Stati Uniti. L’uragano migranti (e la frontiera liquida)


Da cinque mesi alla Casa Bianca, il presidente Joe Biden sta ancora cercando soluzioni per una delle questioni più ostiche, quella migratoria. Se per gli immigrati già sul territorio statunitense una via d’uscita sembra possibile, per le migliaia – compresi moltissimi minori non accompagnati – che spingono alla frontiera Sud, la soluzione è lontana. Ammesso che una soluzione esista.

Sono oltre quattro metri d’altezza, ma ai trafficanti non importa. Uno a terra dal lato messicano, un altro a cavalcioni sulla barriera del confine, si passano due piccoli corpi che fanno cadere sul lato opposto, sul terreno desertico del New Mexico, Stati Uniti. La scena notturna è ripresa da agenti della polizia di frontiera statunitense (Cbp), che dopo non molto accorrono sul posto. Scopriranno poi che i migranti illegali sono due sorelle ecuadoriane di 3 e 5 anni.

Altra zona, altro deserto: quello del Texas. Un bambino, coperto dal cappuccio della tuta, si aggira con fare sperduto. Incontra la macchina di un agente di frontiera. «Me puede ayudar?», gli domanda in lacrime. «Che è successo?», chiede l’uomo parlando in spagnolo. «Il gruppo mi ha abbandonato». L’agente si mostra molto comprensivo: «Ti hanno lasciato solo? Non sei venuto con mamma e papà?».

Il ragazzino si chiama Wilton Gutiérrez, un nicaraguense di 10 anni, separato dalla madre, Meylin Obregon, sequestrata in Messico da uno dei vari gruppi di banditi che fanno affari sulla pelle dei migranti. Oggi figlio e madre si sono riuniti negli Stati Uniti e fiduciosi attendono di conoscere se il paese li accetterà.

Il Rio Grande (chiamato Rio Bravo in spagnolo) è il fiume che funge da confine naturale tra Stati Uniti e Messico per circa duemila chilometri. La lancia di pattuglia scorge due ragazzini in acqua, aggrappati ad alcune piante, nel tentativo di passare sulla sponda statunitense. Gli agenti li caricano a bordo della barca, salvandoli da una situazione complicata. I due bambini hanno 7 e 13 anni e vengono dall’Honduras.

La bandiera Usa sulla gru della barriera costruita al confine di McAllen, in Texas (30 ottobre 2020). Appena entrato alla Casa Bianca, il nuovo presidente Biden ha sospeso i lavori per il prolungamento del muro. Foto Jerry Glaser / CBP-U.S. Government.

Numeri straordinari

Quelli qui brevemente ricordati sono soltanto alcuni dei tanti episodi accaduti tra marzo e aprile. Lungo i 3.145 chilometri della frontiera che divide il Messico dagli Stati Uniti i drammi umani sono infatti all’ordine del giorno, come probabilmente accade su tutti i confini «caldi» del mondo.

Secondo i dati della polizia di frontiera (Customs and border protection, Cbp), lo scorso marzo hanno attraversato il confine Sud degli Stati Uniti 171.700 migranti e tra essi 18.890 minori non accompagnati. Cifre record e, tra l’altro, inferiori a quelle reali, visto che molti riescono nell’intento di passare negli Usa senza cadere nelle mani degli agenti.

Il cambio d’amministrazione a Washington è soltanto uno dei motivi dell’incremento degli arrivi. Ci sono vari fattori che hanno prodotto questo trend crescente: le devastazioni causate dagli eventi naturali (alcuni uragani hanno colpito duramente, soprattutto in Honduras e Nicaragua), le difficoltà economiche esplose con la pandemia e, al solito, la violenza e la corruzione imperanti nei paesi centroamericani e in Messico.

Inutile negare l’evidenza: i numeri sono enormi e difficilmente gestibili senza costi, umani, materiali e politici. La circostanza che più colpisce è l’elevato numero dei minori non accompagnati.

Qui sorge immediata una domanda: com’è possibile che i loro cari permettano questo? È la disperazione: le famiglie sono disposte a mettere a rischio la vita dei loro figli pur di cercare una speranza migliore – il «sogno americano» – per il loro futuro.

Una pattuglia di agenti CBP controlla un gruppo di immigrati. Foto CBP-U.S. Government.

I migranti e Trump

L’ex presidente Donald Trump aveva usato tre politiche anti migratorie: quella del muro di confine da costruire o rafforzare, quella basata sul «Title 42» e quella del «Remain in Mexico» (formalmente, Migrant protection protocols, Mpp).

Il muro lungo i 3.145 chilometri della frontiera meridionale è lo strumento dissuasivo di sempre, tanto semplice quanto inefficace. Applicando il concetto introdotto da Zygmunt Bauman (1925-2017), si potrebbe dire che anche il confine è diventato «liquido» come la società umana. Attualmente ci sono circa mille chilometri di barriere (doppie, di solito). Sotto la precedente amministrazione, sono stati completati 24 chilometri di muro e altri 290 sono (o erano, vista la sospensione decretata dal nuovo presidente) in costruzione.

La seconda misura anti migratoria si fonda sul «Titolo 42» (salute pubblica) del Codice statunitense: vista l’emergenza pandemica, chiunque superi la frontiera senza permesso può essere immediatamente espulso per evitare la diffusione del virus.

Infine, il «Rimanete in Messico» riguardava i richiedenti asilo e prevedeva che le persone restassero in territorio messicano in attesa della decisione delle autorità Usa rispetto alla loro richiesta. Questa misura, varata da Trump a gennaio 2019, ha costretto migliaia di persone (si parla di oltre 70mila) ad accamparsi nelle città di confine del Messico (Tijuana, Nogales, Ciudad Juárez, Nueva Laredo, Reynosa), in condizioni di precarietà e di violenza.

Si trattava probabilmente di una delle misure più disumane tanto che Joe Biden l’ha cancellata appena entrato alla Casa Bianca (21 gennaio 2021). Allo stesso tempo, è stata subito affrontata la delicata questione degli immigrati minori, trattati da Trump alla stregua di adulti.

Biden ha annunciato la formazione di una squadra per esaminare i casi delle famiglie d’illegali separate alla frontiera (adulti da una parte, minori dall’altra). E la costruzione di nuovi centri d’accoglienza per non ripetere l’esperienza del campo di detenzione temporanea di Donna (Donna soft-sided processing facility), nella Valle del Rio Grande, in Texas, divenuto tristemente famoso per inadeguatezza e sovraffollamento.

Un’immigrata e la sua bimba in attesa di essere identificate nel centro per famiglie e minori non accompagnati di Donna (Donna Soft-Sided Processing Facility), in Texas (25 febbraio 2021). Foto Jerry Glaser / CBP-U.S. Government.

I migranti e Biden

Rispetto a Trump, l’approccio al fenomeno migratorio da parte della nuova amministrazione pare improntato più al rispetto dei diritti umani che alla mano dura.

Biden ha subito espresso appoggio al programma «Deferred action for childhood arrivals» (Azione differita per gli arrivi infantili, in sigla Daca), contro il quale aveva lungamente combattuto l’ex presidente Trump. Il Daca, introdotto da Obama nel 2012, sospende l’espulsione dal paese dei migranti entrati illegalmente quando erano ancora bambini. Sono circa 700mila e sono conosciuti come «dreamers», sognatori.

Nell’ordine esecutivo del 2 febbraio (uno dei tanti dedicati all’immigrazione), il presidente ha precisato la sua filosofia: «Proteggere i nostri confini non ci impone di ignorare l’umanità di coloro che cercano di attraversarli». Nel frattempo, il numero degli arrivi ha continuato a crescere, costringendo Biden a frenare.

Il 17 marzo, nel corso di un’intervista televisiva (Abc News), è stato costretto a fare un appello ai migranti: «Non venite» («Don’t come over»). Infine, lo scorso 12 aprile la Casa Bianca ha annunciato un accordo con Messico, Honduras e Guatemala per una maggiore sorveglianza di questi paesi alle loro frontiere. Insomma, anche per Washington regolare gli (inevitabili) flussi migratori rappresenta una sfida molto difficile perché priva di soluzioni facili e indolori. Detto questo, gli Stati Uniti sono e rimangono un paese d’immigrazione che con gli immigrati (vale a dire con le persone nate in un paese straniero, U.S. foreign-born population) ha costruito il proprio successo.

Immigrati sia legali che illegali. Rispetto a questi ultimi, l’amministrazione Biden ha optato anche per un cambio di linguaggio (19 aprile), avvertendo le due agenzie federali che si occupano di migranti – l’Ice (Immigration and customs enforcement) e la Cbp (Customs and border protection) – di non utilizzare più termini come aliens, illegals o illegal aliens.

Un’addetta della Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) accoglie un piccolo migrante a El Paso, in Texas (26 febbraio 2021). Foto Glenn Fawcett / CBP-U.S. Government.

Genitori espulsi, figli cittadini

Si calcola che, negli Usa, vivano 44,8 milioni di immigrati (Pew research center, 2018). Tra questi 10,7 milioni sono gli illegali («indocumentati»), provenienti soprattutto da Messico e America Centrale, in primis da Guatemala, El Salvador ed Honduras, tutti paesi con enormi problemi sociali, economici e politici. Ben il 66 per cento degli indocumentati vive negli Stati Uniti da più di 10 anni. Tuttavia, indipendentemente dalla lunghezza della permanenza nel paese, la spada di Damocle della deportazione non scompare, generando situazioni paradossali.

Edith Espinal, messicana di 44 anni, madre di 3 figli già maggiorenni, è stata rifugiata per oltre tre anni (dal 2 ottobre 2017 al 18 febbraio 2021) nella Columbus Mennonite Church, a Columbus, in Ohio. Arrivata negli Stati Uniti nel 1995, la donna non ha mai ottenuto il permesso di permanenza legale nel paese. Nel 2017, dopo 22 anni, gli agenti dell’Ice le hanno recapitato un ordine di esplusione. Edith si è allora rifugiata nel luogo di culto, considerato un santuario inviolabile dalle forze dell’immigrazione in base a una disposizione introdotta da Obama nel 2014.

Sempre a Columbus, la signora Miriam Vargas, immigrata dall’Honduras nel 2005, 44 anni e 2 figlie minori, nel giugno 2018 si è rifugiata nella First english lutheran church per evitare la deportazione. Anche lei ha potuto lasciare il suo rifugio soltanto lo scorso febbraio, dopo 31 mesi.

Sia Edith che Miriam non hanno risolto il loro problema legale, ma hanno trovato un compromesso con l’Ice (divenuta più ragionevole dopo il cambio di amministrazione a Washington) e non saranno espluse.

Il paradosso è che i cinque figli delle due donne, essendo nati negli Usa, in base allo «ius soli», sono cittadini statunitensi, mentre i loro genitori, privi di uno status legale, rimangono invece degli immigrati illegali.

Anche per evitare simili paradossi, il progetto di Biden prevede un percorso graduale di otto anni per arrivare alla concessione della cittadinanza agli indocumentati.

Come ovunque nel mondo, sulla questione migratoria anche negli Stati Uniti ci sono correnti di pensiero opposte: da una parte i democratici, dall’altra i repubblicani, oltre ai gruppi estremisti. E sempre, come idea diffusa ma inespressa, un senso di praticità («Gli immigrati ci servono») e di ottimismo («Il nostro sistema reggerà comunque»). Qualche esempio per capire meglio.

L’esempio di New York

New York è uno degli stati Usa con più immigrati, sia legali che illegali. Sarebbero tra 3,2 e 4,4 milioni su una popolazione totale di 20 (American immigration council) con un numero di indocumentati pari a 500-750mila. È a beneficio di queste persone che lo stato guidato dal democratico Andrew Cuomo lo scorso 6 aprile, nell’ambito di un bilancio con interventi straordinari per affrontare le conseguenze della pandemia, ha varato una misura umanitaria molto coraggiosa sia dal punto di vista economico che da quello politico.

Alla voce «Support excluded workers», sostegno ai lavoratori esclusi, si stabilisce la creazione di un fondo di 2,1 miliardi di dollari in favore dei lavoratori «che hanno subito una perdita di reddito a causa del Covid, ma che non sono idonei per l’assicurazione contro la disoccupazione o gli specifici benefici federali a causa del loro stato migratorio». In pratica, i lavoratori senza documenti legali potranno ricevere fino a 15.600 dollari in contanti. Lo stato di New York non è comunque nuovo a norme progressiste. Ad esempio, va ricordato che, dal 14 dicembre 2020, esso consente di richiedere la licenza di guida («Green light law», legge della luce verde) anche agli immigrati illegali.

Un cartello di supporto per Edith e Miriam, immigrate a rischio espulsione: «Let them stay!» (Lasciate che rimangano!). Foto NBC4i.com.

Speranze

Il nuovo responsabile dell’Us Department of homeland security, il ministero dell’Interno statunitense da cui dipendono le agenzie federali che si occupano d’immigrazione, si chiama Alejandro Mayorkas. Lo scorso 16 marzo ha raccontato: «Sono venuto in questo paese da bambino, portato da genitori che avevano capito la speranza e la promessa dell’America. Oggi, altri bambini piccoli stanno arrivando al nostro confine con la stessa speranza».

Nato a L’Avana da padre cubano e madre rumena, Mayorkas è un immigrato che si occuperà di altri immigrati.

Paolo Moiola

Una mappa del confine Sud, con gli stati e le città principali. Immagine Creative Commons – modificata Rivista MC.

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