Il dilemma della moneta

Testo di Francesco Gesualdi |


Alla fine degli anni Ottanta l’Europa ha virato verso un’impostazione economica neoliberista che riconosce il mercato come la sola legge e le imprese come gli unici attori. Questa impostazione ha permeato anche l’architettura della moneta unica: l’euro è nato non come strumento di servizio pubblico, ma come strumento di lucro.

Nel dopo guerra le imprese europee fecero la scelta della Comunità economica europea (Cee) come strategia per allargare il proprio mercato e dotarsi, nel contempo, di una politica comune nei confronti del resto del mondo. Inevitabilmente, a un certo punto del processo di integrazione, si pose il problema della moneta, perché monete diversificate rappresentano un freno per il commercio. La moneta, però, è un tema molto delicato che a seconda di come è gestito può favorire i forti contro i deboli, la finanza contro l’economia reale, il mondo degli affari contro lo stato sociale, o tutto il contrario. In altre parole, la moneta è come un mezzo di trasporto che, a seconda di come è strutturato, può diventare un carro armato per fare la guerra o un autobus per andare in vacanza. Per cui non si può capire la moneta se prima non si chiarisce da quali principi è animato il potere che ci sta dietro e quali fini persegue.

La perdita di centralità dello stato

Di moneta unica in Europa si cominciò a discutere seriamente negli anni Ottanta, quando in tutta l’area stava cambiando il vento politico. Da un’impostazione socialdemocratica che riconosce allo stato il compito di pilotare l’economia con l’obiettivo di raggiungere la piena occupazione, di superare le disuguaglianze e di garantire a tutti il godimento dei servizi essenziali, si stava passando a un’impostazione neoliberista che riconosce il mercato come unica legge e le imprese come soli attori economici. Come dire che tutto deve essere regolato dalla concorrenza e dalla legge della domanda e dell’offerta, mentre lo stato va ridotto a mero gestore di tribunali, polizia ed esercito, senza alcuna funzione economica. Questo cambio di vento influenzò profondamente l’architettura dell’euro.

Nel 1988, Jacques Delors, politico francese ex-presidente della Commissione europea, venne incaricato di elaborare una proposta di moneta unica. Delors sapeva che ci sono due modi per governare la moneta: uno come servizio pubblico, l’altro come affare su cui lucrare. Il primo vede come gestore lo stato che si ispira a criteri di gratuità e promozione sociale. Il secondo vede invece come gestore il sistema bancario che si muove secondo il principio del profitto.

La gestione pubblica

La logica della gestione pubblica, di tipo gratuito e socialmente orientata, si contraddistingue sia per la quantità di denaro messo in circolazione, sia per i canali utilizzati per iniettare nel sistema economico la liquidità aggiuntiva.

Per quanto riguarda la quantità, non viene valutato solo il denaro che serve per soddisfare il livello di scambi esistenti. Si fa anche un’analisi della situazione socio-economica per capire se ci sono problemi da risolvere e – nel caso si giunga alla conclusione che c’è un’alta disoccupazione, molti bisogni collettivi da soddisfare, un livello produttivo insoddisfacente – si può decidere di dare una sferzata al sistema con l’emissione di nuova moneta da utilizzare per pagare nuovi salari in ambito pubblico, o per finanziare investimenti pubblici e privati. Questo genere di operazione, che si concretizza attraverso l’apertura di debito pubblico di tipo virtuale, può esporre al rischio di inflazione, ma – se condotta con equilibrio, in associazione con altre misure – non produce effetti mostruosi e quelli che produce sono comunque più accettabili dei problemi sociali irrisolti.

Parlando di quantità, va tenuto presente che il sistema economico può crescere anche per meccanismi propri e quando succede ha bisogno di nuovo denaro per non rimanere frenato. Lo stato che ha sovranità monetaria ed è al servizio dei cittadini amplia l’emissione di moneta e la immette nel sistema economico tramite il pagamento dei salari dei propri dipendenti, delle pensioni, degli acquisti di beni e servizi. In questo modo la massa monetaria si adegua alle accresciute esigenze del sistema in maniera silente e senza aggravio per nessuno, anche se apparentemente lo stato ha aperto un debito. Ma è con se stesso, quindi è nullo.

La gestione privatizzata

La logica della gestione privata concepisce il denaro come una merce da vendere per trarre profitto. Per cui la produzione di moneta è gestita dal sistema bancario con criteri opposti a quelli dello stato. Primo: ha interesse a mantenere la penuria di moneta, piuttosto che l’abbondanza, perché è nella scarsità che si possono imporre tassi di interesse più alti. Secondo: immette nuova liquidità a pagamento perché il principale canale che usa per aggiungere denaro al sistema è quello del credito su cui pretende un tasso di interesse. E poiché il sistema bancario è capace di emettere moneta dal niente, le banche godono del privilegio (assurdo) di poter incamerare ricchezza reale in cambio di un servizio virtuale di cui non hanno alcun merito. Una forma di arricchimento che non si può definire latrocinio solo perché è parassitismo legalizzato.

Su pressione delle forze liberiste che ormai dominavano la scena politica in tutta Europa, Jacques Delors non prese neanche in considerazione l’ipotesi della gestione pubblica dell’euro ed elaborò una proposta di gestione da parte del sistema bancario privato che poi diventò la base per la trattativa finale. In capo a qualche mese venne raggiunto un accordo definitivo, subito inserito nel trattato di riforma dell’Unione europea che venne firmato a Maastricht, Olanda, il 7 febbraio 1992.

Con i suoi 252 articoli, 17 protocolli e 31 dichiarazioni, il Trattato definisce il nuovo assetto organizzativo dell’Unione europea e le condizioni che gli stati debbono rispettare per esservi ammessi. Varie parti sono dedicate all’impianto organizzativo della moneta unica e fin dai primi passaggi si percepisce la volontà di tenerla completamente fuori dalla sfera d’influenza del potere politico. Per cominciare la moneta nascente è affidata alle cure di un’istituzione nuova di zecca, la Banca centrale europea (Bce), di fatto una società per azioni, i cui azionisti sono le banche centrali di tutti i paesi aderenti all’Unione europea (scheda). Ma non si capisce la vera natura della Banca centrale europea, se non si precisa che le banche centrali nazionali altro non sono che strutture possedute dalle banche private. La Banca d’Italia, ad esempio, è posseduta da 124 azionisti, quasi tutti istituti bancari e fondazioni bancarie, su cui spicca Intesa Sanpaolo e UniCredit (scheda).

Mario Draghi – European central Bank

Diversità tra Bce e Fed

Il carattere neoliberista dell’Unione europea, emerge non solo dalla decisione di affidare il governo dell’euro al sistema bancario privato, ma anche dai compiti assegnati alla Bce. Se esaminiamo i compiti assegnati alla Federal Reserv (Fed), la Banca centrale statunitense, notiamo che al primo posto c’è il perseguimento della piena occupazione («to promote maximum employment»). In Europa, invece, l’unico compito assegnato alla Banca centrale è la stabilità dei prezzi, ossia il mantenimento del valore dell’euro. Nella prossima puntata di questa rubrica, vedremo come tale scelta abbia avuto effetti profondi sulla gestione del debito pubblico e quindi sulle condizioni sociali dei paesi europei. Ma intanto conviene riflettere su un’altra scelta effettuata dall’Unione europea: quella di «agire in conformità con il principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza».

Accettare che il rapporto fra le imprese sia regolato solo dalla concorrenza, è come decretare la morte di quelle più deboli. E quando si adotta la stessa moneta senza alcun tipo di salvaguardia, le imprese dei paesi più deboli rischiano grosso perché adottare una moneta unica è come aprire le gabbie dello zoo: le bestie più grosse possono entrare con maggiore facilità nelle gabbie delle bestie più deboli e prendersi il loro cibo. Fuori di metafora, con una moneta unica, le imprese più solide possono sottrarre mercato alle imprese più deboli con maggiore facilità, perché possono fare prezzi più bassi. Esattamente come è successo in Europa dove le imprese del Nord Europa, tecnologicamente più avanzate, hanno potuto penetrare con più facilità in tutto il mercato europeo, mettendo in seria difficoltà le imprese meno efficienti del Sud Europa comprese quelle italiane. Un disagio che si è fatto ancora più acuto con la crisi scoppiata nel 2008, fino a suscitare una vera e propria avversione verso l’euro.

Avversione raccolta dal partito della Lega, che in nome della difesa di tutto ciò che è italiano ha riscosso molti consensi alle elezioni politiche del 4 marzo 2018.

Uscire dall’euro?

In nome delle difficoltà create alle imprese nazionali, molti propongono addirittura di uscire dall’euro, in modo da recuperare la possibilità di svalutare e riuscire, per quella via, a colmare lo svantaggio competitivo esistente sul piano tecnologico.

Questa tuttavia è solo una parte del dibattito possibile sull’euro. La discussione va inevitabilmente integrata con tutta la partita legata al tema del debito pubblico. Un aspetto che sicuramente introduce altri elementi di complicazione, ma che forse può permetterci di trovare soluzioni che ci facciano evitare il rischio di voler cambiare tutto affinché niente cambi.

Francesco Gesualdi

 




Imprese Unite d’Europa

Testo di Francesco Gesualdi |


La storia dell’integrazione economica europea inizia nel 1948 con la nascita del Benelux. Dopo vari passaggi, nel 1993 nasce l’Unione europea (Ue), il cui organismo principe è la Commissione. È questa che propone le leggi, gestisce le politiche e assegna i finanziamenti. È su di essa che le lobby lavorano.

La strategia utilizzata dalle imprese statunitensi per penetrare i mercati altrui in tempo di protezionismo fu – lo abbiamo visto nella precedente puntata – l’«invasione» dall’interno. Quelle europee, invece, preferirono seguire vie più istituzionali. La prima iniziativa in tal senso venne assunta, nel secondo dopoguerra, da parte di Belgio, Olanda e Lussemburgo, tre stati che, a causa delle loro piccole dimensioni, avvertivano più di altri il limite di mercati ristretti.

Avrebbero potuto seguire la strada dell’area di libero scambio, la forma più blanda di alleanza economica che si limita ad abbattere le barriere doganali e regolamentari per facilitare gli scambi fra stati. Invece optarono per l’unione doganale, una formula che oltre a impegnare gli stati aderenti ad abbattere gli ostacoli fra loro, li impegnava ad adottare le medesime tariffe doganali verso il resto del mondo.

L’unione doganale fra i tre stati europei divenne operativa nel 1948 ed assunse il nome di Benelux. Ma contemporaneamente si erano messi in moto altri processi che di lì a poco avrebbero reso quell’accordo obsoleto. La Francia che, al pari della Germania, disponeva di una forte industria del carbone e dell’acciaio, propose a quest’ultima un’alleanza specifica per questi prodotti, giustificata, più che da ragioni economiche, da quelle politiche.

Le proposte di Robert Schuman e Altiero Spinelli

La proposta venne ufficializzata il 9 maggio 1950 da Robert Schuman, ministro degli esteri francese, con un discorso che rimase famoso: «L’insieme delle nazioni europee esige che l’opposizione secolare fra Francia e Germania sia superata […]. Il governo francese propone di mettere la produzione franco-tedesca di carbone e acciaio sotto il controllo di un’Alta autorità comune, nell’ambito di un’organizzazione aperta alla partecipazione di altri paesi europei. Nell’immediato la gestione condivisa del carbone e dell’acciaio assicurerà le basi per uno sviluppo comune, prima tappa della Federazione europea che cambierà il futuro delle nostre regioni per troppo tempo votate alla produzione di armi di cui sono rimaste vittime. La solidarietà produttiva renderà non solo impensabile, ma materialmente impossibile che Francia e Germania tornino a farsi la guerra».

La proposta di Schuman si concretizzò il 18 aprile 1951 con la firma di un accordo denominato Ceca («Comunità economica del carbone e dell’acciaio») a cui aderirono non solo Francia e Germania, ma anche l’Italia e i tre paesi del Benelux. Intanto, Altiero Spinelli, un antifascista perseguitato da Mussolini, aveva messo a punto una proposta di integrazione europea che non si limitasse ai soli temi economici. Ma la proposta di costituire una federazione europea unita anche da un punto di vista politico e militare incontrò ampie resistenze e l’unica alleanza che venne perseguita fu quella economica.

Nel giugno 1955 nel corso di una riunione tenuta a Messina da parte dei sei paesi aderenti alla Ceca, Henri Spaak, ministro degli esteri belga, propose un rapporto di collaborazione non più limitato al carbone e all’acciaio, ma esteso a ogni altra attività produttiva e commerciale. Il suo progetto, tuttavia, non prevedeva un puro e semplice allargamento dell’unione doganale già formata fra Belgio, Olanda e Lussemburgo. La sua idea era di costituire un mercato comune europeo che, se per certi versi era una formula sovrapponibile all’unione doganale, per altri la superava perché avrebbe esteso la libera circolazione anche a capitali e persone. La proposta di Spaak incontrò il favore degli altri partner che vollero addirittura fondare una «Comunità economica europea» (Cee). Un’alleanza che si distingueva dal mercato comune perché, oltre ad istituire un’area di libera circolazione di merci, capitali e persone nella quale applicare una medesima politica doganale e commerciale nei confronti degli stati terzi, prevedeva anche l’impegno ad armonizzare le scelte dei 6 paesi in ambito agricolo, energetico, dei trasporti, della concorrenza.

Il Trattato di Roma (1957)

Il trattato che istituiva la Comunità economica europea passò alla storia come il Trattato di Roma, perché venne firmato in quella città il 25 marzo 1957. Un caposaldo dell’accordo era la gradualità del processo, e il tempo concesso per realizzare il mercato comune venne fissato in dodici anni. In realtà l’integrazione procedette a più velocità. Mentre il percorso che portò all’abolizione delle barriere doganali tra gli stati membri e a istituire una tariffa esterna comune si concluse addirittura con 18 mesi di anticipo, il processo di libera circolazione dei capitali e delle persone si completò invece nel 1993, anno in cui venne ufficialmente annunciata l’unificazione (economica) europea. Il 1993 fu un anno di svolta anche per l’entrata in vigore di un nuovo trattato, quello di Maastricht, che sanciva la nascita della moneta comune, di cui, però, ci occuperemo in altre puntate di questa rubrica.

Come vedremo, dal 1957 a oggi il Trattato di Roma è stato modificato a più riprese, ma l’impalcatura organizzativa dell’integrazione europea è rimasta pressoché immodificata. Purtroppo non ispirata a principi di democrazia parlamentare, come mostra il fatto che il Parlamento europeo verrà eletto a suffragio universale solo a partire dal 1979.

Nel condominio Europa

In effetti in Europa l’assetto organizzativo è più simile a un condominio che a uno stato. E come nei condomini le decisioni sono prese dai capifamiglia d’accordo con l’amministratore, allo stesso modo in Europa le decisioni sono prese dai governi (i capifamiglia) assieme alla Commissione europea (l’amministratore). Negli ultimi tempi sono state introdotte varie novità che danno più potere al Parlamento europeo. Ma nonostante le riforme, l’organo che continua a svolgere una funzione strategica è la Commissione europea, formata da 28 membri (uno per ogni paese dell’Unione), 27 commissari e un presidente. Quest’ultimo viene eletto dal Consiglio europeo, che è composto dai capi di stato o di governo dei paesi membri. La funzione della Commissione è del tutto paragonabile all’amministratore di condominio. Apparentemente l’amministratore svolge solo una funzione di supporto tecnico. Di fatto è il vero gestore degli affari condominiali perché suggerisce le decisioni da prendere e le trasforma in ordinanze. Analogamente, la Commissione mette a punto le «proposte» che il Consiglio dell’Unione europea (composto dai ministri di ciascun paese competenti per la materia in discussione) e il Parlamento europeo dovranno discutere. Una volta approvate, le trasforma in provvedimenti legislativi, di cui i «regolamenti» sono l’espressione massima in quanto vincolanti per tutti.

La Commissione europea

Proprio per questa sua funzione, al tempo stesso di proponente e gestore delle decisioni assunte, la Commissione europea è l’organismo che esercita più potere in Europa. Un potere che, senza troppi sotterfugi, condivide con le imprese in nome di un principio per certi versi lodevole: la Commissione ammette di non avere competenza su tutto, perciò ogni volta che deve affrontare un tema, istituisce una commissione consultiva denominata «Gruppo di esperti». Ad esempio, nel 2013 ha convocato 38 Gruppi di esperti sulle tematiche più disparate, dagli Ogm alle regole bancarie, dal doping sportivo, agli additivi alimentari. Talvolta piccole commissioni formate da non più di 10 persone. Talvolta gruppi affollatissimi, addirittura con 80 membri. Tuttavia, la domanda importante non è quanti sono, ma chi sono i componenti dei gruppi. Perché i loro pareri diventeranno proposte che, con buona probabilità, saranno trasformate in regolamenti validi per tutta l’Ue.

Un esercito di 25mila lobbisti

Le indagini condotte attraverso gli anni dall’organizzazione Ceo (Corporate Europe Observatory: corporateeurope.org) hanno sempre messo in evidenza una predilezione per i rappresentanti d’impresa. E il rapporto pubblicato il 9 aprile 2014 sui Gruppi di esperti istituiti per tematiche finanziarie, ne è un’ulteriore conferma. Il 70% dei loro componenti sono rappresentanti di banche, fondi di investimento, istituti assicurativi.

Si stima che a Bruxelles lavorino più di 25mila lobbisti per una spesa complessiva di un miliardo e mezzo di euro: rappresentanti di imprese e associazioni del mondo degli affari, con l’unico scopo di intrufolarsi negli uffici della Commissione europea ed ottenere decisioni favorevoli agli interessi della propria categoria. Il settore finanziario da solo tiene a libro paga 1.700 lobbisti. Gente pagata fra i 70 e i 100mila euro all’anno per una spesa complessiva di circa 123 milioni di euro.

Con tanta potenza di fuoco, la finanza si sta infiltrando anche nel Parlamento europeo. Centinaia di esponenti di istituzioni bancarie e finanziarie – fra cui JP Morgan, Goldman Sachs, Deutsche Bank, Unicredit – hanno libero accesso al Parlamento europeo e quando sono in discussione provvedimenti di loro interesse, si danno da fare in tutti i modi possibili per convincere i parlamentari ad assumere posizioni a loro gradite. E i risultati si vedono. Ceo cita il caso di un provvedimento di regolamentazione finanziaria su cui vennero presentati 1.700 emendamenti, 900 dei quali scritti di sana pianta dai lobbisti della finanza.

Francesco Gesualdi


Politica e affari

Le porte girevoli

Per molti politici europei, chiusa la storia politica, inizia quella degli affari. Un fenomeno per nulla etico.

(© European Union 2013 – European Paliament)

Goldman Sachs da una parte, José Manuel Barroso (foto) dall’altra. La prima è una delle più grandi banche d’investimento del mondo, una banca cioè che non fa attività ordinaria di deposito e prestiti, ma finanza d’azzardo a vantaggio dei propri azionisti e clienti. Il secondo è un politico portoghese, presidente della Commissione europea dal 2004 al 2014. Nel luglio 2016 i loro destini si incrociano: Barroso diventa presidente non esecutivo e consigliere di Goldman Sachs. «La sua esperienza e capacità di giudizio saranno di grande aiuto per noi e i nostri azionisti», afferma Goldman Sachs a giustificazione della sua scelta. E c’è da starne certi: per i ruoli che ha ricoperto, Barroso saprà ben consigliare come arrivare a chi conta nell’Unione europea e come sfruttare le lacune della legislazione europea a tutto vantaggio della banca.

Quello di Barroso è un caso classico di porta girevole, di passaggio, cioè, dalla politica al mondo degli affari con chiare funzioni di lobby. Un fenomeno abbastanza diffuso che permette alle imprese di infiltrarsi sempre di più nelle istituzioni politiche e indirizzarne le scelte. Fra i casi più clamorosi: Gerhard Schröder che diventa presidente dell’azienda russa Gazprom dopo avere dismesso il ruolo di capo del governo in Germania e Viviane Reding che assume incarichi nella Fondazione Bertelsmann e Agfa-Gevaert dopo aver lasciato il posto di Commissaria alla giustizia della Commissione europea.

Fra.G.