Una storia americana


I Missionari della Consolata arrivarono negli Stati Uniti nel 1946, in Canada l’anno seguente. La loro attività ha conosciuto anni d’oro, ma anche una fase di declino. Oggi i gruppi missionari dei due paesi del Nord America si sono uniti al Messico per affrontare assieme una nuova sfida, difficile ma entusiasmante.

Il Vangelo di Matteo – «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni» (28,9) – e il Vangelo di Marco – «Andate in tutto il mondo e annunciate il Vangelo ad ogni creatura» (16,16) – testimoniano che i primi discepoli di Gesù di Nazareth erano consapevoli di aver ricevuto dal Risorto il mandato di andare ad annunciare la sua parola in tutto il mondo.

Se questa evangelizzazione rimase confinata negli ambienti ebraici fin dai primi anni, san Paolo sentì il dovere di portare la buona notizia ai pagani: in Rm 1,1 si presenta come un «apostolo messo a parte per annunciare il Vangelo di Dio». Gli Atti degli Apostoli raccontano i viaggi missionari di Paolo in Turchia, Grecia, Roma, e forse in Spagna. Nella sua lettera ai Galati, capitolo 2, Paolo spiega che Pietro fu mandato ai Giudei, mentre lui stesso fu mandato ai Gentili.

Questa epopea missionaria ebbe un tale successo che, all’inizio del IV secolo, l’intero impero romano sarebbe diventato cristiano e per secoli le comunità cristiane avrebbero creduto che il loro mandato missionario fosse completo e il Vangelo fosse stato annunciato a tutte le nazioni.

Dipinto raffigurante la prima santa indiana, Kateri Tekakwitha (1656-1680).

Il mondo è più grande

Fu nel XV e XVI secolo che ci si rese conto di quanto, oltre i limiti dell’Occidente, ci fosse ancora una moltitudine di esseri umani da raggiungere. In questa consapevolezza, ebbe un ruolo importante l’uomo che sarebbe diventato patrono delle missioni, San Francesco Saverio, il primo missionario gesuita e il primo missionario in Giappone.

I missionari iniziarono, quindi, a unirsi ai conquistadores portoghesi e spagnoli nella loro ricerca di nuove rotte verso l’Asia. Quando poi si comprese che la terra è rotonda e che la strada può prendere anche la direzione verso Ovest, i missionari accompagnarono i colonizzatori – soprattutto portoghesi, spagnoli, inglesi e francesi – che si stabilirono nelle Americhe.

Ciò provocò una querelle che oggi è difficile da comprendere:  la cosiddetta «disputa di Valladolid» tra Juan de Sepulveda (1490-1573) e Bartolomé de Las Casas (1484-1566).

Il primo riteneva che gli amerindi non fossero esseri umani e, di conseguenza, non ci si dovesse preoccupare delle loro anime e che potessero essere considerati come bestiame o schiavi; il secondo, al contrario, credeva che anch’essi fossero esseri umani con un’anima e, quindi, era necessario predicare loro il Vangelo perché potessero essere salvati.

In ogni caso, durante il primo secolo di colonizzazione delle Americhe, gli studiosi stimano che quasi il 90% degli indigeni scomparì, principalmente a causa di malattie contagiose portate dai coloni europei, ma anche a causa della violenza.

Dipinto rappresentante l’uccisione dei missionari gesuiti francesi avvenuta nella Nuova Francia, a metà del 1600, per mano delle popolazioni autoctone.

Evangelizzazione dal Sud al Nord America

Gradualmente, le Chiese cristiane costituirono comunità in tutta l’America con coloni provenienti dall’Europa.

In America Latina, nel XVI secolo, le comunità cristiane fondarono varie città: Buenos Aires nel 1536, Rio de Janeiro nel 1565, Cartagena (Colombia) nel 1533 e Quito nel 1534.

In Nord America, il cristianesimo prese piede con gli espolratori europei. Già nel 1524 l’italiano Giovanni da Verrazzano arrivò nei pressi di New York, che venne però fondata soltanto nel 1609 dagli olandesi  che le diedero il nome di New Amsterdam.

L’evangelizzazione di questa parte delle Americhe fu opera dei missionari spagnoli in California, di quelli anglicani negli Stati Uniti e dei francesi in Canada. Tra i primi si ricorda Junipero Serra (1713-1784), un francescano che papa Francesco ha dichiarato santo il 23 settembre del 2015.

Nel 1534, l’esploratore francese Jacques Cartier (1491-1557) scoprì il fiume San Lorenzo. Fu però solo nel 1608 che ci fu il primo insediamento permanente – Québec (Ville de Québec) – per merito di un altro esploratore transalpino, Samuel de Champlain (1567-1635). Ciò che Champlain cercava era un pied-à-terre per acquistare le pellicce portate dagli indiani. Lo stesso obiettivo del commercio può essere visto come motivo della fondazione nel 1634 di una seconda città sulle rive del San Lorenzo, Trois-Rivières.

Québec fu la città dove operò la mistica francese Marie Guyart (Marie de l’Incarnation, 1599-1635, proclamata santa nel 2014). Santo è anche il suo primo vescovo, François de Montmorency-Laval (1623-1708). La sua diocesi copriva praticamente tutto il Nord America. Diversa è la storia della fondazione di Montréal, nata sotto il nome di Ville Marie (oggi quartiere della città canadese noto come Old Montréal, ndr), come missione presso gli aborigeni. Questo è il motivo per cui molti dei suoi fondatori sono stati riconosciuti beati o santi.

L’interno della cattedrale di Notre Dame a Montreal. Foto Timothy I. Brock – Unsplash.

Popoli indigeni e martiri

I primi sacerdoti vennero per prendersi cura dei nuovi coloni.  Tuttavia, molto presto i gesuiti e i recolletti (della famiglia francescana, ndr) iniziarono a voler evangelizzare gli aborigeni della Nuova Francia (nome di una vasta area del Nord America colonizzata dai francesi, ndr). Ebbero un certo successo con gli Uroni, ma penetrarono molto poco tra gli Irochesi, dove visse la prima santa indiana, Kateri Tekakwitha (1656-1680), la cui tomba si trova nella piccola chiesa all’interno della riserva di Kahnawake, appena a sud ovest di Montréal.

Il conflitto tra Irochesi e Uroni fece vittime anche tra i missionari. Tra il 1642 ed il 1649, otto missionari di origine francese subirono il martirio: sei sacerdoti gesuiti (Isaac Jogues, Antoine Daniel, Jean de Brébeuf, Gabriel Lallemant, Charles Garnier, Noël Chabanel) e due coadiutori laici (René Goupil e Jean de La Lande). Tutti furono dichiarati santi nel 1930.

Secondo Statistics Canada, dei quasi due milioni di aborigeni censiti in Canada, circa la metà afferma di non avere alcuna affiliazione religiosa, mentre poco più della metà sono cattolici. E qui si apre una questione delicata. Come ha dimostrato la «Commissione nazionale per la verità e la riconciliazione» nel suo rapporto finale del 2015, i missionari, specialmente attraverso le «scuole residenziali» (scuole per indigeni; ne scriveremo in un futuro dossier, ndr) hanno collaborato a un «genocidio culturale», che avvelena ancora le relazioni tra le diverse comunità indigene e il resto del Canada, comprese le Chiese.

In The History of Québec Catholicism, lo storico Jean Hamelin parla di «colonialismo spirituale» e di «ambiguità dell’attività missionaria»: «Le missioni sono presentate come una questione di orgoglio nazionale».

Dopo la sconfitta francese nella battaglia delle pianure di Abramo nel 1759, i canadesi francesi sopravvissero raggruppandosi attorno alla Chiesa cattolica per sfuggire ai tentativi di assimilazione ed eliminazione culturale da parte dei nuovi governanti inglesi.

È questa Chiesa franco canadese che diventò una delle Chiese più missionarie del mondo: a metà del XX secolo, il Québec, con più di cinquemila missionari (1 missionario ogni 1.120 cattolici), seguiva soltanto l’Irlanda (un missionario ogni 457 cattolici), l’Olanda (uno ogni 556) e il Belgio (uno ogni 1.050 cattolici).

La residenza dei Missionari della Consolata a Montreal. Foto IMC Montreal.

I Missionari della Consolata

Fu in questo contesto che i Missionari della Consolata arrivarono negli Stati Uniti nel 1946 e in Canada nel 1947.

Non sorprende quindi che i padri Bartolomeo Durando (1901-1992) negli Stati Uniti e Luigi Amadio (1916-2010) in Canada ebbiano avuto difficoltà a trovare vescovi disposti ad accoglierli nelle loro diocesi.

Alla fine, i primi Imc si stabilirono in California e in una riserva indiana in Ontario. I primi accettarono di lavorare nelle parrocchie, ma ben presto la congregazione si rese conto che ciò non corrispondeva agli obiettivi ricercati, che erano l’animazione vocazionale e missionaria e la raccolta di donazioni per le missioni.

A tal fine, negli anni Novanta, l’istituto si trasferì negli Stati Uniti orientali e nella provincia canadese del Québec. Negli Stati Uniti furono importanti anche le attività di formazione e specializzazione, non solo per sacerdoti e fratelli, ma anche per i laici disponibili a dedicare qualche anno alla missione. Venti americani e una dozzina di canadesi diventarono missionari Imc.

Una veduta della città di Québec, fondata nel 1608 e considerata il primo insediamento urbano nel Nord America. Foto Timothee Geenens – Unsplash.

Gli anni d’oro

L’età d’oro dell’attività missionaria Imc in Nord America furono gli anni a cavallo tra il 1970 e il 1985.

C’erano allora più di cinquanta Imc negli Stati Uniti e più di trenta in Canada. Negli Stati Uniti venivano pubblicati nove periodici, mentre in Canada erano almeno quattro.

Tra il 1976 e il 1986, Notre Dame Hall, il nostro Centro di animazione missionario di Montréal, inviò 1,86 milioni di dollari in assistenza finanziaria a più di dodici paesi di missione. Solo nel 1979, negli Stati Uniti, 257 parrocchie in 46 diocesi furono visitate per le giornate missionarie, che raccolsero circa 200mila dollari per le missioni. E il settore dell’assistenza missionaria inviava circa 150mila dollari all’anno per tutti i tipi di progetti missionari. Una trentina di studenti di origine africana vennero a studiare negli Stati Uniti.

La reazione al declino

Il declino è avvenuto molto rapidamente: la vocazione è scomparsa completamente  negli anni Novanta e in questi due paesi nordamericani il numero delle comunità è passato da quindici a solo due negli Stati Uniti, e i membri da 60 a una decina ora in due comunità: una nel New Jersey e una in California.

Anche in Canada ci sono due comunità, una a Toronto e la seconda a Montréal con otto missionari Imc, sempre più spesso di origine straniera.

Per rivitalizzare la presenza in Nord America, la Direzione generale dell’istituto ha unito le circoscrizioni di Canada e Stati Uniti con quella del Messico (paese nel quale l’istituto è entrato nel 2008) formando, quindi, un’unica delegazione religiosa. Nelle nuove missioni messicane operano attualmente otto missionari, distribuiti su due comunità: una a Guadalajara (stato di Jalisco) e un’altra a Tuxtla Gutiérres (nello stato meridionale del Chiapas, vicino al confine guatemalteco).

Jean Paré*

 * Missionario della Consolata canadese (Montréal, 1945), dopo gli studi a Montréal, Torino, Roma e Parigi, padre Jean Paré ha insegnato in Canada, Congo Rd e Italia (Università Urbaniana) e lavorato come giornalista in riviste ed emittenti radio (Radio Canada e Radio Ville Marie). Oggi vive e lavora a Montréal.


Le riviste Imc di Canada e Stati Uniti

Anima missionaria

Sono la responsabile delle tre riviste che l’Istituto Missioni Consolata pubblica nel Nord America: Réveil missionnaire (Rm, per il Canada francese), Consolata missionaries (Cmc, per il Canada inglese) e Consolata missionaries US (Cmus, per gli Stati Uniti, in inglese). Oltre alla sottoscritta, il nostro comitato di redazione comprende un redattore laico, Domenic Cusmano (italiano), e un redattore religioso, padre Jean Paré. Il primo è giornalista per le due riviste inglesi, mentre il secondo firma alcuni articoli e scrive di spiritualità, giustizia nel mondo e dialogo interreligioso. A turno, facciamo (in verità, più in passato che attualmente) i cosiddetti viaggi missionari sul campo sia per raccogliere materiale giornalistico sulle varie comunità Imc nel mondo sia per vedere i progetti per i quali raccogliamo fondi.

Il comitato di redazione pianifica le tre pubblicazioni che presentano un contenuto quasi identico. In Canada escono sei numeri all’anno, e precisamente cinque riviste di 16 pagine e un calendario di 32 pagine. Gli Stati Uniti, invece, producono quattro numeri all’anno, cioè tre di 16 pagine e un calendario. La tiratura di ogni numero è tra le 3.500 e le 5.000 copie.

Le riviste sono un essenziale strumento di comunicazione tra i Missionari della Consolata e tutti i nostri amici e benefattori. Ci permettono, infatti, d’informare i lettori sulle attività della missione, sulle storie di successo e, naturalmente, sulle molte sfide che i missionari devono affrontare ovunque essi operino. L’obiettivo è anche quello di rendere i lettori consapevoli della situazione dei più poveri e di toccare la loro anima missionaria.

Ghislaine Crête

 

 

 




Messico. Di tutti, ma non dei Maya


Un percorso di oltre 1.500 chilometri, cinque stati attraversati, costi giganteschi: sono i dati salienti del «Tren Maya», un’opera che sta avendo impatti enormi sulla penisola dello Yucatán, cuore della civiltà maya. Proprio le comunità indigene e gli ambientalisti si sono (inutilmente) opposti al progetto, fortemente voluto dal presidente messicano Manuel Obrador (Amlo).

Secondo il presidente Amlo (Andrés Manuel López Obrador), il Tren Maya sarà un volano di crescita economica. A fine opera, saranno 1.525 chilometri di rotaie che collegheranno Palenque a Cancún, attraverso cinque stati messicani (Chiapas, Quintana Roo, Yucatán, Campeche e Tabasco).

La ferrovia servirà al trasporto di merci (legname, minerali, materiali da costruzione) e al turismo, riducendo da qualche settimana a pochi giorni gli spostamenti tra le piramidi maya e le spiagge sull’oceano.

Il costo del progetto, presentato nel Piano di sviluppo nazionale 2019-2024 come ricetta anti povertà, è di 20 miliardi di pesos (circa un miliardo e mezzo di euro) per un totale di 42 treni e 34 stazioni, con accesso a sette aeroporti e ventisei aree archeologiche.

Obiettivo dichiarato del governo Amlo è portare lavoro e reddito, migliorando le comunicazioni interne in un paese dove quasi non esistono ferrovie e la popolazione si sposta su autobus lenti e poco capienti.

L’opera si sta realizzando in tempi record: circa l’80 per cento dei lavori sono già conclusi e, mentre scriviamo, ci sono già stati viaggi su alcune tratte del percorso. L’intervento sta riscuotendo un vasto consenso popolare, soprattutto tra le classi medio basse.

Il prezzo da pagare, però, potrebbe essere molto alto, come denunciano scienziati, ambientalisti, rappresentanti delle comunità indigene e Ong locali, suffragati anche da una recente sentenza del Tribunale internazionale per i diritti della natura (Vedi sotto: Comunità indigene inascoltate).

Screenshot

Silenzio sugli svantaggi

«Il cosiddetto Tren Maya non è un treno e non è maya», ha spiegato Miguel Angel del Congresso nazionale indigeno (Congreso nacional indígena, Cni).

«Non si tratta di una semplice posa di binari, ma di un’opera mastodontica, inclusiva di più progetti che stanno trasformando il territorio sul piano logistico, energetico, agricolo».

La ferrovia si porta dietro resort, centri commerciali, lotti residenziali, alberghi. In corrispondenza di almeno diciotto stazioni sorgeranno polos de desarrollo (poli di sviluppo) destinati a ospitare ognuno 50mila persone, con allevamenti di maiali e polli per il circuito turistico e l’esportazione in Cina che – insieme a nuove colture di palma e soia – aumenteranno inquinamento e consumi idrici.

Inoltre, «il treno non è maya perché non è pensato per la popolazione ma per gli interessi del governo, delle potenze straniere come Cina, Canada e Usa, e delle imprese che sfruttano le risorse locali».

«Anche la criminalità organizzata avrà maggiori opportunità di investire i proventi illeciti nel settore turistico e immobiliare», ha osservato Miguel Angel.

È già in atto un fenomeno di gentrificazione (trasformazione di un’area da popolare a esclusiva, ndr) per cui, nelle zone di passaggio del treno, i prezzi stanno lievitando, rendendo proibitivi i costi dei beni essenziali e delle case.

«Per la gente comune ci sono solo svantaggi. Le stazioni, costruite vicino alle città e ai siti turistici, sono difficilmente raggiungibili da chi vive nei villaggi. Gli scavi e l’estrazione di pietre rovinano il territorio, i bambini devono andare a scuola in mezzo alla polvere e al rumore, con problemi per la salute. Nella zona di Palenque stanno colando cemento armato a pochi metri dalle piramidi, al solo fine di ampliare e rendere più sontuosi il museo, la biglietteria e le strutture ricettive».

I lavori del Tren Maya sono spesso accompagnati da sfratti ed espropri illegali. Gli ejidos (le terre comunitarie) – denuncia l’Ong messicana Prodesc – vengono fatti passare come proprietà private grazie al sostegno di notai compiacenti. Per lasciare spazio ai cantieri si sono demolite centinaia di abitazioni, e non sempre le famiglie hanno ricevuto indennizzi o sistemazioni alternative.

Anche i posti di lavoro e i vantaggi economici sarebbero uno specchietto per le allodole, «temporanei e destinati a concludersi insieme ai cantieri», ha sostenuto l’esponente del Cni.

Screenshot

Neocolonialismo

Secondo le comunità in resistenza, il Tren Maya «è una delle grandi opere che proseguono nel solco del neocolonialismo estrattivista, danneggiando l’ambiente, la società e l’economia». Esso costituisce «un tutt’uno con un altro mega progetto voluto da Amlo, il Corridoio interoceanico, una linea ferroviaria che collegherà i porti dell’Atlantico con quelli del Pacifico. Ciò allo scopo di riconfigurare il territorio con la creazione di interi hub logistici (autostrade, ferrovie, aeroporti) e manifatturieri (gasdotti, oleodotti, raffinerie, miniere, parchi industriali).

«Il presidente del Messico, che si presenta come un innovatore vicino al popolo, sta facendo più danni dei precedenti governi conservatori. Riscuote consensi tra la gente perché fa cose utili nell’immediato, ma provoca danni irreparabili nel medio e lungo periodo», dicono al Cni.

Amlo è stato il primo presidente di sinistra dell’ultimo secolo, il più votato nella storia messicana recente con oltre il 53 per cento dei voti.

A diffidare di lui (che, nelle elezioni del giugno 2024, non potrà ricandidarsi, ndr), sono stati per primi gli zapatisti: nel 2012 il subcomandante Marcos lo definì «l’uovo del serpente», per indicare che sotto il guscio progressista covava un neoliberista.

Voto al referendum sul Tren Maya (15 dicembre 2019); le modalità della consultazione sono state criticate da più parti. Foto Lexie Harrison-Cripss – AFP.

Devastazione ambientale

Per fare posto alla ferrovia Palenque-Cancún si sta abbattendo il 70 per cento degli alberi che fanno parte della Selva Maya, la più grande nel continente americano dopo quella amazzonica. Quel che appare dall’alto è un’enorme cicatrice grigiastra, fatta di terra e cemento, che spacca in due il verde folto della copertura boschiva per centinaia di chilometri.

«Stanno disboscando ettari di foresta originaria, fonte di sostentamento per le comunità maya che vivono di un’agricoltura di piccolo impatto e che le attribuiscono carattere sacro. Così si distrugge una preziosa riserva della biosfera, un habitat di specie animali che necessitano di ampi spazi: giaguari, ocelot, tapiri, scimmie, coccodrilli, pappagalli».

Ma i danni ambientali non si fermano qui, come spiega il biologo Roberto Rojo. «La foresta pluviale è ricca di specie viventi, di siti archeologici non ancora del tutto scoperti e di formazioni geologiche uniche, i cenotes: grotte calcaree sotterranee o a cielo aperto, caratterizzate da stalattiti, stalagmiti e laghetti d’acqua dolce dal limpido colore verde o blu». Oltre alla loro bellezza che attrae turisti da tutto il mondo, queste oasi naturalistiche costituiscono una fonte di approvvigionamento idrico che rischia di scomparire. «Ormai solo il trenta per cento delle fonti è incontaminato, e la carenza d’acqua pulita danneggia i piccoli coltivatori favorendo l’abbandono o la cessione delle terre ai latifondisti». Nel 2018 Roberto Rojo ha fondato i Cenotes urbanos, gruppo di speleologi impegnato a mappare i cenotes non documentati di Playa del Carmen, dove si sta costruendo il tratto cinque (da Tulum a Playa del Carmen) del Tren Maya. Dal 2019 la loro è diventata una corsa contro il tempo per censire il maggior numero di grotte, nel tentativo di impedirne la distruzione.

«La rotta ferroviaria attraversa almeno un centinaio di cenotes. Qui il terreno calcareo si sbriciola, perciò i binari non poggiano direttamente a terra ma vengono sopraelevati a 17,5 metri d’altezza, su centinaia di pali del diametro di oltre un metro conficcati a 25 metri di profondità, è come costruire su gusci d’uovo», dice Elias Siebenborn, membro dei Cenotes urbanos. «Gli scavi distruggono alghe e batteri essenziali per la sopravvivenza dell’ecosistema e inquinano l’acqua. A volte, per procedere più in fretta, le ruspe tappano i cenotes con la terra. È un danno incalcolabile, irreversibile».

Donne indigene; le comunità non sono state coinvolte nel progetto ferroviario del Tren Maya. Foto Robin Canfield – Unsplash.

Senza autorizzazioni

Lo scorso marzo il Tribunale internazionale per i diritti della natura ha chiesto al governo di sospendere i lavori del Tren Maya che «provoca devastazioni a lungo termine e viola la stessa legge messicana».

La costruzione della ferrovia, si legge nella sentenza, è avvenuta «senza la Manifestación de impacto ambiental integral (relazione preliminare sugli impatti ecologici prevista dalla legge, nda), senza autorizzazioni per il cambio di destinazione d’uso dei terreni, e senza attenersi alle sospensioni giudiziali richieste in questi anni dagli Amparos» (tribunali costituzionali cui i cittadini possono adire direttamente, un po’ come i Tar italiani, nda).

«Il Tren Maya è un ecocidio e un etnocidio che viola i diritti ambientali, umani e culturali delle comunità indigene, in nome di una visione puramente commerciale e finanziaria», dice Raúl Vera López, uno dei giudici del Tribunale. Esponente della teologia della liberazione e strenuo difensore dei diritti umani, monsignor Vera López è tra le voci che, fin dai tempi del presidente conservatore Felipe Calderón (2006-2012), hanno denunciato i pericoli della militarizzazione del Messico, un tema «caldo» anche sotto il governo Amlo.

Il vescovo messicano Raúl Vera López, conosciuto per le sue battaglie per i diritti umani, si è schierato contro il Tren Maya. Foto Especial – desdelafe.mx.

«Oggi predomina una politica della paura che rafforza il clima di violenza, già molto forte nel Paese a causa del narcotraffico e dei paramilitari», spiega il vescovo Vera López. «Anche i lavori del Tribunale ne hanno risentito: noi giudici siamo stati seguiti da gente armata. Dopo aver subito minacce e intimidazioni, diverse persone hanno disertato le udienze o si sono limitate a mandare biglietti di denuncia anonimi. Nello Stato di Quintana Roo, a Señor, i militari sono andati di casa in casa a minacciare gli abitanti; a Tihosuco, durante un’udienza si sono presentati tipi sospetti che hanno fotografato i partecipanti e preso le targhe delle automobili».

Sono anche in aumento le sparizioni forzate e gli assassinii, in un paese tra i primi al mondo per numero di defensores e defensoras ambientales uccisi. Nel 2021, su 200 omicidi, oltre un quarto si sono verificati in Messico (dati Global Witness).

Il Tren Maya comporta «una militarizzazione massiccia e capillare, i lavori avanzano preceduti dalle camionette blindate dell’esercito», sostiene monsignor Vera López.

«Le forze armate hanno anche la gestione diretta di diversi cantieri, perché a loro è riconosciuta la facoltà di fare impresa, assumere personale edile e appaltare i lavori a ditte esterne», ha spiegato Miguel Angel del Cni.

La Guardia nazionale controlla le attività del Tren Maya, mentre la Marina gestisce il Corridoio interoceanico. «Parte dei proventi dei cantieri sono destinati a pagare le pensioni dei militari, che quindi hanno tutto l’interesse a reprimere il dissenso», ha detto Miguel Angel.

Screenshot

Una resistenza lunga 500 anni

Per fronteggiare l’apparato militare e di potere che sostiene le grandi opere, le comunità indigene ricorrono a vie legali, manifestazioni di piazza e blocchi dei cantieri. Una lotta impari, Davide contro Golia. Dove trovano la forza per non arrendersi?

«Ciò che da sempre ci dà coraggio, ci mantiene uniti e solidali, e sostiene la resistenza dei nostri popoli, è la spiritualità», ha spiegato Raul Zibechi, scrittore e giornalista uruguayano esperto di movimenti sociali latinoamericani, relatore all’incontro El Sur resiste, promosso dal Cni.

«Nella vita quotidiana, come nelle iniziative di contrapposizione, i rituali e la cosmovisione maya sono onnipresenti, ad esempio attraverso le cerimonie in onore della terra, dell’acqua, della foresta.

La spiritualità ci proietta in una dimensione non materiale ma profondamente umana, l’essere umano è un essere spirituale che può andare oltre le contraddizioni materiali», ha continuato Zibechi. «Ci sta piombando addosso un’enorme tempesta, contro cui non possiamo costruire barriere materiali; ma possiamo unirci, abbracciarci, affidarci alla Pachamama, la Madre Terra».

Qualunque sia l’esito dello scontro, «questa è la nostra vittoria: aver continuato a esistere e resistere, essere ancora qui dopo la lunga notte di 500 anni (dall’arrivo di Cristoforo Colombo, nda). E forse, come popolo, r-esisteremo per altri 500 anni».

Stefania Garini

Mappa del percorso, delle tratte e delle stazioni principali del Tren Maya.


Le imprese straniere in Messico

«El tren alemán»

Negli ultimi anni un numero crescente di imprese, soprattutto statunitensi, ha trasferito le proprie produzioni in Messico, raggiungendo nel 2022 un volume di investimenti diretti pari a 35,3 miliardi di dollari, il 12% in più rispetto all’anno precedente (dati Banco de México).

Ad attirare capitali sono le politiche commerciali, come l’accordo di libero scambio Nafta 2 con Usa e Canada entrato in vigore nel 2020, ma anche le scarse tutele ambientali e la possibilità di impiegare manodopera a basso costo.

Tra le aziende europee interessate dalle grandi opere vi sono le spagnole Renfe (compagnia ferroviaria) e Ineco (ingegneria dei trasporti), la lussemburghese Arcelor Mittal (piastre in acciaio per la raffineria di Dos Bocas), la francese Alstom (costruzioni ferroviarie). Tra i soggetti impegnati in Messico nelle vecchie e nuove opere di estrattivismo energetico vi sono anche alcune aziende italiane, come Enel Green Power (parchi eolici di Oaxaca) ed Eni (raffineria di Tabasco).

La tedesca Deutsche Bahn è presente nella progettazione del Tren Maya (qualcuno, sarcasticamente, lo chiama Tren Aleman) attraverso la controllata DB Engineering & Consulting. Pur avendo firmato una Convenzione con l’impegno di garantire i diritti delle comunità, secondo il Congresso nazionale indigeno la Deutsche Bahn (tristemente nota per aver gestito i «treni della morte» sotto il nazismo) avrebbe ignorato il primo e basilare diritto: quello delle persone a essere informate e consultate. Per parte sua, la Deutsche Bahn sostiene che il progetto sta creando lavoro e che il treno è un mezzo di trasporto ecologico, che ben si sposa con l’emergenza climatica.

S.Ga.

Scorcio del sito archeologico maya di Palenque, nello stato del Chiapas. Foto Dassel – Pixabay.


Il Tribunale internazionale per i diritti della natura

Comunità indigene inascoltate

Il Tribunale internazionale per i diritti della natura, fondato nel 2014 dalla Global alliance of the rights of nature, ha lo scopo di far valere la soggettività giuridica della Natura – che non può difendersi da sé -, denunciando i crimini perpetrati contro di essa e dando voce ai popoli indigeni in merito alle violazioni subite dalla loro terra, dalle loro acque e dalla loro cultura. Pur essendo un tribunale d’opinione, le cui sentenze non hanno potere vincolante, i suoi pronunciamenti costituiscono importanti precedenti per le rivendicazioni legali di comunità e attivisti.

A deliberare sul Tren Maya, dopo aver raccolto le testimonianze di una ventina di comunità negli stati di Chiapas, Campeche, Quintana Roo e Yucatán, sono stati i giudici Francesco Martone, già presidente di Greenpeace Italia, Raúl Vera López, vescovo emerito di San Cristobal de Las Casas e di Saltillo, la sociologa argentina Maristella Svampa, l’avvocato ecuadoriano Yaku Pérez e il capo delegazione zapoteco dell’Indigenous environmental network, Alberto Saldamando.

La sentenza del Tribunale è stata notificata al presidente Amlo, alla Commissione nazionale per i diritti umani, ai relatori Onu per i diritti umani e per i diritti dei popoli indigeni, al rappresentante dell’Unesco in Messico, e tradotta in lingua maya per renderla accessibile alle comunità.

È da escludere però che Amlo faccia dietrofront, visto che nel 2021, in risposta ai mandati giudiziali degli Amparos che chiedevano la sospensione dei lavori, aveva dichiarato il Tren Maya opera di sicurezza nazionale. D’altra parte, la linea ferroviaria è ormai quasi completata.

S.Ga.

Una piramide di Chichén Itza, uno dei più noti siti archeologici maya nella penisola dello Yucatan. Foto Mario La Pergola – Unsplash.

 




Messico. Un sogno che unisce o divide

Alla città di frontiera messicana arrivano migranti da ogni dove. Da tempo, anche ucraini e russi, che lasciano i loro paesi in guerra per tentare di entrare negli Stati Uniti. È un sogno di tanti, ma non per tutti. Con l’aiuto dei «Border Angels» di San Diego abbiamo cercato di capirne i motivi.

«Verso Nord» dice il cartello indicante le strade della California. Foto Ana Pietres – Unsplash.

Tijuana è una città dai molti record. È il centro urbano di frontiera più grande e dinamico del Messico. Accoglie la sede di centinaia di multinazionali del settore manifatturiero attratte da condizioni fiscali vantaggiose. Ha l’ambizione di diventare un vivace polo culturale del paese. Per contro, con circa cento omicidi al mese (sei al giorno, ottocento tra gennaio e giugno 2022), presenta uno dei tassi di violenza più alti al mondo. Tijuana raccoglie in se stessa le contraddizioni tipiche di una città in moto perpetuo, in una crescita scomposta e senza regole. Con i suoi 24 km di confine segnati da una lunga barriera, simile a un moderno muro di Berlino, condivisi con la città gemella di San Diego, in territorio statunitense, Tijuana è anche la città di frontiera più trafficata del mondo. Ogni giorno circa 80mila persone l’attraversano per svariati motivi, per raggiungere il posto di lavoro, fare un acquisto o abbracciare un amico che vive dall’altra parte.

A Tijuana il mondo si incontra, fiducioso e disperato allo stesso tempo. Sullo stemma della città c’è scritto «Qui inizia la patria», ma per molti, in realtà, è proprio qui che finisce lo stato e, con esso, i diritti umani.

Tijuana è la città dove migliaia di migranti provenienti dall’America Latina si ammassano con la speranza, spesso delusa, di ricevere asilo politico negli Stati Uniti, presentandosi in una delle dogane di cui è costellata la città. E non si tratta soltanto di latinoamericani. A Tijuana arriva gente anche dall’Africa, dall’Asia e dai confini dell’Europa. Qui si spinge chi ha un sogno, ma anche chi sta scappando, magari da un disastro ambientale, dalla violenza, da mancanza di opportunità lavorative o da un conflitto armato. Contro il muro della città messicana sbattono i rifugiati di ogni dove. Negli ultimi mesi, sono arrivati anche migliaia di russi e ucraini. Accomunati dallo stesso sogno: mettere piede negli Stati Uniti.

Anche dalla Russia e dall’Ucraina

Ben prima del 24 febbraio, data di inizio dell’offensiva militare russa in Ucraina, Tijuana ha assistito all’arrivo di un inizialmente invisibile, ma poi sempre più consistente, gruppo di cittadini russi che hanno cominciato a lasciare il proprio paese quando per loro erano già evidenti le avvisaglie del conflitto. A fuggire verso la frontiera Sud degli Stati Uniti sono stati proprio gli oppositori del regime di Putin che, a partire da ottobre 2021, si sono imbarcati, insieme alle proprie famiglie e grazie a un visto turistico, su voli intercontinentali con scalo in Turchia e arrivo a Città del Messico o, più spesso, a Cancún, centro dei Caraibi storicamente frequentato dal turismo russo. Da qui, affittando un’automobile è possibile arrivare a Tijuana in qualche giorno di viaggio.

L’aumento del numero di persone provenienti dalla Russia non è passato inosservato alle organizzazioni di volontari che a Tijuana si occupano di dare un sostegno umano ed economico ai migranti.

«Nell’autunno scorso centinaia di russi sono stati fermati e detenuti dalle autorità di frontiera statunitensi – spiega Dulce García, la presidente dei Border Angels, un’associazione che fornisce assistenza legale ai migranti tra San Diego e Tijuana -. Abbiamo aiutato alcuni di loro a pagare la cauzione necessaria per uscire dalle strutture detentive durante la fase di valutazione della loro richiesta di protezione internazionale. La maggior parte delle persone russe che arrivano a Tijuana cercano rifugio negli Stati Uniti, dove hanno familiari o amici».

E i dati parlano chiaro. Secondo le statistiche della U.S. Customs and border protection, l’agenzia di dogana degli Stati Uniti, a ottobre 2021 sono stati registrati in frontiera 1.577 passaporti russi, mentre nello stesso mese del 2020 i fermi erano stati sette. Il numero di arrivi ha toccato il suo apice a dicembre 2021 con 2.105 russi in frontiera contro i 53 dell’anno precedente. Dallo scorso ottobre fino ad aprile 2022, la polizia degli Stati Uniti ha registrato la presenza di 10.089 cittadini russi, un numero che va ben oltre il doppio dell’intero anno precedente.

I cittadini ucraini hanno cominciato ad arrivare in massa a Tijuana a partire da marzo 2022. Con 20.118 persone registrate sulla frontiera sud dagli Stati Uniti solamente nel mese di aprile, il numero di ucraini è aumentato esponenzialmente, se si considera che allo stesso mese dell’anno precedente erano state registrate 31 persone. Per loro il viaggio passa attraverso la Moldavia e la Romania da dove è possibile imbarcarsi per Città del Messico e, da lì, verso Tijuana, via terrestre o aerea.

L’arrivo sulla frontiera di persone in fuga dall’Ucraina ha generato scompiglio e destrutturato in parte il sistema di accoglienza degli Stati Uniti che, negli ultimi due anni, era stato caratterizzato da una chiusura pressoché totale.

Il muro di Tijuana finisce sulla spiaggia del Pacifico, dividendo la città messicana da quella statunitense di San Diego. Foto Max Böhme – Unsplash.

Il diritto d’asilo cancellato

Nel 2021, il paese del Nord America ha registrato circa 1 milione e 700mila arresti di persone migranti, un milione delle quali è stato espulso direttamente dalla frontiera senza avere l’opportunità di chiedere asilo. Nonostante la Convenzione di Ginevra (1951) obblighi i paesi a garantire il diritto d’asilo e, di conseguenza, a dare a qualsiasi individuo la possibilità di richiedere protezione internazionale, gli Stati Uniti hanno scavalcato le normative internazionali appellandosi al Titolo 42, una vecchia legge di politica sanitaria di quarantena reintrodotta, con alcune modifiche, dall’ex presidente Donald Trump a marzo 2020. Dall’inizio della pandemia, la misura è stata utilizzata per espellere direttamente dalla frontiera i migranti, ufficialmente per motivi sanitari, anche in assenza di sintomi di Covid-19. Questo procedimento, travestito da politica di sanità pubblica, non ha fatto altro che rendere il confine più inespugnabile impedendo a più di un milione di persone di far richiesta di asilo.

«Negli ultimi anni la frontiera è stata chiusa per tutti, soprattutto per chi arrivava da Haiti, Venezuela e Centro America – spiega Dulce García -. Da marzo abbiamo assistito a un cambiamento della politica migratoria degli Stati Uniti, ma solo in favore di cittadini ucraini e, successivamente, anche di russi che, per lo meno, hanno potuto fare richiesta di asilo politico. Ma anche le persone di Haiti stanno scappando da una situazione terrificante, che potremmo considerare una guerra interna. Tutti dovrebbero avere il diritto di richiedere asilo politico, ma le persone afrodiscendenti, latine e indigene sono ancora sottoposte al Titolo 42 ed espulse in forma immediata».

A Tijuana, proprio vicino ai punti di ingresso negli Stati Uniti, ogni giorno si accampano migliaia di persone che provano a fare richiesta di asilo politico, vengono respinte dalla polizia di frontiera statunitense e successivamente riprovano, in un rituale circolare che pare non avere fine.

Dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, il presidente Joe Biden ha dichiarato di essere aperto ad accogliere i profughi provenienti dal conflitto e nei mesi di marzo e aprile i cittadini ucraini hanno potuto beneficiare di programmi di accoglienza speciale, mentre le persone di nazionalità russa, nonostante alcune iniziali espulsioni, hanno avuto la possibilità di fare richiesta di asilo politico, risultando in grande parte esenti dall’applicazione del Titolo 42.

Dal 21 aprile, inoltre, il presidente degli Stati Uniti ha lanciato il programma «Uniting for Ukraine», che permette ai cittadini ucraini con uno «sponsor» nel paese di arrivare sul suolo nazionale direttamente in aereo e ricevere un permesso di soggiorno di due anni. Questo procedimento punta ad azzerare gli arrivi dalla frontiera terrestre del Messico, ma genera un problema per chi si trova già a Tijuana. Secondo le regole del programma, le persone di nazionalità ucraina ferme sul confine Sud dovrebbero ritornare in Europa e da lì fare richiesta d’ammissione online, oppure rivolgersi all’ambasciata a Città del Messico. In attesa di uno sblocco della situazione sulla frontiera Sud, centinaia di ucraini sono stati ospitati presso la palestra comunale di Tijuana e la solidarietà è arrivata anche dalla popolazione locale messicana che ha aperto le proprie case fornendo un rifugio temporaneo a numerose famiglie.

«Da fine aprile abbiamo notato che pure i cittadini ucraini hanno cominciato ad avere problemi a entrare negli Stati Uniti. Tuttavia, anche se ci vuole del tempo, in qualche settimana le loro richieste di protezione internazionale vengono accolte – continua Dulce García -.  Siamo felici di vedere che il Titolo 42 non viene applicato alle persone ucraine o ai russi e ci auguriamo che questo sia il primo passo verso l’eliminazione completa di una legge che lede i diritti umani».

Border Angels, l’organizzazione di volontari di cui Dulce è presidente, da due anni lotta e manifesta per l’eliminazione del Titolo 42 che, in pratica, ha permesso agli Stati Uniti di smantellare quasi completamente il sistema di asilo vigente.

Scritte benauguranti su un tratto del muro di Tijuana. Foto Barbara Zandoval – Unsplash.

Joe Biden e il Titolo 42

«Ciascuno è benvenuto», ricorda la frase scritta sul muro. Foto Katie Moum – Unsplash.

Il presidente Joe Biden ha mantenuto il Titolo 42 fino a oggi, considerandolo essenziale per prevenire la diffusione del Covid-19, nonostante numerosi rappresentanti della comunità scientifica abbiano messo in evidenza che questa politica discriminatoria non ha un effetto diretto sulla diffusione della pandemia. Spinto dalle numerose critiche provenienti da organizzazioni dei diritti umani e dalla sua stessa parte politica, ad aprile 2022, il presidente degli Stati Uniti ha provato a mettere fine al programma entro il 23 maggio, ma un giudice federale della Louisana (Robert Summerhays) ha ordinato che la misura rimanesse in atto, dopo una causa mossa da alcuni stati repubblicani, per cui, al momento, la politica viene ancora attuata.

«Espellere i migranti dalla frontiera secondo il Titolo 42 significa obbligarli ad ammassarsi a Tijuana, una città pericolosa e dominata in parte dai narcos – continua Dulce García -. Molti migranti latinoamericani o africani respinti in Messico sono stati rapiti o uccisi proprio dopo il respingimento».

Secondo l’organizzazione Human rights first, si sono verificati 9.886 casi di rapimento, tortura, violenza sessuale, furti e altre violazioni ai danni delle persone migranti espulse secondo il Titolo 42 durante l’amministrazione Biden.

Questi respingimenti hanno reso Tijuana un grande campo profughi a cielo aperto, nel quale chiunque arrivi si accampa come riesce: all’angolo di una strada, a pochi metri dalle dogane, sotto qualche tettoia o nelle zone pedonali. In queste condizioni migliaia di migranti continuamente respinti assistono a un’applicazione sommaria e discriminatoria del Titolo 42 da parte della polizia di frontiera che decide chi ha diritto di chiedere protezione internazionale e chi no in base alla nazionalità delle persone.

«Non c’è violenza tra i migranti, perché nessuno si arrabbia con gli ucraini o i russi se loro passano e gli altri no – spiega Dulce García -. La frustrazione dei migranti a cui viene applicato il Titolo 42 si rivolge contro il governo degli Stati Uniti che non accetta le loro domande di asilo politico e contro quello del Messico che non garantisce standard di sicurezza sul suo territorio. Noi lottiamo per richiedere che vengano rispettati i diritti delle persone che stanno vivendo un percorso migratorio, indipendentemente dalla loro nazionalità».

Mentre gli arrivi dei cittadini russi e ucraini sulla frontiera terrestre sembrano diminuire, proprio nel mese di giugno è partita una nuova carovana di circa 15mila migranti centroamericani, provenienti in particolare dall’Honduras e dal Guatemala, che viaggiano verso gli Stati Uniti in fuga da contesti di povertà, corruzione e violenza.

Logo degli «Angeles de la frontera», associazione d’aiuto con sede a San Diego.

Migranti di «serie a» e migranti di «serie b»

Ad attenderli sul piede di guerra un fermo Joe Biden che, al IX Summit of the Americas dello scorso giugno, ha dichiarato che «la migrazione irregolare è inaccettabile» e il confine statunitense è chiuso per chi arriva senza un regolare visto. A dargli una mano ci sarà anche il presidente messicano Andrés Manuel López Obrador che ha deciso di schierare 30mila militari sulle sue frontiere proprio nei giorni in cui la carovana è partita.

«È appunto questo che lamentiamo: non esistono persone di serie A e di serie B. I richiedenti asilo non sono solamente coloro che fuggono da una guerra in Europa. Qui arrivano persone di diverse etnie e da diverse parti del mondo che si lasciano alle spalle conflitti militari, economici, sociali o politici e meritano di ricevere protezione così come qualsiasi essere umano», conclude Dulce García.

Simona Carnino

I capi di stato americani al IX «Summit of the Americas», tenutosi a Los Angeles lo scorso giugno.
Foto Alan Santos – PR.

Archivio MC

Gli ultimi articoli sulla frontiera Sud degli Stati Uniti:




Messico. Costruendo Autonomia


Il modello di sviluppo dominante opera con mega progetti che distruggono territori e modi di vita originari. Le comunità locali sono al lavoro per costruire un modello alternativo di gestione dell’energia. L’esempio della città di Cuetzalan.

«Cosa ti dice oggi il tuo cuore?», mi saluta Ivan. È un mattino di novembre, siamo nel bar Tosepan Kajfen nel centro di Cuetzalan del Progreso.

Il saluto di Ivan, tradotto letteralmente dalla lingua nahuatl della Sierra Nordorientale dello stato di Puebla, in Messico, corrisponde al nostro «buon giorno».

Il Nahuatl è una delle lingue principali di questo territorio, i cui abitanti appartengono in gran parte ai popoli Masewal-Totonaku e mestizos (meticci)1.

Cuetzalan ne è una delle principali cittadine, con il suo centro storico dalla pavimentazione in pietra, il tiangui (mercato) domenicale, il palo della danza de los voladores di fronte all’enorme chiesa, anch’essa in pietra, e le sue abbondanti piogge che durante tutto l’anno alimentano la rigogliosa vegetazione della regione.

Mi trovo in una terra generosa, nella quale si coltiva e si commercia caffè, cannella, pepe nero, e si fabbricano cesti e altri prodotti di jonote e tessuti elaborati al telar de cintura.

 Minacce e resistenza

Questa terra ha anche una lunga storia di custodia e di resistenza da parte dei suoi abitanti.

Da decenni, infatti, diversi megaprogetti minacciano il territorio, la cosmovisione autoctona, le identità, le pratiche culturali delle comunità indigene, gli agroecosistemi locali delle milpas, l’acqua e la foresta.

Negli ultimi venti anni ci sono stati molti conflitti. Una resistenza che non si limita all’opposizione, ma difende i modelli alternativi di vita, pianificati e gestiti dalla popolazione locale in armonia con un paradigma culturale e spirituale che rispetta il territorio e il suo benessere, in favore di tutti i suoi abitanti.

 

il malinteso sviluppo

L’anno decisivo fu il 2008, quando la Commissione nazionale per lo sviluppo dei popoli indigeni (Cdi – Commisión nacional para el desarrollo de los pueblos indígenas) annunciò l’attuazione di un progetto turistico nella parte alta del comune, sulla Sierra de San Manuel.

Il piano, sostenuto dal governatore dello stato di Puebla, si poneva l’obiettivo di attrarre capitali privati, nazionali ed esteri, allo scopo di creare imprese turistiche in undici comuni della regione, in aree particolarmente attrattive per il loro valore paesaggistico e ambientale.

Il progetto riguardante Cuetzalan prevedeva la costruzione di capanne, hotel e di una scuola alberghiera nella quale gli «indigeni locali» sarebbero stati formati per prestare servizi turistici (poco pagati).

Fin da subito il progetto destò dubbi per gli incerti benefici che avrebbe portato a livello locale e per la mancata partecipazione degli abitanti nella sua pianificazione.

Durante i lavori, poi, le famiglie cominciarono a notare contaminazione di calce, fango e cemento nell’acqua dei loro rubinetti. Il sistema idrico del municipio, amministrato in maniera autonoma dai comitati territoriali dell’acqua, infatti, stava subendo le conseguenze del progetto che, oltre a essere stato imposto, era stato fin da subito mal gestito con disprezzo per la salute degli abitanti e gli ecosistemi locali.

Pianificazione ecologica

Le comunità non rimasero a guardare. Nel 2009, in collaborazione con accademici e accademiche della Buap (Benemérita universidad autónoma de Puebla), esse cominciarono a sviluppare un modello di pianificazione territoriale basato sulle conoscenze, la cosmovisione e le esigenze di indigeni e mestizos locali.

Nel dicembre 2010, il modello elaborato venne pubblicato sulla «Gazzetta ufficiale» come «Programma di pianificazione ecologica territoriale» (Poet – Programa de ordenamiento ecológico territorial) del comune di Cuetzalan.

Il Poet prevedeva limitazioni ai «progetti di sviluppo» e alla costruzione di infrastrutture energetiche. Da quel momento, i progetti consentiti sarebbero stati solamente quelli pianificati e pienamente giustificati dai bisogni della popolazione locale.

Difesa di vita e territorio

Per dare seguito alla nuova modalità di gestione del territorio, si costituì il Comitato di pianificazione territoriale integrale (Cotic), composto principalmente da organizzazioni sociali, comitati dell’acqua, produttori di caffè e pepe, artigiani, associazioni di difesa dei diritti umani, associazioni di donne, nonché dai residenti di Cuetzalan e da autorità municipali, statali e federali.

Le decisioni relative a qualsiasi piano o progetto per il territorio vengono da allora discusse nell’amplissima Assemblea in difesa della vita e del territorio che normalmente si riunisce nel centro di Cuetzalan ed è riuscita a raccogliere fino a 4mila persone. Quest’ampia partecipazione e il reale controllo del processo di decisione da parte delle organizzazioni locali, fa del Poet un esempio unico nel paese e un punto di riferimento e ispirazione per altre esperienze simili.

Proyectos de Muerte

Cuetzalan

L’articolazione della popolazione locale in comitati e associazioni, e la lunga esperienza di collaborazione comunitaria e cooperativista che caratterizza il municipio, facilitarono la creazione di un fronte di resistenza allo sfruttamento del territorio e di vigilanza sui progetti infrastrutturali in campo energetico e minerario.

Alcuni dei casi più significativi di programmi di «sviluppo» nocivi, hanno portato alla distruzione di sorgenti d’acqua per la costruzione di un’autostrada da parte del ministero dei Trasporti, al tentativo di costruzione di due grandi magazzini che avrebbero messo a repentaglio il commercio locale (uno del gruppo Walmart e l’altro di Coppel), a quattro dighe idroelettriche sul fiume Apulco, a giacimenti di gas e petrolio, e ad attività di fracking (estrazione di petrolio tramite frantumazione delle rocce, ndr).

Accanto al Cotic, un altro comitato si creò proprio in risposta all’industria estrattiva, il Concejo Tiyat Tlali en defensa de la vida y el territorio, con compiti di sorveglianza e denuncia di opere e progetti contrari a quanto previsto dal piano regolatore.

Questi progetti sono chiamati dai loro oppositori proyectos de muerte, perché chiaramente contrari alla cura e riproduzione della vita e delle sue basi ecologiche, alle pratiche agroecologiche e alla convivenza di tutti gli esseri viventi, delle generazioni attuali e future.

Molti di essi furono fermati. Tra i più recenti, possiamo ricordare le concessioni minerarie revocate dalla Corte suprema nei primi mesi del 2022 a causa della non conformità di tali progetti con la legislazione vigente. La revoca delle concessioni ha colpito gli investimenti della multinazionale canadese Almaden Mineras, che intendeva estrarre oro e argento dal territorio del municipio di Ixtacamaxtitlán, e del Grupo Ferro Minero, che aveva tre progetti in Cuetzalan del Progreso, Tlatlauquitepec e Yahonáhuac.

Energia, tema chiave

Un altro anno decisivo per Cuetzalan, questa volta in relazione ai megaprogetti elettrici, fu il 2015. La Commissione federale dell’elettricità (Cfe), società statale incaricata di produrre e vendere energia elettrica, aveva promosso lo sviluppo della linea ad alta tensione (di seguito Lat2) tra Teziutlán II e Papantla, passando per Ayotoxco de Guerrero e Cuetzalan. Nella zona Nord Est di quest’ultima sarebbe stata costruita una sottostazione elettrica.

Il Cotic, tramite studi specializzati, dimostrò che la stazione non rispondeva alla domanda di energia di Cuetzalan e della regione, bensì a quella dell’industria che si stava preparando nello stato e in tutto il paese.

Gli abitanti del municipio scoprirono così che il loro territorio era strategico per l’interconnessione di diverse linee elettriche che avrebbero fornito energia allo sfruttamento minerario del territorio e al fracking.

«Da quel momento abbiamo capito che dovevamo affrontare il tema energetico in chiave di autonomia locale, altrimenti sarebbe stato inutile opporsi ai megaprogetti. Dovevamo dimostrare che un altro modello è possibile e che le comunità lo possono gestire», mi spiega Leo Durán, della cooperativa Tosepan. «Così abbiamo deciso che l’energia doveva diventare un settore chiave di trasformazione comunitaria».

La Lat, tra le altre cose, avrebbe danneggiato irrimediabilmente un’importante area di acque sorgive, protetta e conservata nel tempo dalle comunità locali, comportando impatti irreversibili su una vasta area di piantagioni di caffè e di altri prodotti che rappresentano il sostentamento di numerose famiglie.

Inoltre la Lat avrebbe messo a rischio l’habitat di specie uniche e il sistema di orientamento dell’ape melipona, responsabile dell’impollinazione di tutte le coltivazioni e delle specie silvestri. La produzione di miele, fonte di reddito soprattutto per apicoltrici donne, si sarebbe interrotta.

La deforestazione, infine, avrebbe provocato la destabilizzazione dei pendii portando il rischio di frane disastrose.

La linea s’interrompe a Cuetzalan

Per queste ragioni, il 19 novembre 2016, il popolo Masewal-Totonaku e i mestizos, tramite un’azione nonviolenta, dichiarò la sua ferma opposizione alla linea ad alta tensione, affermando il diritto dei popoli indigeni alla libera autodeterminazione tutelato dal secondo articolo della Costituzione messicana.

In grande numero, gli abitanti del municipio si recarono nell’area di costruzione della sottostazione e impedirono fisicamente la ripresa dei lavori mediante un lungo, deciso e pacifico sit in. Dopo più di un anno di accampamento e turni di guardia degli abitanti di Cuetzalan e dei municipi vicini, le autorità comunali si videro obbligate a ritirare la licenza di costruzione della sottostazione elettrica in programma.

Criminalizzazione e repressione violenta

Nonostante la cancellazione del progetto, la criminalizzazione e la violenza contro gli oppositori della Lat non si fece aspettare. Nel febbraio 2018, otto rappresentanti di organizzazioni della regione furono accusati (e poi assolti) del reato di «impedimento» all’esecuzione di un’opera pubblica. Il 14 maggio 2018 fu assassinato Manuel Gaspar Rodríguez, membro del Miocup (Movimiento independiente obrero campesino urbano popular) che già aveva ricevuto molteplici minacce di morte per la sua opposizione alla centrale.

Il suo nome, così, si aggiunse a quelli delle molte persone che nel mondo scompaiono per la difesa e la cura del loro territorio.

Un altro membro di Miocup, Antonio Esteban Cruz, era stato già ucciso nel giugno del 2014 per la sua opposizione alle dighe idroelettriche (Vedi Daniela del Bene, Uomini e terra sotto attacco, MC giugno 2021).

Nel marzo di quello stesso 2018, un commando armato sparò a un camion su cui viaggiavano membri della Tosepan. Successivamente, il centro di formazione della cooperativa fu dato alle fiamme mentre alcuni suoi membri vi lavoravano.

Il 18 marzo 2021, la Commissione nazionale per i diritti umani (Cndh) emise la raccomandazione numero 9/2021, chiedendo alle autorità competenti di effettuare una riparazione completa del danno subito dalle persone criminalizzate per la protesta a Cuetzalan.

Energie alternative

L’opposizione alla centrale rappresentò il ripudio popolare al piano estrattivista della regione.

L’Assemblea in difesa della vita e del territorio invitò le persone a disconnettersi dai cavi dei «progetti di morte» e ad appropriarsi di tecnologie alternative per la produzione di energia e per la riduzione del consumo.

«Durante il sit in, si erano organizzati laboratori e discussioni sul tema energetico, e alcuni giovani avevano insegnato alla comunità il funzionamento delle energie alternative, in particolare quella prodotta con pannelli solari», mi racconta doña Rufina che gestisce la piccola struttura di ricezione turistica Hotel Taselotzin insieme alle altre donne della cooperativa Maseualsiuamej Mosenyolchicauanij (che in nahuatl significa «donne indigene che lavorano insieme e si sostengono a vicenda»).

Non era infatti più sufficiente opporsi ai megaprogetti, ma era giunto il momento di costruire alternative in armonia con la cosmovisione e l’idea stessa di vita dignitosa e sana propria degli abitanti della regione.

Le comunità organizzate nell’assemblea annunciarono in particolare l’intenzione di camminare verso un modello energetico che contribuisca al buen vivir, al yeknemilis in Nahuatl.

Photo by Pablo Rebolledo on Unsplash

Codice Masewal

Dal 2015 al 2018, una riflessione collettiva coordinata da organizzazioni locali come l’associazione di donne Maseualsiuamej Mosenyolchicauanij, l’Unione delle cooperative Tosepan Titataniske e altre, portò alla stesura del Codice Masewal: sognando i prossimi 40 anni, nel quale si dettagliano dieci linee strategiche per la costruzione del «Yeknemilis dei popoli Masewal, Tutunakú e i mestizos della Sierra Nord orientale di Puebla».

Tra queste, la linea strategica dell’autonomia energetica portò all’installazione di pannelli fotovoltaici nelle sedi di ricezione turistica gestita dalle stesse organizzazioni locali, tra cui l’Hotel Taselotzin, varie strutture della cooperativa Tosepan, e alcune case della vicina comunità di Xocoyolo.

L’installazione degli impianti fotovoltaici beneficiò della collaborazione della cooperativa Onergia, con sede nella città di Puebla. Essa, dal 2017, si occupa anche di sviluppare processi formativi su energie rinnovabili e cooperativismo rivolti ai giovani.

Furono inoltre realizzate mappature e inchieste per conoscere i livelli di povertà energetica nelle comunità della regione.

Infine, la progettazione e realizzazione di impianti fotovoltaici adattati alle condizioni meteorologiche locali e al materiale da costruzione, come il bambù, disponibile nella zona.

Autonomia energetica

Dal 2016 a oggi si sono tenute molte formazioni in campo energetico alle famiglie e alle organizzazioni di Cuetzalan per la buona manutenzione dei pannelli solari. L’obiettivo è di fornire conoscenze e autonomia nella loro manutenzione.

Nel 2020, fu sviluppato un percorso di consolidamento della nuova cooperativa locale Tonaltzin, composta da un gruppo di dieci giovani che fornisce servizi elettrici e di riparazione rivolti principalmente alle comunità di Cuetzalan.

Nel 2021, la cooperativa Tosepan e altri partner ottennero un finanziamento del Consiglio scientifico nazionale (Conacyt) per un progetto denominato «Energia per il Yeknemilis nella Sierra Nord orientale di Puebla».

Comunità locali, organizzazioni e accademici lavorano ora insieme per costruire un modello alternativo di gestione dell’energia, a partire dal riconoscimento e dalla valorizzazione della cosmovisione comunitaria e contadina, che contribuisca a vivere secondo il Yeknemilis.

L’Assemblea per la difesa del territorio ha intanto cambiato il suo nome in Asemblea para los planes de vida en el territorio, un nome che sottolinea la necessità non solo di difendere le basi della vita ma anche di costruire collettivamente meccanismi che garantiscano una vita sana e dignitosa, coerente e in armonia con la cosmovisione locale, in un territorio sano.

L’energia come diritto collettivo e bene comune è solo una parte di questo progetto, ed è tanto centrale quanto lo è l’acqua, la terra, la cultura e la madrelingua, il rispetto intergenerazionale e di genere, la dialettica tra il sapere locale e quello scientifico e tecnologico.

Un processo di difesa della vita e di costruzione di saperi e di alternative concrete che sta già ispirando altre comunità e di cui abbiamo tutti e tutte estremo bisogno.

Daniela del Bene


Note:

1- Cuetzlan del Progreso è un comune situato nella Serra Nord orientale dello stato di Puebla. Il comune fa parte di un vasto territorio in cui i popoli Masewal, Tutunaku e i mestizos (meticci) convivono insieme da molte generazioni. Nel caso del comune di Cuetzalan del Progreso, la popolazione è prevalentemente indigena di lingua nahuatl e si identifica come masewalmeh, che letteralmente si potrebbe tradurre come «donne e uomini liberi, orgogliosi della propria identità e del proprio territorio».
Le comunità tutunaku vivono generalmente in zone più isolate rispetto al centro urbano. Il concetto di «mestizos» si riferisce alle famiglie miste o che non si riconoscono propriamente indigene.

2- La Lat consiste nell’installazione, esercizio e manutenzione di una linea di trasmissione ad alta tensione, della potenza di 115 kilowatt (Kw), a doppio circuito, della lunghezza di 10.171,63 metri. La traiettoria del progetto inizierebbe all’incrocio con una linea esistente (Papantla Power-Teziutlán II), e finirebbe sotterranea presso la futura sottostazione elettrica, nel Nord Ovest della città di Cuetzalan, vicino alla strada statale 575. Entrambi i progetti sono stati promossi dalla Commissione Federale d’Elettricità, sostenendo i benefici che porterebbero alla popolazione della zona. Tuttavia, esiste una triste correlazione tra lo sviluppo della Lat e gli altri megaprogetti in corso di attuazione nella Sierra Norte di Puebla, tra cui l’idroelettrico, il minerario e l’estrazione di idrocarburi.

Video:

La Energía de los Pueblos su Youtube.

Link

Per tutti i casi menzionati nell’articolo sono disponibili nell’Atlas le relative schede informative.
www.ejatlas.org
www.envjustice.org
http://cdca.it (atlante conflitti ambientali italia).




Messico. Per un nome, un volto, una storia


Da anni i buscadores attraversano il Messico in cerca di figli e familiari desaparecidos andando a scavare nelle fosse comuni in cui sono stati gettati da narcos, poliziotti corrotti o semplici delinquenti. Quest’anno la búsqueda (ricerca) ha avuto una dimensione internazionale. Vi ha partecipato anche Ugo Zamburru, psichiatra torinese.

«Tremi lo stato, il cielo, le strade/ Tremino i giudici e la magistratura/ A noi donne oggi tolgono la calma/ Hanno seminato paura, ci sono cresciute ali».

Cantano con dolcezza e determinazione, mentre si preparano per la giornata di ricerca. Sono madri, sorelle, padri che non si rassegnano e da anni attraversano il Messico in cerca dei familiari desaparecidos. Secondo il Prodh (Centro de derechos humanos Miguel Agustín Pro Juárez A.C, fondato dai gesuiti), il Messico sta per raggiungere le 100mila persone scomparse, con oltre 50mila corpi e resti non identificati negli obitori. «Ma i dati ufficiosi parlano addirittura di 200mila desaparecidos, tra messicani e migranti stranieri», dice Ugo Zamburru, psichiatra torinese che ha preso parte alla prima Brigada internacional de búsqueda, svoltasi dal 16 febbraio al 4 marzo negli stati settentrionali di Sonora e Baja California.

«La novità di questa búsqueda (ricerca) è che hanno partecipato familiari e volontari provenienti da tutto il Centroamerica, dal Canada, e il sottoscritto in rappresentanza di una cordata europea – Carovane migranti, Abriendo fronteras, LasciateCIEntrare e la basca Ongi Etorri – continua Zamburru -. Ma soprattutto è stata la prima volta che, oltre alla búsqueda en campo, cioè la ricerca collettiva dei cadaveri gettati nelle fosse comuni, si è realizzata una búsqueda en vida, per ritrovare alcune delle persone scomparse ancora vive».

I buscadores viaggiano su un bus messo a disposizione dalle autorità locali. Foto Ugo Zamburru.

Madri in prima linea

Mappa con gli stati messicani di Sonora e Baja California dove si è svolta la Prima Brigada internacional de búsqueda.

Come in Cile, con l’Associazione delle famiglie dei detenuti scomparsi, e in Argentina, con le madri e le nonne di Plaza de Mayo, le protagoniste delle búsquedas in Messico sono all’80 per cento donne, soprattutto madri in cerca dei figli o delle figlie vittime di sparizioni forzate.

La violenza e le desapariciones in Messico si sono intensificate dalla fine degli anni ‘90 quando, in un paese già egemonizzato dai cartelli della droga, si sono inseriti Los Zetas: soldati scelti dell’esercito nazionale addestrati in Usa e Israele che hanno creato un’organizzazione criminale tra le più spietate e ramificate, «specializzata» nel narcotraffico, nei rapimenti a scopo d’estorsione, nella prostituzione (anche minorile) e in altre attività illecite in tutto il Centroamerica.

Malgrado i tentativi del governo di reagire (come la «guerra alla droga» avviata nel 2006 da Felipe Calderón), negli ultimi vent’anni si è assistito a un crescendo di omicidi, torture e sparizioni. «Molti messicani sono gente onesta, ma c’è una parte significativa di funzionari e poliziotti corrotti, attratti da facili guadagni o spinti dalla paura – spiega Zamburru -. Non di rado delitti e desapariciones sono opera loro».

Com’è stato per il figlio di Cecilia Delgado Grijalva, una delle partecipanti alla Brigada internacional: la sera del 2 dicembre 2018, mentre stava chiudendo il suo negozio a Hermosillo, Jesús Ramón Martínez Delgado, allora trentaquattrenne, è stato caricato su un furgone bianco della polizia di stato e da allora è svanito nel nulla. «Ho subito fatto denuncia al pubblico ministero, ma per due anni nessuno ha indagato; malgrado la telecamera di sorveglianza e i testimoni, hanno sempre negato l’esistenza della pattuglia 073, responsabile del sequestro (in seguito rintracciata e fotografata da Cecilia stessa, nda)», racconta lei, che da allora ha percorso tutto il Messico in cerca del figlio. «Ho perlustrato ospedali, obitori, prigioni, centri d’accoglienza, ho cercato tra la gente di strada, sotto i ponti e nelle discariche, sono entrata nei rifugi dei drogati, mi sono unita ad altre donne che scavavano in cerca dei cadaveri».

E scavando con le sue mani, il 25 novembre 2020, Cecilia ha trovato i resti di Jesús nel quartiere di Altares. «Non ho dovuto aspettare il test del dna, ero certa che si trattasse di lui per l’apparecchio ai denti e perché sul cranio aveva ancora i capelli, i suoi capelli castani con quei ricci che non gli piacevano e che copriva di gel». Jesús Delgado ha lasciato tre figli, la più piccola oggi ha 5 anni. «È lei che soffre di più, piange e mi domanda perché ci ho messo così tanto a ritrovare il suo papà».

Come Cecilia, molte altre madri continuano a partecipare alle búsquedas durante tutto l’anno, pur avendo già ritrovato i propri cari o quel che ne resta. «Finché si va in cerca dei familiari, si riesce a dare un senso alla propria vita perché c’è la speranza di ritrovarli, vivi o morti, pur di non restare nell’incertezza, che è devastante (vedi box). Una volta raggiunto questo obiettivo, allora la missione diventa aiutare le altre donne – spiega Zamburru -. È un meccanismo psicologico di sublimazione per cui si investe in qualcosa di superiore: lo spirito del gruppo, che crea appartenenza, spezza la solitudine e permette di condividere dolore, rabbia e impotenza».

La madre di una scomparsa mostra un cartello con foto e dati della figlia durante una manifestazione a Guadalajara, il 10 maggio 2022; alle sue spalle, decine di manifesti di scomparse e scomparsi. Foto Ulises Ruiz – AFP.

Resti umani e Dna

«Cantiamo senza paura, chiediamo giustizia/ Gridiamo per ogni scomparsa/ Che risuoni forte: Ci vogliamo vive!».

L’inno della cantautrice Vivir Quintana contro i femminicidi echeggia nello scuolabus giallo messo a disposizione dei búscadores dalle autorità di Hermosillo, la capitale di Sonora: uno degli stati con il maggior numero di segnalazioni di scomparsi, oltre 600 l’anno. Inghiottiti dal deserto, 300mila km² (vale a dire quasi quanto l’Italia) dove bastano cinque minuti per perdere l’orientamento, dov’è facile venire aggrediti da criminali o animali pericolosi, oppure morire di sete e stenti mentre si viaggia verso Nord, verso la frontiera con gli Stati Uniti.

In questi territori inospitali «le búsquedas – organizzate di concerto dalle associazioni dei familiari e dalle istituzioni pubbliche – si svolgono con la scorta di polizia, esercito, protezione civile, Comisión nacional de búsqueda ecc., per il rischio sempre incombente di venire assaliti dai narcos e da delinquenti comuni», racconta Zamburru. Già molti genitori sono stati uccisi per aver cercato i propri figli, ma «quando ti tolgono un figlio, non hai più paura di niente», dice Cecilia Delgado. «Le nostre armi sono la pala, il piccone e la varilla».

Quest’ultima è un’asta di metallo appuntita a forma di «T», che si conficca nel terreno per poi annusarne l’estremità: se emana cattivo odore è un «buon» segno, lì sotto potrebbero trovarsi dei cadaveri. A quel punto l’area viene transennata e iniziano gli scavi, fino a un metro e mezzo di profondità. Nel deserto si usano le pale, mentre nelle zone collinari, dove il suolo è più duro (e dove i narcos costringono le vittime a scavarsi la propria fossa), si utilizza il piccone e a volte la scavatrice.

Spesso i buscadores scavano in punti segnalati da telefonate anonime, talvolta attendibili ma più spesso dovute a depistaggi o tentativi di estorcere denaro. Quando vengono individuati resti umani – membra, parti dello scheletro, oppure resti carbonizzati o sciolti nella soda caustica – l’antropologo forense effettua una serie di verifiche, mentre le madri si fanno prelevare il dna, che viene registrato nella banca dati della Comision nacional de derechos humanos.

«Sono rimasto colpito dall’euforia con cui le madri accolgono il ritrovamento dei resti. Sotto il sole a picco, a quasi 50 gradi, io sentivo la fatica, mentre quelle donne esili, provate da anni di sofferenze, continuavano a scavare per giorni, energiche e instancabili», racconta Zamburru.

«L’amore che abbiamo per i nostri figli è più forte del clima, della fame o della paura», dice Charlín Unger, 62 anni, alla ricerca del figlio Carlos Antonio rapito nel 2019 da un commando armato. «I “pezzi” che riusciamo a trovare sono i nostri cari, i nostri tesori preziosi, da trattare con cura e con amore per restituire loro umanità, per dare loro un nome, un volto, una storia».

Gli antropologi forensi effettuano rilievi in un’area in cui sono stati individuati resti umani. Foto Ugo Zamburru.

La polizia messicana

Charlín Unger è cofondatrice insieme a Cecilia Delgado delle Búscadoras por la paz, uno degli oltre settanta collettivi di familiari nati per reazione all’inerzia dello Stato, incapace di garantire la sicurezza dei cittadini e il diritto alla verità e alla giustizia. Sebbene dal 2013 sia stata promulgata in Messico la Ley general de víctimas [vedi box] per contrastare le sparizioni forzate. Tuttavia, le vittime di questi reati sono in continuo aumento e il 99% delle desapariciones rimane impunito.

Come nel caso di Juan Hernández, agente scelto della polizia federale, «prelevato» dal suo albergo nel Nuevo León nel 2011, all’età di 22 anni. La «colpa» di Juan è stata respingere un tentativo di corruzione da parte di un suo superiore in combutta con Los Zetas. «La polizia, senza indagare, voleva che firmassi subito la presunzione di morte, ed è iniziata la tortura delle menzogne, per impedirmi di cercare. Mi hanno anche mostrato un video in cui alcuni criminali tagliavano la gola a quattro poliziotti», racconta la madre di Juan, Patricia Manzanares Ochoa. «In più, quando sparisce un poliziotto federale, non si fanno denunce di scomparsa. La polizia si limita a un verbale interno e, dopo tre giorni, archivia il caso come “abbandono del lavoro”».

Così la donna ha dovuto rimboccarsi le maniche e fare ciò che sarebbe toccato alle autorità, cercare Juan. «All’inizio credi che il governo compia il proprio dovere. Ma non fanno che trascrivere pezzi di carta, non s’impegnano mai in una vera ricerca, così si perde tempo prezioso, sembra quasi lo facciano apposta per far sparire le prove», dice Patricia. «Ho dovuto documentarmi e acquisire conoscenze che non avevo. Se avessi saputo tutto quel che so adesso, avrei trovato mio figlio. Ma noi familiari non siamo avvocati né antropologi, non sappiamo nulla di diritto». In occasione delle búsquedas «le autorità ci accolgono, assistono agli scavi, ma siamo noi che dovremmo osservarli mentre fanno il loro mestiere. Abbiamo uno stato fallito, che viola i nostri diritti».

Parole amare, confermate dai numeri: a fronte di decine di migliaia di desapariciones, in questi anni sono state emesse appena una quindicina di condanne. In aggiunta, le persone scomparse e le loro famiglie vengono ulteriormente vittimizzate. «Succede spesso che si sparga la voce secondo cui, se sono stati uccisi, è perché erano coinvolti in qualcosa di losco, traffico di droga o altro – dice Cecilia Delgado -, ma è una menzogna, io stessa conosco decine e decine di vittime totalmente innocenti: uomini, donne, giovani e anche bambini». Sono 7mila oggi i minori desaparecidos in Messico, quasi tutti vittime di violenze e omicidi (Registro nacional de datos de personas extraviadas o desaparecidas).

Antropologi forensi al lavoro in una zona di scavo. Foto Ugo Zamburru.

la ricerca in ricoveri, discariche, carceri

«Suo figlio si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato», ha concluso la Procura della Repubblica a più di dieci anni dalla scomparsa di Oscar Javier Muñoz Cortés, studente universitario di 21 anni. Il giorno prima di sparire, nel novembre 2008, Oscar aveva difeso una ragazza che stava subendo molestie per strada. L’indomani un poliziotto municipale di Pachuca fu visto mentre lo consegnava a un gruppo armato, che lo prese a botte e lo caricò su un furgone. Il padre, anche lui di nome Oscar Javier, non ha ottenuto nulla di concreto dalle autorità statali né da quelle federali: «Dopo più di dieci anni, hanno anche preso a pretesto la pandemia per bloccare le indagini. Alla fine, sono stati individuati due colpevoli del sequestro, uno è stato scagionato grazie alla madre avvocato e l’altro liberato per presunti motivi di salute».

Oscar è tra i più attivi nella búsqueda en vida che si snoda tra i centri urbani e rurali, distribuendo e affiggendo i volantini con la foto a colori del figlio, la sua descrizione e il numero di telefono se qualcuno avesse notizie. Insieme a lui, le madri e gli altri búscadores cantano, tappezzano muri, pali della luce e alberi con i ciclostilati, fermano e interrogano ogni persona, ripetono la loro storia alla stampa, alla tv locale, alle Ong, a chiunque possa aprire un varco verso la verità. «A noi europei questo modo di procedere un po’ naïf può sembrare una follia – dice Zamburru -, ma è una maniera per non rassegnarsi: alla perdita dei propri cari, alla violenza, al senso d’impotenza che può sottomettere e abbattere».

Una capacità di resistenza che anima il convoglio dei búscadores mentre attraversano i vari punti nevralgici: dal ricovero per migranti Giovanni Bosco di Nogales alla discarica di Puerto Peñasco, dal carcere di Mexicali al Centro per le dipendenze di Rosarito… mai stanchi di domandare, di cercare nel volto di tanti disgraziati tracce di somiglianza con un marito scomparso, con una figlia o una sorella perdute. «In ogni incontro scattano anche dinamiche di solidarietà: le madri spesso portano cibo e abiti ai migranti affamati, ai recicladores delle discariche, a chi vive negli anfratti ai bordi delle autostrade – racconta Zamburru -. È terribile pensare a queste donne, con i figli scomparsi per politiche criminali, e ai tanti infelici abbandonati qui a causa di un sistema economico altrettanto criminale, costretti a lasciare paesi invivibili per la violenza e finiti a vivere nel nulla».

Migliaia di persone in attesa di valicare il confine con gli Usa o deportados che, una volta arrivati nel «paese pavimentato d’oro», sono stati rispediti indietro e ora vivono in strada perché si vergognano di tornare a casa, o perché sono diventati tossici o alcolisti.

Scarpe, pantaloni e uno scheletro umano. Foto Ugo Zamburru.

Una fede incrollabile

Durante la búsqueda internacional sono stati ritrovati 29 desaparecidos morti e 4 in vita, e si sono individuate alcune piste su cui la Comisión nacional de búsqueda sta proseguendo le indagini. Ma le búscadoras e i buscadores non si fermano, vanno avanti nelle loro ricerche per tutto l’anno. «Per fare una vita così, occorrono un coraggio e una fede incredibili. Sono quasi tutti molto religiosi, hanno una grande fede in Dio e fiducia di ritrovare i loro cari malgrado siano passati anni», dice Zamburru. «Ogni mattina, prima di mettersi all’opera, si riuniscono per pregare insieme. Una volta ho domandato come facecessero a credere ancora in Dio, e una madre mi ha risposto che se lei, povera donna ignorante, era lì a impegnarsi insieme a tutti gli altri, doveva per forza esserci un senso».

«A Dio chiedo di darmi la forza per continuare a cercare, perché l’incertezza ti consuma dentro e non ti restano che la tua fede e la speranza, da non perdere mai», dice Patricia Manzanares. «A Lui chiedo soltanto di non lasciarmi morire senza aver prima conosciuto la verità su quanto è successo a mio figlio».

Stefania Garini

Una buscadora con la varilla, l’asta a forma di «T» per sondare il terreno. Foto Ugo Zamburru.

Buone leggi, cattive prassi

Negli ultimi anni, le istituzioni pubbliche messicane hanno tentato di reagire alla violenza e alle sparizioni forzate mediante una serie di misure a sostegno delle vittime e dei loro parenti. Lo stato di Baja California ad esempio, secondo le parole del segretario generale di governo Amador Rodríguez Lozano, si è impegnato nello stanziamento di un «Fondo per la riparazione globale dei danni» con un budget di circa 4 milioni di pesos (circa 186mila euro).

A livello federale, dal 2013 la Ley general de víctimas garantisce la tutela delle vittime con riferimenti circostanziati al rispetto della loro dignità, alla salvaguardia del benessere fisico e psicologico, alle condizioni di sicurezza, al sostegno economico e occupazionale, ecc., sottolineando il diritto fondamentale a ricevere «assistenza, protezione, attenzione, verità, giustizia, riparazione integrale (individuale, collettiva, materiale, morale e simbolica)».

La legge prevede anche un sussidio per i familiari – messicani e stranieri – costretti ad abbandonare casa e lavoro per dedicarsi a tempo pieno alla ricerca dei desaparecidos. «Un’ottima norma, che però rimane spesso lettera morta», spiega Ugo Zamburru del collettivo Carovane migranti.

Durante la Brigada internacional de búsqueda, insieme ad Ana Gricelides Enamorado, madre e attivista del Movimiento migrante mesoamericano, ha accompagnato alla procura della repubblica di Città del Messico una donna salvadoregna, Silvia Artiga Castaneda, che anni prima aveva denunciato la scomparsa del figlio. «All’epoca Silvia era convinta di aver fatto tutto il necessario, ma abbiamo scoperto che la procura non aveva neppure aperto il fascicolo d’inchiesta. Ufficialmente quel caso di desaparición non esisteva. Quindi, oltre a non fare nulla per cercare il ragazzo, non le avevano riconosciuto alcun sostegno economico».

Attraverso l’intervento di Ana Enamorado e del Movimiento migrante mesoamericano, impegnato nella ricerca dei desaparecidos, nella lotta contro le reti di violenza e le politiche di oppressione dei migranti, e nella capacitación (empowerment) dei familiari, «dopo lunghe trattative e la minaccia di far intervenire un avvocato, si è ottenuto che a Silvia venisse pagato il viaggio e fornito il visto, e si sono attivate le ambasciate di Messico ed El Salvador per occuparsi del caso. Malgrado ciò che le leggi prescrivono, la strada per il rispetto dei diritti resta lunga e difficoltosa».

S.Ga.

Su YouTube

Videopillole della I Brigada internacional de búsqueda di Ugo Zamburru sono disponibili sul canale YouTube di Carovane Migranti: htpps://bit.ly/35dphCg

Scarpe e ossa umane emerse dallo scavo. Foto Ugo Zamburru.

Il lutto impossibile

«Ogni giorno non faccio che pensare a dove possa trovarsi mio figlio, se mangia, se lo picchiano, se è vivo o morto. Voglio trovarlo, ma non voglio trovarlo». Patricia Manzanares Ochoa esprime così quella costante e tormentosa ambiguità che colpisce tutti i buscadores: in bilico tra la volontà di ritrovare le spoglie dei propri cari, uscendo dall’incertezza, e il desiderio di non trovarli per serbare la speranza che siano ancora vivi. Un vortice di pensieri e sentimenti contrastanti tipico di ogni «perdita ambigua», come l’ha definita la psicoterapeuta Pauline Boss negli anni ’70 in riferimento ai familiari dei soldati dispersi in Vietnam. Nella perdita ambigua, l’indeterminatezza della situazione accresce il dolore e ostacola la normale elaborazione del lutto, con possibili esiti patologici (senso d’impotenza, depressione, ansia, conflitti relazionali). Diventano quindi fondamentali la ricerca di significato e la speranza, per sviluppare un approccio costruttivo alla vita e darsi obiettivi realistici.

In questi casi la certezza della morte risulta più accettabile del dubbio continuo. Il riconoscimento ufficiale e i riti collettivi che l’accompagnano possono essere di grande aiuto. Come dice Cecilia Delgado Grijalva, «quando ho ritrovato mio figlio ho provato un dolore straziante; ma sapere che è morto, mettere fine all’incertezza e offrirgli finalmente una cerimonia funebre, in un certo senso ha mitigato le mie sofferenze. Tutte le famiglie e le mamme dovrebbero avere la possibilità di compiere questi gesti di cura postuma, perciò non mi stanco di aiutare gli altri nella loro ricerca».

S.Ga.

Lo psichiatra torinese Ugo Zamburru con Oscar J.M. Cortés (in maglietta bianca), il cui figlio è sparito nel 2008 (due dei rapitori sono stati identificati, ma restano a piede libero).




Welcome to El Paso

testo di Paolo Moiola |


Sorta nel deserto, El Paso è ulteriore dimostrazione che l’immigrazione non può essere fermata da un muro. Per questo, nella città texana, operano varie organizzazioni cattoliche d’aiuto ai migranti. «Benvenuti a El Paso» è la nuova tappa del nostro cammino lungo la frontiera tra Stati Uniti e Messico.

Capita spesso di sentire parlare di El Paso e Ciudad Juárez come di città gemelle. In realtà, lo sono soltanto in quanto si dividono uno stesso spazio geografico: il deserto di Chihuahua, la catena dei monti Franklin e il Rio Grande (o Rio Bravo). Per il resto, le due città sono diverse in tutto.

La prima è una città texana di 700mila abitanti al confine con il New Mexico. La seconda, capitale dello stato messicano di Chihuahua, è famosa nel mondo per essere la città dei femminicidi e delle maquiladoras (fabbriche straniere con manodopera locale ed esenzioni fiscali).

Unite da quattro ponti – Bridge of the Americas, Ysleta-Zaragoza International Bridge, Paso del Norte Bridge e Stanton Street Bridge – che scavalcano il Rio Grande e un’autostrada, El Paso e Ciudad Juárez sono separate da barriere (fences) costruite nel 2008 per frenare l’immigrazione illegale e i traffici illeciti. Queste barriere sono state, in parte, sostituite o rinforzate dal muro di Trump, la cui costruzione è stata oggi bloccata dal nuovo presidente Joe Biden.

Vecchio o nuovo muro che sia, come quasi sempre accade, niente riesce però a fermare il flusso di migranti. Per esempio, a giugno, soltanto nel settore di El Paso, gli agenti di frontiera Usa hanno intercettato 21.500 migranti. In dieci mesi (da ottobre 2020 a luglio 2021), sul confine Sud le autorità statunitensi hanno fermato un milione e 332mila migranti. Un numero effettivamente enorme, ma di questi ben 850mila sono stati immediatamente espulsi (dati Customs and border protection, Cbp, del 4 agosto 2021).

Una panoramica dal Ranger Peak di El Paso e Ciudad Juárez che evidenzia il paesaggio desertico in cui sorgono le due città. Foto Nick Amoscato.

Chi aiuta i migranti

A El Paso e in altre città texane di confine lavorano varie organizzazioni cattoliche. Le due più grandi sono «Annunciation House» e «Catholic Charities of the Rio Grande Valley» (a San Juan e Browsville).

La prima, fondata nel 1978, si occupa principalmente di migranti ed è diretta da padre Ruben Garcia. La seconda, con uno spettro d’intervento più generale, è diretta da suor Norma Pimentel, figlia di messicani (nel 2020, eletta da Time tra le cento persone più influenti al mondo).

A queste organizzazioni d’aiuto immediato, dal 1987 la diocesi di El Paso affianca un ufficio di consulenza legale per i migranti («Diocesan migrant and refugee services», Dmrs). Inoltre, il «Hope border institute» (Instituto fronterizo esperanza), partendo dalla dottrina sociale della Chiesa cattolica, svolge un lavoro di studio e ricerca «per costruire giustizia e approfondire la solidarietà attraverso le terre di confine».

Nel suo ultimo rapporto, l’istituto è molto duro nei confronti del nuovo presidente. Visto che la vicepresidente Kamala Harris aveva dichiarato di essere «impegnati a garantire che il nostro sistema di immigrazione sia ordinato e umano», allo studio è stato dato un titolo esattamente opposto: Disorderly and inhumane, disordinato e disumano (giugno 2021).

«L’amministrazione Biden – vi si legge tra l’altro – continua a impedire alle persone in fuga da persecuzioni di accedere al sistema di asilo degli Stati Uniti e continua a espellere migranti e richiedenti asilo che attraversano il confine».

In effetti, finora l’amministrazione Biden ha respinto oltre il 70 per cento dei migranti, soprattutto sulla base del cosiddetto «Title 42», reso operativo da Trump a inizio pandemia (21 marzo 2020). Il titolo 42 è una norma del Codice di sanità pubblica degli Stati Uniti, risalente al 1944, che consente l’immediata (cioè nell’arco di poche ore) espulsione di una persona per questioni sanitarie. Questa norma ha preso il sopravvento sul «Title 8» del Codice federale sulla migrazione (Aliens and nationality), una norma ben più complessa e soprattutto più garantista, in particolare nei confronti dei richiedenti asilo (asylum seekers).

Border Patrol Agents (BPA) assigned to El Paso Sector, El Paso Station (EPT/EPS) apprehended a group of approximately 127 illegal aliens.

Le suore di Chapparal

A El Paso, attorno alle principali organizzazioni d’aiuto, ne ruotano altre più piccole, ma egualmente significative. Una di esse è quella delle suore dell’Assunzione (Assumption sisters) di Chapparal, piccola comunità rurale sul confine tra New Mexico e Texas, a circa 30 chilometri da El Paso.

Contattata via web, ci risponde suor Anne Salaun. «Siamo una comunità internazionale di quattro suore – spiega la religiosa -. Assieme a me, ci sono suor Chabela, Maria Teresa e Nha Trang».

Suor Norma Pimentel, direttrice di «Catholic Charities of the Rio Grande Valley». Foto Mose Buchele / Kut / Npr.

«Nella comunità di Chapparal la maggioranza della popolazione è di origine ispanica. Si tratta soprattutto di famiglie emigrate dal Messico con figli nati qui. Noi facciamo il nostro ministero tra loro. Da un paio d’anni lavoriamo però anche sull’emergenza derivante dai nuovi arrivi, sempre in collaborazione con le organizzazioni di El Paso, in particolare con Annunciation house. Portiamo i pasti in uno dei loro centri e diamo una mano in un altro».

Le suore collaborano anche con l’Hope border institute». «Gli Stati Uniti – ricorda suor Anne – sono un paese d’immigrazione che, nel corso della sua storia, ha accolto diverse ondate di immigrati. Oggi però il sistema vigente è diventato inadeguato. Occorrerebbe fornire percorsi legali per entrare e per ottenere la cittadinanza. Detto questo, allo stesso tempo, devono essere affrontate nei paesi di origine dei migranti le cause profonde dell’immigrazione».

Dopo aver sperimentato la «tolleranza zero» di Donald Trump, suor Anne non boccia Joe Biden: «La situazione è un po’ migliorata, ma c’è spazio per ulteriori miglioramenti».

«Per esempio?», le chiediamo. «Il fatto che il confine sia ancora chiuso, è un incentivo per i trafficanti che depredano i migranti. La riforma delle nostre leggi sull’immigrazione e l’apertura delle frontiere è il modo migliore per combattere lo sfruttamento umano sopprimendo la necessità del contrabbando».

Padre Ruben Garcia, direttore di «Annunciation House». Foto The Texas Observer.

Suor Anne si riferisce allo smuggling di esseri umani (in spagnolo, coyotaje, da cui il termine coyote, trafficante di persone), un fenomeno diventato normalità che genera un giro di denaro inferiore soltanto a quello della droga e che, soprattutto, produce drammi umani. Come avvenuto lo scorso 30 giugno, quando gli ufficiali della Border patrol di El Paso hanno scovato 35 migranti – provenienti da Guatemala (in maggioranza), Messico, Ecuador, Nicaragua e Honduras – nascosti in una casa. Dramma nel dramma, tutti e 35 sono stati immediatamente rispediti fuori dai confini statunitensi in base al citato Title 42.

A suor Anne facciamo presente che paura e cattiva informazione non aiutano a comprendere la complessità del fenomeno migratorio. «È proprio per questo – risponde – che abbiamo bisogno di educazione: per aprire le nostre menti e i nostri cuori ai benefici e alle benedizioni che i nuovi arrivati portano con sé. Ricordiamoci che la migrazione fa parte del tessuto della storia umana. Quindi, è meglio coglierne i benefici piuttosto che combatterla».

Così la pensa suor Anne. Tuttavia, in Texas come negli Stati Uniti e nel mondo, la questione migratoria divide la società in maniera netta e apparentemente inconciliabile.

Tre delle quattro suore della comunità di Chapparal in un centro d’accoglienza di El Paso. Foto Assumption sisters – Chapparal.

Fermare «l’invasione» (a ogni costo)

Don Huffines, ex rappresentante repubblicano nel senato del Texas, che si definisce «100 per 100 pro-life», è candidato alla carica di governatore dello stato nelle elezioni del novembre 2022.

Nel suo programma ultra conservatore, un posto di rilievo è occupato dal tema dei migranti.

Su questo gli argomenti per raccogliere consensi elettorali sono sempre gli stessi. Per esempio, quello dei soldi: «I texani stanno attualmente pagando miliardi [di dollari] ogni anno per alloggio, scuola e assistenza medica in favore di stranieri illegali».

Huffines promette che, se eletto governatore dello stato, fermerà l’«invasione» a ogni costo, schierando tutte le forze della Guardia nazionale del Texas, completando il muro di Trump, attuando misure di pressione economica sul Messico, rendendo impossibile l’assunzione di migranti illegali sui posti di lavoro.

A quanto pare il programma di Huffines non contempla un «Benvenuti in Texas».

Paolo Moiola

A demonstrator holds up placards to protest against MPP (Migrant Protection Protocols), outside of U.S. Customs and Border Protection building in Brownsville, Texas, U.S., January 12, 2020. REUTERS/Go Nakamura

Le suore di Chapparal effettuano una distribuzione di alimenti. Foto Assumption sisters – Chapparal.

Il ponte delle Americhe, uno dei quattro che unisce El Paso (Usa) con Ciudad Juárez (Messico); si confronti la fila di auto in entrata e quella in uscita. Foto James Tourtellotte.

QUESTA SERIE:

«L’uragano migranti (e la frontiera liquida)», MC, giugno 2021;
«Bienvenidos a Tijuana», MC, luglio 2021.

 




Messico-Stati Uniti. «Bienvenidos a Tijuana»

testi Federica Mirto e Paolo Moiola |


È in Messico, a due passi dalla California. Da tempo le statistiche la pongono ai primissimi posti tra le città più violente del mondo. Eppure, a dispetto di tutti i problemi, Tijuana accoglie migranti da molti paesi. Come dimostra la presenza di varie associazioni d’aiuto, laiche e religiose.  Due di esse sono raccontate in queste pagine.

1/ La «Casa del migrante» degli Scalabriniani sui Sentieri del sogno.

Il centro di accoglienza dei missionari scalabriniani è più di un rifugio. È una casa. Piena di umanità e di sorprese.

Tijuana, la città più popolata del Messico (escludendo la capitale), è nota per essere la città di frontiera per eccellenza. È situata nello stato della Baja California e solo trenta chilometri la separano dalla ricca San Diego. L’influenza degli Stati Uniti è parte della storia di questa metropoli. Lo si percepisce dalla crescita del settore edilizio che cerca di imitare uno stile gringo, pur mantenendo forte l’identità messicana. Fino a una decina di anni fa, la città, grazie alla sua posizione strategica, era un luogo di passaggio, la gente arrivava e attraversava la frontiera, in tempi più o meno brevi.

Entrata principale della «Casa del migrante» di Tijuana. Foto Federica Mirto.

Tutti a Tijuana

Negli ultimi anni l’attrazione verso l’agognato sogno americano ha preso una piega più drammatica. A ricordarlo sono le croci bianche poste vicino al famoso muro a Las playas e non ultima la morte di un ragazzo cubano a fine marzo, affogato nell’intento di raggiungere la spiaggia di San Diego.

La complessità del fenomeno migratorio è aumentata e, negli ultimi anni, la città si è ritrovata a essere il punto di arrivo per tanti migranti e il luogo di rimpatrio per i deportati dagli Stati Uniti. I flussi migratori verso gli Usa non vengono coordinati da strutture pubbliche, statali o federali, ma da associazioni benefiche, la maggioranza religiose, che cercano di mettere ordine in un sistema d’accoglienza tanto generoso quanto caotico e inefficiente. Queste strutture, chiamate albergues, formano una rete solidale pronta ad accogliere famiglie, ragazze madri e migranti Lgbtq. Oltre a dare un posto letto e un pasto caldo, offrono servizi per aiutare gli ospiti migranti a integrarsi nella società. Gli albergues sono distribuiti soprattutto nella zona Nord della città, vicino al confine. Lavorano autonomamente mantenendo il contatto in caso di iniziative comuni di formazione o di protesta, come nei casi di marce organizzate contro la chiusura del confine o l’inasprimento delle politiche per i richiedenti asilo.

La grandezza di Tijuana sta nell’accogliere tutti. Ne sono testimoni le comunità di haitiani perfettamente integrate in un contesto linguistico e culturale diverso dalle proprie origini. Dopo il tragico terremoto che colpì Haiti nel 2010, gli haitiani erano la maggioranza dei migranti ospitati nei centri di accoglienza e, grazie al virtuoso lavoro dei volontari e degli operatori umanitari presenti nel territorio, sono riusciti a crearsi una comunità che dà vita anche a diverse iniziative culturali, inclusa una stazione radiofonica in lingua francese e creola (Radio haitiano en Tijuana).

Emergenza su emergenza

L’emergenza sanitaria causata dal Covid-19 ha, inevitabilmente, messo a dura prova le strutture di accoglienza che hanno dovuto reggersi quasi esclusivamente sulle capacità interne di sostentamento.

La Casa del migrante è uno dei centri di accoglienza più grandi della città. Aperta nel 1987 e gestita dalla congregazione degli Scalabrini, dispone di 140 posti letto che, prima dell’emergenza sanitaria del Covid-19, sono sempre stati occupati da migranti di sesso maschile. La Casa è un luogo accogliente e offre molti servizi, tra cui quello legale, psicologico e un percorso per l’inserimento al lavoro. Nell’arco del soggiorno, che, in media (ma ci sono eccezioni), è di trenta giorni, gli ospiti possono seguire dei corsi di formazione, usufruire del servizio medico, avere tre pasti giornalieri, oltre al posto letto. Le regole per l’ingresso sono chiare: ogni ospite deve collaborare nella pulizia giornaliera, in cucina e in altre attività richieste. Nel centro il tempo sembra immobile. A causa del Covid si può uscire solo per andare al lavoro, mentre tutte le altre uscite devono essere autorizzate dal personale. La routine è scandita da orari rigidi, la maggior parte dei residenti esce presto per andare a lavorare e torna la sera in tempo per la cena nella mensa. L’obiettivo del personale della Casa è quello di aiutare gli ospiti con le pratiche burocratiche e di fornire supporto nella ricerca attiva del lavoro affinché possano sostenere le spese per l’affitto una volta finito il soggiorno nella struttura.

Nonostante le chiusure per la pandemia, il lavoro a Tijuana non è mai mancato: i migranti trovano occupazione nell’edilizia, nelle lavanderie degli hotel, come addetti alla sicurezza o alle pulizie nei centri commerciali. Il problema principale rimane quello degli stipendi bassi, non proporzionati al costo degli affitti, molto alto, in aggiunta alla scarsa disponibilità di trasporto pubblico che costringe a non abitare troppo lontani dal luogo di lavoro.

Il Covid-19 ha colpito anche la Casa del migrante dove ci sono stati casi di positivi, prontamente individuati e isolati nelle stanze attrezzate per la quarantena e con bombole di ossigeno. Sono stati mesi duri. La regione della Baja California è stata tra le più colpite in Messico, ma la consapevolezza del collasso del sistema sanitario pubblico non ha sconfortato il direttore della Casa, padre Murphy (vedi sotto) che, con gli altri collaboratori, ha deciso di dimezzare gli ingressi e aprire le porte alle famiglie.

Barriera di separazione a Las Playas de Tijuana (ottobre 2020). Foto Federica Mirto.

Storia di Doris e Gerson

I migranti che viaggiano con i bambini sono in costante aumento. Non sono solo i nuclei familiari a mettersi in viaggio, ma anche giovani padri soli con figli piccoli e ragazze in stato di gravidanza avanzato, che portando con sé i figli sperano di avere più possibilità di cruzar (attraversare) il confine e non essere respinti.

Gli effetti a lungo termine della pandemia colpiranno soprattutto i ragazzi in età scolare perché le scuole pubbliche messicane sono chiuse da un anno e, anche se il centro fornisce una sala per giocare, educatori e aule con il computer, non tutti possono seguire le lezioni online. Senza dimenticare che molti minori arrivano analfabeti presentando disturbi del linguaggio e dell’apprendimento.

Per fortuna, i bambini si abituano facilmente a tutto. Per loro la Casa del migrante è un luogo sicuro dove ci sono attività quotidiane e persone che provano a colmare le loro lacune scolastiche. Per mesi, nella sala giochi, a insegnare a leggere e scrivere c’è stata Doris, honduregna di 35 anni con un master in finanzia e uno in pedagogia. Doris, con suo marito Gerson e i loro due bambini di 3 e 6 anni, sono stati ospitati nella casa per 5 mesi (da ottobre 2020 a febbraio 2021), sono scappati da San Pedro Sula nell’estate del 2019 a causa delle continue minacce ricevute dalla criminalità locale. In Honduras stavano bene, entrambi avevano studiato all’università e Gerson lavorava come ingegnere in una famosa compagnia di bevande, ma ultimamente anche le famiglie «normali» sono diventate un target per le gangs locali.

Le cause che spingono i migranti provenienti da Guatemala, Honduras ed El Salvador sono di origine politica, economica e ambientale, ma soprattutto sociale: le persone fuggono dalla violenza e da stati inadeguati e corrotti. Per molte famiglie la fuga rappresenta l’unica soluzione. Al tempo stesso, la pressione della minaccia comporta lo sviluppo di una resilienza naturale della quale sono portatrici soprattutto le donne. Infatti, più che il sogno di una vita negli Stati Uniti, esse cercano un luogo lontano dalla violenza che molto spesso subiscono sui loro corpi.

La sofferenza composta di Doris mi ha colpito più di altre: non si è lasciata mai andare, neppure quando ha saputo di aver perso la madre in Honduras e non poterle dare neppure l’ultimo saluto. Eppure, il giorno dopo era di nuovo pronta a dedicarsi ai bambini.

Migranti in difesa del diritto d’asilo, a Tijuana, ottobre 2020. Foto Federica Mirto.

Novelli Caronte

Prima di Tijuana, la famiglia di Doris è stata in viaggio per un anno. Gerson, suo marito, mi ha spiegato che non puoi più tornare indietro, una volta che sei riuscito a resistere a violenze di ogni sorta. La meta iniziale era Tamaulipas, lo stato messicano al confine con il Texas, ma anche lì sono stati vittime di estorsione e sequestro. Hanno provato due volte ad attraversare il confine mettendosi in contatto con i coyotes, i trafficanti di uomini che si fanno pagare fino a 12mila dollari per superare il confine.

I coyotes vengono trovati tramite passa parola, anche all’interno degli stessi centri di accoglienza, dove a volte riescono a entrare fingendosi dei migranti bisognosi, per reclutare persone promettendo passaggi sicuri di sola andata per gli Stati Uniti. I coyotes, chiamati anche polleros, sono dei moderni Caronte: traghettano le «anime» per denaro. Non solo per attraversare il confine Nord, ma per l’intera rotta migratoria che incomincia a Tapachula, nello stato del Chiapas, al confine con il Guatemala. La rotta dei migranti costituisce uno dei business più proficui per la criminalità locale.

A spiegarmi come funziona il lavoro dei coyotes è Gerson, che mi mostra i messaggi con cui si accordava sul pagamento: una parte viene pagata in anticipo e la seconda una volta arrivati sull’altro lato. Come prova della presunta affidabilità vengono mandati dei video di chi è riuscito a farcela. Anche loro, qualche mese prima, con un piccolo gommone di fortuna, hanno attraversato il Rio Grande riuscendo a entrare nello stato del Texas, per poi essere respinti dalla polizia di frontiera. Dopo l’elezione del nuovo presidente Joe Biden, fiduciosi in un repentino cambio di politiche migratorie, Gerson e Doris hanno ritentato. Questa volta via terra, senza paura di sfidare l’area desertica che separa il confine. Anche il secondo tentativo della famiglia è però fallito. Così, tornati alla Casa del migrante, hanno aspettato e sperato. All’inizio di marzo 2021, dagli Stati Uniti la loro richiesta di asilo è stata sbloccata e, finalmente, in aprile hanno avuto la possibilità di raggiungere dei familiari in Minnesota. Qui ha avuto inizio la loro nuova vita.

Un giovanissimo ospite davanti alla porta del refettorio della «Casa del migrante», a Tijuana, dicembre 2020. Foto Federica Mirto.

Storia di Moses

A tutt’oggi (almeno fino al 21 giugno 2021, ndr), il confine rimane chiuso. È da marzo 2020 che, in nome della sicurezza nazionale, non è più possibile entrare negli Stati Uniti. Inoltre, l’amministrazione Trump aveva strumentalizzato l’emergenza sanitaria per sospendere le richieste di asilo in corso, ma un cambio di rotta si sta avvertendo con la presidenza di Joe Biden.

La storia di Moses, forse più di altre, rappresenta la concretizzazione del sogno americano e della speranza di chi non ha mai perso la fede nel ritorno a politiche migratorie più umane. Il giorno dei risultati delle elezioni americane (a novembre 2020), tra lo scetticismo generale, era l’unico che saltava di gioia e mostrava orgoglioso la foto sul cellulare del neoeletto presidente Joe Biden e della sua vice Kamala Harris. Moses è un ragazzo di 32 anni originario del Ghana, unico ospite africano della Casa dove è rimasto per sei mesi. Era uno dei pochissimi che non parlava spagnolo e non aveva interesse a impararlo: dopo il lavoro preferiva leggere gli ultimi articoli sulla situazione politica e la legislazione americana in materia d’immigrazione. Ha lasciato il suo paese e suo figlio per inseguire il suo american dream e poter raggiungere il fratello nel Minnesota. Per lui gli Stati Uniti «sono un paese dalle illimitate possibilità sotto tutti gli aspetti della vita». Lo dice chiaramente: non è scappato perché il Ghana non sia un paese sicuro, ma perché vuole utilizzare i suoi studi in marketing, crescere a livello professionale e mandare i soldi alla famiglia. Nel 2017, con un biglietto aereo di sola andata, è arrivato a San Paolo in Brasile, dove ha lavorato per una compagnia per due anni. Ha poi intrapreso il lungo viaggio che lo ha portato fino a Tijuana. Moses ha seguito la rotta «tradizionale»: con un pullman è entrato in Nicaragua, poi in Guatemala tramite un coyote, una volta giunto a Tapachula, in Messico, è stato ospitato in un centro di accoglienza. L’attesa dei documenti per poter rimanere nel paese si è prolungata, ma senza demordere Moses è rimasto sei mesi nella città di frontiera del Sud per poi volare fino a Tijuana. Ci tiene a ripetere che non è stato facile, che ha studiato le leggi, che ha pregato e, soprattutto, che è stato perseverante. Uscito dalla Casa, il 27 gennaio 2021 con altri migranti che già avevano effettuato quel percorso, Moses ha attraversato il Rio Grande ed è entrato nel perimetro americano. Quando l’agente della polizia di frontiera gli ha chiesto di tornare indietro, ha continuato ad avanzare finché non sono stati costretti a portarlo alla stazione di frontiera dove è rimasto tre giorni per poi essere trasferito al South Texas detention complex di Pearsall, un centro di detenzione vicino a San Antonio. Dopo due mesi, si è presentato davanti alla corte senza essere rappresentato da un legale: il giudice gli ha approvato un visto temporaneo fino al 12 ottobre 2021, rinnovabile fino a quando si valuterà la sua domanda di asilo. Mentre al cellulare parliamo della sua nuova vita americana, mi manda una foto, quasi a dimostrarmi che bisogna sempre avere fede e non demordere. Come ha fatto lui che, al quarto giorno dal suo arrivo a Minneapolis, nel Minnesota, ha trovato lavoro presso la Smith Medicals, una compagnia che produce dispositivi medici, grazie alla segnalazione dei vicini di casa.

Un’ospite de El Salvador prepara le «pupusas», piatto tipico del suo paese. Casa del Migrante, Tijuana, novembre 2020. Foto Federica Mirto.

Doña Ricarda

Dentro la Casa, i vissuti e le storie vengono raccontate soprattutto nei momenti conviviali, come in cucina, quando le madri aiutano la cuoca della casa, doña Ricarda che, con lo sguardo, controlla come preparano i tamales e soprattutto, con il suo atteggiamento materno, ascolta, consola, consiglia e cerca di proteggere le sue niñas, come le piace chiamarle.

Federica Mirto*


Ritratto di padre Pat Murphy, direttore della «Casa del migrante» di Tijuana. Foto Casa del migrante-Tijuana.

Padre Pat Murphy

La soluzione? Una vita migliore

Il newyorkese padre Pat Murphy è direttore della Casa del migrante di Tijuana dal 2013. «La maggioranza delle persone arriva dal Sud del Messico e dall’Honduras. Con un desiderio in comune: scappare dalla violenza e dalla povertà».

Da tempo, sul fenomeno migratorio ha messo le mani la criminalità. «Sì – conferma padre Murphy -, perché questo è veramente un grosso affare. Il governo messicano non controlla e la corruzione è dilagante. Tutto ruota attorno al denaro». Gli chiediamo se, come missionari scalabriniani, collaborano con altri. «Naturalmente. Noi collaboriamo con la Chiesa locale e le altre chiese, anche se non tutti capiscono pienamente la sfida dell’emigrazione». Una sfida che, invece, è stata colta dal nuovo presidente statunitense. «Ma è presto per dire se con Biden la situazione sia cambiata. Noi però siamo pieni di speranza che le cose miglioreranno».

«Da anni io ripeto che la soluzione è molto semplice. Abbiamo necessità di sistemare le cose nei paesi di provenienza dei migranti affinché essi non abbiano necessità di emigrare. In altri termini, se si riuscirà a migliorare la vita al Sud, le persone non lasceranno le loro case».

Pa.Mo.

L’edificio che ospita il «desayunador» salesiano a Tijuana, città messicana sulla frontiera con la California. Foto Salesianos-Tijuana.

2/ Il «Proyecto salesiano» di Tijuana e i migranti

Tempi di resistenza

La pandemia ha complicato tutto: più bisognosi, meno donazioni, meno volontari. Anche per
i Salesiani della città di frontiera sono mesi duri. Ne parliamo con padre Leyva e Claudia Portela.

«A causa della pandemia abbiamo iniziato a offrire il cibo in scatole di polistirolo poiché le persone non possono mangiare nelle nostre strutture. Abbiamo realizzato una sorta di circuito che gli utenti sono obbligati a seguire prima di ricevere il cibo: si lavano le mani e si disinfettano con alcol. Soltanto dopo questa procedura preparatoria, ricevono una scatola con il cibo (bilanciato), la loro merenda (un pane o dei biscotti) e la loro bevanda (generalmente il caffè). Durante la pandemia abbiamo interrotto solamente il servizio di parrucchiere, ma adesso abbiamo ripreso anche quello. Come offriamo di nuovo le chiamate nazionali e internazionali gratuite».

Così raccontano padre Agustín Novoa Leyva, direttore del progetto salesiano di Tijuana, e Claudia Portela, amministratrice generale e coordinatrice del refettorio («desayunador salesiano padre Chava»).

Alle strutture dei Salesiani di Tijuana si presentano bisognosi di ogni tipo: persone senza fissa dimora (personas en situación de calle), migranti, deportati dagli Stati Uniti. «Nelle file per entrare nel refettorio – conferma Claudia – si possono incontrare uomini e donne di ogni età, bambini e adolescenti. Quelli che arrivano qui sono accettati indipendentemente dall’appartenenza, dall’età o dal sesso».

Con la pandemia, al refettorio salesiano di Tijuana, il cibo viene distribuito in contenitori di polistirolo. Foto Salesianos-Tijuana.

Nascita e servizi offerti

I Salesiani operano a Tijuana da 34 anni, ma il refettorio è nato 21 anni fa per merito del padre Salvador Romo Gutiérrez («padre Chava») coadiuvato dalla signora Margarita María Andonaegui Padilla. Ha iniziato a operare il 30 gennaio 1999 con 17 commensali che divennero presto 400 per due volte a settimana. Poi, 700 a fine 2001 e mille nel 2007 nella sede attuale. Dal 2010 il refettorio opera dal lunedì al sabato e serve tra le 1.200 e 1.500 persone al giorno. Numeri importanti, dunque.

«A chi bussa alla nostra porta offriamo da mangiare, servizio medico e psicologico, tagli di capelli, cambi d’abito, consulenza legale. Prima della pandemia, offrivamo seminari e avevamo accordi con le istituzioni locali affinché le persone potessero terminare gli studi o iniziare una carriera tecnica. Abbiamo anche un ostello maschile (albergue temporal), che attualmente ospita una trentina di uomini».

Tutti i servizi offerti dalle strutture salesiane sono gratuiti, anche per l’aiuto fondamentale dei volontari. «La maggior parte di quelli che lavorano alla mensa – spiega Claudia – sono volontari. Non abbiamo un numero esatto visto che ruotano sovente. Oggi, a causa della pandemia, il loro numero è diminuito, ma potremmo dire che ci sono circa 30 volontari permanenti».

Volontari salesiani (con mascherina) effettuano il servizio di barbiere per migranti e bisognosi, a Tijuana. Foto Salesianos-Tijuana.

I minori

Anche a Tijuana come altrove, il problema dei minori non accompagnati è una questione delicata. Padre Agustín e Claudia spiegano che, al centro, sono pochi i minori che si presentano da soli: la maggioranza arriva con un familiare o un altro accompagnatore. Quando accade che arrivino degli adolescenti, la cosa è problematica perché l’ostello salesiano è soltanto per adulti. Aperto nel 2010, l’ostello ha limiti di capienza e di permanenza. E regole precise: «Per essere ammessi è obbligatorio seguire alcune norme di convivenza. Tra queste, ci sono il non consumare droghe e alcol, aiutare nei lavori domestici e nel refettorio, attenersi agli orari di entrata e uscita».

Un ragazzo con un cappellino dei Salesiani di Tijuana. Foto Salesianos-Tijuana.

Biden e Kamala

Chiediamo un parere sul vicino di casa, sogno di tutti i migranti che arrivano a Tijuana. Il cambio alla Casa Bianca è visto con speranza. «A differenza della passata amministrazione – spiegano – , il governo di Joe Biden vede la questione dell’immigrazione come un problema delicato da affrontare quindi con molta attenzione. In primis, ha adottato politiche pubbliche più flessibili e umane». Approcci diversi da quelli di Trump, ma da verificare alla prova dei fatti.

Rispetto poi alle norme di protezione domestica, gli Stati Uniti – osservano i due interlocutori – dovrebbero addestrare i loro agenti a trattare con dignità e giustizia i migranti ma anche i criminali. Quanto ai migranti minori, entrati negli Stati Uniti al seguito di genitori privi di documenti, non hanno dubbi: «Non sono colpevoli. Dovrebbero avere la possibilità di legalizzare la loro posizione», spiegano.

In questi mesi i numeri ufficiali della migrazione verso gli Usa sono passati di record in record.

A inizio giugno, Kamala Harris ha compiuto il suo primo viaggio internazionale come vicepresidente Usa visitando il Guatemala (che, con Honduras e El Salvador, forma il «Northern triangle») e il Messico per promettere aiuti allo sviluppo che fermino il crescente esodo migratorio. Ma, soprattutto, per ripetere: «Do not come» (non venite!).

«Esiste una soluzione?», domandiamo a padre Agustín e Claudia. «La soluzione arriverà quando i governi dei paesi d’emigrazione miglioreranno le loro politiche, prendendosi cura dei propri cittadini e proteggendo i loro diritti. La maggior parte delle persone fugge per migliorare la qualità della vita, perché in patria non ha un lavoro o perché è minacciata o è costretta a far parte di bande criminali come nel Salvador. Solamente quando i governi affronteranno seriamente questi problemi, la migrazione potrebbe diminuire».

Sembra il classico uovo di Colombo, ma – volendo essere molto realisti -, questa soluzione richiede volontà politica, soldi e tempo. Avere tutto questo non pare né facile né immediato.

Paolo Moiola

Scarpe davanti al dormitorio della «Casa del migrante» tenuta dagli Scalabriniani di Tijuana. Foto Federica Mirto.

Fila di persone in attesa davanti al refettorio dei Salesiani di Tijuana. Foto Salesianos-Tijuana.

 




Messico: Un Progetto per la vita


testo e foto di Ramón Lázaro Esnaola |


Nello stato di Jalisco, nel centro del paese, l’associazione Mati e i missionari della Consolata  hanno ideato un progetto di accompagnamento psicologico, famigliare e giovanile.


Il progetto è sostenuto dagli AMICI MISSIONI CONSOLATA.
Il supporto di altri amici è benvenuto.


I missionari della Consolata sono arrivati in Messico nel dicembre 2008, e vi hanno creato due comunità: una a Tuxtla Gutiérrez, nello stato del Chiapas, nel Sud del paese, e l’altra a San Antonio Juanacaxtle, nello stato di Jalisco, nel centro Ovest.

Il Messico è un paese pieno di contrasti. Le persone sono amichevoli, accoglienti e generose. Orgogliose della loro identità culturale. Tuttavia, la realtà strutturale del paese è molto violenta, con più di ottanta omicidi al giorno. A ciò si aggiunge la situazione dei migranti centroamericani che l’attraversano per raggiungere gli Stati Uniti, e degli stessi migranti messicani che vivono quotidianamente tragedie al confine con il loro vicino del Nord (cfr. MC luglio 2019). Il machismo e l’alcol sono abitudini che aggravano ulteriormente la convivenza familiare e sociale.

San Antonio Juanacaxtle è un quartiere (qui si chiama rancho) situato a circa 25 km da Guadalajara, la capitale dello stato di Jalisco.  Secondo  il  censimento  del  2010,  attualmente  conta  poco  più  di  1.300  abitanti.  La maggior parte della popolazione è dedita all’allevamento del bestiame, e pratica l’apicoltura. Altri si occupano di agricoltura, soprattutto di mais e sorgo. Ci sono poi anche molti artigiani, ma sono persone che vivono di lavori occasionali, mentre solo un numero molto limitato ottiene un contratto.

Molte famiglie hanno parenti negli Stati Uniti che grazie alle rimesse danno un importante contributo anche per l’economia locale.

I missionari della Consolata lavorano anche nella colonia Atlas a Guadalajara, dove hanno una piccola sede per l’accompagnamento psicologico e spirituale. Due missionari di questa comunità, infatti, sono psicologi di formazione.

Le altre zone d’intervento sono Villas Andalucia, El Faro, La Esperanza e La Aurora. Le prime due sono agglomerati di edilizia popolare, creati appena sette o otto anni fa, molto popolati, con più di diecimila famiglie in totale. Le altre sono centri abitativi più vecchi e meno popolati. Siamo presenti qui per l’accompagnamento pastorale, familiare e giovanile a cui si dedica la comunità Imc, che a San Antonio Juanacaxtle non ha la responsabilità di una parrocchia, con la collaborazione dell’associazione Mati.

L’associazione della società civile Mati è nata dalla preoccupazione di alcuni professionisti, di diverse discipline, che hanno osservato nelle famiglie diverse situazioni di vulnerabilità, come la violenza di genere e domestica, la perdita di una persona cara, il cambiamento o la perdita del lavoro, il divorzio, la perdita di senso della vita e dei valori, la mancanza di identità personale, familiare e lavorativa, e altri ancora.

Queste situazioni riflettono problemi psicologici, sociali ed economici, nonché carenze affettive che limitano l’azione di queste famiglie le quali non hanno la possibilità di lavorare in profondità su questi problemi.

Mati fornisce consulenza e formazione, lavora per rafforzare l’identità delle persone e dare un significato nuovo alle storie di vita, alla ricerca di un benessere integrale, sostenere la resilienza e soprattutto curare, proteggere e sostenere le donne vittime di violenza.

L’associazione mette a disposizione di chi frequenta i suoi corsi di formazione, uno spazio in cui vengono forniti gli strumenti per il proprio sviluppo individuale. Offre un processo di apprendimento graduale in diversi ambiti del sapere, per una continua riflessione e crescita, con l’obiettivo dell’autorealizzazione personale e professionale.

Il progetto si propone, nel corso di un anno, di generare la consapevolezza della cura e della responsabilità verso le donne, la famiglia e la società.

Promuove, come prioritarie, le quattro dimensioni dell’essere umano  (psicologica, sociale, biologica e spirituale), in modo che ogni persona stabilisca o rafforzi il proprio progetto di vita come fondamento della propria stabilità emotiva e fisica e quindi della propria trasformazione sociale. Il progetto ha l’obiettivo di lavorare con cinquecento famiglie. Considerando che ogni nucleo familiare è generalmente composto tra le cinque e le sette persone, si vogliono raggiungere, in media 3mila individui.

I missionari della Consolata si occuperanno dell’identificazione delle famglie più vulnerabili, mentre l’associazione Mati realizzerà i corsi.

Questo progetto vuole fornire ai singoli e alle famiglie strumenti per una maggiore conoscenza di sé, per poter gestire i propri conflitti e i propri lutti e per cercare soluzioni a situazioni di violenza di genere e di violenza domestica.

La speranza è che le persone e le famiglie non solo sapranno ricostruire la propria vita, ma diventeranno anche un solido e supporto per altre famiglie che vivono esperienze di disagio simili a quelle che hanno vissuto loro.

Ramón Lázaro Esnaola

Gli Amici Missioni Consolata

sono impegnati a sostenere questo progetto con un contributo di 15mila euro anche se quest’anno – per la prima volta in oltre 30 anni – non è possibile fare la tradizionale «Mostra di solidarietà dell’Immacolata».
Chi volesse sostenere il progetto «Promuovi la vita difendi la donna», può dare il suo contributo con un versamento tramite Missioni Consolata Onlus. Grazie. Muchas gracias!






L’epopea dei migranti centro americani all’epoca di Trump

Sommario


Testo e foto di di Simona Carnino


Reportage da una carovana migrante

Umanità in movimento

Honduras, El Salvador, Guatemala, Nicaragua. Da questi paesi partono, senza sosta, donne, uomini, famiglie intere, con l’obiettivo di raggiungere gli Stati Uniti. Gente normale, in cerca di un futuro migliore, un sogno che sembra a portata di mano. Ma il viaggio è duro e pieno d’insidie. Così capita che si uniscano in decine, centinaia, diventando delle vere carovane migranti. Siamo andati in mezzo a loro.

Juan Rodríguez Clara, stato di Veracruz, Messico. Esmeralda si toglie le scarpe e le allinea vicino al materassino da campo, poi si siede sul suo sacco a pelo. Si prepara a trascorrere la notte in uno dei punti tappa che alcuni volontari messicani hanno organizzato lungo il cammino per chi, come lei, viaggia insieme a una delle carovane di migranti che dal Centro America si dirigono verso gli Stati Uniti.

Esmeralda ha trovato un angolo di pace tra una colonna e il muro di uno dei magazzini che a Juan Rodríguez Clara, un piccolo centro abitato nello stato di Veracruz in Messico, in genere sono adibiti alla fiera annuale dei bovini di allevamento. È una tappa di passaggio, ma è un luogo coperto in cui è possibile dormire e farsi una doccia. Divide il suo letto da campo con il marito Carlos, le sue due figlie gemelle Cecilia e Maria di 18 anni e il suo figlio maggiore Erin di 20 anni.

Le scarpe sono il bene più importante di Esmeralda. Nel suo piccolo zaino c’è spazio per due cambi di biancheria intima, due paia di pantaloni, due t-shirt e una felpa imbottita. Esmeralda sa che è meglio avere un indumento caldo, perché nelle zone desertiche del Messico, se di giorno il termometro può toccare i 35 gradi, la notte le temperature si irrigidiscono all’improvviso.

La mattina si sveglia prima che il sole sorga e prepara la sua borsa, arrotola il materassino e lo avvolge insieme al sacco a pelo in un unico fagotto che lega intorno alla testa. «In questo modo ho le mani libere per portarmi dietro una bottiglia d’acqua», dice ridendo.

Esmeralda è partita il 31 ottobre 2018 da San Salvador alla volta degli Stati Uniti, insieme a 2mila connazionali, uno dei molti gruppi di migranti che, in quel periodo, si sono organizzati in carovane per attraversare il Messico e raggiungere la frontiera Nord. Esmeralda non ha una destinazione chiara in mente. Sa solo che in Salvador non vuole tornare.

Carovane: organizzazione spontanea

«Un giorno, mentre navigavo su Facebook, ho visto che alcuni miei connazionali si davano appuntamento in piazza Salvador del Mundo, al centro di San Salvador, per partire insieme verso gli Stati Uniti – racconta Esmeralda -. Io e mio marito abbiamo spesso pensato di lasciare il nostro paese, ma non si era mai presentata un’occasione favorevole. Appena saputo della carovana, abbiamo fatto i bagagli e siamo partiti con i nostri figli».

La carovana che si è messa in marcia il 31 ottobre, è stata la quarta di un ciclo di migrazioni massive che si sono verificate tra ottobre e novembre del 2018 da Honduras, Salvador e Guatemala, i tre paesi dell’area denominata Triangulo norte centroamericano, la regione di origine della maggior parte del flusso migratorio latinoamericano diretto verso gli Stati Uniti.

La prima carovana è partita il 18 ottobre da San Pedro Sula in Honduras e a ruota sono seguiti tre gruppi partiti dal Guatemala e dal Salvador. Diecimila persone hanno deciso di autogestire il proprio viaggio, invece di affidarlo alle reti del traffico di persone dei coyotes (come vengono chiamati i trafficanti, ndr), che si occupano tradizionalmente del trasbordo di persone dal Sud verso il Nord America. «Sembra un numero enorme, ma se consideriamo che in Messico transitano più di 400mila persone all’anno, si tratta di un flusso equivalente a circa 10 giorni – spiega Marta Sanchez Soler, presidentessa del Movimento migrante mesoamericano -. La novità è che i migranti della carovana hanno deciso di essere visibili e viaggiare in forma più sicura ed economica, rifiutandosi di pagare un alto prezzo a un trafficante per poter arrivare negli Stati Uniti».

Migrare in gruppo è diventato uno nuovo modo di viaggiare per molte persone centroamericane, che si sentono più protette dalla minaccia di estorsioni e sequestri da parte dei narcotrafficanti e a volte degli stessi coyotes, che hanno trovato nella migrazione di migliaia di centroamericani una fonte di guadagno.

Le carovane sono un porto sicuro in particolare per famiglie, donne e bambini che sono più esposti a violazioni dei diritti umani sulla tratta migratoria messicana. Più del 50% delle persone che migrano in gruppo sono famiglie spesso con minori di età inferiore ai 5 anni. Dal 2018 la migrazione dal Centro America, storicamente rappresentata da uomini soli, ha il volto delle famiglie, come dimostrato dai dati delle detenzioni sulla frontiera con gli Stati Uniti. Nei primi sei mesi dell’anno fiscale 2019 (ottobre 2018 – marzo 2019) le pattuglie di frontiera statunitensi hanno detenuto 189.584 famiglie. Il più alto dato di sempre.

La frontiera

«Viaggiare in carovana è più sicuro che migrare con i coyotes – continua Esmeralda -. Ma è ugualmente molto duro e faticoso. A volte camminiamo dalle 10 alle 12 ore sotto il sole, altre volte facciamo l’autostop. Il momento più difficile è stato superare la frontiera tra Guatemala e Messico. Non potevamo passare sul ponte perché non avevamo il visto e allora abbiamo attraversato la frontiera nel fiume. La polizia ha cercato di fermarci, ma eravamo tantissimi e non c’è riuscita».

In America Latina, i migranti che non possono dimostrare i requisiti economici necessari per ottenere un regolare visto di entrata in Messico e Stati Uniti e che quindi devono muoversi di nascosto sulla rotta terrestre, usano l’espressione «irse de mojado» che letteralmente significa «viaggiare da bagnati», perché sanno che dovranno attraversare a nuoto dei fiumi per superare le frontiere. Il confine tra Stati Uniti e Messico è rappresentato, per una lunghezza di 3.034 km, dal Rio Bravo, mentre tra Guatemala e Messico è il fiume Suchiate a segnare una parte di frontiera per 161 km.

«A volte credo che una parte di me sia rimasta nel fiume Suchiate – racconta Cecilia, la figlia di Esmeralda -. Le gambe affondavano nel fango e non avevo energia né per andare avanti né per tornare indietro. Alcuni pescatori ci hanno aiutate, ma quell’esperienza mi ha segnata per sempre».

Sequestri e desaparicion

Camminare non è l’unico modo in cui si muove la carovana. Molti migranti hanno, infatti, provato a fare l’autostop e chi ha qualche soldo ha comprato un biglietto del bus. Numerosi camionisti si sono resi disponibili a dare un passaggio a gruppi di migranti, aiutandoli a compiere alcuni tratti di strada. A fine ottobre 2018, sebbene la migrazione in gruppo renda meno vulnerabili i migranti di fronte a violenze ed estorsioni, un camionista ha rapito 50 persone, e il furgone, con il suo carico di esseri umani, è scomparso nel nulla nella regione di Veracruz, a ovest del Messico. «Il sequestro di migranti è un affare multimilionario per i cartelli del narcotraffico che gestiscono il traffico di merci, di droga e, oggi, anche le rotte migratorie – spiega il difensore dei diritti umani padre Alejandro Solalinde (si veda MC ottobre 2017) incontrato in mezzo alla carovana -. Le persone che non hanno accesso a un visto sono invisibili e obbligate ad attraversare il Messico in punti isolati, purtroppo spesso controllati da narcos e briganti, per non essere catturate dalla polizia dell’Istituto nazionale di migrazione messicano che le può deportare nel paese di origine. Ogni 6 mesi si verificano 10mila sequestri di migranti, con un’entrata economica per il narcotraffico di 25 milioni di dollari al semestre».

Il sequestro dei migranti è una pratica realizzata negli ultimi anni in particolare dal gruppo di narcotraffico denominato Los Zetas e dal cartello del Golfo. Nonostante le condizioni economiche precarie dei migranti che viaggiano sulle rotte della clandestinità, in genere i narcotrafficanti richiedono un riscatto di 10mila dollari a persona che le famiglie nel paese di origine provano a pagare contraendo debiti con conoscenti, parenti e con le banche che spesso si appropriano delle loro case e terreni in caso di mancata restituzione del prestito. Chi non riesce a pagare il riscatto rischia di non vedere mai più il proprio caro che spesso viene ucciso.

Esmeralda e la sua famiglia sono consapevoli dei rischi del percorso migratorio, ma non vogliono tornare indietro. «San Salvador è una città pericolosa – ricorda Esmeralda -, ogni giorno c’è un omicidio. Tutti noi salvadoregni abbiamo un parente che è stato ucciso dalle bande criminali e non voglio che questo accada ai miei figli».

La vita in Salvador: las pandillas

Eriberto ha 22 anni e annuisce con la testa. Sta sistemando il suo piccolo bagaglio e intanto ascolta in silenzio le parole di Esmeralda. Il suo bene più importante è un inalatore. Eriberto ha l’asma e prima di partire si è comprato tre spray predosati, convinto che sarebbero stati una scorta sufficiente per il viaggio. È timido e rimane un po’ in disparte. Il suo sguardo è basso e il suo dolore è stretto tra le labbra che mordicchia nervosamente. «Avevo un autolavaggio a San Salvador – inizia a raccontare il ragazzo -. Poi le bande criminali mi hanno chiesto il pizzo. Non ho pagato. Ho chiuso il negozio per un po’ e quando l’ho riaperto due persone sono entrate e hanno ucciso un mio cliente. Poi non gli è bastato e hanno ammazzato anche mio fratello».

Secondo il Consiglio nazionale della piccola impresa del Salvador, il 92% del settore imprenditoriale è vittima di estorsione da parte di due bande criminali, las pandillas Mara Salvatrucha MS-13 e Barrio 18 (si veda dossier su MC aprile 2016). Le due fazioni sono antagoniste e alimentano una guerra intestina giocata sulla pelle dei cittadini che spesso si trovano coinvolti in sparatorie tra le vie della città. Il Salvador chiude il 2018 con un tasso di 51 omicidi ogni 100mila abitanti, un numero sicuramente inferiore alle quasi 83 morti violente ogni 100mila persone del 2016, ma si tratta comunque di una cifra superiore ai 10 omicidi ogni 100mila che, secondo i parametri dell’Organizzazione mondiale della Sanità, è il limite sopra il quale la violenza è considerata endemica. Il Salvador è uno dei paesi, dove non è presente un conflitto armato, più pericolosi del mondo insieme a Honduras e Guatemala. Molte ragazze e ragazzi tra i 12 e i 16 anni sono obbligati ad affiliarsi a una delle due bande criminali. Rifiutarsi equivale a dichiarare guerra al clan e la punizione è la morte.

Le due pandillas Mara Salvatrucha MS-13 e Barrio 18 sono nate negli Stati Uniti tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. I loro membri storici erano migrati in America del Nord negli anni precedenti e durante la guerra civile degli anni Ottanta. Con l’inasprimento delle politiche migratorie statunitensi degli anni Novanta, molti criminali sono stati deportati in Centro America, con un aumento di violenza nei paesi di origine.

La carovana e i diritti Lgbti

Tra i gruppi più vulnerabili alle violenze delle pandillas rientrano le persone appartenenti alla comunità Lgbti (lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuali, ndr). Eriberto non nasconde il suo orientamento sessuale e racconta le violenze subite per il fatto di essere stato un membro attivo della comunità lgbti nella capitale salvadoregna. Negli ultimi tre anni sono state assassinate 145 persone della comunità gay, secondo i dati dell’ufficio della Diversità sessuale del governo del Salvador. Numeri simili sono registrati anche in Honduras e Guatemala, dove la diversità sessuale deve fare i conti con la discriminazione e l’intolleranza che affonda le sue radici in schemi tradizionali e patriarcali. «Sono circa 700 le persone omosessuali partite con le carovane negli ultimi due mesi – continua Eriberto -. Tutti noi vorremmo chiedere asilo politico negli Stati Uniti o in Canada».

Da quando il presidente Donald Trump ha dichiarato di voler attuare una politica di tolleranza zero contro l’immigrazione illegale, alcuni migranti hanno deciso di provare ad attraversare clandestinamente gli Stati Uniti per raggiungere il Canada. Secondo i dati dell’Unhcr, nel 2017 il Canada ha registrato 47.800 richieste di asilo politico, il doppio rispetto all’anno precedente. Nel 2019, il governo degli Stati Uniti ha affermato che verranno accolti non più di 30mila rifugiati politici, a fronte di un tetto di 45mila per l’anno 2018. Coloro che non ricevono un permesso per rimanere negli Usa sono deportati nel paese di origine.

Nonostante la politica di tolleranza zero di Trump sembri bloccare le strade all’arrivo di nuovi migranti, il flusso centroamericano è in continuo aumento. Per molte persone ha più peso la volontà di fuggire dai propri paesi che il timore di essere rifiutati nello stato di destinazione. E quindi se anche molti sanno che forse non riusciranno a ottenere un permesso, sperano di superare il confine di notte, senza essere intercettati dalle pattuglie di frontiera statunitensi, per poi sparire da qualche parte negli Stati Uniti dove si augurano di non incrociare mai un agente che chieda loro i documenti.

La deportazione dei migranti, attività svolta anche dall’amministrazione Obama e dai presidenti precedenti, avviene non solo in frontiera, ma anche dall’interno del paese. Può succedere che una persona viva anni negli Stati Uniti senza una regolare documentazione e, in seguito a un illecito, anche minore, come per esempio un eccesso di velocità, sia identificato e deportato nel paese d’origine.

Secondo l’ultima statistica del Pew Research Center del 2016, 10,7 milioni di persone considerate irregolari vivono, lavorano e hanno costruito la propria vita negli Stati Uniti. Circa 4 milioni di bambini americani sono nati da genitori senza documenti, i quali non possono richiedere una regolarizzazione del proprio status migratorio per motivi di famiglia. Lo sa bene Teresa. Una donna salvadoregna di 29 anni che viaggia nella carovana da sola. Il suo bene più importante è una foto delle sue tre figlie che vivono negli Usa.

 

I figli statunitensi

Teresa è partita per gli Stati Uniti nel 2006. È riuscita a superare la frontiera senza essere intercettata dalla polizia ed è arrivata in Virginia. Ha lavorato come cameriera in un fast food fino al 2017. Teresa non è mai riuscita a ottenere un visto lavorativo, né la green card (permesso di lavoro, ndr). Durante gli 11 anni di vita negli Stati Uniti ha avuto tre figlie che sono americane, perché negli Stati Uniti vige lo Ius soli, il diritto alla cittadinanza di un paese per nascita sul suo territorio. Il 14esimo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, approvato nel 1868, infatti recita che «tutte le persone nate o naturalizzate negli Stati Uniti, e soggette alla sua giurisdizione, sono cittadine degli Stati Uniti e dello stato in cui risiedono». Il presidente Donald Trump ha pubblicamente dichiarato l’intenzione di battersi per l’abolizione dello Ius soli che interpreta come un incentivo alla immigrazione illegale, ma secondo un sondaggio condotto dal Wall Street Journal, il 65% degli statunitensi si è detto in disaccordo con lui.

«Sono felice che le mie bambine siano americane – racconta Teresa con la tenerezza che emerge dal sorriso -. Possono viaggiare in tutto il mondo e non devono vivere una vita come la mia». Nel 2017 Teresa è dovuta ritornare in Salvador per un’emergenza famigliare. Ha messo le sue figlie su un aereo e lei è tornata via terra, perché i controlli aeroportuali avrebbero svelato la sua mancanza di documenti. «Mi mancavano molto il Salvador e i miei affetti – racconta Teresa -. Ho colto l’occasione per capire se fosse possibile ritornare a vivere lì con le mie figlie. Siamo rimaste tre mesi, poi un giorno ho assistito a un omicidio per la strada e ho testimoniato in tribunale. Da lì ho capito che non sarei stata più sicura e ho rimandato le mie figlie negli Stati Uniti. Ora viaggio nella carovana perché voglio assolutamente tornare da loro che sono in Virginia con il loro padre».

Esmeralda, Eriberto e Teresa e tutti i migranti che non solo viaggiano in carovana, ma che ogni giorno migrano sulle rotte messicane con un coyote, sono uniti dallo stesso obiettivo. La volontà di cambiare, di migliorarsi, di vivere la vita che non hanno potuto costruire in un paese piegato dalla violenza, dalla precarietà e dall’abbandono da parte delle istituzioni. E non c’è un muro reale o virtuale che li può fermare. La violenza della polizia, il rischio di essere sequestrati dai narcos o la retorica anti migrante del governo degli Stati Uniti non sono motivi sufficienti a far cambiare i piani a chi ha deciso di lasciare la sua terra di origine.

E allora si torna a camminare. Teresa mette le foto delle sue tre bambine in un piccolo marsupio che appende al collo. La strada è ancora lunga. L’obiettivo è Tijuana e poi da lì si separeranno. Nei pressi della frontiera statunitense, le carovane si disgregano perché, quando è ora di attraversare la frontiera, tutti sanno che dovranno farlo in maniera nascosta e allora per sé. Eriberto ed Esmeralda sono convinti di voler chiedere asilo, ma Teresa sa già che è molto difficile ottenerlo. Lei pagherà qualcuno che la aiuti a fare l’ultimo pezzo di viaggio e la porti in Virginia. Perché deve arrivare a tutti i costi. «O sì o sì», come si dice in America Latina quando si è determinati a ottenere qualcosa. Non c’è spazio per l’opzione inversa. Teresa crede così.

Tijuana e oblio

Da novembre 2018 a oggi, Tijuana, città di frontiera, è diventata il punto nel quale i migranti della carovana aspettano prima di chiedere asilo negli Stati Uniti. Tijuana è un’area geografica controllata dal narcotraffico per la sua posizione strategica per il traffico di droga verso gli Stati Uniti.

Da gennaio 2019, l’amministrazione Trump ha proposto una nuova misura di contenimento della migrazione, denominata «Protocolli di protezione ai migranti». Stabilisce che i richiedenti asilo devono aspettare la conclusione del procedimento legale in territorio messicano. Nell’attesa, alcuni migranti hanno richiesto un visto umanitario in Messico e molti lo hanno ottenuto. Dal 1 dicembre 2018 il presidente messicano è Andrés Manuel López Obrador, che ha favorito la consegna di circa 10mila visti umanitari a migranti centroamericani che desiderano rimanere in Messico. Il governo di Obrador apparentemente dimostra una discontinuità rispetto all’amministrazione di Enrique Peña Nieto, tuttavia al momento non è stato smantellato l’Istituto nazionale di migrazione messicano che continua a esistere con 50 stazioni migratorie disposte sull’intero territorio nazionale, dove i migranti rischiano di essere incarcerati, prima di essere deportati. Fino a oggi, infatti, il Messico ha seguito le stesse direttive migratorie degli Stati Uniti e rappresenta il primo posto di blocco per i migranti senza documenti diretti in America del Nord. Viene chiamata frontiera verticale, perché tutto il territorio messicano è disseminato di centri di controllo migratorio.

A Tijuana si sono perse le tracce di molti migranti delle carovane. Qualcuno sarà arrivato a destinazione, riuscendo a evitare i controlli frontalieri. Qualcuno forse avrà deciso di rimanere in Messico e di provare a chiedere asilo in quel paese. Qualcuno sarà stato deportato nel suo stato d’origine dalle autorità statunitensi. Altri ancora vivono a Tijuana, in attesa di una risposta alla loro richiesta d’asilo.


La storia di Wilson, Francisco, Sabina

Nell’aprile del 2018, il governo degli Stati Uniti dichiarò di voler applicare una politica di tolleranza zero e perseguire penalmente tutti i migranti entrati senza documenti in territorio statunitense.

Le separazioni delle famiglie, catturate mentre provavano a superare la frontiera, sono state una delle conseguenze più dure dell’applicazione della politica di contenimento della migrazione considerata illegale. La pratica prevedeva che i genitori, in quanto maggiorenni, fossero trasferiti in carcere in attesa del processo. I bambini, invece, erano inviati in centri appositi per minori.

«Quando mi hanno strappato dalle braccia mio figlio Wilson di 7 anni, gli agenti della polizia di frontiera non mi hanno neppure detto dove lo avrebbero portato – ricorda Francisco Raymundo Bernal, giovane papà guatemalteco -. Wilson piangeva e anche io, ma in pochi minuti è scomparso dalla mia vista e io non sapevo cosa fare. La polizia mi diceva di stare zitto, perché mio figlio sarebbe stato bene, mentre io sarei andato in prigione». La storia di Francisco e Wilson è simile a quelle di altre famiglie centroamericane, che a partire da aprile 2018 hanno vissuto sulla propria pelle una delle conseguenze più dolorose della politica di tolleranza zero.

«Da aprile a settembre 2018, 6mila unità famigliari sono state separate in frontiera – spiega Carolina Jimenez di Amnesty International Las Americas -. Si tratta di tortura vera e propria che ha generato dei traumi insostenibili per i genitori e per i minori. E se per separare le famiglie è bastata una manciata di minuti, per poterle riunificare, invece, sono serviti mesi».

Il 20 giugno 2018, il presidente Donald Trump, sotto la pressione della comunità internazionale e di alcuni democratici del Congresso Usa, ha revocato la pratica di separazione delle famiglie con un ordine esecutivo, tuttavia, la procedura ha continuato a esistere fino a marzo 2019. La riunificazione delle famiglie è stata un procedimento complicato, perché il numero delle persone coinvolte era molto alto e la separazione è avvenuta in maniera frettolosa, aspetto che ha reso molto difficile dimostrare, successivamente, le parentele.

«Ho potuto parlare con mio figlio dopo tre settimane che ci avevano separato – spiega Francisco, il padre di Wilson -. Ero in carcere e mi stavano processando per poi deportarmi. Io volevo che mi rimandassero in Guatemala con mio figlio, ma non è stato così. Lui è ritornato a casa molto dopo di me».

Per poter riunificare le famiglie, le autorità migratorie statunitensi richiedono ai famigliari tutti i documenti anagrafici necessari per dimostrare la paternità. La madre di Wilson, che si trovava in Guatemala, ha dovuto cercare documenti non facili da reperire nel villaggio di cui sono originari. Le pratiche anagrafiche hanno un alto costo, aspetto che ha reso ancora più complicata e lunga la riunificazione.

«Ho fatto di tutto per riavere mio figlio tra le mie braccia – spiega Sabina Brito, la mamma di Wilson -. Ho mandato negli Stati Uniti diversi documenti, ma ci sono voluti 5 mesi prima di poter rivedere Wilson che è rimasto da solo per tutto quel tempo».

Wilson ha vissuto da settembre 2017 a fine gennaio 2018 in un centro per minori in Michigan. I genitori di Wilson, che avevano pensato di migrare in due gruppi, prima il papà con il bambino e, in una seconda fase, la mamma con la secondogenita, hanno saputo del luogo in cui è stato tenuto in custodia Wilson quasi un mese dopo la separazione.

Oggi Wilson vive in Guatemala con i suoi genitori, che stanno provando a ricrearsi una vita nel loro villaggio. «La ferita di questa vicenda non si può rimarginare – spiega Francisco -. Ora stiamo provando a sopravvivere qui, ma il lavoro è poco e malpagato. Non torneremo negli Stati Uniti, ma spesso pensiamo di migrare in Europa o, chissà, in Canada, perché qui non riusciamo a guadagnare sufficientemente per far studiare i nostri figli».


Il potere del passaporto

Molti centroamericani fanno domanda di visto per gli Usa. Ma per i poveri, gli indigeni, i senza reddito, è praticamente impossibile ottenerlo. E i loro passaporti non sono sufficienti per transitare in Messico, Stati Uniti e Canada. Viaggio in Guatemala, tra i Maya Ixil, per raccontare storie di chi ha tentato di rincorrere il sogno.

Nebaj, provincia di Quiché, Guatemala. Era un giorno di primavera in Guatemala. L’aria era calda e il cielo terso, come quasi sempre nei giorni della Semana Santa che precedono Pasqua.

Erano settimane che Petrona stava aspettando una risposta. Era emozionata e fiduciosa.

Qualche tempo prima, aveva fatto richiesta di un visto per viaggiare regolarmente verso gli Stati Uniti. In quell’occasione, era stata intervistata sulle sue motivazioni da un impiegato dell’ambasciata statunitense. Alla fine dell’incontro, il funzionario le aveva fissato un nuovo appuntamento per ricevere l’esito della sua domanda.

Nei progetti di Petrona c’era una vita statunitense, di duro lavoro, ma anche di tante soddisfazioni. Immaginava una terra nuova, dove poter guadagnare sufficientemente da riuscire, un giorno, a ritornare in Guatemala, costruire una casa per la sua famiglia e aprire una piccola attività commerciale. In più, il suo fidanzato, originario come lei della regione maya ixil nel Guatemala occidentale, era negli Stati Uniti da due anni e lei non vedeva l’ora di raggiungerlo.

Il giorno della risposta, Petrona si era svegliata alle 2 del mattino per essere sicura di salire sulla prima corriera e arrivare in tempo al suo appuntamento all’ambasciata degli Stati Uniti. «Ero piena di speranza – racconta Petrona -. Ma quando l’impiegato mi ha chiamato, mi ha semplicemente consegnato dei fogli e mi ha detto che mi era stato negato il visto. Non mi ha spiegato nient’altro. Io non capivo perché e dalla disperazione ho rotto i fogli e mi sono messa a piangere. A quel punto ho capito che avrei dovuto trovare un altro modo per andare negli Stati Uniti».

Secondo i dati del 2017 dell’Organizzazione mondiale per le Migrazioni (Oim), solo un 21,3% dei guatemaltechi che vive negli Stati Uniti ha viaggiato verso il paese in aereo, con un regolare visto. Tutti gli altri hanno attraversato le frontiere terrestri per entrare in Messico e, in seguito, negli Stati Uniti.

Passaporti e visti: asimmetrie

Senza visto, a poco vale possedere un passaporto del Guatemala, Honduras, Salvador o Nicaragua, se l’intenzione è viaggiare verso gli Stati Uniti. Le persone centroamericane che intendono muoversi legalmente verso il Nord devono richiedere un visto direttamente alle ambasciate dei paesi di destinazione, che decidono chi ha accesso ai propri paesi sulla base di alcuni requisiti. Per transitare in Messico si può richiedere un permesso direttamente all’ambasciata del paese oppure mostrare alla frontiera un visto statunitense, che è accettato anche in territorio messicano.

«Per ottenere un visto regolare per transitare in Messico e Stati Uniti bisogna dimostrare alcuni requisiti economici, tra cui avere un lavoro formale con uno stipendio regolare e possedere alcune proprietà come casa, terreni e automobile – ci spiega Ursula Roldàn Andrade, coordinatrice dell’area migrazioni dell’Istituto di ricerca sociale dell’Università Rafael Landívar di Città del Guatemala -. Per un migrante economico è praticamente impossibile avere o provare tali requisiti e, di conseguenza, ottenere un visto. Se non lo ottiene, è facile che ricerchi modi alternativi per raggiungere gli Stati Uniti, come affidarsi alle reti di trafficanti, ma in questo caso il viaggio è molto caro e rischioso».

Nel mondo contemporaneo, non tutti i passaporti danno ai loro possessori lo stesso potere di circolazione. Nel 2019, ad esempio, con un passaporto degli Stati Uniti è possibile viaggiare liberamente, senza bisogno di visto in 165 paesi, inclusi il Messico e tutti gli stati dell’America Centrale. Al contrario, il movimento dal Sud al Nord è controllato dall’obbligo di visto.

Anche i passaporti europei hanno un elevato potere di circolazione visa free. Secondo i dati del Passport Index 2019, la classifica annuale dei passaporti secondo il loro potere di circolazione senza richiesta di visto, con un passaporto italiano è possibile viaggiare in 166 paesi, così come con quello portoghese, irlandese, olandese o svedese. Con un passaporto siriano, invece, ci si muove liberamente in 37 paesi e con uno afghano in 30. Molti passaporti dei paesi dell’Africa del Nord e centrale forniscono ai loro possessori una possibilità di viaggio molto limitata. Avere un passaporto dal basso potere di circolazione senza  visto non ha un effetto deterrente su chi si sente forzato a migrare, lo obbliga, anzi, ad affidarsi a reti illegali di trafficanti, esponendosi a conseguenze violente per la propria integrità fisica, psicologica e identitaria.

Con un passaporto europeo è possibile viaggiare facilmente anche negli Stati Uniti, usufruendo del Visa Waiver Program con una possibilità di permanenza di 90 giorni. In poche ore si può ottenere l’autorizzazione elettronica Esta a un costo di 14 dollari. Chi usufruisce del visto turistico non può lavorare nel paese, tuttavia ha una possibilità maggiore, seppur le procedure siano alquanto complicate, di modificare il proprio status migratorio in loco, magari ottenendo un visto lavorativo o di studio, rispetto a chi entra nel paese in forma irregolare.

Quanto costa il viaggio

In media il costo del viaggio dall’America Centrale agli Stati Uniti per chi possiede un visto oscilla tra i 500 e i 1.000 dollari, includendo il prezzo del biglietto aereo e delle pratiche burocratiche per la richiesta del documento. Chi si deve affidare alla rete del traffico di persone gestito dai coyotes paga tra i 12mila e i 15mila dollari per un trasbordo in parte realizzato in camion in parte a piedi. In genere, un viaggio dal Centro America dura tra i 15 giorni e un mese. Negli ultimi anni, i coyotes propongono un pacchetto chiamato «viaggio di tre tentativi sicuri» per un prezzo che si aggira intorno ai 15mila dollari. In questo caso, se il migrante viene catturato dalla polizia di frontiera messicana o statunitense, una volta deportato nel paese d’origine, ha ancora a disposizione due tentativi.

Anche Isabel vive a Nebaj e ha 25 anni. Non conosce Petrona, ma hanno una vita simile. Entrambe hanno tentato di andare negli Stati Uniti. Entrambe sono state forzate a scegliere di viaggiare affidandosi alle reti del traffico gestito dai coyotes. «Non c’era scelta – racconta Isabel -. Io non ho neppure il passaporto perché so che tanto poi non mi danno il visto, per cui non ha senso farselo. Ho speso circa 10mila dollari per il mio viaggio negli Stati Uniti con il coyote e ho dovuto chiedere un prestito a una banca». La maggior parte delle persone che migrano dall’America Centrale non ha la possibilità di pagare il viaggio, per cui richiede prestiti a banche e cooperative, fornendo come motivazione la necessità di ingrandire casa o comprare un terreno. Se viene ottenuto il prestito, la famiglia del migrante deposita sul conto bancario del coyote parte del costo del viaggio alla partenza e il resto all’arrivo.

In alcuni casi i coyotes si trasformano in usurai e permettono ai migranti di rateizzare il costo del viaggio e pagarlo mentre lavorano negli Stati Uniti, a fronte di interessi molto alti. Chi non paga rischia di rimanere indebitato tutta la vita e di perdere, in caso ne abbia, appezzamenti di terreni famigliari e piccole proprietà, aggravando le proprie condizioni economiche.

Perché migrare

«Qui in Guatemala, io ricamo, rammendo vestiti e cucio – racconta Isabel -. Guadagno circa 450 quetzales al mese (58 Usd). Con questi soldi riesco a comprare il cibo per me e mio figlio, ma niente più di questo».

Il Guatemala si situa al nono posto al mondo, e al terzo in America Latina, per disuguaglianza nella distribuzione del reddito. Questo è evidente nei salari delle donne indigene che, lavorando come tessitrici informali, in genere guadagnano 50 dollari al mese a fronte di un salario minimo nazionale di 350.

«Tre persone su dieci dell’area maya ixil provano a migrare negli Stati Uniti – spiega Francisco Marroquin dell’organizzazione di diritti umani Asaunixil di Nebaj -. Lo stato guatemalteco non si è impegnato a generare nuovi posti di lavoro. Qui non ci sono attività commerciali e le infrastrutture, come le scuole e gli ospedali, sono mal gestite».

Il Guatemala ha vissuto un conflitto armato interno tra il 1960 e il 1996 (vedi MC giugno 2019). L’esercito, appoggiato dagli Stati Uniti, si è scontrato per più di 30 anni contro la guerriglia e la resistenza dei civili. Tra il 1982 e il 1983, l’esercito ha programmato una fase genocida contro il popolo indigeno maya ixil e la quasi completa distruzione del territorio. «Con la firma degli accordi di Pace nel 1996, in teoria lo stato guatemalteco avrebbe dovuto ricostruire le nostre comunità – continua Francisco Marroquin -. Ma purtroppo non ha fatto nulla e la gente ha cominciato a disperarsi e a cercare una via di fuga da qualche altra parte, come lavorare nelle piantagioni o, soprattutto negli ultimi 10 anni, migrare verso gli Stati Uniti».

L’Oim ha confermato un aumento della migrazione femminile guatemalteca in fuga da una situazione economica precaria, e dichiara che il 55,2% della popolazione è spinta a migrare verso gli Stati Uniti per ricerca di lavoro e mancanza di opportunità nelle proprie comunità di origine.

Il cammino in Messico

«Il viaggio attraverso il Messico è stato triste e faticoso – continua Isabel -. I coyotes si approfittano delle donne che viaggiano da sole. A volte obbligano qualche ragazza ad appartarsi e cercano di mettere loro le mani addosso. Una donna in questa situazione cosa può fare? Quando si viaggia con i coyotes non puoi neppure gridare o chiedere aiuto, perché loro comandano e se vogliono ti abbandonano in mezzo al deserto o ti ammazzano».

Nel 2017 la Commissione economica per l’America Latina (organismo Onu, ndr) ha riportato che il 50,1% dei migranti provenienti dalla regione centroamericana sono donne e Amnesty International ha confermato che 6 donne su 10, obbligate ad affidarsi alle reti del traffico umano per raggiungere gli Stati Uniti, sono vittime di violenza sessuale da parte del crimine organizzato e, a volte, anche delle forze di polizia messicana. «L’Istituto nazionale di migrazione messicano ha commesso numerosi crimini contro la popolazione migrante – dichiara Carolina Jimenez, vicedirettrice ricerche di Amnesty International Las Americas -. In particolare, la polizia ha spesso estorto denaro ai migranti e ha collaborato con il crimine organizzato nella gestione del traffico e della tratta».

Il viaggio attraverso il Messico per i migranti senza documento è una sorta di corsa a ostacoli guidata da uno o più coyotes che, in certi punti del viaggio, dividono il gruppo di migranti in sottogruppi, per essere meno visibili alle forze di polizia messicana. Molto spesso le reti di coyotes fanno accordi con i cartelli del narcotraffico che gestiscono le rotte migratorie e pagano una sorta di tangente per transitare nei loro territori, come spesso accade nei dipartimenti di Veracruz e di Tamaulipas.

In alcuni casi vengono consegnati interi carichi di persone ai narcotrafficanti che li usano per richiedere il riscatto ai famigliari. Nel 2010 a San Fernando di Tamaulipas i narcos Los Zetas uccisero 72 persone i cui corpi furono poi impilati uno sull’altro ed esposti alle intemperie perché i famigliari non avevano la possibilità di pagare il riscatto.

«In Messico abbiamo camminato spesso di notte – racconta Petrona -. Dovevamo vestirci di nero in modo che non ci vedesse la polizia. Abbiamo attraversato fiumi, camminato tra le sterpi, ci hanno buttato uno sull’altro in camion bestiami. Poi un giorno, attraversando un fiume, una ragazza che viaggiava con me è caduta e la corrente l’ha trascinata a valle. Avevamo paura, ma andavamo avanti. Dovevamo arrivare negli Stati Uniti».

Ultimamente pochi migranti usano il treno per muoversi dal Sud del Messico fino alla frontiera con gli Stati Uniti. Fino a qualche anno fa, il treno denominato La Bestia era il mezzo di trasporto più frequentato. I migranti si sedevano sul tetto del treno fino alla frontiera con gli Stati Uniti. Oggi non è più utilizzato perché è diventato un mezzo troppo pericoloso. Per scoraggiare l’immigrazione sulle rotte messicane, il governo di Enrique Peña Nieto aveva deciso di aumentare la velocità del treno, rendendo più difficile reggersi. Inoltre, La Bestia era spesso assaltato da narcos e dagli agenti dell’Istituto nazionale di migrazione messicano.

«I narcos organizzavano i sequestri in maniera rapida ed efficiente – commenta il professore e scrittore Rodolfo Casillas della facoltà latinoamericana di scienze sociali (Flacso) -. Con la complicità dei coyotes, tutte le persone che avevano una famiglia in grado di pagare il riscatto e le ragazze giovani che viaggiavano da sole erano fatte sedere nello stesso vagone. Quando i narcos fermavano il treno, sequestravano solo le persone di quel vagone. L’operazione durava pochi minuti e poi il treno riprendeva il suo viaggio».

L’arrivo (non-arrivo) negli Stati Uniti

Superare indenni il Messico non è garanzia di successo del viaggio. «Pensavo di essere arrivata – racconta Petrona -. Dopo aver attraversato la frontiera, ero piena di gioia, ma improvvisamente ci sono venute incontro delle moto e dei quad e abbiamo capito che era la polizia degli Stati Uniti».

Entrare in territorio statunitense senza un regolare visto, è considerato un reato, punito con la detenzione e, in molti casi, la deportazione nel paese d’origine. Da quando il presidente Donald Trump ha iniziato il suo mandato, le misure di contenimento della migrazione considerata illegale si sono indurite. Secondo i dati dell’agenzia statunitense per le dogane e la sicurezza delle frontiere Customs and Border Protection (Cbp), tra ottobre 2018 e marzo 2019 si sono verificate 361.087 catture di migranti in frontiera, che corrispondono al dato più alto dal 2007.

Oltre ad aver predisposto la costruzione di un muro di cemento lungo la frontiera con il Messico, il presidente degli Stati Uniti ha eliminato la pratica del catch and release, «cattura e rilascio», spesso attuata dai governi precedenti. In quel caso, la persona entrata nel paese senza documenti era rilasciata, durante il procedimento legale per discutere il suo caso.

Con la politica di tolleranza zero dell’amministrazione Trump, tutti i migranti catturati sul confine sono detenuti fino al momento della deportazione o della liberazione, nel caso di ottenimento di permesso negli Stati Uniti. «È una forma di detenzione arbitraria – spiega Carolina Jimenez di Amnesty International -. Non c’è nessun motivo per tenere in carcere i migranti durante il processo, ma è la forma che usa il governo di Donald Trump per scoraggiare le persone a migrare. L’obiettivo è che queste persone, una volta deportate, raccontino quanto hanno sofferto e i loro parenti o conoscenti intenzionati a partire, rinuncino a farlo».

Una volta catturate sulla frontiera, le persone sono trasferite in celle di detenzione, dove inizia il processo di identificazione gestito dalla Cpb. «Mi hanno chiuso in una cella freddissima – racconta Isabel -. L’aria condizionata era al massimo e io avevo solo una maglietta a maniche corte. Sono stata lì con la luce accesa di notte e di giorno, senza sapere che ora era, per 5 giorni. Ero disperata». Le celle in frontiera sono chiamate dai migranti hieleras, ghiacciaie, perché le temperature sono tenute basse con l’utilizzo di condizionatori. In genere, le celle in frontiera non sono attrezzate con letti, perché considerate luoghi di passaggio in cui le persone dovrebbero essere detenute per poche ore. «Numerosi migranti hanno dichiarato di essere stati detenuti per molti giorni nelle hieleras – spiega la professoressa Ursula Andrade -. Le temperature basse servono, ufficialmente, per evitare il rischio di contagio, ma si tratta di una pratica inumana e degradante molto simile alla tortura».

Durante il procedimento legale in cui le autorità verificano se i migranti possono essere considerati titolari di protezione internazionale, le persone vengono trasferite in strutture detentive all’interno del paese. «In carcere, ho indossato l’uniforme arancione – racconta Petrona -. Come se fossi una criminale, come se avessi ucciso qualcuno, come se avessi rubato qualcosa. A un certo punto l’avvocato che seguiva il mio caso mi ha detto che non avevo diritto a uscire dietro cauzione, ma potevo fare appello e chiedere che rivalutassero il mio caso. Erano già 5 mesi che ero in carcere e non me la sono sentita. Ho quindi firmato la mia stessa deportazione».

Durante l’amministrazione Obama era possibile essere rilasciati dietro cauzione durante il processo, ma molti migranti non potevano pagarne il costo, per cui firmavano deportazioni volontarie per evitare di rimanere ulteriormente in carcere. «In prigione stavo sempre a letto, non mangiavo, vivevo con detenute violente che avevano commesso dei crimini gravi e io mi sentivo morire – racconta Isabel -. Ho chiesto di rimandarmi in Guatemala. Non ce la facevo più a vivere così».

Per chi riesce a superare la frontiera senza essere catturato, inizia la vita negli Stati Uniti che, in parte, verrà vissuta nel timore della deportazione. Nell’anno fiscale 2018, l’Ice, Immigration and Customs Enforcement, l’agenzia statunitense che si occupa del controllo di dogana e dell’immigrazione anche all’interno del paese, ha ordinato 287.741 deportazioni di persone senza documenti che vivevano nel paese. Si tratta del più alto numero di deportazioni dal 1992. Tra di loro c’erano persone che vivevano e lavoravano negli Stati Uniti da anni.

Secondo i dati Oim del 2017, il 37% dei migranti guatemaltechi non riesce ad arrivare negli Stati Uniti e viene deportato nel paese di origine. Oltre al peggioramento delle proprie condizioni economiche a causa del pagamento dei debiti di viaggio, la detenzione e la deportazione lasciano traumi individuali difficili da sanare e che spesso coinvolgono la dimensione collettiva, perché per molti la migrazione è un progetto di famiglia, più che personale.

Dopo la deportazione, Petrona e Isabel non hanno pensato di provare nuovamente a migrare negli Stati Uniti a differenza di molte altre persone che continuano a cercare una via di fuga dal loro paese di origine. Nonostante le violenze subite lungo il cammino e sulle frontiere, c’è chi vive più esperienze migratorie nel corso della propria vita, perché l’obiettivo rimane «arrivare dall’altra parte», come si dice in America Latina, anche se il prezzo è alto.

«Gli stati di origine, destinazione e transito della migrazione devono provare a collaborare per creare delle politiche a favore delle persone più vulnerabili economicamente in modo che non siano obbligate a migrare – conclude Carolina Jimenez di Amnesty International -. E in caso una persona volesse migrare, dovrebbero garantire che possa viaggiare in forma sicura, fornendole dei documenti regolari, invece di anteporre, come avviene ora, la protezione delle frontiere e della nazione ai diritti umani delle persone».


I nuovi desaparecidos

Maria Ceto Sanchez ha solo una fotografia di sua figlia. L’ha fatta plastificare in modo che non si rovini nel tempo. Ogni tanto la prende in mano e la lucida, quasi ad accarezzarla. Altre volte la ripone nell’unico mobile che ha in casa e la copre con un pezzo di stoffa. In quei momenti, Maria non ha la forza di guardare negli occhi sua figlia Angelina.

«Quando è partita per gli Stati Uniti, Angelina aveva 16 anni e 2 mesi. Nel nostro villaggio girava la voce che i minorenni riuscissero ad avere un permesso per vivere negli Stati Uniti – racconta Maria Ceto -. E allora mi ha detto che voleva partire. Io non ero d’accordo, perché è la più piccola delle mie figlie e sapevo che mi sarebbe mancata tantissimo, ma alla fine ho ceduto e le ho dato il permesso».

Angelina aveva il sogno di costruire una casa per sé e sua madre, perché l’abitazione dove era nata era di lamiera, ma a lei sarebbero piaciute le pareti di cemento. Aveva pensato a tutto. Sarebbe arrivata in Virginia, dove viveva una sua cugina, e avrebbe lavorato una decina di anni come cameriera in qualche ristorante.

«Dopo quel periodo voleva tornare – continua Maria -. Mi aveva detto che avrebbe avuto i soldi sufficienti per pagarsi la retta di una buona scuola a Città del Guatemala e saremmo state sempre insieme».

Angelina è partita per il suo viaggio, insieme a un coyote, il 24 maggio del 2014. Pochi giorni dopo ha telefonato a sua madre Maria per dirle che stava bene ed era in procinto di entrare nel deserto di Altar Sonora da dove avrebbe attraversato la frontiera.

«Quella è stata l’ultima volta che le ho parlato – continua Maria -. Mi diceva di pregare per lei, di credere che ce l’avrebbe fatta e io pregavo e pregavo, ma poi è sparita. Deve essere successo qualcosa nel deserto, ma non so cosa. Dopo qualche giorno che non ricevevo sue notizie, ho chiamato il coyote, ma aveva staccato il telefono. Nessuno mi ha mai detto come sono andate le cose. Ho cominciato a disperarmi».

Il limbo dei migranti desaparecidos è il luogo dove si trovano tutte le persone che hanno intrapreso un percorso migratorio sulle rotte messicane e improvvisamente sono sparite. Si suppone che alcune di loro siano morte durante il cammino a causa della fatica del viaggio e degli agenti atmosferici, altre siano state rapite a fini di tratta, altre siano state investite mentre camminavano di notte sul ciglio della strada, o uccise dai narcos per mancato pagamento del riscatto. Di loro non si sa nulla. «In Messico si stimano tra i 70mila e 120mila migranti desaparecidos – spiega Marta Sanchez Soler, presidentessa del Movimento migrante mesoamericano -. Ma sono invisibili. Anche se dovessero essere ritrovati i loro corpi, non è possibile l’identificazione, perché quasi nessuno di loro viaggia con un documento di identità per paura di essere riconosciuti durante un controllo migratorio in Messico o alla frontiera degli Stati Uniti».

Sebbene sia raro incontrare viva una persona desaparecida, Maria non perde le speranze e vive il suo tempo nell’attesa. «Quando guardo la sua foto, io sento che Angelina è viva – sussurra Maria -. Altre volte piango perché mi demoralizzo, ma io sono qui. Io l’aspetto e so che lei tornerà da me».


Hanno firmato questo dossier:

• Simona Carnino

Giornalista e documentarista, è specializzata in diritti umani, migrazioni e cooperazione internazionale. Ha scritto per anni di temi ambientali e politici. Nel 2015 ha realizzato il documentario «Aguas de Oro» (www.aguasdeoro.org) sulla lotta di Maxima Acuña Chaupe, vincitrice del premio Goldman, in Perù. Ha lavorato 5 anni per Amnesty International e ha maturato esperienza nella gestione di progetti di cooperazione in America Latina. In Italia ha lavorato nel sistema di protezione dei richiedenti asilo e rifugiati politici. È coautrice della serie «Passaggi», su cui MC ha pubblicato un dossier nel maggio 2017.

• A cura di:

Marco Bello, giornalista redazione MC.

• Frame Voice Report

La realizzazione di questo dossier rientra nell’ambito del progetto «The Power of Passport», eseguito da MAIS Ong, ed è stata possibile grazie al finanziamento dell’Unione Europea attraverso al bando «Frame, Voice, Report!» del Consorzio Ong Piemontesi (Cop). Il sito del progetto e un video sulla carovana:
www.thepowerofpassport.org
video.sky.it/news/mondo/sky-tg24-mondo-terra-promessa/v505199.vid

 

Questo slideshow richiede JavaScript.




I Perdenti 42. I «Niños mártires de Tlaxcala»: Cristóbal, Antonio e Juan

Testo di don Mario Bandera |


Tre adolescenti indigeni del popolo Azteco sono considerati i primi martiri cristiani del Messico e dell’intero continente americano. Essi sono: Cristóbal (nato nel 1514 o nel 1515 e ucciso nel 1527), Antonio e Juan (nati nel 1516 o nel 1517 e martirizzati nel 1529).

Cristóbal e Antonio erano di ascendenze nobili, appartenevano alle famiglie di due «cacicchi» (capi indigeni tradizionali), mentre Juan era di una famiglia di servitori nella casa del padre di Antonio. I tre ragazzi si erano avvicinati alla fede cristiana frequentando la scuola dei missionari e staccandosi gradualmente dalle tradizioni dei loro avi. Essi accolsero con gioia la nuova fede e aiutarono anche i missionari a distruggere le statue degli idoli locali, ai quali venivano offerti cruenti sacrifici umani. Per questo furono puniti e perseguitati a morte dai componenti della loro comunità, aizzati dai sacerdoti della religione tradizionale che non accettavano la presenza di una fede diversa da quella praticata dalle popolazioni precolombiane. Cristóbal morì nel 1527, mentre Antonio e Juan vennero uccisi due anni dopo.

Tutti e tre sono considerati i protomartiri del continente americano. Papa Giovanni Paolo II li ha beatificati il 6 maggio 1990; mentre papa Francesco li ha canonizzati il 15 ottobre 2017. A questi intrepidi adolescenti abbiamo rivolto alcune domande, a nome loro risponde Cristóbal.

Che cosa vi ha attratto così visceralmente alla fede in Cristo Gesù, tanto da abbandonare quasi subito la fede dei vostri avi?

La cosa che più ci colpì della nuova fede religiosa arrivata nei nostri villaggi, proclamata dai missionari francescani, fu il constatare che il cardine del loro annuncio, Gesù Cristo il figlio di Dio, aveva offerto la sua vita per la salvezza di tutti gli uomini di qualunque popolo, tramite la sua morte in croce. Invece le nostre divinità erano assetate di sangue, tanto da spingere i nostri sacerdoti a offrire loro in sacrificio un certo numero di giovani e fanciulle come gesto di sottomissione da compiersi in alcuni periodi dell’anno.

Tlaxcala city. Palacio de Gobierno, murale dedicato ai protomartiri

Se ben capisco, voi siete rimasti impressionati dal fatto che nella verità della fede cristiana è il Figlio di Dio che versa il suo sangue per salvare l’umanità, mentre per le divinità degli Aztechi sono le persone del popolo che devono offrire il loro per rendere un culto veritiero.

I nostri sacerdoti passavano di villaggio in villaggio cercando giovinetti di bella presenza e fanciulle di ottimo aspetto da offrire in sacrificio. Voi capite che nella nostra cultura millenaria, non obbedire a questi comandi che ci venivano rivolti dalla classe sacerdotale, significava attirare la maledizione degli dei su tutta la comunità. Pertanto, anche se questo stato di cose era per la nostra gente un enorme sacrificio, offrire un componente della propria famiglia per le divinità era considerato un grande onore.

Voi però, dopo l’incontro con Cristo, non la pensavate più così.

Essendo io figlio ed erede del principale “cacico” della nostra zona, insieme ai miei fratelli e amici cominciai a frequentare la scuola dei missionari francescani. Mi si aprirono orizzonti nuovi e fui anche istruito nella fede cattolica.

Fu allora che prendesti la decisione di chiedere il battesimo e di ricevere nel contempo il nuovo nome di Cristóbal (portatore di Cristo)?

Proprio così, gradualmente il mio modo di pensare e di agire come quello dei miei amici – a mano a mano che ci addentravamo nella conoscenza della nuova fede – cominciava a trasformarsi. Volevamo far capire alla nostra gente che era necessario distruggere i templi pagani e le statuette dei vari idoli e abbracciare la nuova fede portata nelle nostre terre dai missionari francescani e domenicani.

La vostra testimonianza si colloca tra il 1527 e il 1529, quindi pochi decenni dopo la cosiddetta scoperta (in realtà «conquista») del Nuovo Mondo e il conseguente inizio dell’evangelizzazione di quel continente.

L’inizio dell’evangelizzazione nella nostra realtà bisogna inquadrarlo nel contesto storico e nello stile adottato da quei primi missionari, i quali avanzando di pari passo con i conquistatori spagnoli, raccoglievano conversioni per la capacità che avevano nel presentare un Dio la cui caratteristica principale era l’amore per tutti gli uomini e verso il quale non bisognava offrire nessun tipo di sacrificio umano cruento. È vero che in alcuni casi ci furono delle forzature, ma in generale l’adesione alla nuova fede fu rapida e spontanea.

Bisogna dare atto che i missionari provenienti in gran parte dalla Spagna seppero agire con duttilità e intelligenza di fronte alla nuova realtà con la quale erano venuti in contatto.

I Francescani e i Domenicani incominciarono da subito ad impegnarsi con passione e costanza per la promozione umana dei più poveri della nostra gente, degli “Indios” (come preferivano chiamarli loro, convinti com’erano di essere sbarcati in India).

Soprattutto colpì la nostra immaginazione, il fatto che in nome di Cristo difendevano la vita degli appartenenti al nostro popolo (specialmente dei più poveri) dalla casta dei sacerdoti aztechi che erano incessantemente alla ricerca di ragazzi e fanciulle da sacrificare ai loro dei.

Allo stesso tempo non avevano paura di utilizzare mezzi drastici, come la distruzione dei templi, delle statue e raffigurazioni degli idoli pagani, per sradicare una religione ritenuta ottusa e sanguinaria?

Vero, questo loro modo di fare influì anche su di noi, io stesso volendo convertire mio padre, distrussi tutte le statuette degli idoli che tenevamo in casa.

Questo atteggiamento segnò così la tua fine, ovvero il tuo martirio.

Per quel fatto mio padre mi bastonò senza pietà tanto da rompermi braccia e gambe, e poi mi gettò nel fuoco e mi bruciò vivo, quasi come un sacrificio riparatore ai suoi idoli.

Alcuni giorni dopo la stessa fine toccò a mia mamma che aveva tentato di difendermi da tanta violenza.

Per concludere il nostro colloquio dicci due parole sui tuoi amici Antonio e Juan.

Essi nacquero tra il 1516 e il 1517 a Tizatlán (oggi Tlaxcala), Antonio era nipote ed erede del cacicco locale, mentre Juan, suo coetaneo e compagno di giochi, era il figlio di una famiglia di servi della casa. Ambedue frequentavano la scuola dei Francescani. Quando nel 1529 i missionari Domenicani decisero di fondare una missione ad Oaxaca, chiesero al direttore della scuola, di indicare loro alcuni ragazzi che potessero accompagnarli come interpreti presso gli Indios. Riuniti i ragazzi della scuola, venne fatta loro la richiesta avvisando che si trattava di un compito pericoloso. Subito si fecero avanti i tredicenni Antonio e Juan. Quando il gruppo arrivò a Tepeaca presso Puebla, i ragazzi aiutarono i missionari a raccogliere le statuette degli idoli pagani per distruggerli. Antonio era entrato in una casa e Juan era rimasto di guardia alla porta. Alcuni abitanti del villaggio, armati di bastoni, si avvicinarono e picchiarono Juan talmente forte da ucciderlo sul colpo. Antonio, accorso in suo aiuto, si rivolse agli aggressori: «Perché battete il mio compagno che non ha nessuna colpa? Sono io che raccolgo gli idoli, perché sono diabolici e non divini». Gli indigeni, nonostante avessero visto il lui il figlio di un nobile, percossero anche lui con i bastoni, finché morì. I corpi di Antonio e Juan furono poi gettati in una scarpata.

Il domenicano padre Bernardino li recuperò e li trasferì a Tepeaca, dove vennero sepolti in una cappella.

Niños Mártires de Tlaxcala

I primi martiri del Messico

Il sangue dei tre ragazzi messicani fu il primo seme della grandissima fioritura del cattolicesimo nel loro paese. Gli storici della Chiesa messicana li considerano protomartiri non solo del Messico, ma dell’intero continente americano; costituiscono quindi le primizie dell’evangelizzazione del Nuovo Mondo.

L’opera dei missionari si allargò: aprirono scuole, stamparono i primi testi catechistici in lingua locale, condivisero la vita e la povertà degli Indios, lavorando per la loro promozione umana.

Li difesero anche dai soprusi degli «encomenderos», ossia dai coloni spagnoli, perlopiù militari, autorizzati a riscuotere dagli indigeni tributi o in natura, o sotto forma di lavoro obbligatorio.

Il 7 dicembre 1982, la Congregazione delle Cause dei Santi diede il nulla osta per l’inizio del processo per la beatificazione di Cristóbal, Antonio e Juan. Il 21 giugno 1988 si riunirono i consultori storici della Congregazione delle cause dei Santi, mentre la «Positio super martyrio» fu consegnata nel 1989. La riunione dei consultori teologi, svolta il 24 novembre 1989, ebbe esito positivo, confermato dai cardinali e vescovi membri della Congregazione, il 6 febbraio 1990.

Il 3 marzo 1990 san Giovanni Paolo II autorizzò la promulgazione del decreto con cui i tre ragazzi venivano ufficialmente dichiarati martiri. Lo stesso Pontefice li beatificò il 6 maggio 1990 nella Basilica di Nostra Signora di Guadalupe a Città del Messico, fissando la loro memoria liturgica al 23 settembre. Insieme a loro fu elevato agli onori degli altari Juan Diego, il messaggero della Madonna di Guadalupe, loro contemporaneo.

Il 23 marzo 2017, ricevendo in udienza il cardinal Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle cause dei Santi, papa Francesco accolse i voti della Congregazione favorevoli alla canonizzazione dei tre martiri, senza bisogno di un ulteriore miracolo per loro intercessione. La loro canonizzazione fu celebrata e presieduta da lui domenica 15 ottobre 2017.

Don Mario Bandera

Clicca qui per vedere il video preparato in occasione della beatificazione