare. Ad ammissioni di colpa come quella di Stoccarda corrispose dunque in seguito un mutamento sociale e culturale profondo ed effettivo, tale da risultare per molti aspetti, se visto in prospettiva storica almeno, sorprendente. E stupisce così vedere come le Chiese tedesche, la cattolica come la protestante, siano oggi in prima fila a battersi per l’integrazione degli immigrati e per l’accoglienza ai profughi. Sintomo che un percorso si è ormai concluso, e che la storia – quando affrontata con serietà e coraggio – può essere davvero maestra di vita. Un’apertura che ha portato, come avvenuto negli ultimi mesi, a esempi radicali in cui si è vista la chiesa, in questo caso quella evangelica, offrire alloggio e protezione a richiedenti asilo afghani e iraniani respinti e minacciati di espulsione dallo stato.

Le Chiese tedesche e gli ebrei

Le chiese in Germania hanno poi avuto, sin dall’immediato dopoguerra, un ruolo importante per un tema delicato e difficile: quello del ripristino di un rapporto di fiducia e collaborazione con gli ebrei dopo gli orrori della Shoah. Esistono oggi in Germania, a livello locale, oltre 80 associazioni per la cooperazione ebraico-cristiana (Gesellschaft für christlich-jüdische Zusammenarbeit), in cui sono impegnati sia protestanti che cattolici. Le prime erano state create proprio nel 1948 a Monaco, Stoccarda e Wiesbaden con il fine di promuovere un nuovo dialogo fra le chiese cristiane e gli ebrei. La dichiarazione Nostra aetate, di cui sono da poco ricorsi i cinquant’anni, aveva dato poi ulteriore impulso da parte cattolica anche in Germania, per un ritorno al dialogo con la cultura ebraica dopo tanti, troppi secoli di misfatti e incomprensioni.

Anche grazie al contributo delle diverse chiese, si è potuto così assistere nel dopoguerra alla lenta rinascita dell’ebraismo in terra tedesca. Una comunità che è rimasta numericamente molto esigua ancora fino agli anni Ottanta, quanto nell’allora Germania Ovest gli ebrei erano fra i 25 e i 30mila. Assai più ridotto il numero, invece, nella Ddr comunista, dove gli ebrei erano poco più di un migliaio ed ebbero, in quanto comunità, possibilità assai limitate – anche a causa del pregiudizio ideologico del regime contro le religioni – tali da inibire ogni tentativo di dare vita a una rinascita culturale dopo il genocidio. Un notevole incremento si è avuto invece, nella Germania ormai riunificata, dopo la caduta del muro di Berlino, e questo soprattutto grazie all’arrivo di decine di migliaia di ebrei dall’ex Unione Sovietica. Sono così saliti a più di 100.000 gli ebrei in Germania, in larga parte residenti nei grandi centri, e sono tante le nuove iniziative volte a far risorgere una presenza culturale ebraica, almeno nelle maggiori città.

Immigrazione e islam

Tra le comunità religiose tedesche legate all’immigrazione, la maggior crescita degli ultimi anni spetta senza alcun dubbio all’islam. Un islam non meno vario e diversificato del cristianesimo tedesco, dove convivono sunniti e sciiti, seguaci del predicatore turco in esilio Gülen e mistici sufi, insieme a infinite altre denominazioni, che in molti casi hanno anche finito per attrarre nuovi fedeli fra i nativi tedeschi. Ed ecco allora che i musulmani rappresentano oggi, secondo gli ultimi dati ufficiali, il 4,9% della popolazione tedesca, pari a poco più di 4 milioni di persone, con una crescita annua che si attesta in un solo anno, fra 2015 e 2016, al 12,5%. Una crescita che corrisponde, sul versante cristiano, a un leggero calo su base annua, cosa che fa temere ad alcuni un sorpasso nei prossimi decenni come prima religione del paese: rispettivamente -0,8% per i cattolici, e -1,5% per i protestanti, che sono rispettivamente 23 e 21 milioni. Una differenza che si spiega, ancora una volta, con l’immigrazione: assai più numerosa è infatti quella proveniente dai paesi di confessione cattolica che protestante. Non vanno infine dimenticati i 2 milioni di cristiani ortodossi e gli oltre 800mila appartenenti ad altre denominazioni cristiane. Quanto al calo progressivo del cristianesimo in genere, questo si spiega anche in base a una caratteristica peculiare della legislazione tedesca, che prevede l’esenzione dal pagamento della tassa destinata alle chiese (e alle diverse fedi non cristiane) per chi rinunci formalmente alla sua appartenenza a esse, dichiarandosi non religioso. Una scelta, questa, sempre più gettonata, vuoi per il risparmio economico che ne deriva, vuoi perché si assiste oggi a una progressiva e sempre più rapida secolarizzazione della società tedesca.

Le molte facce dell’islam tedesco

Tornando all’islam tedesco, dicevamo – ed è un punto fondamentale da ricordare – che questo non è riducibile a un’unica matrice, ma è al contrario assai composito e multiforme. Se questo è vero per la religione musulmana in generale, che è nella realtà ben lungi dalle semplificazioni a cui ricorrono troppo spesso i nostri media, nel contesto tedesco questa pluralità risulta per molti versi ancora più accentuata. Da un lato, troviamo così luoghi e istituzioni all’avanguardia del mondo musulmano per modernità e apertura; dall’altro, un islam più tradizionale e ancorato nelle sue consuetudini nelle comunità immigrate più o meno recenti, da quella turca a quella siriana; infine, non manca una porzione, assai piccola da un punto di vista numerico, ma significativa perché senza dubbio pericolosa, di musulmani radicalizzati e spesso connessi, in modo più o meno diretto, alla galassia del terrorismo internazionale.

Ma, anche qui, ancora una volta, è importante combattere i pregiudizi e le facili semplificazioni. Estremismo religioso di matrice salafita e crisi dei profughi sono questioni distinte, che non vanno poste in diretta relazione. A spiegarcelo è Yan St-Pierre, esperto di antiterrorismo fra i più importanti in Germania e direttore del Modern Security Consulting Group di Berlino, che abbiamo interpellato: «La scena salafita in Germania è molto variegata. Mentre gli elementi stranieri svolgono un loro ruolo – sia tramite i migranti residenti a lungo termine, sia tramite la comunicazione internazionale – la maggior parte degli individui appartenenti a questi movimenti sono nati e cresciuti in Germania».

Il caso di Seyran Ates

Sempre per voler contrastare comode semplificazioni e luoghi comuni, ricordiamo come il luogo di culto musulmano più aperto in Germania, in tutti i sensi, sia iniziativa di un immigrata di prima generazione. Ci riferiamo a Seyran Ates, avvocata femminista di fede musulmana, nata in Turchia, che ha fondato a Berlino una moschea dove sono le donne a guidare la preghiera e la congregazione è mista e non separata. Un luogo di preghiera aperto a tutti, anche ai gay, ma curiosamente non alle donne che portino un velo integrale, dato che questo è ritenuto un modello di religiosità non auspicabile da questa congregazione, in quanto simbolo del patriarcato e non rimandabile in alcun modo direttamente al dettato coranico. Cosa peraltro verissima, quest’ultima, come sa bene chiunque abbia studiato il testo sacro dei musulmani.

Eppure, come testimoniano anche le continue minacce e intimidazioni subite dalla coraggiosa Seyran Ates, l’intolleranza e il fanatismo religioso hanno radici anche in Germania. E ciò in ragione di una piccola minoranza il cui operato viene naturalmente amplificato dagli strumenti dell’odio e della violenza, assai più visibili e percepibili, purtroppo, del quietismo che contraddistingue la vita religiosa di larga parte dei musulmani tedeschi.

Islam e terrorismo

La violenza fa notizia, l’opera paziente dell’integrazione e della pace molto meno, come sappiamo. Abbiamo già parlato degli attentati di matrice religiosa compiuti in Germania in tempi recenti. A dispetto delle stime assai variabili e in parte contraddittorie, sono diverse centinaia i combattenti che negli ultimi anni hanno lasciato la Germania per unirsi ai miliziani del sedicente Stato islamico. Molti di loro, ricordiamolo, sono giovanissimi o persino adolescenti, che – in diversi casi attestati – non hanno nulla a che fare con un retroterra di immigrazione. Una storia, quella radicalismo islamico in terra tedesca, che in Germania ha radici profonde. Già sul finire anni ’90 era infatti attiva la cosiddetta «cellula di Amburgo», il cui leader, Mohammed Atta, è noto in tutto il mondo per aver guidato l’attacco dell’11 settembre.

Una sfida importante, quella contro l’estremismo. affrontata dalla società e dalle istituzioni tedesche. Importante perché investe non solo la sfera della sicurezza, ma inevitabilmente anche l’educazione e la prevenzione del radicalismo. Temi e questioni, questi, che spesso si intersecano gli uni alle altre, e che non possono restare separati. Come ci ha raccontato ancora l’esperto di antiterrorismo Yan St-Pierre: «La Germania è notevolmente migliorata nel suo modo di rapportarsi a tale questione. Ha adattato la sua strategia, passando da un puro sistema di forze di sicurezza a uno che risulti più inclusivo e flessibile, e preveda l’utilizzo di organizzazioni private, Ong e l’integrazione di approcci e idee provenienti sia dalla sfera civile che da quella delle organizzazioni di sicurezza». Una sfida su cui si gioca il futuro del paese, ma anche dell’Europa intera, dato il pericolo concreto di nuovi attentati e la centralità della questione nelle agende politiche del vecchio continente.

Ma non sono solo le tre religioni abramitiche, ovvero ebraismo, cristianesimo e islam, a contraddistinguere il panorama religioso della Germania di oggi. A parte gli oltre 29 milioni di tedeschi che dichiarano di non avere alcuna affiliazione religiosa, e rappresentano il 36,2% della popolazione, ovvero una fetta assai consistente e in continua crescita, troviamo altre minoranze religiose legate spesso alle migrazioni. Fra questi, ricordiamo almeno buddhisti, induisti e sikh. Da menzionare è anche il caso degli yazidi, minoranza religiosa perseguitata e sterminata dal sedicente Stato islamico, che secondo l’ultimo censimento risultano essere 60.000. In Germania si trova oggi, come dimostrato da una recente indagine demografica, più della metà della diaspora di questo popolo sofferente. Un’oasi di pace per una cultura che rischia di scomparire, ma anche un segno che la solidarietà in Germania ha dato buoni frutti.

La speranza di «House of One»

Per concludere con un altro segno di speranza, cosa quanto mai utile in un’epoca in cui alle religioni si associano sempre più di frequente intolleranza e violenza, parliamo di un progetto importante di convivenza e condivisione fra differenti culture e fedi: un unico edificio che raccolga sotto uno stesso tetto una chiesa, una sinagoga e una moschea, permettendo ai fedeli di diverse religioni di pregare fianco a fianco. Un sogno che diventerà presto realtà a Berlino, dove le tre grandi religioni di Abramo avranno per la prima volta uno spazio comune. Il progetto – realizzato dallo studio di architettura Kuehn Malvezzi che ha vinto il concorso indetto nel 2012 – sorge sul sito dove si trovano i resti della più antica chiesa di Berlino, la chiesa di San Pietro (Petrikirche), risalente al tredicesimo secolo e distrutta negli ultimi giorni della seconda guerra mondiale. Questo è il messaggio della House of One, «la Casa dell’Uno», così chiamata in onore del Dio unico che contraddistingue e accomuna i tre monoteismi: un simbolo di pace, in un mondo dove fanatismo e odio avanzano in modo sempre più deciso. Ma, insieme, anche un segno concreto di rinascita e riscatto per una nuova Germania risorta dalle ceneri del nazismo.

Simone Zoppellaro


Schede

Dati demografici

Popolazione – 82 milioni di persone.

Stranieri – I residenti di origine straniera che vivono oggi in Germania sono 18,6 milioni, pari a oltre un quinto della popolazione totale, con un aumento record dell’8,5% nel 2016 rispetto all’anno precedente.

Nazionalità – I cittadini stranieri residenti in Germania in ordine per nazionalità: primi sono i turchi, che nel 2016 toccavano quota 1 milione e 492mila, seguiti dai polacchi a 783mila unità. Terzi i siriani, pari a 637mila residenti, quarti invece gli italiani, 611mila (con una crescita di 15mila individui rispetto all’anno precedente). Seguono rumeni, greci, croati, bulgari, afghani, russi e iracheni.

Comunitari – L’immigrazione in Germania non riguarda solo i cittadini cosiddetti extracomunitari. Dal 2016 ad oggi il numero di migranti provenienti dai paesi dell’Unione europea è più che triplicato. Nel solo 2016, risulta che siano stati 634mila i cittadini Ue che hanno scelto di vivere in Germania.

Illegali – Numero di ingressi illegali nel paese nel 2015, nel pieno della cosiddetta crisi dei rifugiati: 865.374 (dati ufficiali riportati dalla polizia federale tedesca). Fra questi, primi per paese d’origine sono stati i siriani (73.920), seguiti da afghani (38.750), iracheni (22.394) ed eritrei (17.225).

Le Chiese

Chiese e fedeli – Le prime due chiese per numero di fedeli sono la Chiesa cattolica con 23,6 milioni e la Chiesa evangelica 21,9 milioni.?Seguono la Chiesa ortodossa 2 milioni e altre Chiese cristiane 851mila. I musulmani sono 4,5 milioni, gli ebrei 99mila, i senza confessione o non religiosi 29,8 milioni.

1945, 19 ottobre: la Chiesa evangelica di Germania pronuncia la «Dichiarazione di colpa di Stoccarda».

Alcune date storiche

  • 1945, 30 aprile: Adolph Hitler si toglie la vita nel suo bunker a Berlino.
  • 1945, 7 maggio: il generale Alfred Jodl firma a Reims, in Francia, i documenti della resa tedesca.
  • 1945, 26 giugno: nascita dell’Unione cristiano-democratica (Cdu), il partito più importante della scena politica tedesca, di cui farà parte anche l’attuale cancelliera Angela Merkel.
  • 1945, 20 novembre: si inaugura il processo di Norimberga contro alcuni dei maggiori criminali del regime nazista.
  • 1949: la Germania viene divisa. Nascita della Repubblica federale tedesca ad Ovest, il 23 maggio, sotto l’influenza degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e della Francia, mentre il 7 ottobre nasce la Repubblica democratica tedesca (Ddr) ad Est, che gravita nell’orbita sovietica.
  • 1950: ha inizio il boom economico della Germania federale.
  • 1953, 17 giugno: un’ondata di scioperi nella Germania orientale viene soppressa nel sangue.
  • 1955, 9 maggio: la Germania federale entra a fare parte della Nato.
  • 1961, 13 agosto: costruzione del muro di Berlino.
  • 1989, 9 novembre: caduta del muro di Berlino.
  • 1990, 3 ottobre: la Germania viene ufficialmente riunificata.
  • 2005, 22 novembre: Angela Merkel viene eletta cancelliere in un governo di coalizione fra i partiti della Cdu-Csu e della Spd (partito socialdemocratico).
  • 2015: la crisi dei rifugiati tocca il suo punto più alto. La Germania della Merkel sceglie una politica delle porte aperte.
  • 2016, 19 dicembre: attacco terroristico rivendicato dall’Isis al mercato di Natale a Berlino.
  • 2017, 24 settembre: elezioni federali in Germania e rielezione di Angela Merkel (Cdu-Csu). Il partito Alternative für Deutschland (Afd) diventa però la terza forza nel Bundestag.

Simone Zoppellaro

Website: tinto|graphy // instagram: @tintography

 




Nawal Soufi: È il cuore che mi paga


Nawal Soufi, giovane donna siciliana, dal 2013 ha contribuito a salvare migliaia di persone dalle acque del mare Mediterraneo. I migranti che hanno il suo numero la chiamano quando sono in pericolo. E lei comunica le coordinate dell’imbarcazione alla Guardia costiera.

Nawal in arabo significa «dono». È il nome di una giovane donna italiana, nata in Marocco nel 1987, arrivata in Sicilia quando aveva un mese. Lei si definisce «attivista per i diritti umani». Molti la chiamano «lady sos». Dall’estate del 2013 ha contribuito a salvare migliaia di persone dalla morte in mare ricevendo le loro richieste di aiuto sul suo telefonino. Non si sa quante ne abbia aiutate. Solo lei, forse, potrebbe farne il conto consultando i quaderni sui quali appunta i dettagli di ogni singola richiesta di aiuto.

Oggi gli sos arrivano anche dalla terra ferma: dai confini dell’Europa orientale, dagli hotspot (i centri di identificazione), come quello greco di Moria, Lesbo, dove sono trattenuti richiedenti asilo che la chiamano per denunciare abusi e violenze. Il 24 luglio scorso1 lei stessa, presente durante alcuni scontri nel campo, sembra sia stata trattenuta alcune ore dalle forze dell’ordine greche.

Lo scorso maggio Nawal Soufi ha ricevuto a Dubai, dalle mani dello sceicco e primo ministro degli Emirati arabi uniti, Mohammad bin Rashid al Maktoum, il premio «Arab hope maker 2017», fautrice della speranza araba, scelta perché, secondo al Maktoum, «con la sua azione ha fatto la differenza per 200mila persone».

Nel libro che ne racconta la biografia, Nawal. L’angelo dei profughi, di Daniele Biella (Paoline 2015), si parla di 20mila persone salvate. Alla domanda «chi te lo fa fare», lei risponde: «È il cuore che mi paga»2.

Con il cellulare (e la tenacia)

L’azione di lady sos, studentessa di scienze politiche a Catania e, grazie alla sua conoscenza della lingua araba, interprete e mediatrice culturale presso il tribunale, è molto semplice: riceve sul suo cellulare richieste di aiuto da parte di persone in difficoltà o in pericolo di vita, e le gira a chi può fare qualcosa per aiutarle.

La prima chiamata l’ha ricevuta nell’estate 2013: un uomo urlava in arabo che si trovava con altre centinaia di persone in mezzo al mare su una barca che affondava. La giovane – racconta Biella nel suo libro -, presa alla sprovvista, ha chiamato la Guardia costiera. Quando dalla sede centrale di Roma le hanno chiesto le coordinate del punto in cui si trovava l’imbarcazione, lei si è fatta spiegare come trovarle: il telefono satellitare da cui l’uomo l’aveva chiamata era in grado di fornire le coordinate esatte. Una volta comunicate alla Guardia costiera, questa ha salvato i migranti.

Da allora, Nawal ha ricevuto centinaia di chiamate. «La cosa continua tutti i giorni – ci dice Biella -, giorno e notte. Negli anni sono cambiati i luoghi da cui le persone la chiamano: all’inizio dalla Libia, poi dalla Turchia-Grecia. E oggi, quando non sono sos dal mare, sono richieste di aiuto di altra natura, legate alla violazione dei diritti umani nei paesi di partenza, o in Europa, negli hotspot».

Mentre scriviamo, Nawal è a Lesbo e non riusciamo a contattarla direttamente, ma Daniele Biella ne ha notizie quasi quotidianamente: «Nawal va avanti, mettendo in difficoltà prima di tutto la sua persona, perché lo fa come volontaria, ma a volte, a livello fisico e mentale, è sfiancata».

Il periodo in cui Nawal ha ricevuto più chiamate è stato l’estate del 2014: almeno una al giorno. «Un po’ per volta le cose sono cambiate. Ora non ci sono più così tanti siriani che scappano. Chi doveva partire è già partito».

Siriani in fuga

La gran parte delle chiamate che riceve sul suo cellulare sono di siriani in fuga dalla guerra. Il legame di Nawal con la Siria risale al 2011: «Lei da tempo era un’attivista per i diritti umani – ci spiega Biella -. Quando è scoppiata la guerra in Siria le ha fatto molta impressione perché, come dice lei, era a due ore di aereo dalla Sicilia. Ha iniziato a contattare, tramite i social media, attivisti siriani che le mandavano video e informazioni dalle manifestazioni che in principio erano pacifiche. E lei ha preso a fare da cassa di risonanza, sia per i media che per la gente di Catania. Di sera andava con un proiettore in piazza Bellini per dire ai passanti: “Guardate che succede”».

Da quell’esperienza è nata l’idea di una carovana di medicinali per la popolazione civile in Siria. Nel marzo del 2013 Nawal stessa ha attraversato il confine turco-siriano con i medicinali e ha vissuto per 17 giorni ad Aleppo, dove ha incontrato gli attivisti con cui era in contatto da tempo. Sul suo canale di Youtube «Nawal Syriahorra» si possono vedere alcuni video girati durante quei giorni. Prima di venire via dalla Siria ha lasciato agli amici il suo numero di telefono.

«Proprio in quel periodo le barche cominciavano a partire. Nawal non immaginava che il suo numero di cellulare sarebbe finito in mano a migliaia di persone tramite il passa parola», un passa parola che si è moltiplicato attraverso Facebook, tramite i profili di siriani che man mano venivano salvati dal mare grazie all’intervento di Nawal e che poi la conoscevano di persona a Catania: «Quando i Siriani sbarcavano – soprattutto in quegli anni 2013-2015, in cui non c’erano gli hotspot e le persone venivano lasciate libere dopo la prima notte in accoglienza di andare verso il Nord Europa -, passavano da Catania e lì conoscevano Nawal».

È in quelle circostanze che nasce il soprannome «angelo dei profughi»: la persona che prima salva i migranti dalla morte in mare, poi li accoglie e aiuta nel loro viaggio sulla terra ferma. Li aiuta, ad esempio, a non finire nelle mani di quelli che approfittano del loro spaesamento e gonfiano i prezzi dei biglietti del treno, o delle schede telefoniche. «Questi migranti che hanno ricevuto da Nawal abbracci, consigli, alimenti, pannolini…, quando sono arrivati in Germania, in Svezia, hanno scritto ai loro parenti e amici: “Guardate che questa ragazza è fantastica, ci ha aiutati”. E, tramite i social, è girata la voce».

Una voce amica

Ma perché i migranti in difficoltà preferiscono chiamare lei invece della Guardia costiera? «L’idea che si è fatta lei a quei tempi è che preferiscono usare un numero di una persona che parla arabo. La Guardia costiera non ha un servizio di operatore arabo 24 ore su 24. È vero che i profughi potrebbero comunicare in inglese, però in quelle situazioni, in stato di panico, al buio, in una barca che rischia di affondare, per chiedere aiuto, se c’è una persona che parla la tua lingua e che poi avvisa la Guardia costiera, è più facile. Credo che il suo numero sia un po’ ovunque. I migranti si mettono i numeri di telefono dappertutto, se lo cuciono sui vestiti, per paura di perderlo. Il passaggio è semplice: sanno che a quel numero risponde una persona che li può aiutare».

Favoreggiamento?

Biella, nel suo libro, a un certo punto racconta di una strana chiamata ricevuta da Nawal: un uomo le dice che riceverà una denuncia – poi mai arrivata – per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Ai tempi erano ancora distanti le polemiche che dalla primavera del 2017 e nei mesi successivi avrebbero colpito le Ong, accusate in modo generalizzato di essere complici dei trafficanti di uomini. «La cosa triste, in questo periodo in cui si attacca “l’umanitario” – ci dice l’autore del libro -, è vedere che anche Nawal è finita nel tritacarne3. Con conseguenti insulti sui social network. Sono cose che rischiano di distoglierla da quello che fa. Nawal dice: “Devo perdere tempo ad argomentare queste cose, quando sto solo aiutando nell’emergenza le persone”».

Dalle frontiere

Dall’estate del 2013, il nome e il numero di telefono di Nawal sono diventati sempre più di dominio pubblico. Questo comporta, oltre al disagio di venire coinvolta in polemiche politiche e ideologiche, anche il fatto che sono sempre più varie le chiamate di emergenza che la raggiungono. Nonostante siano ancora soprattutto siriani a contattarla, ora ci sono persone anche di altre nazionalità, e richieste di soccorso di altro tipo. «Se non chiamano dal mare, chiamano da altre situazioni problematiche. Ad esempio dalle frontiere. “Siamo in questo centro e abbiamo subito abusi”, “Sono mesi che siamo fermi qui, cosa facciamo?”. Lei vede qual è la situazione e cerca canali per risolverla: contatta avvocati, volontari, ecc. Ad esempio, poco tempo fa ha ricevuto una chiamata dalla Malesia da un profugo siriano – non fuggono tutti in Europa, alcuni vanno in Brasile, in Cina… Uno scappa dalla guerra e cerca di andare dove sa che può -. Alla frontiera ti fermano perché il tuo passaporto è falso, però tu dovresti riuscire a chiedere asilo, perché questo è l’obiettivo del viaggio. Nawal cosa ha fatto? – ci racconta Biella -. Ha chiesto via Facebook se qualcuno conosceva un avvocato in Malesia che potesse aiutare il profugo. Queste sono le emergenze degli ultimi tempi. Sono legate a una seconda fase, meno drammatica rispetto a quella dei naufragi, ma comunque piuttosto forti. Senza scordare che comunque i naufragi continuano, sia in Libia che vicino alle isole greche».

Cortocircuito europeo

Prima di ricevere il premio Arab hope makers 2017, Nawal ha ricevuto un certo riconoscimento del suo operato da diverse istituzioni. Per prima è arrivata la menzione speciale del Premio volontario internazionale 2015 Focsiv (Federazione ong cristiane). È stata poi ricevuta, nel giugno 2016, a Rabat, dal re del Marocco Muhammad VI. Nel settembre 2016 ha ricevuto il premio dell’Ue come cittadina europea dell’anno: «Bello il riconoscimento da parte dell’Ue – dice Biella -. Nel marzo precedente aveva anche fatto un discorso al Parlamento europeo4, però, nel concreto, le cose continuano a non cambiare».

Uno dei cavalli di battaglia di Nawal, portato anche nel suo breve e intenso discorso al Parlamento europeo è la richiesta di creazione di corridoi umanitari: «Quelli che ci sono già riguardano un migliaio di persone in tutto. In essi sono coinvolti la comunità di sant’Egidio, la Tavola valdese, la Cei. Riguardano persone che vengono selezionate nei campi profughi in Libano. Persone vulnerabili, con famiglia, ecc. Si verifica in loco l’identità, se ne verifica l’effettiva fuga e il rischio di vita nei loro paesi di origine, e si fanno venire in Europa con canali sicuri e legali, con un aereo. Tra le soluzioni possibili, si parla anche di visti umanitari. I corridoi umanitari su grande scala non si riescono a fare, perché l’Ue non li vuole proprio fare. Forse perché arriva troppa gente? Ma i visti umanitari, come è successo per le guerre balcaniche, si potrebbero concedere. La direttiva 55 del 2001 del Consiglio dell’Ue ne parla. Visti umanitari temporanei. Poi, quando la guerra finisce, le persone ritornano in patria: se chiedi a un siriano se vuole tornare a casa sua, il 100% ti dice di sì, ovviamente quando le condizioni lo permettono. Quando l’Unhcr ha fatto i campi in cui le persone venivano selezionate, questi sono diventati dei parcheggi, a causa della lentezza della burocrazia. A un certo punto arrivava il trafficante e sapeva che lì c’erano persone che attendevano di partire da mesi.

A me fa un po’ impressione l’idea che l’Europa stia esternalizzando le frontiere facendo accordi con paesi singoli per tenere le persone lì. Ma se lì non stanno bene, se i loro diritti non vengono riconosciuti, cercheranno sempre di andarsene. Dove c’è un blocco, il trafficante aumenta i suoi guadagni. Questo è il corto circuito cui stiamo assistendo in Europa».

Nawal con Daniele Biella durante la presentazione del libro.

Fede, motore di solidarietà

Nawal Soufi, di origine marocchina, è di fede musulmana. Nel libro di Daniele Biella se ne parla, con molta discrezione: «Lei parla di fede in modo generale, ecumenico. La fede per lei è il motore che la spinge ad aiutare chiunque abbia bisogno. Nella sua visione, le religioni spingono a essere sempre pronti per gli altri. Lei è musulmana, io sono cattolico, mi sono trovato a parlare davvero la stessa lingua in questo senso: l’aiuto disinteressato. Lei dice che chi usa la religione per motivi terroristici la snatura da quello che è, e va fermato. Si parla di criminali e non di fedeli».

Luca Lorusso

Note:

1- O. Spaggiari, Nuove proteste a Moria: il racconto di Nawal Soufi, vita.it, 21/7/2017; Flore Murard-Yovanovitch, Moria, il laboratorio della brutale intolleranza anti-migrante, huffingtonpost.it, 28/7/2017.

2- F. Tonacci, Parla Nawal Soufi, lady Sos “I profughi siriani mi chiamano dai cargo e io lancio l’allarme”, repubblica.it, 6/1/2015.

3-Durante la trasmissione “Piazza pulita” del 1 maggio 2017, su La7, è andato in onda un servizio sul traffico di uomini nel quale veniva fatto il nome di Nawal. Il giornalista, fingendosi un migrante, ha chiamato un uomo, identificato come trafficante, per chiedergli informazioni su un viaggio dalla Libia. Nella videochiamata l’uomo ha citato Nawal dicendo che gli scafisti avevano il suo numero. Nel servizio il giornalista ha poi chiamato Nawal che, semplicemente, ha risposto ai sospetti con il buon senso: esattamente come la Guardia costiera, quando riceve una chiamata, non può verificare chi la stia chiamando, se sia uno scafista o meno. Raccoglie la richiesta, le coordinate e le trasmette.

Nonostante l’evidente infondatezza delle accuse, alcuni giorni dopo, Il Giornale ha pubblicato un pezzo nel quale l’articolista insinua la colpevolezza di Nawal (G. De Lorenzo, Nawal Soufi, “Lady Sos” d’Italia. Il trafficante: “Gli scafisti chiamano lei”, 10/5/2017): «“Lady Sos” ovviamente nega di sapere che dall’altra parte della cornetta ci siano scafisti. “Il mio numero di telefono è pubblico”, dice. […]. “Non ho mai ricevuto una chiamata da una persona che mi dice: pronto, sono uno scafista e ti sto dando le coordinate”, ha provato a difendersi. E ci mancherebbe che il ladro dichiari di essere un bandito».

4- M. Luppi, Il discorso di Nawal Soufi, l’attivista italo-marocchina che scuote il cuore dell’Europa, africarneuropa.it, 4/3/2016.


Richieste di asilo politico: +49%

Grafico dal Quaderno statistico della commissione nazionale per il diritto di asilo

Alla data del 20 giugno 2017, giornata mondiale del rifugiato, l’Unhcr (l’agenzia Onu per i rifugiati) calcola che le persone morte o disperse nel Mediterraneo dall’inizio dell’anno erano 1.990. Quelle che lo avevano attraversato «con successo» 82.897, di cui 71mila in Italia.
In occasione della stessa ricorrenza, la Fondazione Ismu ha pubblicato un rapporto sui richiedenti asilo. Nei primi cinque mesi del 2017, le richieste in Italia da parte di persone provenienti da diversi paesi nel mondo sono aumentate del 49% rispetto allo stesso periodo del 2016.
«Tra il 1° gennaio e il 31 maggio 2017 in Italia sono state presentate quasi 60mila domande di asilo […]. Se si considera che nel 2016 il numero […] ha raggiunto la cifra più alta mai registrata in un ventennio (oltre 123mila), si può, per il 2017, prevedere un nuovo record […]».
Tra i 59.579 richiedenti, l’85% sono uomini (come nel 2016). I minorenni sono 6.700, di cui 3.530 non accompagnati, una quota molto maggiore rispetto allo stesso periodo del 2016 (+89%).
La Nigeria, come nel 2016, è il primo paese di origine tra chi cerca protezione in Italia (12.300 richiedenti, un quinto del totale). Il Bangladesh è il secondo con 5.500 richieste (cioè più del triplo rispetto ai primi cinque mesi del 2016).
Gli esiti delle domande esaminate tra gennaio e maggio 2017 sono negativi per il 58,6%. Aumentano però, rispetto al 2016, coloro che ottengono lo status di rifugiato (8,7%, 2.900 migranti), mentre continua la prevalenza delle concessioni di permessi a titolo di protezione umanitaria (7.900, il 24% del totale).
In Europa, l’Italia è al secondo posto, dopo la Germania, per numero di richiedenti asilo, sia nel 2016, sia nei primi quattro mesi del 2017 (dati Eurostat).

Luca Lorusso




Messico, migranti: Un salto nel buio


Ogni anno migliaia di migranti centroamericani cercano di attraversare il Messico per raggiungere la frontiera Nord e passare illegalmente negli Stati Uniti. È un viaggio estenuante e molto pericoloso a causa dei narcos e delle autorità locali. Pochissimi raggiungono la meta. La maggioranza torna indietro o si ferma lungo il cammino sopportando violenze e angherie e mettendo a rischio la vita stessa. In questo quadro di disperazione, si inserisce l’opera di padre Alejandro Solalinde e dei suoi rifugi per migranti. Questo è il suo racconto.

Sono 4.301 i chilometri della frontiera terrestre del Messico. Per la precisione, 3.152 quelli della frontiera Nord con gli?Stati Uniti e 1.149 quelli della frontiera Sud con Guatemala e Belize. Confini che contribuiscono a fare del Messico un «paese di partenza, transito e arrivo di migranti»1.

Per inquadrarne i problemi sono sufficienti tre dati: la povertà interessa 57 milioni di messicani su 127 totali; le persone assassinate nel 2016 hanno raggiunto il livello record di 22.9672, senza conteggiare le migliaia di persone scomparse; la corruzione costa ogni anno il 9 per cento del Prodotto interno lordo3.

Dal Messico si scappa (è il secondo paese al mondo con più emigranti4) e nel Messico si arriva, ma quasi sempre soltanto per tentare il salto verso gli Stati Uniti, l’American dream. Un progetto questo di difficile realizzazione e soprattutto molto rischioso a causa dei pericoli in cui i migranti possono imbattersi. Se va bene, furti ed estorsioni.?Se va male, sequestri di persona, violenze sessuali, mutilazioni, commercio di esseri umani, sparizioni ed assassinii.

A confermare la gravità della situazione è padre Alejandro Solalinde, sacerdote messicano di 72 anni (molto ben portati), fondatore dell’«Albergue de migrantes “Hermanos en el Camino”», un centro per l’accoglienza dei migranti illegali a Ixtepec, nello stato messicano di Oaxaca.

Padre Solalinde, candidato al premio Nobel per la pace 2017, vive da anni sotto scorta a causa della sua condanna a morte decretata dai narcos, che sulla pelle dei migranti fanno grossi affari.

Chi parte, chi si ferma, chi torna indietro, chi arriva

Padre Alejandro, ci racconti in poche parole chi è lei.

«Prima di tutto, direi che sono un missionario cattolico. Lavoro a Ixtepec, stato di Oaxaca, nell’albergo-rifugio dei migranti. Iniziai nel 2005, quando chiesi al mio vescovo di occuparmi di loro. Non fu facile perché pareva uno spreco che un sacerdote si dedicasse alla gente di strada, ai migranti. Però, alla fine, ottenni il permesso».

Il rifugio quante persone riceve?

«In questo momento, l’Albergue de migrantes accoglie un centinaio di persone al giorno. I migranti si fermano un paio di giorni o al massimo tre, per poi riprendere il cammino».

Da dove provengono?

«Soprattutto dall’Honduras, dal Salvador, dal Guatemala, dal Nicaragua. Però anche dal Brasile, dal Venezuela, dal Costa Rica, dal Perù, dall’Ecuador, da Panamà e anche dal Belize. Secondo le statistiche, il 50% di costoro si ferma in Messico, mentre il 25% rinuncia e torna indietro. Si arrende».

E quanti di loro arriveranno fino alla meta finale, nel «paradiso» statunitense?

«Stando ai numeri, un 25% dei migranti raggiunge la meta e riesce a entrare, anche con Donald Trump. Chi controlla la frontiera non è il Messico o gli Stati Uniti, ma continua ad essere il crimine organizzato. Se tu paghi o se porti la droga, loro riescono a farti passare. Non c’è muro che tenga. Per sofisticato che esso possa essere».

In Europa la maggioranza dei migranti sono giovani e maschi. E da voi?

«Anche qui la maggioranza sono giovani. Io calcolo siano circa l’80 per cento del totale. Però ci sono anche bambini e donne. Persone anziane ne ho viste poche, probabilmente rassegnate a rimanere nel loro luogo d’origine. Ed anche i malati rimangono a casa. Sono le persone più giovani e sane quelle che viaggiano».

L’accoglienza

Come si svolge una sua giornata tipica all’Albergue di Ixtepec?

«Non ce n’è una eguale all’altra, ma una cosa è identica: ogni giorno è sempre molto intenso. Al mattino presto – verso le cinque e mezza – prego e leggo il vangelo del giorno. Faccio esercizi. Lavo e stiro i miei vestiti: se voglio essere pulito, nessuno lo deve fare per me. Poi scendo al piano dove ci sono i migranti. A volte faccio colazione con loro, dopo che questi hanno fatto le pulizie del luogo. Poi visito i diversi reparti dell’Albergue per vedere come procedono: la falegnameria, la panetteria, la fattoria, la cucina (un settore questo che sempre necessita di molto lavoro). Abbiamo anche una biblioteca e una sala computer dove le persone possono comunicare con i loro cari. C’è un’area medica con due medici e due infermiere. Ed anche un’area psicologica con cinque addetti. Insomma, siamo come una piccola città».

Quando al centro arrivano i migranti, lei che fa? Come li accoglie?

«Io non posso parlare con ognuno. Allora li riunisco. Di solito, nella cappella. Quando hanno mangiato, si sono lavati e cambiati i vestiti, allora li chiamo. La prima cosa che dico loro è: “Com’è andato il viaggio fino a qui?”. E poi: “Alzi la mano chi viene dall’Honduras. Chi dal Guatemala. Chi dal Salvador”. E così via. In questo modo mi rendo conto che gruppo è. E ancora: “Alzi la mano chi è cristiano evangelico”. A chi l’ha alzata dico di presentare la sua chiesa con il nome. Ad ogni chiesa diamo un applauso. Sì, è un modo per riconoscere che il loro cammino è corretto. E che siamo fratelli nella fede. Poi faccio lo stesso con i cattolici. Infine, dico: “Alzi la mano chi non ha nessuna chiesa o religione”. E anche qui molti alzano la mano. Poi chiedo cosa è accaduto durante il viaggio. Mi faccio dire se già hanno presentato la propria denuncia o ancora no».

A che denuncia si riferisce?

«La legge dice che se un migrante è stato vittima di un delitto, deve avere un visto umanitario. Identicamente se nel suo paese è perseguitato o se il suo paese è luogo di violenza. Il nostro ufficio di registrazione valuta la condizione giuridica di ogni persona che arriva. E prima ancora la sua condizione psicofisica: se una persona ha bisogno di cure, viene mandata in infermeria. Se presenta problemi emozionali per ciò che ha passato, viene mandata dal gruppo degli psicologi».

A parte lei, quante sono le persone che fanno funzionare l’Albergue?

«Abbiamo uno staff di otto persone stabili. Però siamo aiutati da numerosi volontari che provengono da tutto il mondo. Addirittura dalla Cina e dall’Australia. E?moltissime persone che arrivano dall’Europa».

Narcos e migranti

Quando e perché i cartelli della droga – i cosiddetti narcos – hanno iniziato a interessarsi ai migranti?

«Tutto è cominciato con Felipe Calderón, il precedente presidente, che fece una guerra insensata (e perdente) al narcotraffico (121 mila morti e 26 mila scomparsi tra il 2006 e il 2012, ndr). Questa guerra provocò la decapitazione di alcuni cartelli e una spoliazione di altri, tra cui los Zetas.

Questi ultimi rimasero senza liquidi per pagare la droga. La droga non si può pagare a credito: va pagata immediatamente. Dunque, los Zetas pensarono di ricavare denaro dai migranti. Sapevano che essi non posseggono nulla, ma hanno amici e familiari negli Stati Uniti. Cominciarono dunque a sequestrarli e a chiedere un riscatto. In pochi mesi riuscirono a estorcere milioni di dollari.

Oltre al riscatto, capirono presto che dai migranti si poteva ottenere di più: con la prostituzione, lo sfruttamento del lavoro, il traffico di organi».

Quanti cartelli sono coinvolti?

«Principalmente los Zetas e in misura minore il cartello del Golfo. Gli altri non si sa, ma certamente non trafficano con i migranti in maniera sistematica».

Autorità criminali

E le autorità messicane che fanno?

«Sono parte del business. Chiaro! Gli agenti di migrazione, i poliziotti, i politici di qualsiasi livello sono complici, soprattutto nel caso dei migranti. Sanno che è una fonte di denaro facile e molto grande. Io sono solito definire il mio governo come una “narcocleptocrazia”. I narcos hanno infiltrato tutte le istituzioni messicane. È raro – io non ne ho mai conosciuti – trovare un politico o un funzionario che non rubi».

Anche Enrique Peña Nieto, il presidente del suo paese?

«Quel signore è il più corrotto. In questo momento ha un grado d’accettazione da parte della popolazione messicana del 9 per cento! È un ripudiato».

Che pensa di Donald Trump, presidente del paese che è nei sogni dei migranti?

«Trump è un pover’uomo. L’unica cosa che ha è il denaro. Ha vissuto per accumulare denaro ma non potrà portarlo con sé».

Viaggiare sulla «Bestia»

Da noi ci sono le carrette del mare o i gommoni, da voi c’è La Bestia.

«Hanno cominciato a chiamarla La Bestia perché è un treno merci (de carga), non deputato a trasportare persone. Per questo i migranti viaggiano sul tetto o negli angusti spazi tra i vagoni. Per 12-13-14 ore.

Possono capitare molti incidenti, soprattutto se le persone si addormentano. O quando salgono gli uomini del crimine organizzato che li buttano giù se non pagano.

Il treno parte dal Sud, dal Chiapas, circa un’ora dal Guatemala. Ha differenti ramificazioni (cartina a pagina 54, ndr) e può arrivare fino a Mexicali o Ciudad Juarez, al confine con gli Stati Uniti».

I messicani negli Usa

Anche lei frequenta il (presunto) paradiso statunitense?

«Sì, viaggio negli Stati Uniti 4-5 volte all’anno. Per incontrare gruppi di emigrati, per capire come sta andando o cosa possiamo fare per i loro diritti. Sono oltre 34 milioni i messicani che vivono là legalmente. E 6 milioni che non hanno documenti. Tutti costoro inviano denaro in Messico. L’ultima cifra parla di 27.000 milioni di dollari in un anno. Per questo dico che, dopo il narcotraffico, le rimesse sono l’entrata maggiore per il paese».

Il diritto a emigrare e il modello capitalistico

Padre, in Italia e in Europa si litiga sui migranti che dovrebbero essere accolti e quelli che andrebbero respinti. Secondo lei, esiste un «diritto a emigrare»?

«Io credo che ci sia un diritto a non emigrare quando ci siano tutte le giuste condizioni di vita nei luoghi d’origine. Tuttavia il sistema capitalista ha fatto a pezzi le condizioni di vita nei paesi d’origine dei migranti: per la violenza, per la mancanza di lavoro, per l’assenza di una possibilità di sviluppo per i giovani.

I movimenti migratori sono sempre esistiti. Però è la prima volta nella storia dell’umanità che le migrazioni sono dal Sud al Nord. Storicamente sono sempre state all’opposto: dal Nord al Sud».

In tutto il mondo le migrazioni e i migranti sono il problema del secolo. Cosa si può fare, padre?

«Se siamo d’accordo che il problema è strutturale, cioè che nasce dal sistema liberal-capitalista, allora l’unica soluzione è cambiare il modello. Di sicuro non si può continuare così.

Non è possibile avere il 99 per cento della popolazione mondiale che vive con le briciole lasciate cadere dall’1 per cento della popolazione».

Da chi vengono le minacce

Lei usa sempre parole molto forti, senza edulcorare le situazioni.

«Uso parole molto forti perché la realtà è molto forte. Occorre dire le cose chiaramente».

Ha paura per la sua vita?

«Io ho paura per il Messico. In questo momento abbiamo vari governatori nelle carceri, altri espatriati. Non uno. Tanti. (Erano 16 ad aprile 2017 su un totale di 32, ndr)».

Però ha subito minacce ed aggressioni fisiche.

«Preso a botte, certo. Ma anche incarcerato due volte. Il 24 giugno del 2008 tentarono di bruciare me e il rifugio. In un’altra occasione il sindaco e la giunta municipale mi chiusero dentro per 7 ore dicendo: “Tu da qui non esci fintantoché non firmi che chiuderai il rifugio”. Risposi: “Puoi amazzarmi se vuoi, ma io non firmerò nulla. Questa è una proprietà della chiesa cattolica”.

La sera di quello stesso giorno arrivarono gruppi di migranti. Dissi al sindaco: “Se succede qualcosa ai migranti o a membri della mia équipe, io la denuncerò”. “Lei mi sta minacciando”, disse costui. “La pensi come vuole”, risposi io».

Tuttavia, quella volta non furono i narcos. Furono le autorità!

«Perché c’è forse differenza?».

Non c’è differenza?

«Certo che no! Sono la stessa cosa! Non puoi dire qui sta il crimine organizzato e qui l’autorità. Noooo».

Questo è molto triste.

«Tristissimo. Il Messico sta vivendo una situazione molto difficile. Di decadenza totale».

«Io non sono solo»

Nonostante da anni sia costretto a vivere sotto scorta, lei appare molto sereno.

«Io sono un uomo di fede. Gesù continua ad ispirarmi. Mi sento molto orgoglioso di essere battezzato, di essere una persona consacrata, missionaria, itinerante del regno di Dio. Io non sono solo».


Si definisce «migrante» la persona nata in un paese diverso da quello di residenza e che ha lasciato volontariamente il proprio paese d’origine. Sotto questa definizione, sarebbero 244 milioni i migranti nel mondo5.

A questa cifra ne va affiancata un’altra: quella che riguarda le persone che sono state obbligate a lasciare le proprie case. Questa condizione riguarderebbe 65,6 milioni di persone, così distinte: 22,5 milioni di rifugiati, 2,8 milioni di richiedenti asilo e 40,3 milioni di sfollati interni6.

Migranti, rifugiati, richiedenti asilo, sfollati interni: in qualsiasi parte del mondo il fenomeno si presenti, sorgono problemi.

Personaggi come padre Alejandro Solalinde sono encomiabili per l’opera che svolgono e veramente meriterebbero il Nobel, ma la questione di fondo è epocale e al momento all’orizzonte non s’intravvedono soluzioni indolori.

Il diritto a non emigrare – ovvero il diritto a restare a casa propria – sarebbe l’unica, vera soluzione. Ma rimane un obiettivo difficile e molto lontano. Significherebbe assicurare a ogni persona cibo, lavoro, casa, educazione, sanità, pace. Un sogno che l’attuale sistema economico e politico non pare intenzionato a considerare.

Paolo Moiola

Note

(1) Rapporto paese dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim, agenzia dell’Onu).
(2) Dato riferito agli «omicidi volontari». Nel 2015 in Italia gli omicidi volontari sono stati 469.
(3) Questi dati sono confermati da varie fonti tra cui: istituto Imco, istituto pubblico Coneval, Sistema Nacional de Seguridad Pública (rapporto del 20 giugno 2017).
(4-5) Fonte: «International Migration Report 2015», Nazioni Unite.
(6) Fonte: rapporto «Global Trends. Forces Displacement in 2016», Unhcr.

L’articolo completo con le cartelle statistiche si trova sullo sfogliabile:

Foto

* Mauro Pagnano è nato a Napoli. Laureato in giurisprudenza, vive a Caivano nel cuore di quel territorio tristemente noto come Terra dei Fuochi. È proprio con un progetto sulla Terra dei Fuochi che comincia a fotografare e a pubblicare su testate nazionali e straniere. I suoi lavori sono realizzati in collaborazione con l’agenzia di comunicazione sociale di cui è socio, «La Etiket Comunicazione», che opera in un bene confiscato alla camorra a Casal di Principe. In Messico ha seguito la rotta dei migranti dal confine con il Guatemala fino al Centro Nord. Il progetto è ancora in itinere.

Archivio MC

Tra gli articoli sui migranti centroamericani e messicani verso gli Stati Uniti segnaliamo:

Documentari

Sulla tematica sono visibili su YouTube numerosi documentari tra cui:

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=r_s6HOYo6SI?feature=oembed&w=500&h=281]

Videointervista

Un ampio stralcio della videointervista a padre Alejandro Solalinde – arricchita con inserti filmati sull’Albergue e La Bestia – è visibile su YouTube sul canale di Paolo Moiola: www.youtube.com/user/pamovideo.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=S3rGfU-avxo?feature=oembed&w=500&h=281]




Montagne e valli alpine: Il futuro delle «Terre alte»


C’è un mondo vicino a noi che spesso non conosciamo. Sono le montagne e le valli alpine. Qui stanno accadendo cambiamenti interessanti. Vecchi e nuovi abitanti sperimentano innovativi modelli di vita. Cittadini venuti da molto lontano portano le loro idee e speranze. Questi luoghi sono patrimonio di tutti, ma occorre viverli e prendersene cura. Altrimenti, un giorno, tutti pagheranno il conto.

«Dislivelli è un’associazione culturale nata a Torino nel 2009. È composta da due anime: ricercatori universitari e comunicatori specializzati nel campo delle Alpi e della montagna». Chi parla è Maurizio Dematteis, giornalista, che ha lavorato per diverse testate dedicate alla montagna e si è occupato anche di migrazioni e cooperazione internazionale. È tra i fondatori di Dislivelli e l’attuale direttore responsabile della testata dislivelli.eu. «Il tentativo che facciamo noi che ci occupiamo di montagna è di studiarla e comunicarla. Perché vediamo che nell’opinione pubblica c’è ancora una visione della montagna stereotipata, e i messaggi che passano sui media mainstream sono legati allo sci, al pesce fresco in alta quota, dando un’immagine sbagliata, che serve solo a chi vuole fare cassa con la montagna».

La montagna è altro. Ha una propria economia, servizi, e soprattutto, diventa appetibile al turismo quando è vissuta. Se è abbandonata è meno interessante. «Dislivelli vuole dare il giusto posto ai territori montani e aiutare uno sviluppo sostenibile di queste terre», continua Dematteis.

L’associazione pubblica articoli e ricerche sul suo sito e una rivista mensile scaricabile gratuitamente in pdf. Due o tre numeri l’anno sono stampati, quando si trova un finanziamento ad hoc. «La distribuzione la facciamo noi, attraverso una nostra rete e i punti legati a Sweet mountains (vedi oltre, ndr). La si trova nei rifugi e nella nostra sede al castello del Valentino, dove nacque il Club Alpino Italiano».

Dislivelli realizza anche ricerche di taglio sociologico. «Sono realizzate da ricercatori del Politecnico di Torino e dell’Università. Adesso stiamo portando avanti la ricerca sui “turismi” in montagna, che nel prossimo autunno vogliamo presentare alla Regione Piemonte. Vogliamo far capire alle istituzioni che il turismo responsabile in montagna inizia ad avere numeri interessanti.

Flussi tra montagna e città

Nella vostra ultima ricerca, Intermont, esaminate i rapporti tra la montagna e la città. «Sì, è una ricerca durata due anni durante i quali abbiamo tentato di misurare i flussi, di tutti i tipi, tra la montagna e la città: rimesse, lavoro, materie prime. Abbiamo cercato di capire se lo scambio è bilanciato o no, e abbiamo fatto delle proposte di miglioramento dove non lo è. Il terreno di ricerca è stata la Città metropolitana di Torino (ex Provincia di Torino). Abbiamo visto un flusso di materie prime verso la città: acqua, legname, prodotti agricoli e caseari. Ma anche di pendolari. Questi ultimi sia per lavoro, sia per usufruire di servizi che in montagna non ci sono più. Abbiamo trovato un grande sbilanciamento dei flussi. Si pensa che i turisti portino rimesse in montagna, in realtà sono molto maggiori quelle dei montanari che lavorano in città e fanno i pendolari. Questa è la prima voce economica del territorio».

I territori alpini affrontano anche delle spese. «Le maggiori sono quelle per usufruire di servizi. Ci sono molti viaggi di persone che vanno in città per questioni sanitarie, studio, o anche solo per acquisti. Sono soldi che dalla montagna si riversano in città. Se i servizi fossero organizzati un po’ meglio sarebbe meno oneroso rimanere a vivere nelle valli alpine».

«Poi c’è la questione dell’acqua, che viene quasi tutta dalla montagna. Su questo ci sono dei riconoscimenti, ovvero le risorse delle Aato (Autorità dell’ambito territoriale ottimale). Quello che invece non è contabilizzato è l’ecosistema ambientale, cioè l’assorbimento di CO2, i benefici ambientali che la montagna dà a chi vive in città. Se poi si parla di dissesto idrogeologico, e si riconosce che il paesaggio montano è un bene comune, allora in qualche modo si deve tutelare. La montagna, se non è vissuta e protetta dai residenti crolla. Occorre dunque fare una riflessione generale per capire dove si trovano le risorse per il mantenimento di questo paesaggio di cui usufruiscono tutti. Se no, si verificano fatti molto gravi, costosi a livello economico e talvolta di vite umane».

Servizi addio

Dalla ricerca Intermont si comprende che la riduzione dei servizi nei territori montani comporta delle conseguenze negative per l’economia generale del paese. Perché gli abitanti delle montagne, dovendo spendere una quota di reddito maggiore rispetto ai cittadini per usufruire degli stessi servizi, hanno meno risorse economiche da impiegare nella crescita del territorio. Se non si può tenere un presidio ospedaliero in tutti i paesi, si deve organizzare la rete dei trasporti in modo che le persone possano raggiungerli rapidamente.

Anche per l’educazione vale lo stesso discorso. Dice Dematteis: «Occorre organizzare dei servizi che rendano appetibili questi territori, altrimenti tutti i discorsi cadono e la gente li abbandona. Scuola, sanità e lavoro sono i primi punti».

Ma la Città metropolitana cosa fa? «Sulla questione trasporti stanno cercando di aprire a formule innovative, far entrare il privato, ma c’è una legislazione che non aiuta, un piano regionale dei trasporti che ha grossi vincoli.

Esiste tuttavia un progetto pilota nelle Valli di Lanzo, al quale partecipa anche Dislivelli. Ci sono due ingegneri dei trasporti che stanno pensando come organizzare meglio questo servizio nelle tre valli. Si sono detti: facciamo un budget considerando un discorso globale sulla valle, tenendo in conto chi ci vive e si sposta, studenti, lavoratori, ma anche coloro che sono accolti temporaneamente, come i numerosi richiedenti asilo».

Migranti in quota

A proposito di questo tema, da mesi sono comparsi in paesi e paesini di montagna gruppi di africani, a piedi o in bici. Oppure li incontriamo sui mezzi pubblici che giungono nei più remoti comuni. Altri chiedono autostop lungo la strada. Sono i «nuovi» abitati della montagna, richiedenti asilo ospiti di strutture nelle valli alpine. Ma ci chiediamo se c’è un reale interesse per un giovane migrante africano, o siriano, di farsi una nuova vita in montagna.

«Abbiamo fatto una ricerca su questo tema dal titolo Montanari per forza, che si contrappone all’altro lavoro che avevamo fatto, Montanari per scelta, sul ritorno di vita in montagna.

In realtà non ci sono ragazzi stranieri che vogliono andare in montagna, vengono assegnati lì con progetti di emergenza, perché il prefetto ha un elenco di realtà che possono accogliere. Queste creature arrivano in posti che mai si sarebbero immaginati. Con la nostra ricerca volevamo capire se può esistere un incontro tra l’esigenza di un territorio e nuovi potenziali abitanti. Un territorio che in alcune zone si spopola, è soggetto ad abbandono, avanzamento del bosco nei vecchi coltivi, dissesto idrogeologico. Un territorio che ha bisogno di persone, di braccia. Dall’altra parte c’è un movimento migratorio globale, con giovani che arrivano nel nostro paese, magari perseguitati, cacciati dalla loro terra, che cercano un progetto di vita nuovo».

«La risposta è sì. Esistono progetti davvero interessanti: a volte arrivano in 20, poi magari in 2 o 3 rimangono stabilmente. E questo fa la differenza per diversi comuni».

Ma i residenti non sempre vedono in tutto questo un vantaggio. Anzi. «Proprio nelle Valli di Lanzo la gente era arrabbiata con le cooperative che hanno portato i migranti. I comuni non erano stati avvertiti, e non hanno potuto preparare il territorio. Allora la gente si chiude, come direbbe il sociologo Aldo Bonomi, nella “comunità del rancore”, effetto comprensibile quando si ignora un fenomeno».

Rancore o accoglienza?

Ma, sempre in Valle di Lanzo, ci racconta Dematteis, si è generato un movimento volontario di società civile, che ha dato origine all’associazione Morus onlus, con una trentina di volontari attivi e il presidente Marino Poma. L’associazione ha creato il Coro Moro (vedi MC luglio 2016) e il Morus team, una squadra di calcio che ha vinto nella sua categoria. Di recente hanno ideato il Morus Style, ovvero realizzano vestiti e li commercializzano in un negozio a Torino.

«Tutto questo è nato grazie a un movimento volontario, che ha creato una “comunità dell’accoglienza” che si contrappone a quella del rancore. Oggi molti di loro si trovano una sera alla settimana e discutono. Questo fa bene a tutta la valle, mi diceva Poma. Ha rivitalizzato un tessuto sociale che era venuto un po’ meno. Inoltre alcuni ragazzi stranieri si sono fermati a vivere sul posto».

Sono casi d’integrazione, che però devono essere accompagnati, altrimenti possono nascere problemi in seguito.

«Ad esempio a Entracque, in valle Gesso, un imprenditore senza scrupoli ha comprato due vecchie strutture, che erano colonie estive, e vi ha messo 60 migranti. Il sindaco lo ha saputo il giorno stesso, e questo ha creato grossi problemi in un paese di 140 anime. E poi li lascia lì senza dare loro servizi necessari e dovuti, incassando 35 euro al giorno per ogni ospite».

Un caso positivo è quello del parco delle Alpi liguri dove si sta realizzando un progetto «Parco solidale». Il presidente del parco, Paolo Sasotto, ha fatto un accordo con la questura, fer fare lavoro volontario ai ragazzi: pulizia dei sentieri e recupero di terreni del parco abbandonati, dove il bosco sta avanzando.

«Molti ragazzi che migrano sognano la città. Ma quando arrivano si rendono conto che l’Europa non è come pensavano. In qualche caso si inseriscono sui territori dove sono arrivati. Sono numeri piccoli ma il territorio ha bisogno di queste persone».

Turismo «dolce»

Come accennato, una importante risorsa per la montagna è il turismo, ma stiamo assistendo a un grande cambiamento di questo settore. «Oggi il turismo in montagna è diviso in due modelli ben precisi. Uno che ha logiche d’investimento industriale: strutture grosse, necessità di molta promozione, di grandi investimenti anche pubblici e capitali non territoriali e l’altro è il turismo artigianale. Rispetto anni ‘80 e ‘90 c’è un grosso cambiamento.

Mentre quello industriale si sviluppa in pochi comuni sull’acro alpino italiano, quello artigianale è molto più capillare.

Quello industriale, basato soprattutto sullo sci, ha tre mesi di lavoro all’anno e in quel periodo deve pompare tantissimo. La stagione inoltre si è accorciata, si gioca in un periodo molto limitato, per questo è molto aggressivo.

Quello artigianale si sviluppa su 10-11 mesi. Si tratta di strutture che stanno aperte tutto l’anno. Da dieci anni a questa parte il turismo industriale è in calo, perché i costi sono aumentati, e se non hai innevamento artificiale sei tagliato fuori. Ad esempio in Trentino sono molto avanti sull’innevamento artificiale, così sono riusciti a far andare bene la stagione passata. In Piemonte invece l’Associazione impianti a fune chiede alla Regione di investire su questo, ma occorrono grossi capitali».

Il turismo artigianale è, sembra, la nuova frontiera. «Anche chiamato esperienziale è un turismo responsabile, sostenibile e rispettoso dell’ambiente, che si prefigge di legare il paesaggio con la fruizione dei prodotti, vini, formaggi, cultura, architettura e valorizzare le differenze e peculiarità di ogni luogo. Ha un investimento limitato perché non ci sono infrastrutture, si collega piuttosto alla sentieristica e cartellonistica.

Dislivelli ha creato Sweet Mountains, una rete che conta 300 realtà che fanno accoglienza, sulle Alpi in Piemonte. Il luogo dove vai a dormire, un rifugio, un bed&brekfast, un piccolo albergo, ti racconta un territorio. Sono collegati ad una serie di attività loclai “satelliti”, come il formaggiaio, l’ecomuseo, la guida naturalistica, i corsi di canoa. Con Sweet Mountains abbiamo creato tante micro reti che fanno lavorare tutti.

È un turismo in crescita in Italia. È già molto diffuso in Germania, Austria, Svizzera e in Francia.

I cittadini vogliono conoscere le terre alte, in modo diverso. È cambiata la fruizione di questi posti ed è un fenomeno che può portare grandi novità positive ai territori montani.

Ci siamo accorti che in Piemonte questo turismo non era rappresentato tra le altre istanze di settore. Per questo all’inizio di quest’anno abbiamo creato T.r.i.P. Montagna, dove la sigla sta per: Turismo responsabile in Piemonte. È un coordinamento che tiene insieme 700 professionisti della montagna: il Collegio regionale guide alpine del Piemonte, l’Associazione italiana guide ambientali naturalistiche, l’Associazione gestione rifugi alpini e posti tappa, la rete Sweet mountains, Dislivelli e Cantieri d’alta quota. E io ne sono il presidente».

Vado a vivere in montagna

Maurizio ha appena pubblicato il suo ultimo libro «Via dalla città, la rivincita della montagna» (Derive approdi, 2017), nel quale esamina il fenomeno del ripopolamento delle valli alpine.

«Si può parlare proprio di fenomeno, non si tratta di casi isolati, come negli anni ‘70 erano quelli noti come neo rurali. Quelle erano persone che rompevano nettamente con la città per andare in montagna a isolarsi, e fare una vita senza luce elettrica, ecc. Oggi invece si tratta di persone globalizzate, con formazione medio alta, con idee e un minimo di disponibilità economica. Vedono in questi territori delle opportunità di sviluppare progetti di vita, economici, sociali, famigliari. È un cambiamento epocale, perché si tratta di luoghi definiti svantaggiati, marginali, ma loro li vedono con occhi nuovi e ne intuiscono le potenzialità che fino a pochi anni fa nessuno vedeva, perché il modello imperante era urbano ed era difficile capire che anche in montagna ci sono dei valori. Poi sono cambiate le sensibilità su ambiente, energie rinnovabili, e questo fa sì che certi territori siano di nuovo appetibili. Ma la differenza è che queste persone pretendono servizi, non vogliono isolarsi.

Così la rinascita di alcuni luoghi montani passa attraverso i nuovi montanari che vengono da fuori, perché quelli nativi faticano a vedere le opportunità della loro terra. Questi invece arrivano con occhi diversi». Così le valli alpine diventano laboratorio di innovazione, di sperimentazione di nuovi modelli di vita.

«La montagna, se ha un minimo di servizi, è un posto dove ci sono opportunità inattese.

Il modello tradizionale in montagna è finito, e questo ci dispiace. Ma si sono aperti spazi nei quali inventare un altro modello, c’è una grossa libertà. E ci sono materie prime che puoi utilizzare. Sono due elementi che rendono questi territori ottimi per le innovazioni.

Abbiamo un esempio in Val Varaita, dove sono arrivati giovani e si è arrestato lo spopolamento. Un gruppo di loro si è detto: facciamo un progetto di valle, endogeno, senza chiedere soldi all’Europa o alle banche, che si sostenga sulle risorse che abbiamo qui. Le risorse sono: acqua, legno, animali di allevamento e selvatici e prati. Hanno realizzato un progetto integrato che ha creato reddito, che in parte è stato reinvestito in servizi per la valle. Hanno inventato Gestalp, società con la quale hanno realizzato e gestito due centraline idroelettriche. In seguito hanno realizzato altre centrali innovative, sempre per produrre energia elettrica.

Hanno anche recuperato la canalizzazione dei prati da sfalcio, e l’associazione allevatori ne ha beneficiato. Il tutto è partito otto anni fa e oggi conta 12 posti di lavoro che diventeranno 20 nel 2025. Per una valle come quella diventa la principale attività.

Una cosa così in città non si può fare, perché non ci sono spazi ne risorse, tutto è blindato. Per questo dico che questi neo montanari sono persone avanti, una vera e propria avanguardia».

Marco Bello