Noi e Voi


Un’economia per i nostri nipoti

L’articolo di Gesualdi sulla 4ª rivoluzione industriale a cui stiamo assistendo mi ha richiamato ad alcuni parallelismi, come ad esempio il ritardo della politica ad affrontare seriamente la questione ambientale o quella dei flussi migratori, ma pure mi ha confermato indirettamente la poco lungimirante cultura sindacale troppo concentrata sulle rivendicazioni salariali, a scapito di una difesa del diritto di tutti a un lavoro dignitoso. Mi ha anche rimandato a un saggio, si badi, datato 1930, del famoso economista Keynes dal titolo «Economic possibilities for our grandchildren», di cui cito appena una domanda:

«Quale livello di vita economica possiamo ragionevolmente attenderci fra un centinaio d’anni? Quali sono le prospettive economiche per i nostri nipoti?», a cui l’economista rispose molto ottimisticamente.

La risposta di Keynes

«Sono certo che, con un po’ più di esperienza, noi ci serviremo del nuovo generoso dono della natura in modo completamente diverso da quello dei ricchi di oggi e tracceremo per noi un piano di vita completamente diverso che non ha nulla a che fare con il loro.

Per ancora molte generazioni l’istinto del vecchio Adamo rimarrà così forte in noi che avremo bisogno di un qualche lavoro per essere soddisfatti. Faremo, per servire noi stessi, più cose di quante ne facciano di solito i ricchi d’oggi, e saremo fin troppo felici di avere limitati doveri, compiti, routines. Ma oltre a ciò dovremo adoperarci a far parti accurate di questo “pane” affinché il poco lavoro che ancora rimane sia distribuito fra quanta più gente possibile. Turni di tre ore e settimana lavorativa di quindici ore possono tenere a bada il problema per un buon periodo di tempo. Tre ore di lavoro al giorno, infatti, sono più che sufficienti per soddisfare il vecchio Adamo che è in ciascuno di noi.

Dovremo attenderci cambiamenti anche in altri campi. Quando l’accumulazione di ricchezza non rivestirà più un significato sociale importante, interverranno profondi mutamenti nel codice morale. Dovremo saperci liberare di molti dei principi pseudomorali che ci hanno superstiziosamente angosciati per due secoli, e per i quali abbiamo esaltato come massime virtù le qualità umane più spiacevoli. Dovremo avere il coraggio di assegnare alla motivazione “denaro” il suo vero valore. L’amore per il denaro come possesso – distinto dall’amore per il denaro come mezzo per godere i piaceri della vita – sarà riconosciuto per quello che è: una passione morbosa, un po’ ripugnante, una di quelle propensioni a metà criminali e a metà patologiche che di solito si consegnano con un brivido allo specialista di malattie mentali».

Una sfida per noi

Sappiamo tutti che l’umanità non ha mai avuto così tanta scienza e tecnologia a disposizione da poter liberare dalla schiavitù fisica e morale l’intero pianeta, se ben guidata dalla politica e quindi sostenuta dall’economia e da una finanza dal volto nuovo.

Siamo in una situazione, invece, in cui il benessere continua ad essere negato ai più, perché regna l’individualismo più esasperato. E di questo siamo testimoni ogni giorno assistendo purtroppo al teatrino della politica nostrana. Saper distinguere e trattare di conseguenza chi semina zizzania e cura solo il proprio tornaconto sarebbe già un bel passo.

Claudio Solavagione
Torino, 13/02/2020


Ricordando padre Silvano Cacciari

Buongiorno Direttore,
sono un’insegnante che in questi giorni riflette su un caro amico di una vita che improvvisamente ci ha lasciati: padre Silvano Cacciari. Chi era, è chiaro a molti, ma non a tutti: un missionario.

Oggigiorno è difficile definire chi è un missionario, molti ci provano, anch’io.

Padre Silvano era un uomo e un religioso di grande e vivace intelligenza, e di singolare senso pratico nelle cose. Durante tutta la sua lunga vita si è prodigato ad aiutare i poveri dovunque nel mondo missionario sia nelle sue brevi esperienze in terra di missione, che, soprattutto, a Torino, «terra» non facile.

La sua profonda intuizione dell’animo umano lo ha sovente portato a elargire a cuore aperto a ogni povero che si presentava ciò di cui aveva bisogno (qui vorrei sottolineare che la povertà non è solo quella fisica), attirandosi critiche e grandi malumori da parte di molti, che giudicandolo con grettezza umana da farisei lo hanno messo al muro e gli hanno scagliato pietre di ogni genere.

Oggi, a pochi giorni dalla sua scomparsa terrena vorrei dire alcune parole forti: Gesù è venuto tra i suoi e non l’hanno accettato e capito, ma lo hanno lapidato. Padre Silvano non è un santo per quanto posso affermare io, aveva i difetti e le debolezze che molti di noi hanno, però che cosa si può aspettare un missionario in terra di missione se non una fine simile a quella di Colui che l’ha mandato?

Si è difeso, talvolta anche dai suoi, e Gesù non l’ha fatto?

Quando padre Silvano ha fatto tutto ciò che la sua coscienza gli diceva, si è ritirato, come hanno voluto i suoi superiori e umilmente ha passato gli ultimi tempi in Casa madre presso il Fondatore a riflettere, a confessare, ad ascoltare i poveri che gli aprivano il loro cuore e a celebrare la messa delle 11 di ogni giorno.

Anch’io rifletto e penso di non poter insegnare nulla a nessuno, mi sento però di dover dire grazie a padre Silvano, in primis per avermi accolta e aiutata in momenti difficili miei e della mia famiglia, e per tutti coloro che hanno beneficiato della sua disponibilità e della sua singolare abilità nell’amministrare e nel lavorare come missionario tra i poveri, sia per le missioni straniere che qui a Torino.

Forse molti di noi non lo hanno capito e lo hanno giudicato nella maniera in cui va il mondo. Io sono certa che soffrendo molto ci ha capiti e perdonati.

Ora che è nelle braccia del Padre misericordioso e nella pace eterna, ci aiuterà a fare chiarezza nelle nostre offuscate coscienze. Grazie di cuore e riposa in pace padre Silvano!

Brigida Pastorello
30/01/2020

Padre Silvano Cacciari è deceduto improvvisamente il 18 gennaio scorso. Nato il 20/06/1939 a Castello D’Argile (Bologna), ha fatto i primi voti come missionario della Consolata nel 1962 ed è stato ordinato sacerdote nel 1965. Dopo aver insegnato ad Alpignano nella scuola dei fratelli missionari, nel 1971 ha conseguito il dottorato in giurisprudenza e nel 1972 è stato amministratore della prelazia di Roraima in Brasile, poi studente specializzando negli Stati Uniti. Dal 1974 è stato richiamato a Torino, prima come incaricato dell’uffico legale dell’Istituto e poi, dal 1992, come amministratore dell’Ospedale Koelliker. In questa posizione ha dato il meglio di sé, portando l’ospedale a livelli di eccellenza italiana ed europea e aprendolo alla collaborazione con gli altri ospedali gestiti dai missionari della Consolata in Africa. Per questo nel marzo 2016 ha ricevuto l’onorificenza «Al merito della Repubblica italiana» (vedi foto).

Dal 2015 ha svolto servizi pastorali nella chiesa del beato Allamano, sempre a Torino.

Gli ultimi anni sono stati effettivamente difficili sia per lui che per l’Istituto per vicende che hanno ricevuto indesiderata pubblicità anche sui giornali. È morto riconciliato con i suoi superiori. La sua morte è stata una sorpresa per tutti noi che lo abbiamo visto fino all’ultimo inforcare la sua bicicletta e farsi un giro per la città. Il bene che ha operato resterà sempre a testimonianza della passione missionaria di un uomo che, pur con le sue fragilità, si è donato fino in fondo cercando di «fare bene il bene».

Padre Silvano Cacciari con padre Angelo Fantacci a Mombasa, vicino ad un pozzo il costruzione

Apprezzamenti con chiose

Spettabile Redazione,
conoscevo solo superficialmente il vostro Istituto, [,,,] quindi nemmeno conoscevo la vostra rivista. Casualmente ne ritrovo una copia regolarmente nella chiesa che frequento a Milano di rito tradizionalista, sensibilità che informa la mia vita liturgica morale culturale, con quel che ne consegue (seguo Corrispondenze Romane, mi piacciono e approvo Tosatti, la Siccardi e compagnia bella; cfr. dossier n. 1-2/2020). Insomma, sono di quelli che hanno esultato al rapimento della Pachamama (a Roma durante il Sinodo per l’Amazzonia), che personalmente brucerei su un rogo.

Eppure la vostra rivista mi piace. La trovo stimolante e bella (semplicemente): nell’ultimo numero bello il trafiletto sul Vietnam a pag. 9; interessantissima la storia degli emigranti venezuelani in Brasile, pagg. 10 e ss.; sconvolgente quello sul razzismo dei neri sudafricani contro gli «altri» neri africani, pagg. 19 e ss.; occupandomi di minori, è bello senza fronzoli edulcoranti l’articolo sulla «Ricomposizione del puzzle» a pagg. 51 e ss.; nuovo e coraggioso quello sui Fulani, pag. 61; stupenda, direi, e commovente la «intervista» a Mafalda di Savoia, uno dei pochi fulgidi esempi della nostra Real Casa.

Insomma, complimenti. Se appare un po’ ardua la – pur dovuta – difesa d’ufficio di padre Dalmonego, sicuramente preparatissimo, come avete definito senza però entrare nel merito di quelle che, almeno sui media, sono apparse come sue dichiarazioni francamente un po’ ardite, devo però riconoscere che nel complesso la rivista è equilibrata, poliedrica, stimolante, profonda. […]

In definitiva, grazie e complimenti. Ce ne fossero di riviste come la vs. nel mondo cattolico: sembrano tutte dei bollettini parrocchiali. Credo che mi abbonerò. Saluti e buon lavoro

Raffaele Ronchi
30/01/2020

Messa in TV

È giusto da parte delle autorità civili aspettarsi che anche la Chiesa faccia la sua parte nella lotta alle epidemie, è giusto da parte delle autorità ecclesiali chiedere ai fedeli di adattarsi a certe situazioni particolarmente incresciose e pericolose. Le esagerazioni però servono solo a peggiorare la situazione: arrivare a dire, come ha fatto qualcuno, che la messa in Tv o con lo smartphone, ha lo stesso valore della messa dal vivo, non va bene.

La Santa Eucarestia è la Persona stessa di Cristo ed è fatta per essere incorporata materialmente non online, e convivialmente, non in privato. Le stesse espressioni «messa privata» o «messa per pochi», sono dei controsensi dottrinali maledettamente fuorvianti; per esprimere il concetto che occorre essere rigorosi e che le precauzioni non sono mai troppe (purché di precauzioni si tratti, non di sceneggiate, o peggio ancora di vergognose speculazioni…), si possono e si debbono usare altri termini.
Cordialmente

Carlo Erminio Pace
Fano, 29/02/2020

Quanto noi tutti, e il mondo intero, stiamo vivendo in questi giorni è davvero nuovo e inedito. Coinvolge tutti, mette in discussione il nostro modo di vivere ed esige da noi una risposta che mette alla prova il meglio della nostra umanità. Però non giustifica affatto certe affermazioni – vere o presunte – sulla partecipazione alla messa. Nessun sacerdote, ma anche nessun cristiano, può dire che la messa in Tv vale come la messa partecipata dal vivo con la comunità che celebra. È un’affermazione che nega la natura stessa dell’Eucarestia ed è assurda come dire che la confessione via telefono, skype o smartphone è valida.

Che in tempi come questi la messa in Tv possa aiutare a pregare, offrire la possibilità di fermarsi ad ascoltare la Parola di Dio e sostenere la fede, è perfettamente accettabile. Come è utile fare una video conferenza o una lezione usando i social. La mente e il cuore possono essere stimolati e fatti lavorare. Ma se uno ha fame non è lo stesso vedere qualcuno mangiare un panino e mangiarlo davvero.

Usare i media per sostenerci, anche spiritualmente, è bello. È anche una sfida alla nostra creatività, al nostro comunicare, al nostro star vicini gli uni agli altri. Ma non è il modo normale di vivere. E può diventare un rischio: quello di credere che la fede sia un fatto intimista e personale e che basti la smart prayer.

L’Eucarestia invece è comunità, famiglia, incontro. È ascolto e servizio, dono e accoglienza, festa e cammino, perdono donato e ricevuto. E tanto altro che qui, ovviamente, non è possibile sviluppare. Ma sui siti cattolici, come quelli di Avvenire, Famiglia cristiana, Rocca, La Settimana, il monastero di Bose, Agenzia Sir e tanti altri, potete trovare un mare di bellissime riflessioni e approfondimenti su questo.
Uniti nella preghiera.

 

Water grabbing

Qualche nota aggiuntiva al problema dell’acqua che giustamente viene trattato ampiamente nel dossier del numero di marzo:

  • Kurdistan, popolato da una delle più antiche popolazioni del mondo, gli alleati della Prima guerra mondiale avevano promesso l’indipendenza ma a Versailles si resero conto che i curdi avevano in mano il rubinetto dell’acqua di Siria e Iraq e di una parte rilevante di quella di Turchia e Persia, per cui di indipendenza non si parlò più, se mai di repressione.
  • Alture di Golan, sempre oggetto di scontri tra israeliani e siriani perché vi nasce il Giordano ormai totalmente controllato dagli israeliani che ne sfruttano le acque al punto di prosciugare il mar Morto, destinato a diventare una miniera di sale a cielo aperto.
  • Nilo, destinato a portare sempre meno acqua in Egitto, perché sfruttato per irrigare Etiopia e prossimamente Sudan, con investimenti cinesi che hanno acquistato a buon prezzo moltissime aree dove coltivare quanto serve a loro, una volta irrigate. Gli egiziani, ormai 100 milioni – di cui 5 sono militari e poliziotti -, sono destinati alla sete e all’emigrazione, e la loro produzione di cotone all’estinzione.
  • Tibet: fornisce gran parte dell’acqua del Pakistan e dell’India, ma è in mano ai Cinesi che presto la devieranno, certamente prima che la popolazione indiana diventi più numerosa di quella cinese. Attenzione: Cina, Pakistan e India sono tutte e tre potenze nucleari.

Con simpatia e gratitudine per il lavoro che fate

Claudio Bellavita
28/02/2020

 




Cari missionari: umanoidi / padre Luigi Bruno / domande sulla Messa


Umanoidi

Caro padre Gigi,
è tempo di populismi. La Chiesa vive momenti molto travagliati in questa società che ci presenta un mondo sotto sopra. Come credere ai valori civili che ogni individuo dovrebbe esprimere? Ogni cristiano che crede in Dio, frequentando la madre Chiesa dovrebbe seguire l’insegnamento del vangelo e professarlo. In realtà nella Chiesa ci sono tanti che si professano credenti in Cristo ma considerano i rifugiati alla stregua di insignificanti umanoidi da lasciare al loro destino di morte.

Quanti i cristiani nella trappola salviniana, irretiti da slogan che il vento semina nei cuori.
Uno tsunami il senso più vero della venuta di Gesù Cristo, l’Amore! Nel giorno dedicato al rifugiato (20 giugno) dedico loro una mia poesia.

Rifugiato o rifiutato

Cara e bella Italia
Culla del cristianesimo
Dimentico e superficiale
Pieno di niente
Tanta la tradizione
Trionfo dell’edonismo
Dove cadono a pezzi
Sentimenti e valori
Richiamati dal vangelo sempre
Siamo diventati mummie
Imbalsamati nei profumi
Una vita nelle contraddizioni
Banderuole soggiogate
Porte aperte delle chiese
Fedeli senza anima
Come i porti
chiusi all’amore
Cosa ci porterà il vento?
Un mondo sotto sopra
Milioni di rifugiati rifiutati
Da paure ingiustificate.

Giovanni Besana
20/06/2018


Padre Luigi Bruno

Nasce a Barge (Cuneo) il 1° febbraio 1931. Studia nei seminari della diocesi di Torino a Giaveno, Chieri e Rivoli dal 9 settembre 1942 al 27 giugno 1954, quando è ordinato sacerdote dal card. Maurilio Fossati.

Fino al 1956 è nel Convitto ecclesiastico vicino al santuario della Consolata a Torino; dal 1956 al 1958 viceparroco a Caramagna e fino al 1963 nella parrocchia di san Massimo a Torino.

Nel 1963 chiede di entrare nell’Istituto Missioni Consolata e il 2 ottobre 1964 fa la sua professione religiosa a Bedizzole (Brescia).

Nel settembre del 1965 parte per il Kenya, nella prima missione del Meru, Mikinduri. E poi Chuka, Kiirua, Mujwa. È insegnante e padre spirituale al seminario di Nkubu, rettore del seminario filosofico della diocesi di Meru a Nairobi. Diventa poi assistente del maestro dei novizi a Sagana e direttore vocazionale a Sagana e a Nairobi. Nel 1992 comincia la missione di Chiga-Kisumu, imparando una lingua nuova.

Nel 1996 ritorna in Italia e lavora nell’animazione e amministrazione. In seguito, per alcuni anni, è direttore spirituale nel Collegio S. Paolo a Roma. Ritornando poi a Torino, finché la salute glielo ha permesso, si è dedicato al ministero della confessione presso il Santuario della Consolata. Nel 2015 ha dovuto ritirarsi ad Alpignano presso la Residenza Beato Giuseppe Allamano nella comunità dei missionari anziani ed ammalati.

Il Signore lo ha chiamato a sé il 24 giugno 2018, Solennità di San Giovanni Battista, patrono della città di Torino.

Nel suo testamento riassume così alcuni tratti della sua vita:

«Voglio ringraziare con sincera fede il buon Dio per la vocazione sacerdotale, diocesana prima e missionaria poi. L’enciclica Fidei Donum fu l’inizio della mia illuminazione sulla urgente necessità del lavoro missionario a tempo pieno. Della diocesi di Torino è sempre rimasto in me un grande e affettuoso ricordo. All’Istituto Missioni Consolata vada il mio “grazie” vivissimo per avermi accolto nella sua famiglia con benevola pazienza, così com’ero, già formato e con a base una formazione diocesana, con scarsa possibilità, a 33 anni, di ulteriori visibili cambiamenti e miglioramenti».

Padre Luigi ha sempre vissuto con entusiasmo e zelo il suo essere sacerdote e missionario. Ha aiutato molti seminaristi e giovani sacerdoti attraverso la direzione spirituale. Ha sempre svolto con disponibilità il ministero pastorale e aveva un amore particolare per la liturgia che voleva ben fatta. La Consolata, che lui tanto amava, lo accolga nella completa e piena liturgia del cielo.

padre Michelangelo Piovano
25 giugno 2018


Ancora domande sulla messa

Nel racconto dell’istituzione è più corretto dire «per voi e per tutti in remissione dei peccati» o «per molti». Se la direttiva di Benedetto XVI porta la data del 3 maggio 2012, perché l’Italia non si adegua?

Perché si dice «Signore non son degno di partecipare alla tua mensa, ma dì soltanto…» e non piuttosto «non son degno che tu entri nella mia casa» (intesa come anima)?

Tempo addietro ho ascoltato una conferenza sul «Padre nostro» nella quale si sosteneva che sarebbe ora di cambiare il testo e dire «non ci abbandonare nella tentazione» piuttosto che «non ci indurre in tentazione». In fin dei conti sarebbe la versione che leggo nel vangelo, o forse, mi hanno cambiato anche quello?

Emanuela
12/04/2018

Gesù sapeva il greco, tanto da essere in grado di scambiare anche delle battute, ma normalmente parlava in aramaico. Per questo fin dall’inizio del cristianesimo c’è stato il problema della traduzione fedele delle sue parole, visto che il Vangelo è stato presto annunciato a gente che non parlava aramaico ma greco. Traccia di questo è il fatto che gli evangelisti a volte riportano delle parole direttamente in aramaico. Vedi ad esempio il «Talita kum» del Vangelo di Marco. Ora, quando si traduce ci si imbatte in sfumature di significato in certe espressioni che sono veramente difficili da rendere e allora si scelgono le parole o le circonlocuzioni più vicine e fedeli, anche se non letterali.

Molti – tutti

Quando è stata fatta la prima traduzione della messa in italiano, si è voluto sì mantenere la fedeltà letterale al testo latino che era patrimonio secolare della tradizione cristiana, ma nello stesso tempo si è cercato di introdurre tutti gli adattamenti necessari a rendere la traduzione più fedele non alla lettera ma al significato profondo, senza ambiguità, per rendere il testo comprensibile al discepolo di oggi. Per questo la Conferenza episcopale italiana, e molte altre nel mondo, hanno accettato senza esitazione la traduzione «versato per voi e per tutti» che rende bene il significato più vero delle parole riportate da Luca e Paolo («per voi») e da Matteo e Marco (per / in favore di / per amore di «molti» / delle «moltitudini»). Infatti, secondo i biblisti e i linguisti il «pro multis» del latino non significa esclusione di alcuni, ma inclusione di tutti e tradurrebbe il termine greco «polloi» che a sua volta traduce la parola semitica «rabbiym», che indica «una grande moltitudine» e implica anche la nozione «tutti». È la traduzione che cerca di rendere nel modo migliore il senso originale delle parole di Gesù, che in ogni caso, non presupponevano alcuna contrapposizione tra «molti» e «tutti».

Sull’argomento è intervenuto papa Benedetto XVI con una lettera del 14 aprile 2012 al presidente della Conferenza episcopale tedesca. Il testo della lettera è complesso e non è certo questo il luogo per farne una presentazione. Rivela comunque come negli anni del dopo Concilio c’è stato un grosso dibattito sui temi della traduzione e della interpretazione, provocato dall’esistenza, accanto a quelle eccellenti, di traduzioni sciatte o che hanno addirittura banalizzato i testi sacri. Questo ha dato motivo alla linea più severa della fedeltà letterale di prevalere su quella più interpretativa. Per questo, scrive il papa: «In questo contesto, è stato deciso dalla Santa Sede che, nella nuova traduzione del Messale, l’espressione “pro multis” debba essere tradotta come tale, senza essere già interpretata. Al posto della versione interpretativa “per tutti” deve andare la semplice traduzione “per molti”», anche se il papa è «consapevole che [tale traduzione] rappresenta una sfida enorme per tutti coloro che hanno il compito di esporre la Parola di Dio nella Chiesa». «Per questo motivo – continua papa Benedetto -, nel momento in cui, in base alla differenza tra traduzione e interpretazione, si scelse la traduzione “molti”, si decise, al tempo stesso, che questa traduzione dovesse essere preceduta, nelle singole aree linguistiche, da una catechesi accurata, per mezzo della quale i Vescovi avrebbero dovuto far comprendere concretamente ai loro sacerdoti e, attraverso di loro, a tutti i fedeli, di che cosa si trattasse. Il far precedere la catechesi è la condizione essenziale per l’entrata in vigore della nuova traduzione». Tale catechesi da una parte deve far capire come la morte di Gesù sia davvero per tutta l’umanità, e dall’altra come nella celebrazione eucaristica tale dono sia affidato ad una comunità concreta («voi», «molti»), che ha poi il dovere/missione di esserne testimone verso tutti.

«Non c’indurre» o «non ci abbandonare»?

Non è cambiato il Vangelo, ma solo la traduzione. Gesù con molta probabilità in aramaico ha detto «non lasciarci/farci entrare in tentazione». Gli evangelisti hanno poi scritto in greco, la lingua comune allora in tutta l’area attorno al Mediterraneo. Il verbo greco eis-enenk?s, tradotto in latino è in-ducas, in italiano in-durre. Tale espressione, letteralmente corretta, ha però perso il senso permissivo (lasciare/permettere) dell’espressione aramaica di Gesù. Dio permette le prove, ma non è lui a tentare. Per questo la nuova traduzione ufficiale della Conferenza Episcopale Italiana del 2008 ha reso la richiesta con «non abbandonarci alla tentazione».

Così scriveva Paolo Farinella:
«Alla» o «nella» tentazione? In greco c’è la preposizione «eis» che non indica solo direzione (verso la – alla) ma con-penetrazione/con-toccamento (dentro – nella) che esige un contatto. Forse non esiste una traduzione corretta in assoluto: non abbandonarci «alla tentazione» può significare ogni volta che si presenta la tentazione; «nella tentazione» può indicare una forma permanente di tentazione (vedi l’esigenza di «pregare per non cadere in tentazione» – Mt 26.41). Che si usi una traduzione o l’altra, il significato potrebbe essere parafrasato con «non abbandonarci “mai” perché viviamo in uno stato permanente di tentazione» (MC 10/2017 pag. 32).

Papa Francesco stesso ha ricordato, durante un’intervista su Tv2000 il 6 dicembre scorso, che «anche i francesi hanno cambiato il testo con una traduzione che dice: “Non mi lasci cadere nella tentazione” …». E ha aggiunto che «Sono io a cadere, non è Lui che mi butta nella tentazione per poi vedere come sono caduto. Un padre non fa questo, un padre aiuta ad alzarsi subito». «Quello che ti induce in tentazione – ha affermato Papa Francesco – è Satana, quello è l’ufficio di Satana».

Perché allora questa versione (del Padre nostro) non è ancora usata nella preghiera e nella messa? Semplicemente perché i vescovi italiani non hanno ancora pubblicato la nuova versione del messale nei quali sarà certamente inclusa la nuova traduzione usata nella Bibbia del 2008. La prima edizione del messale è del 1973, la seconda del 1983. Quando uscirà la nuova edizione (la terza) del messale in italiano? Non si sa. Restiamo in attesa. L’assenza di questa nuova edizione spiega anche il perché si continua ancora ad usare l’espressione «per tutti» nelle parole della consacrazione. Intanto, nell’incertezza, si continuano ad usare i messali vecchi, spesso ridotti in condizioni pietose.


Chiudiamo la forbice delle diseguaglianze

Una nuova campagna per il bene comune, perché siamo una sola famiglia umana, nessuno escluso

Perché un’iniziativa sulla diseguaglianza? «L’iniquità è la radice dei mali sociali», così scrive Papa Francesco nella Evangelii Gaudium (202), invitandoci a lavorare sulle cause strutturali di un sistema economico che uccide, esclude, scarta uomini, donne e bambini. La diseguaglianza segna in maniera profonda tutte le società del pianeta, che nei vari contesti e territori devono trovare le basi per la propria stessa sopravvivenza, e di quella delle generazioni future. Tutto questo causa delle ferite profonde, e genera malcontento sociale, rabbia, paura e rassegnazione: sentimenti di chi si percepisce escluso e che, nonostante i propri sforzi, vede le proprie condizioni diventare sempre più fragili, vulnerabili, precarie. Ad aggravare la situazione il fatto che la paura diventi il facile collante per un’agenda politica che crede di affrontare i problemi approfondendo i solchi che attraversano la società e il pianeta, e creando muri che generano nuove esclusioni e conflitti.

Chiudere la forbice delle diseguaglianze è dunque la nuova campagna, l’imperativo che vogliamo assumere come priorità per garantire ad ogni donna e ogni uomo che vive su questo pianeta la possibilità di vivere una vita dignitosa e piena, libera dalla paura e dal bisogno, in questa generazione e nelle generazioni future, affinché le migrazioni siano una scelta libera.

Si tratta di un impegno che completa e supera quello sui temi della povertà e dell’esclusione sociale: significa infatti interrogarsi circa le cause di queste, e sulle conseguenze concrete dei meccanismi attraverso cui la povertà stessa si produce e si riproduce.

Significa porre attenzione agli ostacoli che incontrano le iniziative volte a ridurre la distanza tra chi ha troppo e chi non ha abbastanza; significa mantenersi attenti alla concentrazione sproporzionata del benessere e delle opportunità, ma anche del potere e dello spazio operativo che questo squilibrio rischia di perpetuare ed aggravare. Significa infine cercare nuove soluzioni per una piena universalizzazione dei diritti, a partire dai ceti sociali più vulnerabili, cercando pratiche di emancipazione dai territori, dalle comunità locali, esempi positivi di creazione del bene comune, da cui sia possibile evincere linee guida per una politica trasformativa.

La campagna «Chiudiamo la forbice: dalle diseguaglianze al bene comune, una sola famiglia umana» pone questo tema all’attenzione di tutti, declinandolo in tre ambiti in particolare:

  • quello della produzione e del consumo del cibo,
  • quello della pace e dei conflitti,
  • quello della mobilità umana nel quadro delle nuove sfide sociali e climatiche, tra loro connesse, come ci indica l’enciclica Laudato Si’.

Un’ampia alleanza di soggetti promotori, aderenti e media partners. Un nuovo sito, un documento base, tre concorsi nazionali, materiali per approfondimenti, l’apporto (social e non solo) di tutti, strumenti per azioni diffuse sui territori che hanno già contribuito all’impostazione della campagna che si caratterizza per un approccio partecipativo e inclusivo. In linea con i contenuti.

Una campagna triennale, lanciata in occasione del terzo anniversario dell’uscita della Laudato Si’, per indicare l’ispirazione e il traguardo. Un mondo più giusto e solidale.

Per saperne di più: info@chiudiamolaforbice.it

www.chiudiamolaforbice.it

 




Cari missionari: di martiri in Somalia, di economia e altro ancora

Lettere dei lettori con commenti e risposte del Direttore e ricordo particolare delle cinque martiri della Somalia |


Assist alla Lega?

Sono un vecchio lettore della vostra rivista e apprezzo gli ottimi report sulle missioni nel mondo, gli approfondimenti di Paolo Farinella,
le testimonianze delle comunità cristiane nel mondo. In breve leggo la vostra rivista per motivi religiosi e per l’affetto che da sempre mi lega alle vostre missioni. Non certo per sorbirmi pseudo lezioni di politica economica come quella di Francesco Gesualdi sul cui contenuto ci sarebbe molto da discutere. Non ultimo, mi pare del tutto fuori luogo l’assist che Gesualdi ha dato alla Lega per la sua battaglia contro l’euro.
Cordiali saluti,

Vincenzo Bottigliero
31/05/2018

Caro Sig. Bottigliero,
abbiamo girato la sua email a Francesco Gesualdi.
Ecco la sua risposta.

Ho accettato di curare la rubrica «E la chiamano economia», perché credo anch’io, come dice papa Francesco, che: «L’economia determina in buona parte la qualità del vivere e persino del morire delle persone». Per cui dobbiamo occuparci tutti di economia, prima ancora che come cittadini come cristiani desiderosi di assicurare la dignità ad ogni creatura, come ci richiede il Vangelo.
Spesso, però, l’incompetenza ci impedisce di impegnarci, ed è proprio per fornire una chiave di lettura a chi è intimidito dai termini e dalla complessità della materia che ho accettato di curare la rubrica. Ma fin dal primo numero ho avvertito che l’economia non è una materia neutra. Analisi, giudizi e proposte dipendono dai valori che ci animano e dalla categoria sociale che si intende difendere.
I miei valori sono la solidarietà e la responsabilità, la mia categoria sociale sono gli impoveriti. Ed è con questa prospettiva che ho analizzato l’Europa per scoprire che al centro della sua costruzione non ci sono le persone o la solidarietà, bensì le imprese, il mercato, la concorrenza.
Anche la moneta unica è stata gestita secondo le stesse logiche ed ha prodotto risultati disastrosi quando si è trattato di affrontare un tema come il debito pubblico dai profondi risvolti sociali.
So che il tema dell’euro è strumentalizzato da partiti nazionalisti come la Lega che perseguono obiettivi opposti ai miei. Ma la mia analisi non ha niente da spartire con chi osanna l’individualismo e il razzismo. La mia è una denuncia dei danni che si provocano quando si gestisce l’economia senza bussola sociale ed è una sollecitazione a gestire in un altro modo la moneta comune europea affinché si possa recuperare la libertà di perseguire diritti e occupazione al servizio di tutti, senza subire ricatti da parte dei padroni della finanza.
Le tifoserie pro o contro l’euro non mi appartengono. Mi interessano gli effetti sulle persone: ciò che serve l’ultimo va bene, ciò che gli è contro va cambiato. Questa è la mia stella polare.

Francesco Gesualdi
04/06/2018

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=n61VzOixOnA?feature=oembed&w=500&h=375]


Le 5 martiri della Somalia

Gentile Direttore,
ho letto il dossier «Somalia, terra di martirio» inserito nel numero di maggio 2018. Forse mi è sfuggito, ma non ho trovato, fra i nomi dei martiri citati, quello della crocerossina Maria Cristina Luinetti, uccisa il 9 dicembre 1993 mentre prestava servizio come volontaria della Cri nell’ospedale di Mogadiscio, in Somalia. Come mai?

S.lla Luciana Salmoiraghi
14/05/2018

Cara Sig.ra Luciana,
dopo quella sua email abbiamo avuto modo di chiarirci. Come le ho spiegato, nel dossier abbiamo ricordato solo quei «martiri» di cui avevamo già parlato nella rivista, come Ilaria Alpi, o che erano legati in modo particolare ai missionari della Consolata e quindi a noi più familiari, come il vescovo Colombo e Annalena Tonelli. Siamo quindi ben lieti di rimediare qui alle nostre omissioni e anche alla nostra ignoranza, ricordando la sorella Maria Cristina, di cui le consorelle della Croce Rossa di Saronno hanno inviato una breve biografia. Ricordiamo con lei anche la dottoressa Graziella Fumagalli uccisa a Merca nel 1995. Con suor Leonella, Annalena Tonelli e Ilaria Alpi sono le «cinque italiane martiri in Somalia».
Desidero anche ringraziare tanto lei, sig.ra Luciana per aver condiviso con noi la foto inedita che trovate in (apertura di) questa pagina. Ritrae Annalena Tonelli a Merca nel novembre del ‘93 al centro antitubercolare della Caritas italiana. C’è una piccola festa perché è il giorno dell’arrivo al centro della stessa Luciana Salmoiraghi e anche del generale Carmine Fiore (comandante della missione Ibis e di Italfor, il contingente italiano impegnato in Somalia nell’ambito della missione Onu Restore hope dal settembre 1993 – ndr) comparso con un camion di aiuti e un’enorme scorta d’acqua.
• Vedi anche la rubrica «I Perdenti» di questo mese, con «l’intervista» di don Mario Bandera ad Annalena.

Maria Cristina Luinetti

Sorella (crocerossina) Maria Cristina Luinetti

È stata la prima Crocerossina a cadere in servizio dopo la II guerra mondiale.
Maria Cristina nasce a Milano nel marzo del 1969. Consegue la maturità classica nel giugno del 1988, nello stesso anno si iscrive al corso per Infermiere Volontarie della Croce Rossa Italiana, presso il Comitato di Saronno e viene immatricolata con il numero 35318 nel giugno del 1992 con il grado di Sottotenente.
Possiede un’intelligenza vivace, selettiva nella scelta delle amicizie, non è timida, ma piuttosto ferma, coerente, riservata e profondamente religiosa. Cristina è fortemente motivata dal desiderio di essere di aiuto ai più fragili e deboli, desidera interpretare pienamente quello spirito umanitario che è alla base dell’agire delle Infermiere Volontarie.
Lascia il posto di lavoro come programmatore informatico per seguire corsi di approfondimento di tecniche infermieristiche al fine di affinare la sua preparazione, per far fronte, come lei diceva, «all’inimmaginabile e all’imprevedibile».
Sceglie la via più difficile, quella della missione internazionale.
Il 20 novembre 1993 parte per la Somalia, destinazione Poliambulatorio Italia a Mogadiscio di fronte all’ex ambasciata italiana, 6 mila chilometri lontana dalla sua Cesate.
Il 9 dicembre 1993 Maria Cristina Luinetti muore a Mogadiscio uccisa da un bandito somalo.
Così la ricorda il Commissario straordinario di Croce Rossa, Luigi Giannico: «Hai voluto scegliere, al più alto livello, l’espressione della tua generosità portando aiuto a genti non conosciute, appartenenti ad un’altra razza, ed hai fatto la tua scelta ben consapevole dei rischi e pericoli ai quali ti saresti esposta. Non l’hai considerata cioè un’avventura, pur comprensibile alla tua giovane età: sei partita preparata professionalmente e conscia moralmente dell’alto significato e dell’importanza della tua missione, con maturità e lucidità».
Se n’è andata fedele al motto delle Infermiere Volontarie della Croce Rossa: «ama, lavora, conforta, salva».

Il Comitato della Croce Rossa di Saronno

Graziella Fumagalli

Medico volontario subentrato ad Annalena Tonelli nel 1994 nella direzione del Centro antitubercolare della Caritas Italiana a Merca, dove viene assassinata pochi mesi dopo, il 22 ottobre 1995 da sicari somali con alcuni colpi di arma da fuoco al viso.

da Famiglia Cristiana

 


Pazienza

Caro padre Gigi,

ho appena letto nell’editoriale del numero di giugno di MC le riflessioni sulle tre P, suggerite da papa Francesco. Le recenti vicende politiche per formare il nuovo governo, mi hanno suscitato tante riflessioni relative all’importanza di avere uno sguardo a lungo termine e di accogliere i cambiamenti come segno di novità, pur nell’incomprensibilità. Mi è venuta in mente anche una recente attività di formazione che ho proposto ad un gruppo di insegnanti di scuola dell’infanzia correlata al tema del dialogo, in quanto la loro programmazione scolastica riguarda l’accoglienza del diverso. Ho suggerito di prendere spunto da un’opera d’arte e di immaginare un dialogo sia con i personaggi sia con l’autore. Per dare loro uno spunto sono andata a vedere un quadro che molti anni fa avevo ammirato per l’originalità e la bellezza: La fuga in Egitto di Andrea Pozzo, conservato nella Cappella dei Mercanti a Torino (vedi foto).
Ho pensato a cosa potevo chiedere a Maria, a Giuseppe, al Bambino e a Pozzo. Soprattutto a Giuseppe che precede Maria lungo il sentiero, pronto a sorreggerla e a soccorrerla se necessario, e le rivolge uno sguardo carico di affetto mentre con il braccio destro avvolge il Bambino tutto fasciato, pienamente compreso nella responsabilità di portare al sicuro ambedue. Vorrei domandargli dove trovava tanta forza per recarsi in un paese sconosciuto con un bambino piccolo e con la madre dello stesso, lungo un sentiero impervio, accidentato, per sottrarli alle iniziative tremende di Erode, timoroso di perdere potere e prestigio. Senza dubbio Giuseppe ha dimostrato una fede e una speranza, tradotte nell’amore per i suoi cari, oltre ogni evidenza ma incrollabili e meritevoli di essere vissute in misura analoga anche da me, da noi.
Con riconoscenza.

Milva Capoia
02/06/2018


Domande sulla Messa

Caro padre,
posso farle un paio di domande sulla messa?
Dopo la presentazione dei doni c’è l’orazione sulle offerte, si ascolta in piedi o da seduti? È uguale per tutte le diocesi o ogni vescovo può dare la sua di direttiva? […]

Emanuela
12/04/2018

Nella email ci sono anche altre domande sulla messa.
Per ora provo a rispondere sinteticamente a questi due primi punti.

1. In piedi o seduti.

L’Ordinamento Generale del Messale Romano, al n. 43, prescrive: «I fedeli stiano in piedi dall’inizio del canto di ingresso, o mentre il sacerdote si reca all’altare, fino alla conclusione dell’orazione di inizio (o colletta), durante il canto dell’Alleluia prima del Vangelo; durante la proclamazione del Vangelo; durante la professione di fede e la preghiera universale (o preghiera dei fedeli); e ancora dall’invito Pregate fratelli prima dell’orazione sulle offerte fino al termine della Messa, fatta eccezione di quanto è detto in seguito.
Stiano invece seduti durante la proclamazione delle letture prima del Vangelo e durante il salmo responsoriale; all’omelia e durante la preparazione dei doni all’offertorio; se lo si ritiene opportuno, durante il sacro silenzio dopo la Comunione».

2. Uguale per tutti?

Lo stesso documento scrive: «Spetta però alle Conferenze Episcopali adattare i gesti e gli atteggiamenti del corpo, descritti nel Rito della Messa, alla cultura e alle ragionevoli tradizioni dei vari popoli secondo le norme del diritto».
Si può dire che non dovrebbero esserci differenze tra le diocesi dello stesso paese, ma soltanto tra nazioni e riti (penso in Italia al Rito Ambrosiano) diversi.
Ricordo anche che il pregare «in piedi» rispecchia l’atteggiamento dell’uomo libero, del figlio col Padre, di chi è risorto a vita nuova, del viandante e pellegrino pronto a iniziare il suo cammino di «esodo» nella vita, del missionario (apostolo) inviato. «In ginocchio» richiama adorazione, supplica, richiesta di perdono. «Seduti» va con ascolto e accoglienza.
Detto questo, mi pare che una norma di carità dovrebbe essere quella di fare le cose in armonia e unità, perché la celebrazione dell’Eucarestia non è mai un atto individuale (la mia messa) ma sempre una celebrazione del Popolo di Dio, la Chiesa, una celebrazione che costruisce comunità attorno all’ascolto della Parola e nello spezzare il pane.