San Lazzaro Devasahayam


«La canonizzazione del beato Lazzaro, chiamato Devasahayam, è un’affermazione del suo essere stato discepolo di Gesù, avendo vissuto pienamente il Vangelo nella sua vita. Era un laico, e questo rivela che la santità è per ogni persona, non solo per i religiosi. Oggi parliamo sempre più spesso della vocazione dei laici nella Chiesa, e qui c’è un laico indiano, un padre di famiglia, che ha offerto una testimonianza vera e genuina dei valori del Vangelo. Amava i poveri e i Dalit ed era un potente testimone dello Spirito di Cristo» (card. Oswald Gracias, arcivescovo di Mumbai).

Nel regno di Travancore (Thiruvitankur nella linga locale), situato nell’India Sud occidentale, dal 1720 regnava Martanda Varmâ. Nel XVIII secolo questi territori erano ambiti dalla Compagnia olandese delle Indie. Ma il regno di Travancore si opponeva decisamente a questo dominio straniero e nella battaglia di Colachel (10 agosto 1741), sconfisse i mercenari della Compagnia, liberandosi dai legami coloniali e dalle tasse sul commercio delle spezie, in particolare sul pepe nero.

Diversi soldati della Compagnia furono fatti prigionieri, tra di essi il comandante degli olandesi, Eustache de Lannoy, un cattolico francese, che poi accettò di mettersi al servizio del re che gli diede il compito di modernizzare la flotta e l’esercito del suo regno. Da abile stratega militare, De Lannoy organizzò l’esercito di Travancore secondo lo standard europeo. Introdusse le armi da fuoco, promosse un sistema di tassazione accurato, e fece eseguire lavori d’irrigazione per rendere fertili e coltivabili le terre aride della parte interna del paese, salendo di grado fino a diventare ammiraglio capo. Ebbe infine un ruolo importante nella conversione di Nilakandan, un ufficiale dell’esercito reale.

Il regno di Travancore era uno stato principesco del subcontinente indiano. Comprendeva la maggior parte del Sud dell’attuale stato del Kerala e il presente distretto di Kânyâkumârî dello stato del Tamil Nadu. Aveva come capitale Thiruvananthapuram, l’odierna capitale del Kerala.

L’ampio territorio era incorniciato da alte montagne sui cui versanti prosperavano piantagioni di ogni tipo. Con le spiagge degradanti fino al mare, si godeva di un clima tropicale caldo e umido, ricco di precipitazioni e di piogge monsoniche, con temperature elevate durante tutto l’anno. Nel 1503 era stato la prima colonia portoghese in India, e fu per secoli uno snodo fondamentale per il commercio delle spezie verso il Medio Oriente e l’Europa. Era il regno del cocco, del peperoncino, del pepe nero, delle foglie di curry, del cardamomo, dei semi di senape e dei chiodi di garofano, spezie ancora oggi apprezzate dalla popolazione locale.

Statue of Devasahayam Pillai, St. Francis Xavier Cathedral, Kottar, Nagercoil – CC BY-SA 3.0

La nascita di Nilam

Nel piccolo villaggio di Nattalam, in una famiglia indù, il 12 aprile 1712 nacque Nilam, detto anche Nilakandan. Ricevette subito il titolo di «pillai» perché apparteneva all’alta casta dominante, i Nair, i cui membri lavoravano come soldati al servizio del re.

La carriera militare

Nilam fu educato da tutori competenti e raggiunse un alto livello di preparazione. Si esercitò anche nelle arti marziali tradizionali, mentre studiava e imparava molte lingue.

Con la meditazione e lo yoga, le arti marziali avevano lo scopo di aiutarlo a dominare il corpo e la mente, infondendo nell’animo serenità e pace per servire la divinità con tutto il cuore. Non erano semplici esercizi fisici per difendersi da attacchi improvvisi, ma strumenti di primaria importanza per portare l’esercitante nella via della pace interiore, nell’autocontrollo e nella pratica della nonviolenza. La morbidezza e la cedevolezza nei movimenti erano qualità essenziali nella pratica delle arti marziali. Non bisognava infatti opporsi alla forza dell’avversario, ma utilizzare piuttosto la sua forza per batterlo.

In quanto indù tradizionalista, Nilakandan si dedicò sempre fedelmente alle devozioni degli dei e all’osservanza religiosa, divenendo un ufficiale presso il tempio di Nilakandaswamy, nel Padmanabha­puram.

Grazie alla sua grande intelligenza e ai suoi talenti, intraprese la carriera militare divenendo ministro del regno di Travancore, come funzionario del palazzo reale addetto al tesoro e alle finanze. Era molto amato dal re, perché era un uomo buono e fedele al suo dovere.

Convertito dalla storia di Giobbe

Con il passare del tempo, quando, dopo alcuni cattivi raccolti e una cattiva gestione, perse i suoi beni, Nilakandan corse il pericolo di perdere anche il posto di lavoro e la sua onorabilità. Fu Eustache de Lannoy a consolarlo narrandogli la storia biblica di Giobbe. Gli raccontò che, messo alla prova da Satana, Giobbe aveva sopportato con rassegnazione la perdita dei suoi beni, dei suoi sette figli e tre figlie morte nel crollo della casa, e anche le sofferenze dovute alla malattia che lo aveva colpito.

Fortemente impressionato da questo personaggio, Nilakandan si avvicinò al cristianesimo e, nonostante fosse ben consapevole dell’ostilità che il re aveva verso i convertiti, chiese di ricevere il battesimo dal gesuita padre Giovanni Battista Buttari. Così il 14 maggio 1745 divenne cristiano, scegliendo per sé il nome di Devasahayam, traduzione in lingua tamil del biblico Lazzaro, o Eleazar, che in ebraico significa «aiuto di Dio».

Si consacrò solennemente a Cristo

Nel giorno del suo battesimo Devasahayam si consacrò solennemente a Cristo: «Nessuno mi ha costretto a venire, sono venuto dalla mia propria volontà. Egli è il mio Dio. Ho deciso di seguirlo e lo farò per tutta la mia vita». La sua vita non fu più la stessa: Devasahayam si dedicò alla proclamazione del Vangelo per quattro anni.

I capi indù non videro di buon occhio la sua conversione al cristianesimo. I bramini cominciarono a muovere false accuse contro Devasahayam presso il re che lo fece arrestare nel febbraio del 1749, intimandogli di ritornare all’induismo.

La conversione di un ministro del re era, infatti, ritenuta un tradimento e un pericolo per la solidità dello stato. Il suo rifiuto di adorare le divinità indù e di prendere parte alle tradizionali feste religiose irritò molto il re e i suoi ufficiali che non tolleravano la sua predicazione sull’uguaglianza di tutti i popoli, il superamento delle caste e l’amicizia con gli intoccabili, cosa proibita per una persona di casta elevata.

Tutti gli sforzi del re risultarono vani e Devasa­hayam rimase fermo nella sua nuova fede e si rifiutò di abbandonare Gesù Cristo. In seguito a ripetuti e inutili tentativi di fargli abiurare la fede cristiana, il re ordinò che venisse torturato a lungo pubblicamente, come monito per coloro che pensavano di convertirsi al cattolicesimo.

Persecuzione e tortura

Gli ufficiali di palazzo e i soldati misero in mostra Devasahayam attraverso il regno in un modo ignominioso e straziante. Fu fatto fatto girare nei villaggi seduto su un bufalo e gli furono offerte ridicole corone di fiori, mentre veniva regolarmente picchiato in pubblico con bastoni e spine. Misero polvere di peperoncino sulle sue ferite per aumentare il dolore e le sofferenze. Lo costrinsero a stare in mezzo a insetti voraci. Lo fecero camminare per molti chilometri sotto il sole cocente, con le mani e i piedi incatenati. Arrivati presso una roccia a Puliyoorkurichy, era molto assetato, ma i soldati si rifiutarono di dargli da bere. Cadde allora in ginocchio e pregò: l’acqua sgorgò e placò la sua sete, e sulla roccia rimasero le impronte delle sue ginocchia.

Gli ufficiali per intensificare le sue sofferenze lo portarono in un posto chiamato Peruvilai dove lo consegnarono ai carnefici. Essi lo legarono strettamente a un albero, impedendogli così di sedersi o sdraiarsi. All’aperto, sotto il sole cocente, la pioggia o il vento, soffrì la fame per sette mesi. Accettò ogni cosa felicemente e offrì tutto per la gloria di Dio. In mezzo a tutte queste sofferenze, la sua fede in Gesù non fu mai scossa ed egli rimase fedele a Cristo, non smise mai di pregare e meditare.

A closer look of the rock where Devasahayam is believed to have prayed and left imprints of his knee and elbow – CC BY-SA 3.0 Jayarathina

Il martirio

A Peruvilai una grande folla cominciò a recarsi presso di lui ogni giorno, per ricevere le sue benedizioni e preghiere. I soldati lentamente cominciavano a essere gentili con lui fino al punto da suggerirgli di fuggire. Venuto a conoscenza della nuova situazione, il re e gli ufficiali di palazzo si sentirono sconfitti nel loro desiderio di far cambiare idea a Devasahayam e, per evitare che ancora più gente diventasse cristiana, ordinarono che fosse portato in una prigione segreta presso Aralvaimozhy, al confine Sud Est del regno.

Anche a Aralvaimozhy le torture continuarono e, giorno dopo giorno, la sua salute divenne precaria. Infine, arrivò il momento supremo del martirio, che egli desiderava da molto tempo.

Il 14 gennaio 1752 gli ufficiali ricevettero l’ordine speciale da parte del re di ucciderlo in segreto. Devasahayam fu svegliato prima della mezzanotte e i soldati lo portarono sulle loro spalle, non essendo in grado di camminare, fino in cima a una collinetta nella foresta di Aralvaimozhy.

Per l’ultima volta egli chiese ai soldati un po’ di tempo per pregare. Nel mezzo della notte si inginocchiò sulla roccia e si abbandonò completamente al Signore.

Quando finì di pregare, chiese ai soldati di fare il loro dovere, ed essilo fecero. Gli spararono tre volte e Devasahayam cadde sulla roccia gridando: «Gesù, salvami!». Quindi per assicurarsi che fosse morto, gli spararono altri due colpi. Lo gettarono nella foresta perché il suo cadavere venisse divorato dalle belve e così distruggere ogni prova della sua uccisione.

Dopo cinque giorni, i cattolici che vivevano nelle vicinanze vennero a sapere dell’esecuzione. Raccolsero i suoi resti e li seppellirono nella Chiesa di San Francesco Saverio a Kottar, l’attuale cattedrale della Diocesi di Kottar, nello stato di Tamil Nadu.

Una santità riconosciuta

Tomb of Devasahayam Pillai, St. Francis Xavier Cathedral, Kottar, Nagercoil (CC BY-SA 3.0)

Ben presto Devasahayam venne venerato nella regione, e nel 1993 la diocesi di Kottar aprì canonicamente la causa di beatificazione.

La sua santità era ancorata a due capisaldi: anzitutto il grande desiderio di offrirsi a Dio, di appartenergli totalmente donandogli la vita, anche in modo cruento nel martirio. Poi, vivere in ascolto della parola di Dio, sottomettendosi totalmente al servizio della verità del Vangelo nella società. Visse così da vero testimone di Cristo la sua fede battesimale e il suo impegno cristiano. Dopo lunghe ricerche, Benedetto XVI autorizzò la promulgazione del Decreto super martyrio il 28 giugno 2012.

«La Chiesa indiana è grata per questa figura così eroica nel diffondere il Vangelo nella nostra terra anche nelle tribolazioni. È un dono all’India e alla Chiesa universale: sono sicuro che guiderà la vita di molti cristiani» (cardinal Baselios Cleemis, siro-malankarese).

Nella città di Nagercoil (diocesi di Kottar), il 2 dicembre 2012, si svolse la cerimonia di beatificazione, con grandissima partecipazione di popolo.

La canonizzazione è stata poi resa possibile dal riconoscimento di un miracolo avvenuto per sua intercessione, cioè la guarigione nel grembo di una donna indiana di un feto di 20 settimane che la medicina aveva ufficialmente dichiarato morto.

Gli esami ecografici a cui si era sottoposta laa donna avevano riscontrato mancanza di battito cardiaco e di movimento fetale. La donna, di religione cattolica, si fece portare dai genitori dell’acqua attinta dal pozzo di Nattalam, luogo di nascita del beato Lazzaro, di cui era molto devota: la bevve e continuò a pregare. Circa un’ora dopo aver bevuto, la donna sentì che il feto si muoveva. L’attività cardiaca fetale fu accertata da successive ecografie. Il bambino nacque senza parto cesareo, sano e in buone condizioni cliniche generali.

Papa Francesco nel concistoro del 3 maggio 2021 fissò la data di canonizzazione per il 15 maggio 2022.

Monsignor Peter Remigius, vescovo emerito di Kottar, dove si trovano i luoghi di nascita e di martirio di Devasahayam, assicura che «Da quando papa Francesco ha autorizzato il processo di canonizzazione, migliaia di persone stanno accorrendo nel luogo in cui è stato fucilato. In tutte le parrocchie della diocesi c’è grande giubilo, la notizia è diventata virale sui social. Inoltre, la donna del miracolo appartiene alla diocesi e abita molto vicino alla casa natia del beato».

Giuseppe Ronco

 




Beato Benedict Tshimangadzo Daswa


Il 13 settembre 2015, in un prato a Tshitanini, un paese non lontano dalla cittadina di Thohoyandou nel Nord del
Sudafrica, provincia del Limpopo, il cardinal Angelo Amato ha dichiarato beato Benedict Daswa, un maestro ucciso dalla gente del suo stesso villaggio per aver rifiutato di piegarsi alla stregoneria. Prima della beatificazione il suo corpo era stato riesumato e i suoi resti erano stati trasferiti nella chiesa che aveva contribuito a costruire, a Nweli, uno dei villaggi di Tshitanini.

Il beato Benedict Daswa

Tre fatti legano il beato Benedict Daswa al suo paese: è nato il 16 giugno 1946, in quello che sarebbe diventato nel 1976 il giorno dell’inizio della rivolta di Soweto che avrebbe segnato l’inizio della lotta contro l’apartheid, ed è stato ucciso il giorno della fine dell’apartheid (il 2 febbraio 1990). Infine riposa in una chiesa dedicata a Nostra Signora dell’Assunzione, patrona del Sudafrica.

Il beato Benedict nasce come Tshimangadzo Samuel Daswa il 16 giugno 1946, figlio primogenito di Tshililo Petrus e Thidziambi Ida Daswa. Ha tre fratelli più piccoli e una sorella. La famiglia, di religione tradizionale, appartiene alla tribù dei Lemba che vivono in quello che un tempo era il bantustan (territorio assegnato a una specifica etnia, ndr) del Venda, nel Nord del Sudafrica, vicino ai confini con Botswana, Zimbabwe e Mozambico. Dopo la morte del padre in un incidente, Daswa si assume la responsabilità dei suoi fratelli più piccoli e, appena comincia a lavorare, contribuisce a pagare per la loro educazione e li incoraggia sempre a studiare.

Durante le vacanze scolastiche va a stare con uno zio a Johannesburg dove trova un lavoro part time. Lavorando, diventa amico di un giovane bianco di fede cattolica. In più, molti dei suoi coetanei e compagni di scuola, dell’etnia Shangaan (un sottogruppo dei Tsonga, che vivono sia in Sudafrica – circa un milione e mezzo – che nel Mozambico e nello Zimbabwe – 4,5 milioni), sono cattolici. Daswa si converte così al cattolicesimo all’età di 17 anni. Prende il nome di Benedict da san Benedetto, il famoso santo del VI secolo, e in onore di Benedetto Risimati, il catechista che istruisce lui e altri sotto un albero (Risimati, vedovo, sarà ordinato sacerdote nel 1970 e morirà a 64 anni nel 1976). Dopo aver ricevuto la cresima da parte dell’abate vescovo benedettino Clemens van Hoek a Sibasa, antica capitale del bantustan, nel 1963, Daswa si dà da fare per insegnare la fede cattolica ai membri più giovani della sua comunità.

Un laico cattolico attivo

Dopo aver conseguito il titolo di studio di maestro, comincia a insegnare nella Tshilivho Primary School di Ha-Dumasi, diventandone preside nel 1979. È attivo nei sindacati degli insegnanti, nello sport e nella vita quotidiana del suo villaggio, Mbahe. Nella comunità, Daswa guida le funzioni domenicali quando il sacerdote non c’è e insegna catechismo ai giovani e agli anziani. Non ha ancora una casa tutta sua, ma d’accordo con la moglie, aiuta a costruire la chiesa di Nostra Signora dell’Assunzione a Nweli, affinché la comunità abbia un luogo decente per pregare. Questa chiesa ospiterà poi la sua tomba.

Amante della terra, coltiva con cura un grande orto, dal quale dona gratuitamente ortaggi ai poveri. Diventa membro, e poi anche segretario, del consiglio dell’headman (capo locale, equivalente più o meno al nostro sindaco, ndr) del villaggio. Nel consiglio si fa notare per la sua risoluta onestà, integrità e amore per la verità.

«Era aperto alla vita, al bene. Era uno che aiutava la gente. L’intero villaggio dipendeva dal suo piccolo orto per le verdure. Alcuni erano così poveri che lui lasciava loro le verdure anche senza pagare», ricorderà suo figlio maggiore, Lufuno, il primo di otto. Benedict sposa Shadi Eveline Monyai nel 1974, solennizzando la loro unione in chiesa nel 1980. Avranno otto figli, l’ultimo dei quali nascerà quattro mesi dopo la sua morte (Shadi, invece, morirà nel 2008).

La sua fede influisce profondamente sul suo modo di comportarsi, preoccupato com’è di vivere più il Vangelo che le tradizioni locali, e per questo è anche pesantemente criticato. Fa anche dei lavori che la tradizione ritiene riservati alle donne, come raccogliere legna e lavare i vestiti nel fiume, ma per lui condividere la cura dei bambini e le faccende domestiche con sua moglie fa parte dell’impegno matrimoniale.

Lufuno Daswa, che avrà 14 anni quando suo padre verrà ucciso, in seguito lo ricorderà come «un leader naturale» nella sua famiglia e nella Chiesa. «Tutta la famiglia era unita grazie a lui. Era un gran lavoratore. Era un visionario. Aveva piani per il futuro. Aveva fatto progetti per la nostra famiglia, per la nostra educazione. Era il 1980, ma già allora ci ha mandato nella migliore scuola della regione, la Catholic St. Brendan’s school. Noi potevamo andare da lui liberamente, come da un amico. Era tutto ciò che si poteva chiedere da un padre».

Benedict con la moglie Shadi Eveline

Tra fede e stregoneria

Sono proprio le sue scelte di fede a metterlo presto in conflitto con alcuni degli abitanti del villaggio e membri del consiglio del capo. Essi si risentono per la sua opposizione alla pratica della stregoneria, una pratica profondamente legata alla cultura tradizionale. Il conflitto ha origini nel calcio. Nel 1976, infatti, Benedict fonda una squadra chiamata Mbahe Eleven Computers. Dopo che la squadra subisce una serie di sconfitte, gli suggeriscono di chiamare un sangoma (guaritore stregone tradizionale, ndr) per fare dei riti propiziatori per far vincere la squadra. Benedict si oppone all’idea, ma nella votazione viene sconfitto, e lo stregone viene chiamato. Così lascia il club e forma una nuova squadra, gli Mbahe Freedom Rebels. Quella decisione scatena una lunga campagna di odio e gelosia nei suoi confronti da parte di alcuni. Viene perfino accusato di essere lui stesso uno stregone da gente invidiosa del suo successo, della sua bella famiglia, dell’orto che prospera e dell’amicizia che ha con il capo del villaggio.

Nel 1989 la crisi si acuisce. A novembre ci sono una serie di insoliti e fortissimi temporali con lampi, tuoni e soprattutto tanti fulmini che incendiano anche alcune capanne. Questo fenomeno si ripete di nuovo il 25 gennaio 1990. Per questo il 28 gennaio il capo villaggio convoca una riunione straordinaria del consiglio per vedere cosa fare. Benedict non riesce a essere presente all’incontro fin dall’inizio. Quando arriva il consiglio ha già deciso di cercare l’aiuto di un sangoma per scovare la «strega» che ha causato tutti quei fulmini. Ovviamente il sangoma non farà niente gratis, così per pagarlo decidono di richiedere cinque rand (più o meno l’equivalente di un euro, ndr) a ogni membro della comunità. Benedict cerca invano di far capire che i fenomeni meteorologici sono naturali e quindi non possono essere attribuiti alle streghe. Sottolinea anche che l’ascolto del reponso dello stregone causerà la morte di qualche persona innocente, ma inutilmente. Ci sono anche altri leader religiosi nel consiglio, ma la paura è più forte della loro fede.

Daswa allora si rifiuta di contribuire, sottolineando che l’uso di un guaritore tradizionale costituisce stregoneria e quindi è in conflitto con la sua fede. Così diversi membri del consiglio si sentono offesi per quella che percepiscono come una mancanza di rispetto per le loro convinzioni e cominciano a complottare per ucciderlo.

Il maestro Benedict in un momento gioviale con i suoi studenti

Una data importante

Il 2 febbraio 1990 – la festa della Presentazione del Signore al tempio – è una giornata intensa. Quel venerdì, è il giorno in cui il presidente Frederik Willem de Klerk annuncia la legalizzazione dei movimenti di liberazione (dell’African national congress – Anc, del Panafrican congress e del Partito comunista sudafricano) e la liberazione di Nelson Mandela. Daswa comincia il giorno lavorando nel suo orto dove raccoglie un bel po’ di cavoli, li mette in ceste che carica sul suo pickup, poi va fino a Makwarela dal medico per portare sua cognata con il bambino malato. Da lì si reca direttamente a Thohoyandou per consegnare al parroco, padre John Finn, tutto il carico di cavoli per i poveri. Mentre torna a casa incontra un giovane che cammina con un sacco di farina sulle spalle e gli dà un passaggio.

Riprende poi il viaggio per tornare a casa a Mbahe, quando alle 19.30, arrivando vicino alcampo da calcio degli Eleven Computers, nei pressi della scuola di cui lui è preside, vede la strada bloccata da tronchi e sassi. Benedict scende dal pickup per rimuovere i tronchi e subito un gruppo di uomini gli è addosso, lo pestano a sangue e lo colpiscono con pietre.

Il campo da calcio attraverso il quale ill beato Daswa ha cercato di fuggire ai suoi assalitori

Sanguinante, scappa attraverso il campo da calcio trovando riparo nella cucina di un rondavel (capanna rotonda tradizionale, ndr). Ma gli assalitori lo inseguono e minacciano di morte la proprietaria della capanna perché riveli il nascondiglio di Daswa. Due ragazzi lo tirano fuori a forza dal rondavel. Lui ne abbraccia uno, implorando per la sua vita. Un uomo però gli dà addosso brandendo una mazza di legno e gli sferra il colpo fatale. Benedict prega dicendo: «Dio, nelle tue mani, ricevi il mio spirito». Il colpo lo butta a terra con la testa rotta. Gli assalitori gli versano acqua bollente sulla testa, per assicurarsi che la loro vittima sia morta. E fuggono.

Il pick up del beato Daswa danneggiato dal lancio di sassi

Più forte del male

Il fratello di Benedict, Thanyani, è il primo membro della famiglia ad arrivare dove si trova il suo corpo. Quando la loro madre vede ciò che è stato fatto a suo figlio, sviene. Nei giorni che precedono il funerale di Benedict, padre Finn, le suore del Santo Rosario e la comunità cattolica vanno a casa Daswa ogni sera per pregare con la famiglia. «Ho un ricordo molto distinto: è stata la prima e unica volta che ho percepito la presenza del male», dirà padre Finn ricordando l’atmosfera di paura, tensione e ostilità nel villaggio.

Gli assassini non saranno mai condannati per mancanza di prove. Alcuni di loro continueranno ad andare ai Daswas (i centri dove si distribuisce cibo per i poveri, ndr) per ricevere frutta e verdura.

Lufuno Daswa, il figlio, ricorderà la sua ultima conversazione con il padre: «Stavo andando al secondo anno di scuola secondaria. Mi ha accompagnato alla
St. Brendan’s. Abbiamo chiacchierato a lungo. Mi stava insegnando alcune parole in sepedi, su come salutare mia madre. Abbiamo pregato e poi ci siamo abbracciati. Poi ha chiuso la portiera della macchina e io ho chiuso la mia, e lui se n’è andato. Penso che fosse il 22 gennaio, poco più di una settimana prima della sua scomparsa». Il funerale di Benedict è celebrato il 10 febbraio, il giorno prima del rilascio dal carcere di Nelson Mandela, nella chiesa di Nweli che Daswa ha contribuito a costruire. È presieduta da padre Finn con altri sacerdoti. Tutto il clero indossa paramenti rossi in riconoscimento della loro convinzione che Benedict sia morto martire per la sua fede.

Il maestro Benedict Daswa con i suoi studenti

Ricordo di un martire

All’inizio, la devozione a Daswa cresce localmente, fino a quando, alcuni anni dopo, il vescovo Hugh Slattery di Tzaneen ne viene a conoscenza. Il vescovo, che più avanti scriverà un libro sulla vita di Benedict Daswa, apre un’inchiesta sulla morte del martire nel 2005 e la completa nel 2009, quando viene inviata in Vaticano.

Nell’ottobre 2014, i consultori teologi della Congregazione per le cause dei santi raccomandano all’unanimità che Daswa sia dichiarato martire.

Benedict Daswa è beatificato il 13 settembre 2015 dal cardinale Angelo Amato, a nome di papa Francesco. Il successore di mons. Slattery, mons. João Rodrigues, presenta il decreto di beatificazione alla folla di oltre 35mila persone, tra cui il vicepresidente Cyril Ramaphosa.

I canti della celebrazione, a cui partecipano la madre, il fratello e la moglie con gli otto figli, sono sentiti a chilometri di distanza. C’è padre Augustine O’Brien che ha battezzato Daswa nel 1963, e padre John Finn, che ha celebrato il suo funerale.

Il cardinale Amato ricorda che Daswa è stato un uomo buono e gentile e, soprattutto «è stato un vero missionario di Cristo che è riuscito a convincere i suoi compagni ad abbracciare la fede cattolica».

Copertina della rivista Southern Cross

Il vicepresidente Ramaphosa sottolinea come la beatificazione sia un motivo di grande gioia per tutto il Sudafrica e che è la prima volta che la Chiesa cattolica riconosce come martire di Cristo un sudafricano.

Daswa è stato un uomo che ha avuto il coraggio di pagare di persona per quello che riteneva giusto, combattere la stegoneria per difendere la vita di anziane donne innocenti, pur sapendo di rischiare di perdere la sua stessa vita.

La festa di Daswa è il 1 ° febbraio.

 tradotto e adattato da «Southern Cross», giugno 2021

Funerale di Benedict nella chiesa di Nweli


Daswa e la politica

Nato il 16 giugno e martirizzato il 2 febbraio, due date molto importanti in Sudafrica. Daswa era politicamente schierato?

Non so se lo fosse o meno, ma certo era dalla parte della giustizia e dei poveri. Le persone di profonda fede, anche se dicono di non essere politicamente schierate, tendono a mettersi nei guai con il potere sia per il loro comportamento sia perché si fanno domande come: «Perché siamo poveri?». La loro preoccupazione di alleviare tutto ciò che mantiene le persone in schiavitù, li fa entrare in contatto con i poteri politici in modi che possono causare ad alcuni di loro persecuzione o addirittura la morte.

Penso poi che per noi cattolici il 2 febbraio abbia un significato più profondo di quello legato alla storia politica. È la festa della Presentazione del Signore. Molto interessante che quando Gesù fu presentato a Dio nel Tempio, la vita di Daswa fu presentata a Dio suo creatore. Che giorno per essere chiamati alla vita eterna.

suor Tshifhiwa Munzhedzi Op,
 postulatrice della causa di beatificazione


Cosa rende speciale il beato Daswa?

Se non fosse stato martirizzato, Daswa sarebbe stato uno dei tanti santi sconosciuti della Chiesa. Cosa lo rende così vicino alla gente? Cosa c’è in lui che affascina i comuni fedeli?
In primo luogo affascina come padre di famiglia.

Padre Finn presiede il funerale di Benedict nella chiesa di Nweli

La Chiesa ha molti santi, ma la maggior parte di loro sono religiosi. Il beato Daswa era sposato, un normale padre di famiglia, con figli e che lavorava come farebbe qualsiasi papà per sostenere la propria famiglia. D’altra parte, il suo processo di canonizzazione mostra proprio che i santi sono persone comuni che fanno cose ordinarie. È il modo in cui svolgono queste attività quotidiane che li rende diversi. Ognuna delle loro azioni è influenzata dalla loro fede in Dio e si connette costantemente con il loro Creatore. Questo è ciò che ha vissuto il beato
Daswa.

In secondo luogo, attira come educatore.

Daswa ha svolto il suo lavoro non solo concentrandosi sui risultati in classe. Vedeva i suoi allievi come esseri umani che hanno bisogno di essere guidati in tutti gli aspetti della vita. Lo ha fatto, e così ha insegnato loro responsabilità e abilità della vita. Era pronto a sostenere l’educazione dei suoi alunni anche quando era contro la volontà di genitori che non ne capivano proprio l’importanza. Nell’educare i bambini, ha aiutato a educare anche i genitori.

In terzo luogo, convince come convertito.

Come i primi cristiani, la sua conversione al cristianesimo è stata completa. Ha accettato Dio e ha vissuto la sua vita dedicandosi alla costruzione di quella relazione con Lui senza essere timido o vergognarsi di riconoscerlo in pubblico.

In quarto luogo, è una persona semplice.

Anche se il beato Daswa è andato a scuola e ha poi raggiunto una posizione sociale importante, è sempre rimasta in lui una grande semplicità. Penso che questa caratteristica lo renda attraente per le persone. È come se anche io potessi diventare quello che era lui. Penso che sia in quella semplicità che Cristo ha potuto trovare una casa dove dimorare.

E quinto, è esemplare la sua generosità.

Daswa era generoso, eppure non sembrava essere uno che potesse essere ingannato facilmente. Condivideva ciò che aveva con coloro che non avevano, ma si aspettava anche che la persona crescesse e si elevasse seguendo il suo esempio. Era ben consapevole che uno stomaco vuoto non può svolgere il suo lavoro come dovrebbe. Così, aveva schemi di alimentazione per i suoi alunni e dava frutta e verdura dal suo giardino ai vicini bisognosi.

suor Tshifhiwa Munzhedzi Op,
 postulatrice della causa di beatificazione

La tomba del Beato Daswa nelal chiesa di Nweli

 




Charles de Foucauld: il fratello universale


Tra i modelli presentati da papa Francesco nella recente enciclica Fratelli tutti c’è anche Charles de Foucauld. A conclusione del testo, infatti, lo presenta come «fratello universale»: «Voglio concludere ricordando un’altra persona di profonda fede, la quale, a partire dalla sua intensa esperienza di Dio, ha compiuto un cammino di trasformazione fino a sentirsi fratello di tutti. Mi riferisco al beato Charles de Foucauld. Egli andò orientando il suo ideale di una dedizione totale a Dio verso un’identificazione con gli ultimi, abbandonati nel profondo del deserto africano. Voleva essere, in definitiva, “il fratello universale”. Ma solo identificandosi con gli ultimi arrivò a essere fratello di tutti».

Quando il Concistoro del 3 maggio 2021 approvò la canonizzazione di Charles de Foucauld, monsignor Paul Desfarges, arcivescovo di Algeri e presidente della Conferenza episcopale regionale del Nord Africa, disse con gioia: «È un grande giorno per la Chiesa in Algeria. Charles de Foucauld ha un posto di rilievo nella nostra Chiesa. È lui che voleva essere fratello universale, lui che è andato per primo incontro agli altri, lui che si è fatto prossimo. Ed è un po’ la vocazione della nostra Chiesa».

Militare controvoglia

Charles de Foucauld (Fratel Carlo di Gesù) nasce a Strasburgo, in Francia, il 15 settembre 1858. Rampollo di una famiglia nobile, militare e cattolica, viene battezzato due giorni dopo la nascita. A soli 6 anni perde entrambi i genitori. Insieme a sua sorella Marie è preso in cura dal nonno materno Charles-Gabriel de Morlet, del quale seguirà la carriera militare. Il 28 aprile 1872, riceve la prima comunione e la confermazione. Intelligentissimo, presto perde la fede e s’immerge in una vita mondana gaudente e di disordine che però lo lascia insoddisfatto.

Entra nella Scuola militare di Saint-Cyr e di Saumur, diventando sottotenente di cavalleria, ma si annoia infinitamente. Conosciuto come amante del piacere e della vita facile, viene cacciato dall’esercito per cattiva condotta. A venti anni muore il nonno e si ritrova solo, padrone di un immenso patrimonio.

Mio Dio, se esisti, fa’ che ti conosca

Nel 1882 si dimette dall’esercito e, dopo aver rinunciato al matrimonio con una ragazza protestante, intraprende una pericolosa esplorazione in Marocco (1883-1884) con l’aiuto del rabbino Mardocheo, e per questo otterrà una medaglia d’oro dalla Società di geografia di Parigi.

La scoperta della fede musulmana, la ricerca interiore della verità, la bontà e l’amicizia discreta della cugina Marie de Bondy, e l’aiuto dell’abbé Huvelin, gli faranno riscoprire la fede cristiana.

Cerca di conoscere Dio ripetendo una «strana invocazione: “Mio Dio, se esisti, fa’ che ti conosca”». All’amico Henry de Castries, nella lettera del 14 agosto 1901, racconta come debba proprio all’Islam il risveglio della fede «morta» durante dodici anni, e di come fosse attirato dalla «semplicità del dogma» del monoteismo musulmano e perciò anche dalla «semplicità» della sua gerarchia e della sua morale (Lettere a Henry de Castries [LHC], 94).

A fine ottobre 1886, mentre a Parigi redige «Ricognizione in Marocco», incontra l’abbé Henry Huvelin nella chiesa di Sant’Agostino, e la sua vita cambia radicalmente. «Non appena credetti che c’era un Dio, ho capito che non potevo far altro che vivere per Lui solo» (LHC, 96-97). Ha 28 anni.

A partire da quel momento il Vangelo diventerà il libro di riferimento per conoscere Gesù e per imitarlo, mentre l’abbé Huvelin resterà «il padre e la guida» fino alla sua morte.

Come un viaggiatore nella notte

(Photo by ANTOINE LORGNIER / AFP)

Conquistato dall’idea di abbandonarsi a Dio realizzando sempre la sua volontà, fratel Carlo proverà vari itinerari di santità, come un viaggiatore nel buio della notte, alla costante ricerca della sua vera vocazione.

In un pellegrinaggio in Terra Santa, consigliatogli dall’abbé Huvelin, Charles approfondisce la sua chiamata: seguire e imitare Gesù nella vita nascosta di Nazareth, perché «l’amore ha per primo effetto l’imitazione». Poi, attratto dalla vita monastica, il 15 gennaio 1890 entra nella Trappa di Nôtre-Dame des Neiges (nel Sud della Francia), prendendo il nome di fratel Maria Alberico. Il desiderio di vivere una povertà più radicale lo porta in Siria, nella Trappa di Nostra Signora del Sacro Cuore, dove però non trova quello che cerca. Vi dimora per sette anni, lasciandosi formare alla scuola monastica e cercando l’imitazione più perfetta di Gesù vivente a Nazareth.

Poi chiede di lasciare la trappa per andare a Nazareth, e si stabilisce come domestico presso le Clarisse, vivendo in una capanna, nella povertà e nel nascondimento. «Gesù ti ha stabilito per sempre nella vita di Nazareth: niente vestito particolare, come Gesù a Nazareth; non meno di otto ore di lavoro al giorno, come Gesù a Nazareth. La tua vita di Nazareth può essere condotta dappertutto: vivila nel luogo più utile al prossimo».

A Nazareth, su consiglio dell’abbé Huvelin, medita e studia il Vangelo, per conoscere Gesù, e diventare cristiforme: «Non posso concepire l’amore senza un bisogno, un bisogno imperioso di conformità, di somiglianza e soprattutto di partecipazione a ogni pena, ogni difficoltà, ogni asprezza della vita».

Compone con cura un opuscoletto intitolato Il modello unico, breve sintesi del Vangelo, che porterà anche nel Sahara. Sarà per lui come uno specchio nel quale riflettersi per ritrovare i tratti del proprio volto in quelli del volto di Gesù.

Oltre al Vangelo, fa anche dell’Eucarestia un pilastro della sua spiritualità. La celebrazione e l’adorazione eucaristica non sono per lui una semplice liturgia, ma una forma di vita.

Essere dove Dio ci vuole

Nel servizio, nel lavoro umilissimo, nella meditazione del Vangelo ai piedi del tabernacolo, fratel Charles cerca di vivere «l’esistenza umile e oscura del divino operaio di Nazareth», come piccolo fratello di Gesù nella santa casa di Nazareth tra Maria e Giuseppe.

Nazaret, Basilica dell’ annunciazione, chiesa inferiore, grotta sacra

A Nazareth scopre anche il mistero della Visitazione come un nuovo modo di fare missione e di trasmettere la fede. Si propone di partecipare all’opera della salvezza imitando «la Santa Vergine nel mistero della Visitazione, portando come lei, in silenzio, Gesù e la pratica delle virtù evangeliche tra i popoli infedeli».

Ed è ancora a Nazareth che comprende che fare la volontà di Dio vuol dire: «Essere dove Dio ci vuole, fare ciò che Dio vuole da noi, nello stato dove lui ci chiama; pensare, parlare, agire come Gesù avrebbe pensato, parlato, agito, se il Padre suo lo avesse messo in quel particolare stato».

Madre Elisabetta, badessa del convento delle Clarisse di Gerusalemme, lo convince a diventare prete per «fare» il maggior bene delle anime.

Dopo un’adeguata preparazione e gli studi di teologia a Roma, viene ordinato sacerdote a 43 anni (1901) nella cappella del seminario di Viviers, in Francia. Gli viene dato il permesso di abitare nel Sahara. «I miei ritiri di diaconato e di sacerdozio mi hanno mostrato che questa vita di Nazareth, che mi sembrava essere la mia vocazione, bisognava viverla non in Terra Santa, tanto amata, ma tra le anime le più ammalate, le pecore le più abbandonate». «Portare Gesù in silenzio presso i popoli infedeli e santificarli con la presenza del santo tabernacolo, come la Vergine Santissima santificò la casa di Giovanni portandovi Gesù».

Missionario monaco

Col passare del tempo, Charles prende sempre più coscienza che «la mia vita non è quella di un missionario, ma quella di un eremita» (LHC, 28/10/1905). «Io sono monaco, non missionario, fatto per il silenzio, non per la parola» (Lettera a mons. Guérin, 02/07/1907).

Vive solitario in Algeria, allora colonia francese, mettendosi al servizio del prefetto apostolico del Sahara, monsignor Charles Guérin, stabilendosi a Beni Abbès (1901-1904), oasi di settemila palme, dove costruisce il suo eremo, che chiama la Fraternità del Sacro Cuore. Lì cercherà di portare a Cristo tutti gli uomini che incontra «non con le parole, ma con la presenza del Ss. Sacramento, l’offerta del divin sacrificio, la preghiera, la penitenza, la pratica delle virtù evangeliche, la carità, una carità fraterna e universale, condividendo fino all’ultimo boccone di pane con ogni povero, ogni ospite, ogni sconosciuto che si presenti e ricevendo ogni uomo come un fratello benamato».

Per questa sua attività caritatevole sarà chiamato: le marabout (santone musulmano, ndr.), «nome che già tutti gli indigeni mi danno; io mi trovo benissimo con loro, essi del resto sono bravissima gente».

Il sogno di Beni Abbès è proprio quello di una fratellanza universale: «Voglio abituare tutti gli abitanti, cristiani, musulmani e ebrei e idolatri a guardarmi come loro fratello – il fratello universale. Essi cominciano a chiamare la casa: la fraternità (khawa in arabo) e questo mi è caro» (lettera a Marie de Bondy, 07/02/1902).

Fratel Charles desidera fortemente condividere la missione con un compagno, anche per garantire la continuità dell’opera. A tale scopo prepara il regolamento dei Piccoli fratelli del Sacro Cuore di Gesù e, in seguito, il regolamento delle Piccole sorelle del Sacro Cuore di Gesù (che saranno poi fondati nel 1933, ndr). Compirà tre viaggi in Francia alla ricerca di qualche sacerdote disposto a vivere con lui l’esperienza eremitica nel deserto, senza sucesso.

A Beni Abbès è scosso dal fenomeno «vergognoso» della schiavitù, tollerata, se non favorita, anche dalle autorità militari francesi. Scrive lettere indignate ai superiori ecclesiastici, ad amici e parenti influenti, religiosi e laici, per ottenere che una simile ingiustizia venga estirpata definitivamente. Il 9 gennaio 1902 riscatta il primo schiavo, che chiama Giuseppe del Sacro Cuore, e ne riscatterà altri in seguito. In una lettera scritta a liberazione avvenuta afferma: «Oggi è uno dei giorni più belli della mia vita: per la prima volta ho potuto riscattare uno schiavo; non senza fatica, con l’aiuto di san Giuseppe al quale avevo affidato l’opera, questa sera sono riuscito a rendere la libertà a un povero ragazzo del Sudan strappato alla sua famiglia 4 o 5 anni fa» (lettera a dom Martin, 09/01/1902).

Gridare il vangelo con la vita

«Gridare il Vangelo con la vita», per Charles de Foucauld significa imitare Gesù, testimoniandolo nella quotidianità con la propria esistenza.

Dopo lunghe esitazioni, accetta l’invito del comandante François-Henry Laperrine ad accompagnarlo nell’Hoggar per pacificare i Tuareg, recentemente sottomessi alla Francia. Nel marzo 1904, seguendo le guarnigioni francesi di stanza in Algeria, si spinge nel deserto fino al villaggio di Tamanrasset, scegliendo un nome col quale Arabi e Tuareg lo possano designare: si chiamerà Abd-Isa, che significa servo di Gesù.

Ci va convinto che la sua missione non è quella di convertire, ma piuttosto quella di compiere un lavoro preparatorio alla evangelizzazione. «Senza predicare, bensì imparando la lingua della gente, conversando con loro, stabilendo rapporti di amicizia». Convinto del fatto che «la parola è molto, ma l’esempio, l’amore, la preghiera sono mille volte di più», nelle lettere a parenti e amici ribadisce che il suo intento è di fraternizzare, fare crollare muri di pregiudizi e avere relazioni affettuose con i tuareg.

Fonda un eremo nello sperduto villaggio, e poi un altro sull’Assekrem a 2.780 metri sul massiccio dell’Hoggar. Si fa piccolo e povero, annullandosi in una vita nascosta, pur di portare la testimonianza evangelica a quei popoli che il deserto ha a lungo nascosto. Sa che non li avrebbe conquistati con la predicazione, ma soltanto con la presenza dell’Eucarestia, con l’esempio, la penitenza, la fraterna carità universale.

L’eremo cappella di fratel Charles a Tamanrasset (Photo by ANTOINE LORGNIER / AFP)

Tamanrasset

All’eremo Charles accoglie i poveri, assiste i malati con medicinali che si fa inviare da parenti e amici in Francia, ma soprattutto dedica molte ore al giorno allo studio della lingua tuareg (il tamahaq) con l’aiuto di un interprete locale.

Vive una vita di preghiera, meditando continuamente la Sacra Scrittura, e di adorazione, nell’incessante desiderio di essere, per ogni persona, il «fratello universale», immagine viva dell’Amore di Gesù. «Vorrei essere buono perché si possa dire: “Se tale è il servo, come sarà il Maestro?”». Vuole «gridare il Vangelo con la sua vita». Gli uomini del deserto lo accolgono per la mitezza del carattere e la mansuetudine del comportamento. Per lui «gli uomini non sono più soltanto i nostri fratelli, essi sono Gesù stesso». «Non soffro di solitudine, la trovo molto dolce, ho il sacramento dell’Eucaristia, il migliore degli amici, al quale parlare giorno e notte».

Pratica un’ascesi dura, prega e lavora come un monaco. La sua dieta consiste in una poltiglia di amido di grano pestato con un po’ di burro, della purea di datteri e del pane senza lievito, deteriorando pian piano la sua salute.

Momenti duri

L’anno 1907 è un anno terribile nella vita di Charles. Riceve un duro colpo apprendendo della morte di Gustave-Adolphe de Calassanti-Motylinski (orientalista francese), punto di riferimento per i suoi lavori linguistici. Inoltre, la carestia imperversa sull’Hoggar dove non piove più dall’inizio del 1906. Conosce una grande prostrazione non potendo celebrare l’Eucarestia, neanche il giorno di Natale, perché non ha nessun altro cristiano con lui.

Nel gennaio 1908 Charles è spossato fisicamente e col morale a terra ed entra in una vera notte spirituale.

Scrive nel taccuino: «Sono malato, costretto a interrompere ogni lavoro. Gesù, Maria, Giuseppe, a voi dono la mia anima, il mio spirito, la mia vita».

Musa ag Amastane, l’amenokal (capo) dei Tuareg, avverte Laperrine, mentre i poveri abitanti di Tamanrasset, nel vederlo distrutto dalla debolezza e dalla febbre, si danno da fare a cercare «tutte le capre che abbiano un po’ di latte in questa terribile siccità, in un raggio di quattro chilometri», e il malato, a poco a poco, si riprende. Gli salvano la vita.

Quando fratel Charles scopre quello che i poveri hanno fatto per lui, condividendo tutto ciò che avevano, per salvarlo, incomincia ad apprezzare la capacità di amore e di riconoscenza di cui la civiltà tuareg è capace.

È il momento della sua seconda conversione. Al medico protestante Dautheville che nel 1908 gli chiede cosa fa per convertire i Tuareg, risponde: «Io non cerco di convertirli, cerco di migliorarli; voi siete protestante, un altro può essere non credente, loro sono musulmani. Sono convinto che un giorno ci ritroveremo tutti in Paradiso, senza passare per la Chiesa cattolica romana, ma perché ciò avvenga dobbiamo meritarlo: cerco di aiutare me stesso e gli altri a meritare un giorno di ritrovarsi insieme in Paradiso».

Il 1910 è l’anno della morte delle persone care. In aprile muore di tifo e di sfinimento, a trentasette anni, monsignor Guérin, prefetto apostolico e amico, lasciando in Charles un grande vuoto.

L’abbé Huvelin muore il 10 luglio. Apprendendo la notizia, che gli giunge il 15 agosto, Charles scriverà: «Ci si sente soli al mondo… come l’oliva rimasta sola in cima al ramo, dimenticata dopo la raccolta».

Nel novembre successivo anche il generale Henry Laperrine è trasferito in Francia. Non tornerà prima della morte dell’amico.

«È la solitudine che cresce. Ci si sente sempre più soli al mondo. Gli uni sono partiti per la loro patria, gli altri vivono la loro vita sempre più lontano dalla nostra».

La montagna dell’Assekrem dove fratel Chuarles ha costruito il suo eremo a 2780m di altezza. (Photo by ANTOINE LORGNIER / AFP)

Eremo dell’Assekrem

Nell’anno seguente Charles sale al nuovo eremo dell’Assekrem, nel cuore del massiccio dell’Hoggar, a 2.780 metri, insieme a Ba Hamu, segretario di Musa Ag Amastane, per seguire i Tuareg che vi hanno condotto le loro greggi a causa della siccità. Approfitta per lavorare più alacremente alla lingua, entrando in relazione più profonda con i nomadi allevatori.

Auspica anche il coinvolgimento dei laici nell’opera di evangelizzazione, perché per lui la missione non si limita alla testimonianza personale, ma ha anche lo scopo più ampio di «civilizzare materialmente, intellettualmente, moralmente i Tuareg» tramite l’istruzione scolastica, l’esempio del lavoro, l’insegnamento dei principi elementari della morale naturale, le tecniche dell’agricoltura e dell’allevamento, il commercio e l’industria. Ma il suo desiderio non si realizzerà.

«Ho due eremi, a mille e cinquecento chilometri l’uno dall’altro! Passo tre mesi in quello del Nord, sei mesi in quello del Sud, tre mesi per andare e venire, ogni anno. Quando mi trovo in un eremo, vivo in clausura, sforzandomi di farvi una vita di lavoro e di preghiera. Durante il viaggio, penso alla fuga in Egitto, e ai viaggi annuali della santa Famiglia a Gerusalemme».

Il testamento

Prima di lasciare l’Assekrem, il 13 dicembre 1911, Charles redige il testamento, indirizzato al cognato Raymond de Blic. In esso precisa: «Desidero essere seppellito nel luogo stesso dove morrò, e riposarvi fino alla resurrezione. Proibisco che si trasporti il mio corpo e che lo si tolga dal luogo dove il buon Dio mi avrà fatto terminare il mio pellegrinaggio». Chiede di avvertire, in caso di morte, monsignor Bonnet, vescovo di Viviers, e i due grandi amici: Gabriel Tourdes, «amico d’infanzia», e François-Henry Laperrine. Il 24 ottobre 1914 Charles aggiunge un foglietto al suo testamento, ripetendo: «Voglio essere seppellito nel luogo dove morrò; sepoltura molto semplice, senza cassa; tomba molto semplice, senza monumento, sormontata da una croce di legno». Le sue volontà non verranno rispettate.

Laperrine, nel 1915, lo descrive così: «Père de Foucauld ha adottato come abito uno simile a quello dei Trappisti, ma in cotone bianco e con un Sacro Cuore di stoffa rossa cucita sul petto. Alla vita ha una cintura di cuoio dalla quale pende un rosario. I piedi nudi calzano i sandali tuareg. La sua influenza nella zona è molto grande. L’amenokal dei Tuareg dell’Hoggar non prende nessuna decisione importante senza consultarlo. Gli adolescenti e i bambini tuareg, in particolare, hanno un’assoluta fiducia in lui» (Laperrine, Le Père de Foucauld, in Revue de Cavalerie, Paris 1919).

Il bordji di Tamanrasset, costruito da fratel Charles, dove è stato poi ucciso nel dicembre 1916 (Photo by ANTOINE LORGNIER / AFP)

Come un’ostia

Nel giugno del 1916, per difendersi dai razziatori marocchini a Ovest e dai ribelli senussiti ad Est, Charles si trasferisce nel fortino, dove al tramonto del 1° dicembre una banda di predoni tuareg, alleati ad alcuni Senussiti libici, saccheggiano il suo eremo. Un ragazzotto di 15 anni, preso dal panico per l’arrivo di due cammellieri, gli spara a bruciapelo. Muore sul colpo a 58 anni, nella solitudine più totale.

È il 1° venerdì del mese, e l’intenzione di preghiera per quel dicembre è la conversione dei musulmani. Il giorno seguente la gente lo seppellisce nella sabbia. Tre settimane dopo, il capitano De la Roche trova nella sabbia del bordj (forte) l’ostensorio, e dà l’ostia a un soldato, ex seminarista, perché la consumi. Ostia, gettata per terra, come il corpo di colui che l’aveva consacrata e che aveva fatto della sua vita una eucaristia, realizzando pienamente e realmente il comando del Signore: «Fate questo in memoria di me» (Lc 22, 19).

Laperrine lo seppellisce il 26 aprile 1929 nel cimitero francese di El Golea, dove ancora oggi riposa.

La sua morte sembra adempiere quanto lui stesso aveva predetto pochi anni prima: «Come il grano nel Vangelo, devo marcire nella terra del Sahara per preparare la futura messe. Tale è la mia vocazione». Nella morte realizza perfettamente la sua vocazione: «Silenzio­samente, segretamente come Gesù a Nazareth, oscuramente, come Lui, passare sconosciuto sulla terra come un viaggiatore nella notte, poveramente, laboriosamente, disarmato e muto davanti all’ingiustizia come Lui, lasciandomi come l’Agnello divino tosare e immolare senza fare resistenza né parlare, imitando in tutto Gesù a Nazareth e Gesù sulla Croce».

Il suo ricordo rimarrà per sempre

Leggendo il Vangelo, fratel Charles aveva imparato che la santità non è separazione dal mondo ma fraternità universale, arrivando a considerare fratelli i musulmani con cui viveva.

Oggi, la sua memoria è conservata anche a Roma, nella Basilica di san Bartolomeo all’isola, santuario dei martiri del XX e XXI secolo. Il piccolo fratello di Gesù è presente, e la cazzuola con il cuore e la croce incisi nel manico, che lo aiutò a costruire il fortino di Tamanrasset, tiene viva la sua memoria.

«L’amore consiste non nel sentire che si ama, ma nel voler amare; quando si vuol amare, si ama; quando si vuol amare sopra ogni cosa, si ama sopra ogni cosa».

Giuseppe Ronco

La toma di fratel Charles  a El Goela (Photo by ANTOINE LORGNIER / AFP)

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Il 15 maggio 2022, papa Francesco ha canonizzato Charles de Foucauld, il fratello universale, in Piazza San Pietro.




Grande, Romero, Proaño, avvocati degli oppressi


Perseguitati, incarcerati, uccisi. Rutilio Grande, Leonidas Proaño, Oscar  Romero, tre grandi esponenti della Chiesa latinoamericana. Tre uomini legati dalla fede e dalla scelta per gli ultimi. Tre uomini che hanno dato la vita per il riscatto e la nobilitazione degli oppressi.

Il primo passo della storia che vogliamo raccontare ci porta in Ecuador, alla scoperta della vita e dell’opera di un fulgido rappresentante della teologia della liberazione, il teologo e vescovo Leonidas Eduardo Proaño Villalba.

Proaño naque nel 1910 a San Antonio de Ibarra, un paese a soli sei chilometri da Ibarra, capitale della provincia di Imbabura, nel Nord dell’Ecuador. La sua infanzia trascorse in seno a una famiglia artigiana che si dedicava alla produzione di cappelli di paglia. Ebbe la possibilità di frequentare le scuole elementari e successivamente, grazie all’interessamento di un parroco amico del padre, fu inviato nel 1925 al seminario di San Diego di Ibarra. In quell’istituzione poté terminare gli studi superiori per poi proseguire l’approfondimento della filosofia e della teologia nel seminario maggiore di Quito, capitale del paese andino.

Nel 1936, esattamente il 29 di giugno, Leonidas Proaño venne ordinato sacerdote, dando inizio ufficialmente a un cammino che lascerà una testimonianza di fede e speranza per i più emarginati del paese, in particolare per le popolazioni indigene. Attivo fin dai primi anni ‘40 con opere di divulgazione e scrittura (fondò la libreria «Cardijn» nel 1941 e il giornale  «La Verdad» nel 1944), Proaño si fece strada dentro il clero ecuadoregno, prima nella sua provincia natale e poi, con la nomina a vescovo, nella capitale della provincia del Chimborazo, Riobamba (dal 1954 al 1985), situata nel cuore dell’Ecuador.

Mons. Proaño, «guerrigliero comunista»

È qui, nel centro del paese andino, che Proaño dispiegò, in modo avvolgente e innovativo, la sua opera di reinterpretazione sociale e di riscatto comunitario. Lo stesso governo dell’Ecuador, nei suoi archivi (consultabili online), racconta in modo dettagliato e coinvolgente le vicende di quegli anni, che videro come protagonista colui che passerà alla storia come il vescovo degli indigeni e dei poveri. In quegli archivi si legge che, nel 1954, monsignor Leonidas Proaño, vescovo di Riobamba, si dissociò dai modi tradizionali di esercitare il sacerdozio e, precursore del metodo «vedere-giudicare-agire», entrò nelle brughiere e nelle colline dell’ampia geografia della provincia del Chimborazo, per interiorizzare nella sua azione una visione profonda e veritiera del territorio. Nelle sue molte e lunghe visite, potè toccare con mano la dolorosa realtà degli indigeni maltrattati dai proprietari terrieri, in un sistema di oppressione ed espropriazione che continuava fin dai tempi della colonia. Proaño si schierò senza se e senza ma con gli indigeni, da lui riconosciuti come i più poveri tra i poveri, iniziando insieme a loro la più grande opera di liberazione e nobilitazione nell’Ecuador repubblicano.

Dal 1960 in poi, la sua opera di educazione e riscatto iniziò a estendersi sul territorio. Creò nel 1960 un progetto chiamato «Scuole radiofoniche popolari» e, nel 1962, fondò il «Centro di studi e azione sociale» con l’obiettivo di promuovere lo sviluppo delle comunità indigene emarginate dallo stato. Proaño partecipò ai grandi movimenti di rinnovamento della Chiesa cattolica di quegli anni, come il Concilio Vaticano II e il Consiglio episcopale latinoamericano (Celam), nel quale giocò un ruolo da protagonista.

Il vescovo di Riobamba dovette superare innumerevoli conflitti, incomprensioni, persecuzioni e accuse. Venne etichettato come il vescovo rosso, comunista, sovversivo e terrorista: il motivo di ciò risiedeva nella sua ostinata fermezza nell’esigere giustizia, terra e dignità per le popolazioni indigene. Tanti e tali attacchi lo portarono, nel 1973, a dover viaggiare a Roma per difendersi dall’accusa di essere un guerrigliero comunista: venne assolto, ma, nonostante ciò, rientrato in Ecuador, nel 1976 dovette assaggiare il carcere sotto la dittatura di Guillermo Rodríguez Lara. Leonidas Proaño lasciò all’età di 75 anni (nel 1985) la carica di vescovo, ma la sua opera non terminò quel giorno. Fu nominato presidente della Pastorale indigena e nel 1986 fu anche candidato al premio Nobel per la Pace. Il 29 maggio del 1988 inaugurò il centro di formazione delle missionarie indigene
dell’Ecuador, nella comunità di Pucahuaico, nel suo paese natale San Antonio di Ibarra. Morì a Quito il 31 agosto del 1988, ma pochi giorni prima, il 12 agosto, aveva fatto in tempo a creare la fondazione «Pueblo indio del Ecuador».

Proaño e Grande

In questa enorme e significativa vicenda umana c’è un punto di connessione con la storia di Rutilio Grande e quindi di Romero che avrà conseguenze regionali estremamente rilevanti. Proaño, dopo aver partecipato al Celam, venne eletto presidente del dipartimento della Pastorale e da quella posizione si fece promotore della creazione dell’«Istituto itinerante della pastorale dell’America Latina» (Ipla). Proprio a Quito, per frequentare i corsi dell’istituto, arrivò nel 1972 il sacerdote Rutilio Grande, avido di nuovi stimoli per rinnovarsi e distanziarsi dal conservatorismo radicale della Chiesa salvadoregna.

Dopo gli studi all’Ipla, Grande passerà alcuni mesi a Riobamba, nella diocesi di mons. Leónidas Proaño,  vivendo proprio nella casa di quel vescovo cordiale e semplice, austero e ospitale ma soprattutto vicino alla gente. Un modello di fede e di Chiesa molto diverso rispetto a quanto vissuto da Grande nel Salvador, che risvegliò in lui una nuova consapevolezza.

Un fedele mostra una foto di Rutilio Grande; il padre gesuita sarà beatificato il 22 gennaio 2022. Foto Vatican News.

Rutilio Grande, gesuita

Rutilio Grande nacque il 5 luglio 1928 a El Paisnal, un piccolo centro abitato a circa 45 km dalla capitale del Salvador, San Salvador. Membro di una famiglia numerosa e con genitori separati, dopo la morte della madre (avvenuta quando Rutilio aveva solo 4 anni) venne cresciuto dal fratello più grande e dalla nonna. La donna era una fervente cattolica e fu lei l’iniziatrice di Rutilio ai misteri della fede.

Altra figura essenziale nella vita di Rutilio fu quella dell’arcivescovo Luis Chávez y González, conosciuto quando aveva solo 12 anni. Questi gli offrì la possibilità di proseguire gli studi nel seminario della capitale, cosa che fu un punto di svolta nella vita del giovane Rutilio che successivamente, il 23 settembre del 1945, entrò nella Compagnia di Gesú facendo il noviziato a Caracas (Venezuela), dove rimase per due anni.

Dopo aver pronunciato i voti di povertà, castità e obbedienza, iniziò un percorso tortuso fatto di viaggi, crisi di salute, periodi di docenza e di studio che si alternavano a dubbi sulla sua vocazione. L’America Latina e la Spagna furono il contesto geografico e umano in cui egli visse in quegli anni, e proprio a Oña (Spagna) venne ordinato sacerdote il 30 luglio 1959: pochi mesi dopo l’annuncio di Papa Giovanni XXIII della convocazione del Concilio Vaticano II.

Un’ulteriore tappa di studi europea, questa volta alla Lumen Vitae di Bruxelles (1963-1964), gli fece scoprire quella che sarebbe poi diventata la teologia della liberazione e con essa una via nuova di interpretare la propria missione apostolica.

L’amicizia con Romero

Tornato nel Salvador, padre Rutilio svolse prima il ruolo di formatore nel seminario San José de la Montaña (nella capitale) e poi quello di rettore dell’Externado de San José. Nel 1967 iniziò la sua relazione con Oscar Romero, un’amicizia che perdurò negli anni e che vide, nel giugno del 1970, proprio Rutilio Grande servire come cerimoniere alla consacrazione di Romero come vescovo ausiliare di San Salvador. Quelli furono proprio gli anni nei quali Grande si trovava in aperta critica e grossa difficoltà con la struttura clericale salvadoregna. I suoi metodi di insegnamento, che vedevano l’opera evangelizzatrice andare di pari passo con la promozione di uno sviluppo di un’intellettualità critica e comunitaria, non trovavano il consenso dei suoi superiori. Rutilio però era stato oramai positivamente contaminato dall’esperienza belga e dalla successiva II Conferenza episcopale latinoamericana di Medellín (1968), che fu fonte d’ispirazione per il suo zelo pastorale e per la sua solidarietà e la vicinanza con i poveri.

Proprio in quel contesto, all’inizio del 1972, Grande intraprese il suo viaggio in Ecuador dove potè toccare con mano l’opera dirompente di Proaño.

Un cartello all’interno di una chiesa di Quito, capitale dell’Ecuador, ricorda a chi entra che i poveri sono tanti e che occorre aiutarli. Foto Paolo Moiola.

Inviso a latifondisti e conservatori

Dopo quell’esperienza rivelatoria, Rutilio accettò di diventare parroco di Aguilares (settembre 1972), la stessa parrocchia dove aveva trascorso l’infanzia e la giovinezza. Lì fu uno dei gesuiti incaricato di fondare le Comunità ecclesiali di base (Ceb) e di formarne i dirigenti, chiamati «Delegati della Parola».

Queste attività allarmarono i latinfondisti della zona e anche le frange più conservatrici del clero salvadoregno che temevano che la Chiesa cattolica venisse infiltrata e controllata dalle forze politiche di sinistra. Come ricorda José M. Tojeria in «Novedad y tradición: el martirio de Rutilio Grande», il Gesù del Vangelo era il centro dell’attività pastorale di Rutilio e i contadini salvadoregni delle zone di Aguilares e El Paisnal lo accolsero con entusiasmo.

Molti di loro decisero di alfabetizzarsi per poter leggere il Vangelo attraverso una modalità pedagogica ispirata a Paulo Freire. Grande ebbe la funzione di aiutare i membri delle comunità rurali ad acquisire coscienza della propria dignità, dei propri diritti, capacità e possibilità.

Questo avveniva mentre il Salvador era terreno di un confronto crescente tra i settori ricchi e la maggioranza della popolazione che versava in una situazione di estrema povertà. Rutilio Grande giocò un ruolo importante in questo scontro sociale, denunciando apertamente gli abusi e soprusi del governo, toccando il suo zenit con quello che viene ricordato come il «Sermone di Apopa» del 13 febbraio 1977 (omelia relativa al controverso caso del sacerdote colombiano Mario Bernal Londoño, espulso dal Salvador dopo essere stato sequestrato da supposti guerriglieri). Meno di un mese dopo, il 12 marzo 1977, mentre viaggiava in una jeep nella parrocchia di Aguilares, Grande cadde in un’imboscata dei gruppi paramilitari di estrema destra noti come «squadroni della morte». Con lui vennero uccisi anche Manuel Solorzano (72 anni) e Nelson Rutilio Lemus (16 anni).

È il 24 marzo del 1980, mons. Oscar Romero viene assassinato mentre celebra messa nella cappella dell’ospedale Divina Provvidenza, a El Salvador. Foto ANSA.

Un altro assassinio

La morte cruenta dell’amico Rutilio Grande provocò una grande crisi in mons. Romero. Una trasformazione che, probabilmente, egli aveva iniziato già a partire dall’ottobre del 1974, quando venne nominato vescovo della diocesi di Santiago di Maria, nel dipartimento di Usulután.

Nei due anni che trascorse in quella zona rurale del paese, potè toccare con mano la repressione governativa, i massacri e il terrore nei quali erano tenuti i contadini da parte dell’esercito che operava come braccio armato dei latifondisti. Un bagno di realtà che dovette spingere Romero a rivedere molte delle sue precedenti posizioni. Lì passò due anni e, successivamente, il 3 febbraio del 1977 venne nominato da Paolo VI arcivescovo di San Salvador, proprio per succedere al padrino spirituale di Rutilio, monsignore Luis Chávez y González. Solo 28 giorni dopo la sua nomina, Romero venne raggiunto dalla notizia dello spietato omicidio dell’amico. Oscar Arnulfo Romero avrebbe fatto la stessa fine il 24 marzo del 1980.

Diego Battistessa


Archivio MC




L’universo umano della comuna 13

testo di Diego Battistessa  |


«Comuna 13» è una città nella città, dove sono passati milizie urbane, Pablo Escobar, gruppi guerriglieri, paramilitari, forze dell’ordine. Un campo di battaglia e violenza, ma oggi anche di riscatto.

A Medellín, la seconda città più grande della Colombia, dopo la capitale Bogotá, la violenza generalizzata è stata di casa per molto tempo. Un luogo mondialmente famoso, purtroppo, più per essere stato la città natale e la casa di Pablo Escobar Gaviria (ucciso nel 1993) che per le sue tante meraviglie. A Medellín, esiste uno dei sistemi integrati di trasporto pubblico più moderni della regione, è una città circondata da una natura traboccante e che vanta incredibili esempi di rivalsa sociale e riqualificazione urbana. È la patria, inoltre, di un altro Escobar: Andrés, il caballero del fútbol («il cavaliere del calcio»).

Medellín, insomma, è un crogiolo di contraddizioni, di universi che convivono, spesso senza toccarsi.

I 140mila della «Comuna 13»

Uno degli spazi più emblematici della capitale del dipartimento di Antioquia è senz’altro la Comuna 13, una delle 16 comunas (divisioni territoriali amministrative) che compongono la città.

Verso Nord e più a occidente del Barrio Laureles – dove sorge lo stadio di calcio Atanasio Girardot che tante volte ha visto le prodezze dell’Atletico Nacional de Medellín e dell’Independiente de Medellín –, si trova la fermata della metro San Javier da dove si accede (oggi comodamente) alla porta d’ingresso della Comuna 13. Qui vivono più di 140mila persone, distribuite in diciannove quartieri che coprono una superficie di 74,2 chilometri quadrati.

Questo conglomerato urbano nacque dalle invasioni prodotte alla fine degli anni Settanta da chi viveva nelle periferie della città (come il Basurero Moravia) e cercava un luogo dove costruire una casa e un futuro. Gli ultimi, i dimenticati, gli emarginati, cominciarono ad occupare appezzamenti di terra appartenuti in passato a grossi latifondisti caduti in disgrazia e che non potevano più pagare le tasse sulle loro proprietà.

Così, prima che il municipio di Medellín potesse disporre di quelle terre, il popolo le reclamò con un atto di giustizia sociale. A questi primi coloni si aggiunsero ben presto intere famiglie sfollate dalla violenza dei conflitti armati che colpiva sia il dipartimento di Antioquia che il dipartimento del Chocó.

Come spiega Ricardo Aricapa, in un magistrale resoconto degli anni più duri della Comuna 13 e della guerra urbana che la caratterizzò (Comuna 13. Cronica de una guerra urbana: de Orión a la Escombrera, 2015), gli inizi non furono per niente facili: mancava acqua, corrente elettrica, latrine, polizia. Vigeva la legge del più forte, del più scaltro, del più crudele: omicidi, stupri, furti, risse e ogni tipo di lite e discussione. A poco a poco i servizi migliorarono, perché il municipio capì che non poteva più sgombrare centinaia di famiglie (anche perché non avrebbe saputo dove ricollocarle) e così l’insediamento divenne permanente.

Il primo murale che accoglie i visitatori alla Comuna 13 di Medellín: poche parole che manifestano lo spirito di una comunità umana riunita dalla memoria e dalla voglia di rivalsa. Foto Diego Battistessa.

Le milizie urbane e pablo

Fu così come un nuovo organo pulsante delle città prese vita, un laboratorio umano dove ben presto si insediò il primo grande esperimento di milizie urbane in Colombia. All’inizio questi gruppi nascevano spontaneamente ed erano formati in gran parte da giovani: lo scopo era quello di controllare e garantire la sicurezza di poche strade, quelle dove abitavano o dove vivevano i loro amici e parenti. In quegli anni gli abusi e i soprusi tra gli stessi vicini dei quartieri che conformavano la Comuna 13 (quartieri che crescevano costantemente), erano molti, troppi. In poco tempo, però, la dinamica della violenza di quel periodo (annoverato tra i più cruenti in Colombia) obbligò queste «autodifese comunitarie» (chiamate anche Mp, Milicias populares) a estendere il loro raggio d’azione a interi quartieri e, alle volte, a spingersi anche fuori dalla Comuna 13.

Un fenomeno che attirò l’attenzione dell’Eln (Esercito di liberazione nazionale) che pensò di poter controllare questi gruppi estendendo e rafforzando la sua presenza a Medellín, punto strategico nella Valle di Aburrà e di tutto il dipartimento di Antioquia. All’Eln seguirono le Farc (Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia) che videro la possibilità di reclutare i membri delle milizie urbane per sviluppare una strategia di penetrazione politica e militare a livello urbano. Per le due storiche guerriglie colombiane non fu però facile sovrapporsi e sostituire le bande esistenti che, tra il 1980 e il 1990, facevano capo, in molti casi, al cartello della droga di Medellín. Il conflitto fu cruento. Basti ricordare che all’epoca Pablo Escobar stava portando avanti una vera e propria guerra contro lo stato a colpi di mitragliatrice e dinamite e i suoi alleati si trovavano proprio nelle periferie della città (cfr. Aricapa 2015).

Una vista panoramica di Medellin. Foto Andres Fernandez-Pixabay.

I gruppi armati

I vicoli della Comuna 13, testimoni di un passato oscuro e pericoloso, oggi si colorano per trasmettere una rinascita simbolica fatta di creatività, esuberanza e street art. Foto Diego Battistessa.

Come detto, il primo gruppo armato a entrare nella Comuna 13 fu l’Eln che però non rimase molto e si ritirò volontariamente. L’esperimento portato avanti da «los elenos» (così gli abitanti della Comuna 13 si riferivano ai membri dell’Eln) fu interrotto perché ritenuto troppo caro (non avevano fondi sufficienti), ma soprattutto infruttuoso: il comportamento delle reclute nella periferia urbana dava peggiori risultati in termini di condotta (i giovani erano meno disciplinati e molto propensi all’abuso di alcool e droghe) rispetto a quelli reclutati nella zona rurale. Dal 1990, anno di formazione delle prime Mp, la Comuna 13 assistette all’ingresso di una molteplicità di attori che lottavano per il territorio, oltre che per il cuore e la mente dei suoi abitanti.

Il libro del poliziotto comunitario Yoni Alejandro Rondón Rondón (Comuna 13, 2017) ci spiega che nella zona operavano le strutture urbane dell’Eln, con il fronte Carlos Alirio Buitrago (si facevano chiamare Los regionales), il fronte Luis Fernando Giraldo Builes, e le piccole fazioni di María Cano, Héroes de Anorí e Bernardo López Arroyave.

Erano presenti anche le milizie urbane delle Farc, rappresentate dalla colonna mobile Teófilo Forero e dalla rete urbana Jacobo Arenas.

Inoltre, il 25 febbraio 1996 venne fondato il gruppo di milizie indipendenti autonominato «Commando armato del popolo» (Cap), sostenuto dalle milizie dell’Eln. Questi ultimi, prima di adottare la denominazione finale, si facevano chiamare Cab (Commando armato del barrio) e operavano nei quartieri Juan XXIII-La Quiebra, Blanquizal, El Salado per poi estendersi ad altre zone della Comuna 13.

La guerra di Uribe

Il «regno» di questi gruppi armati terminò alla fine del 2002 con la prima grande guerra urbana promossa da Alvaro Uribe, ma solo per lasciare il posto al terrore portato dal paramilitarismo.

Oltre all’operazione Orione (16-20 ottobre 2002), altre cinque operazioni militari furono lanciate per recuperare il territorio gestito dai gruppi guerriglieri e dal Cap: operazione Primavera (1-3 febbraio 2001), operazione Autunno (ultima settimana del febbraio 2001), operazione Mariscal (il 21 maggio 2002, una delle più cruente con un bilancio «ufficiale» di vittime superiore a Orione e che si fermò solo perché gli abitanti occuparono le strade sventolando panni bianchi chiedendo pace), operazione Potestà (15 giugno 2002) e operazione Torcia (15 agosto 2002).

Nell’ottobre 2002, però, l’intervento dell’autorità pubblica fu mastodontico: 3mila uomini – tra esercito, polizia e paramilitari – guidati dal comandante della Polizia metropolitana di Medellín, il colonnello Leonardo Gallego, e dal generale della quarta brigada dell’esercito, Mario Montoya, entrarono nella Comuna 13. Per due giorni e tre notti caddero bombe, fischiarono pallottole e due elicotteri Black Hawk sorvolarono le case fatte di lamiere e argilla crivellando con armi di grosso calibro le postazioni delle Farc, nel cuore del barrio.

Le raccomandazioni al «Todopoderoso»

Chi poté si nascose, chi non poté fuggì, tutti raccomandarono l’anima al Todopoderoso (titolo usato per riferirsi all’Onnipotente).

Chiunque venisse sospettato di essere connivente con le bande armate della Comuna 13, venne catturato e, se fortunato, portato a Ballavista (il carcere di massima sicurezza di Medellín), altrimenti a La Escombrera.

Un numero imprecisato di persone finì nelle liste (tanto comuni nella regione) dei desaparecidos, altre centinaia scontarono ingiuste carcerazioni prima di essere assolte e rimandate a casa con le scuse dello stato e con la promessa di un’indennizzazione che, nella maggior parte dei casi, non è mai arrivata.

Un tratto della metro della città colombiana. Foto Andres Fernandez-Pixabay.

I «falsi positivi» e quella fossa comune

Solo nel 2015, tredici anni dopo la drammatica operación Orión, si cominciò a scavare in quel macabro luogo di 15 ettari che prende il nome di Escombrera: situato tra El Salado e San Cristobal, zona Nord-Ovest della città. Una discarica di rifiuti edilizi che, per anni, aveva accolto gli scarti dell’espansione immobiliare di Medellín e che divenne la tomba delle persone assassinate nell’ottobre 2002 e nella successiva «pulizia sociale» eseguita dai paramilitari.

La contabilità ufficiale dell’operazione militare voluta dall’allora neopresidente Alvaro Uribe Vélez (in carica da solo due mesi) parlava di 14 morti. Oggi sappiamo che sono molti di più (si parla di almeno 300) grazie alle denunce di Ong nazionali e internazionali e alle dichiarazioni rilasciate nei processi per i «falsi positivi».

Nel gergo militare colombiano, poi reso popolare dai media, un «positivo» rappresenta l’uccisione di un nemico dello stato, di solito un guerrigliero delle Farc. Un «falso positivo» è, quindi, una simulazione che vuole far passare l’uccisione di un cittadino comune per l’uccisione di un militante della guerriglia al fine di poter riscuotere la taglia (tanto più alta quanto più alto il grado del guerrigliero). La Giurisdizione speciale per la pace (Jep, nella sua sigla in spagnolo) ha reso noto, in un report del marzo 2021, che nei primi anni della presidenza Uribe i falsi positivi contabilizzati furono 6.402. Altri dati però segnalano numeri ben più alti.

La Escombrera è oggi memoria storica della città e della Colombia intera. Gli abitanti della Comuna 13 la segnalano ai turisti durante il «Graffiti tour», sottolineando che vanta insieme al deserto di Atacama in Cile un tragico primato: è probabilmente una delle più immense fosse comuni della regione.

Gli anni della trasformazione

È in questo contesto che sono nati dei «meravigliosi fiori» di speranza, di insorgenza e di opposizione a quello che sembrava un destino ineluttabile. In questo scenario molte persone, soprattutto donne, si sono caricate il peso del presente e del futuro sulle loro spalle affrontando e combattendo l’ingiustizia sociale.

La Comuna 13 ha subito una trasformazione negli ultimi dieci anni, con un lavoro di riqualificazione promosso dal municipio di Medellín attraverso l’Impresa di sviluppo urbano (Edu, nella sua sigla in spagnolo).

Uno dei grandi problemi del settore risiedeva nella pericolosità dei camminamenti e nella mancanza di scale per superare le ripide salite che caratterizzano il contesto di un abitato cresciuto sui fianchi delle montagne. Strade pietrose, ponti fatti di assi di legno, un pericolo sempre dietro l’angolo che faceva vivere gli abitanti della Comuna 13 in costante preoccupazione soprattutto per i bambini e gli anziani. Lasciare ogni giorno la propria casa per andare a lavorare o raggiungere la città era una vera e propria impresa.

Nel 2010 ci fu una prima esplorazione architettonica e sociale da parte dell’amministrazione della città, per capire quale tipo di intervento di riqualificazione urbana poteva migliorare la vita degli abitanti di questa zona della città: in quell’occasione proprio delle leader comunitarie negoziarono con la municipalità importanti interventi.

Si decise di dare colore e vita alle strade, utilizzando la street art per raccontare in modo visivo la genesi e la vivenza di quei luoghi e inoltre venne proposta l’installazione di scale mobili per facilitare la mobilità comunitaria e stimolare il commercio locale. L’opera architettonica, di carattere pubblico e gratuito, fu inaugurata il 25 di dicembre del 2011 e da quel momento ha cambiato radicalmente la vita della Comuna 13, soprattutto quella del quartiere la Independencia, dove è situata, beneficiando direttamente più di 12 mila persone. Questo cambio non fu solo pratico, ma anche di percezione della Comuna 13 da parte della popolazione delle altre zone di Medellín.

Gli abitanti hanno potuto toccare con mano un miglioramento sociale ed economico importante dovuto anche al fatto che il luogo si è trasformato in una meta turistica della città. Visitatori da tutto il mondo giungono (oggi frenati in parte dalla pandemia) in quello che fu teatro della più cruenta guerra urbana della Colombia, per fotografare i numerosi graffiti che popolano le pareti delle case e che custodiscono la memoria della comunità.

La Comuna 13 oggi e il Graffiti tour

È così che oggi, nel luogo che forse più di altri è viva testimonianza di tutti i mali di questo paese controverso e affascinante, dipinto magistralmente da Gabo (Gabriel García Márquez), si può realizzare il Graffiti tour: un’esperienza unica, intensa, profonda, vissuta passo dopo passo per le strade dove si respira lotta, riscatto sociale e tanta voglia di futuro.

Decine di guide locali (gli stessi membri della Comuna 13 sopravvissuti alla violenza) aspettano i turisti nazionali e internazionali all’inizio del percorso delle scale mobili, per guidare i visitanti in un viaggio nel tempo e nello spazio, visivo, musicale e gustativo: che termina proprio di fronte al ristorante delle Berracas della 13, un collettivo di donne simbolo della rinascita del quartiere.

«Una comunità in resistenza, che conosce la sua storia e non vuole ripeterla», canta il collettivo di rapper di strada Venezmusic, integrato in buona parte da venezuelani migranti che oggi sono un ulteriore elemento di eterogeneità e diversità in questo incredibile universo umano che è la Comuna 13.

Diego Battistessa


Martiri della Chiesa cattolica

Morire per un ideale di comunità

Era il settembre 2002 quando fu assassinato padre José Luis Arroyave Restrepo, un sacerdote che amava e viveva per la Comuna 13.

Una rara immagine di padre José Luis Arroyave Restrepo, assassinato nel settembre del 2002.

Nella Comuna 13 la violenza non risparmiò neanche gli uomini di Dio e, sia prima che durante lo scontro finale tra lo stato e i gruppi armati che avevano il controllo su quel territorio, il tributo di sangue pagato dalla Chiesa cattolica fu enorme. Dei veri e propri martiri che pagarono il lavoro di trincea portato avanti con coraggio e abnegazione. Nel settembre 2002, un mese prima dell’inizio della famigerata «Operazione Orione», venne ucciso il sacerdote di 48 anni José Luis Arroyave Restrepo. Una morte che sconvolse la comunità e la città intera per l’impegno che il padre aveva profuso per portare un vento di giustizia e riconciliazione nella Comuna 13. Due sicari incappucciati, in quella giornata di fine settembre, lo aspettarono fuori dalla chiesa nel quartiere San Juan XXIII e, quando il sacerdote stava per salire sulla sua auto, lo freddarono con due colpi a bruciapelo. José Luis era un visionario, un uomo di Dio che interpretava la sua missione apostolica fuori dalle mura della chiesa. Si era dato il compito di creare un ponte di pace tra le milizie e i paramilitari. Per questo si era anche fatto preparare una giacca personalizzata con scritto «Io amo e vivo per la Comuna 13»: una giacca che non potè mai indossare. Quel crimine creò un dolore profondo in tutti gli abitanti della Comuna 13, che ripetevano a gran voce che era stata spenta una delle più brillanti luci di speranza e pace in quella parte marginale di Medellín. Un luogo così violento, ingiusto e pieno di disperazione da far dire a chi ci viveva, che anche il Diavolo stesso si raccoglieva in preghiera chiedendo la fine di quell’orrore. L’Arcidiocesi di Medellín con il decreto 55 del 2002 scomunicò gli autori del crimine, ma i lutti non si sarebbero fermati lì.

Un altro tributo di sangue fu pagato dalla Chiesa cattolica colombiana proprio durante i giorni dell’operazione poliziesca-militare ordinata dal presidente Álvaro Uribe Vélez nel succesivo mese di ottobre. Infatti, uno dei civili morti – colpito dal fuoco «amico» dell’esercito – fu il seminarista dell’ordine dei Frati cappuccini, Elkin Ramírez, di soli 22 anni. L’inizio dell’Operazione Orione lo sorprese lontano da casa, dove viveva con sua madre e suo fratello. La donna non si era mai abituata al rumore dei continui scontri armati nel quartiere e soffriva di crisi di panico ogni volta che le pallottole iniziavano a fischiare. Cosciente di tutto ciò, Elkin cominciò a correre per raggiungere casa sua e accompagnare sua madre in quelle che si preannunciavano come lunghe ore di scontri e tensioni. Il giovane corse a perdifiato, ma non riuscì ad evitare un colpo, sparato forse da un cecchino, che lo trafisse a 10 metri dalla porta di casa sua. Il fratello lo vide cadere esanime, cercò di uscire per dargli aiuto ma venne respinto da un muro di proiettili. Dopo padre Arroyave, venne così spenta un’altra vita che aveva scelto di servire la comunità attraverso la parola di Dio. Si dice spesso che siano i migliori a lasciarci. Davvero, in quei mesi di fine 2002, il martirio dei giusti sembrava non avere fine.

Di.Ba.

La facciata della cattedrale dell’Immacolata Concezione, a Medellín. Foto USA-Reiseblogger-Pixabay.




Zizoti di Zechi, martire per amore

testo di Gigi Anataloni |


Il 1° ottobre 1921, padre Luigi Graiff (detto Zizoti [Gigiotti] in famiglia) nasce a Romeno, in Trentino, da Fiorenzo (detto Zechi) e Giuseppina Deromedis. Dal 1927 al 1934 frequenta le scuole elementari al paese. Conosce i Missionari della Consolata e, nell’ottobre del 1934, entra nel seminario minore di Favria Canavese, vicino a Torino, per gli studi ginnasiali (medie più 1ª e 2ª liceo di oggi, ndr). Qui frequenta i primi tre anni di ginnasio e poi la quarta e la quinta a Varallo Sesia (Vc). Il 15 agosto del 1939 veste l’abito chiericale per mano di monsignor Carlo Re e nell’ottobre comincia i tre anni di liceo.

Sono anni duri, gli anni del secondo conflitto mondiale. Il cibo è scarso anche nell’Istituto e i giovani chierici liceali ne soffrono. Nel giugno del 1941 Luigi completa a fatica la seconda liceo perché sempre malaticcio. Le vacanze estive lo rimettono un po’ in sesto, ma alla fine della terza il suo fisico è minato: ha contratto la tubercolosi. Passa quindi lunghi mesi, che diventateranno anni, nel sanatorio di Arco (Tn).

Come hai vissuto quel lungo periodo di malattia?

A luglio del 1943 erano già cinque mesi che mi trovavo in sanatorio e scrissi una lettera ai superiori a Torino. «Qui mi hanno voluto il Signore e la Madonna, e qui sono venuto compiendo con amore e volentieri questo sacrificio che mi costò assai. Finora nella mia vita non m’era successo mai niente, e appunto per questo m’attendevo qualche prova dal Signore. È venuta e l’ho benedetta. Sono pienamente rassegnato alla santa Volontà di Dio. Le sue vie sono mirabili se saprò uniformare la mia alla Sua santa Volontà. Il mio morale è molto alto e forte, e quando mi sopraggiungono le ore tristi, melanconiche cerco di scacciarle come tentazioni, perché potrebbero nuocermi. Finora tutto bene. Sono sempre contento e allegro. La ricordo giornalmente nelle mie preghiere. Le chiedo un memento nella santa Messa».

Una volta guarito, sei tornato in seminario?

È stata lunga guarire, ma nell’ottobre del ‘46 ho iniziato gli studi teologici alla Certosa di Pesio dove gli studenti erano stati trasferiti dopo che la Casa Madre e il seminario a Torino erano stati bombardati e non erano ancora agibili. Nel 1948, sempre in Certosa, ho fatto l’anno di noviziato e poi i primi voti religiosi il 1° ottobre 1949, giorno del mio 28° compleanno. In seguito, c’è stata un’accelerazione, e in pochi mesi ho completato tutti i passi necessari, ricevuto gli ordini minori e il diaconato, e il 18 dicembre di quell’anno sono stato ordinato sacerdote. Ricordo che, poco prima dell’ordinazione, scrissi una lettera al padre Gaudenzio Barlassina, superiore generale, ringraziandolo per la sua vicinanza e chiedendogli preghiere affinché «il profumo della mia vita fosse motivo di gioia per la Chiesa di Cristo».

Sei partito subito per le missioni?

Praticamente sì. Ho dovuto passare ancora un annetto a completare i miei studi teologici e nel marzo del 1951 sono partito da Venezia in nave per il Kenya, destinato alla diocesi di Nyeri. Prima nella missione di Gatanga e poi, dal 1954 al 1960, a Mugoiri. Sono stati anni bellissimi, di piena immersione nella realtà del popolo kikuyu.

Mentre costruivo la chiesa di Mugoiri si rinsaldava nella fede una comunità cristiana molto vivace, nonostante le tante difficoltà di quegli anni di rivolta anticoloniale (e a volte anche anticristiana) dei Mau Mau, di cui i Kikuyu erano i principali protagonisti.

Sei rimasto dieci anni di fila in Kenya, ma non facevate mai le vacanze in Italia?

Un tempo, quando si partiva, lo si faceva per la vita, anche perché i viaggi non erano facili. Invece noi potevamo già tornare per tre mesi ogni cinque anni. Quando sono tornato in Italia nel 1961, però, mi sono dovuto fermare per circa due anni, perché la mia salute non era delle migliori. Sono stato a Rovereto, nel seminario, sia per dare una mano, che, soprattutto per rimettermi in sesto. Però la nostalgia dell’Africa era troppo forte, tanto più che ero ben cosciente che il mio vescovo a Nyeri, monsignor Carlo Cavallera, era impaziente di aprire nuove missioni nel Nord della sua enorme diocesi, dove ai missionari era stato impedito di entrare fino ad allora.

Chiesa di Mugoiri

Ci vuoi spiegare meglio?

Certo. La diocesi di Nyeri è stata la prima a essere fondata dai Missionari della Consolata, già nel 1905. Aveva un’estensione enorme. Con la diocesi di Meru, che sarebbe stata separata da essa nel 1926, copriva un’area che andava dal Lago Rodolfo (oggi Turkana) fino ai confini con la Somalia e da un centinaio di chilometri a Nord di Nairobi fino all’Etiopia, un territorio più grande dell’Italia. Ma fino a dopo la Seconda guerra mondiale, tutta la zona poco più a Nord dell’equatore e a Est verso la Somalia era stata off limits per i missionari cattolici. Gli inglesi, allora colonizzatori, non la consideravano sicura e, tenendo conto che gli abitanti erano solo poche decine di migliaia, e tutti pastori nomadi, ritenevano che non fosse il caso di disturbare i musulmani e i pochi protestanti che erano già là (dove gli inglesi avevano aperto degli uffici governativi) ed erano considerati più che sufficienti per i bisogni religiosi di quella gente.

Ma monsignor Cavallera non era dello stesso parere. Sapeva che in quelle zone c’erano anche delle piccolissime comunità cattoliche e poi non poteva ignorare un così vasto territorio affidato alle sue cure pastorali. Per questo, fin dai primi anni Cinquanta, aveva fatto avventurosi viaggi per visitare tutti i centri dove gli inglesi avevano uffici governativi, da Wajir a Moyale, da Laisamis a Loyangallani, da Baragoi a Marsabit. Si era reso conto che sì, protestanti e musulmani si occupavano di religione, ma niente di più. Poi la gente non era affatto musulmana o protestante, ma la maggior parte era di religione tradizionale. In più non desiderava predicatori o imam ma molto di più scuole per i propri figli, centri di salute, progetti di sviluppo, acqua, cibo sicuro e pace. Così il vescovo aveva mosso mari e monti, con la tenacia di cui era capace, fino a ottenere dall’autorità coloniale il permesso di aprire missioni nel Nord, nel Marsabit e nel Samburu.

E qui vieni tu

Già. Monsignore era uno che non si risparmiava, ma era anche molto esigente con gli altri. Se mandava un missionario a iniziare una nuova missione (ed entro il 1964, anno in cui Marsabit è diventata diocesi, ne aveva iniziate ben 14), voleva che le cose fossero fatte «bene e subito», non dopo anni. Non importava se quella era una mission impossible dato che sul posto non c’era nulla e si doveva far venire il cemento da centinaia di chilometri, scavare pozzi per avere l’acqua, raccogliere le pietre per le fondamenta, trovare la sabbia per fare i blocchi, tagliare la legna per avere assi e travi, dormire con un occhio aperto per via degli animali (iene, leoni, elefanti e serpenti) che di notte entravano nel campo, creare piste e strade, attraversare pericolosi fiumi stagionali. Così lui mi ha chiamato, perché mi aveva visto costruire la chiesa di Mugoiri e aveva capito che ero di poche parole ma mi sapevo arrangiare.

La missuione di Laisamis

Da dove hai cominciato?

Nell’agosto del 1963 mi ha mandato a fondare la missione di Laisamis, tra i pastori rendille, più o meno a metà strada tra Isiolo e Marsabit. L’anno dopo, ho aiutato anche per le prime costruzioni della nuova missione di Archer’s Post tra i Samburu, circa 125 km più a Sud. A Laisamis sono rimasto dieci anni. L’inizio è stato davvero duro. Quando sono arrivato non c’era nulla. I serpenti erano i padroni assoluti. Mi attendeva un lavoro immane. Ho misurato allora a lunghi passi l’area della futura missione, mi sono rimboccato le maniche e, con l’aiuto di alcuni volenterosi del luogo, ho cominciato a rimuovere le pietre. E poi è venuto tutto il resto del lavoro. Scuola (che serviva anche da chiesa), dormitori per gli studenti e dispensario (che sarebbe diventato poi un vero ospedale) sono state le prime costruzioni che ho fatto. Entro il 1965 sono riuscito a costruire anche una casetta per me.

Cos’è che ti ha provato di più?

La solitudine. È vero che il lavoro non mancava e attorno c’era la gente del villaggio, i bambini della scuola, i maestri e gli infermieri, ma, come missionario, ero solo. E alcune volte la solitudine diventava intollerabile, come è successo nel luglio 1964 dopo che il villaggio e la missione erano stati fatti bersaglio di un attacco notturno degli Shifta, quando ho mandato questo messaggio via radio a Nyeri: «Io sto male, ho bisogno che venga subito qualcuno». Un mio confratello, mio grande amico, ha subito accolto l’appello e quando, dopo un viaggio avventuroso, ha raggiunto Laisamis sull’imbrunire, dal poggio della missione gli ho gridato: «Te l’ho fatta». Non ero ammalato, avevo solo bisogno di compagnia.

Ovvio che poi c’erano altre difficoltà. Una delle più grandi era quella degli Shifta, banditi di origine somala che terrorizzavano la popolazione razziando il bestiame e uccidendo indiscriminatamente. Quando hanno attaccato Laisamis, hanno fatto scappare tutta la gente, terrorizzata dalla loro violenza. Sono stato l’unico a rimanere, anche se da solo. Vani sono poi stati i miei appelli affinché la gente tornasse. È stata solo la fame e la mancanza di pascoli che li ha convinti a ristabilirsi attorno alla missione, dove, grazie al fiume stagionale, avevano cibo e acqua per il loro bestiame.

Monsignor Carlo Cavallera e padre Luigi Graiff

Intanto nel 1964 Marsabit era diventata diocesi, staccandosi da Nyeri, anche se le strutture erano minime e il vescovo viveva sotto una tenda.

Il vescovo, sostenuto dall’arrivo di nuovi missionari – nel 1968 sarebbe arrivato anche un mio compaesano, padre Aldo Giuliani, che era entrato in seminario dopo avere partecipato alla mia ordinazione sacerdotale – continuava nel suo impegno per aprire e rafforzare nuove missioni. Nel 1965 ha iniziato la missione di Loyangallani, al Lago Rodolfo, e lo ha fatto con un maestro e un catechista, dopo che lì, il 19 novembre 1965, era stato brutalmente ucciso dagli Shifta il padre Michele Stallone. Così nel 1973 ha mandato me in quell’oasi verde sulle sponde pietrose del lago, dove a pochi chilometri di distanza, a Komote, viveva la piccola comunità dei pescatori Ol Molo che avrebbe subito rubato il mio cuore. Avviata Loyangallani, nel 1979 il vescovo mi ha spostato a South Horr con il compito particolare di curare le due comunità di Tuum e Parkàti che erano state iniziate pochi anni prima da padre Giuseppe Polet.

Ma non era troppo pericoloso spingersi in quelle aree così remote?

Tuum e Parkàti sono, ancora oggi, due punti che trovi a fatica sulle carte geografiche. Tuum è in una valle sul versante Ovest del monte Nyiro, il monte sacro dei Samburu, all’opposto di South Horr, mentre Parkàti si trova a una ventina di chilometri più a Nord verso il lago, in un territorio caldissimo, la Suguta Valley. Grazie alla presenza di sorgenti d’acqua, erano quasi delle oasi adatte per costruire una scuola e un centro di salute per i nomadi che là vivevano.

Lì, ancora tren’anni prima, sospinti dalla fame, abusivamente, i Turkana erano entrati nella terra dei Samburu. Erano file di donne, uomini, vecchi e bambini che, per le piste sassose e polverose, preceduti dai loro armenti e da qualche asinello carico di pentolini, pelli e stracci, curvi e tristi, fuggivano dalla fame.

Inizialmente erano poche migliaia, ma quando sono arrivato a South Horr, la loro presenza contava ormai più di 30mila persone. Poco a poco, i Turkana si erano impadroniti della lunga striscia di territorio situata a Ovest dell’orrida e scoscesa valle di Suguta, una terra tristemente nota per le frequenti scorrerie dei banditi Ngorokos, e quindi poco frequentata dai Samburu.

Chiesetta di Parkati

Chi sono gli Ngorokos?

Erano una banda di predoni, composta prevalentemente da Turkana, ma anche da altri gruppi etnici. Si ritiene che a loro si fossero uniti anche degli ex militari ugandesi di Idi Amin, defenestrato nel 1979. Avevano armi sofisticate e si sospettava che qualcuno dall’esterno li manovrasse e comunque comprasse il bestiame da loro rubato, che andava poi a finire nei macelli di Nairobi. Attivi fin dagli anni Sessanta, hanno fatto pesanti incursioni nei villaggi dei Samburu e dei Rendille, che hanno poi cercato vendetta attaccando i Turkana, aumentando così i conflitti intertribali.

Fino a che punto i Turkana erano responsabili delle scorrerie operate dagli Ngorokos?

La risposta non è facile. Se da una parte è vero che nella banda erano attivi molti elementi della loro tribù, dall’altra è anche vero che i Turkana detestavano cordialmente quegli assassini, chiedendo al governo e persino a noi missionari le armi necessarie per combatterli. E avevano le loro buone ragioni. Quando gli Ngorokos preparavano una razzia contro i Samburu, non trovavano di meglio che allenarsi assaltando le manyatte dei Turkana, violentando donne e ragazze e uccidendo quanti opponevano resistenza. Quando poi compivano le loro razzie nei territori dei Samburu o dei Rendille, chi ne andava di mezzo erano ancora i Turkana perché ritenuti responsabili dell’accaduto. Nel 1975, la conca di Parkàti è stata spettatrice di una di queste feroci rappresaglie: quattordici fra vecchi, donne e bambini, sono stati trucidati dai Rendille, e 7mila i capi di bestiame (capre, asini e cammelli) razziati.

E voi siete andati di proposito a costruire una missione proprio là?

Proprio così. Abbiamo voluto impiantare a Parkàti una piccola stazione di missione perché il sorgere di un abitato stabile avrebbe garantito protezione e tranquillità alla gente, e la presenza di missionari, disposti a servire indistintamente i due gruppi, avrebbe contribuito a placarli e conciliarli. Con la missione, poi, si sarebbe dovuta aprire anche una strada che avrebbe apportato non pochi benefici: dall’intervento tempestivo delle forze dell’ordine in caso di necessità; al trasporto di acqua e generi alimentari, soprattutto nei periodi di siccità; alla rapidità di spostamento anche per la popolazione e il bestiame.

È stato padre Polet che ha convinto il governo ad aprire una strada tra le rocce, guadagnandosi così la totale fiducia della gente, e poi ha costruito un dispensario, aule scolastiche, dormitorio e casette per i maestri. Nel 1977 era spuntata anche la cappella, umile ma funzionale, e, infine la casetta per il missionario. Nella valle dell’inferno era nata la missione di Parkàti. Ogni fine settimana, da South Horr, andavo là e a Tuum.

Cos’è successo all’inizio del 1981?

La situazione era molto tesa. Le razzie degli Ngorokos erano continue e stavano diventando sempre più forti e più crudeli. Prima di Natale, gli altri missionari mi avevano sconsigliato di andare troppo spesso a Parkàti, ma avevo risposto che, se veramente avessero voluto uccidermi, avrebbero potuto farlo già tante altre volte. Solo poche settimane prima, ad esempio, avevano assalito la bottega di Parkàti mentre io ero lì a vedere tutto a circa cento metri di distanza. Scherzando, i miei confratelli mi dicevano che ero il cappellano degli Ngorokos  e, prima o dopo, li avrei convertiti tutti. Anche alcuni dei miei cristiani mi avevano sconsigliato di andare, ma un po’ celiando, un po’ sul serio, avevo risposto loro: «Cosa debbo farci dal momento che la mia tomba è là?».

E così ti sei preparato al safari.

Il 9 gennaio, era venerdì, al mattino presto sono andato alla missione di Baragoi per acquistare farina e zucchero da portare a Parkàti. A padre Pietro Davoli e suor Cristiana Sestero, che mi pregavano di non andare laggiù perché ormai erano scappati quasi tutti a causa degli Ngorokos, ho risposto: «Anzitutto, faccio solo il mio dovere; in secondo luogo, vi sono ancora i bambini della scuola e i pochi vecchi che non sono riusciti a fuggire; se non porto loro un po’ di farina, che cosa mangeranno? Non posso lasciarli morire di fame. D’altronde, se il Signore mi chiama, sono pronto».

Lo stesso giorno, passato a South Horr e caricato tutto il necessario, sono partito per Parkàti e, passando per Tuum, mi sono fermato a visitare la famiglia di Veronica che aveva cura della chiesetta quando io ero assente. Vedendo un calendario sulla parete della capanna, mi è venuto di dire: «Sapete? Morirò il giorno 10 gennaio». Poi ho consegnato a Veronica una busta: «Qui c’è qualche shellino, dopo la mia morte fatemi dire delle messe». Prima di partire le ho anche dato quaranta metri di cotonata blu per fare dieci divise per i bambini della scuola, chiedendole di tenerne da parte una misura grande per avvolgervi il mio cadavere. Perplessa e un po’ spaventata, mi ha domandato: «Padre, perché parli così oggi?». Sono rimasto zitto per un po’, poi, ridendo, le ho detto: «Veronica, tieni d’occhio il sacchetto del denaro, non voglio morire con quello come Giuda». Li ho salutati e sono poi arrivato a Parkàti, dove mi sono fermato tutto il sabato.

E sei partito per tornare a Tuum.

Domenica mattina, l’11 gennaio verso le 6 e mezza, sono partito per Tuum dove, come al solito, mi aspettavano per la santa Messa. Mi accompagnava il catechista Patrick, Peter Areman (un giovane diciottenne) e quattro ragazzi che dovevano andare a scuola a South Horr. Il viaggio è stato senza intoppi fin quasi a metà del percorso. A una dozzina di chilometri da Tuum, improvvisamente si è parata davanti a noi una ciurma urlante di uomini armati. Erano più di duecento. Avevano panghe (coltellacci), lance, fucili e anche mitra. Ho capito immediatamente il pericolo e ho tentato di invertire la marcia, ma una raffica ha bloccato la Land Rover. Non c’era più scampo. Eravamo accerchiati. Sceso di corsa, sono andato dietro per aprire il portellone della Land Rover e far uscire i ragazzi. «Non ci resta che inginocchiarci, pregare e morire», ho detto loro. Speravo proprio che si limitassero a derubarci.

Croce posta sul luogo uccisione padre Graiff a Parkati, con padre Pietro Davoli e padre Cornelio Dalzocchio

È l’11 gennaio, solennità del Battesimo del Signore. Padre Zizoti, riceve il battesimo per la Vita.

Funerali di p Graiff .

Una fucilata alla testa lo fa cadere nelle braccia del catechista. Anche Peter e Lothuru Lomakar, uno degli studenti, sono brutalmente ammazzati. Il catechista Patrick, tra le botte, riesce a parlare con gli assalitori, riconoscendone alcuni. Supplica e ottiene di avere salva la vita, per sé e i ragazzi superstiti. È percosso e spogliato. Gli dicono di avvertire la missione. Riesce a spostare il corpo di padre Graiff a circa due metri dalla macchina che è stata incendiata. Il corpo però subisce gravi lesioni perché i banditi infieriscono su di lui, denudandolo e strappandogli il cuore e le viscere, quasi applicando antichi e brutali rituali per rubargli lo spirito di uomo coraggioso. Patrick risale con grande difficoltà fino a Tuum ad avvisare. Di qui due giovani partono immediatamente con una lettera per padre Cornelio Dalzocchio a South Horr e, attraversando la montagna del Nyiro, giungono alla missione verso le cinque del pomeriggio. Dolore e sbigottimento. Partono subito in quattro, con la Land Rover: padre Dalzocchio, don Tibaldi, suor Floremilia e suor Assunta. Quando, in piena notte, giungono sul luogo dell’eccidio, una scena raccapricciante si presenta ai loro occhi: tre corpi nudi, orrendamente feriti e crivellati di proiettili, bruciati e tumefatti, giacciono sul terreno accanto alla carcassa della Land Rover.

Raccolgono i resti, li trasportano al centro di Maralal, a oltre 200 chilometri di distanza, dove, oltre alla missione, c’è anche il posto di polizia. Espletate le formalità burocratiche e ottenuto il permesso di sepoltura, il giorno dopo hanno luogo i funerali, celebrati da mons. Carlo Cavallera e da tutti i missionari della diocesi. Il pianto dei missionari, degli africani e in particolare dei nomadi è immenso.

Padre Luigi è ora sepolto nel cimitero della missione di Maralal, accanto alle spoglie di padre Michele Stallone, ucciso a Loyangallani il 18 novembre 1965 e di padre Luigi Andeni, ucciso ad Archer’s Post il 15 settembre 1998.

Gigi Anataloni

Maralal Mission cemetery




Perdenti 64.

Suor Dorothy Stang, difesa degli oppressi

testo di Don Mario Bandera |


Il 12 febbraio 2005 veniva uccisa in Brasile, in piena foresta amazzonica, una suora statunitense settantatreenne, Dorothy Mae Stang (nella cantilenante lingua portoghese-brasileira, amorevolmente chiamata Irmã Dorote) della congregazione delle Suore di Notre Dame di Namur.

Subito balzò agli occhi che non si era trattato di un atto violento di intolleranza religiosa, ma di qualcosa di ben più efferato che scosse, oltre che la sensibilità della grande famiglia missionaria, anche la sonnolenta coscienza collettiva dell’opinione pubblica internazionale. Ma chi era suor Dorothy? In Brasile, soprattutto in quelle regioni remote e inaccessibili del Nord Est del paese, ella rappresentava una presenza umile e solidale a fianco dei poveri contadini «sem terra» in cerca di terra incolta da coltivare.

Era, suor Dorothy, una presenza viva e scomoda di Chiesa in un luogo dove nessun missionario aveva ancora messo piede, e punto di riferimento per tante famiglie di contadini costantemente in balìa dei grandi interessi economici che con tracotanza, e anche violenza, si contendevano ogni metro quadrato della foresta amazzonica.

Suor Dorothy, col tempo, era diventata una voce profetica in quanto ricordava a tutti che la persona va sempre difesa, in modo particolare gli esclusi della società e i più poveri fra i poveri, e che la terra e la foresta non vanno aggredite e devastate per ricavare più profitti economici a beneficio dei pochi ricchi fazendeiros (proprietari di enormi aziende agricole, latifondisti, ndr) e delle insaziabili multinazionali, ma rispettate, protette e amate perché sono patrimonio di tutti.

Parlaci un po’ di te, chi sei, da dove vieni, perché sei diventata suora e missionaria.

Sono nata il 7 giugno 1931 in Dayton, Ohio, Usa, nella fattoria del tenente colonnello Henry Stang, trasformato in contadino, padre di ben nove figli e figlie. Ex militare, mi ha insegnato un forte senso della disciplina e del dovere. Da lui ho preso anche una grande passione per la natura e la vita contadina. Da mia madre Edna, invece, ho preso l’allegria e la spensieratezza. A sedici anni sono entrata con la mia amica Joan nella congregazione delle Suore di Nostra Signora di Namur. Questo è successo per due ragioni: la mia partecipazione al gruppo dei Giovani studenti cristiani, dove avevo imparato il metodo del «vedere, giudicare e agire», e il fatto che avevo studiato nella Julienne, una scuola proprio delle suore di Namur, dove si respirava un forte spirito missionario.

Perché sei andata in Brasile?

Dopo gli anni di preparazione, ho fatto i primi voti nel 1951 e ho preso il nome di suor Mary Joachim. Ho passato i miei primi anni come insegnante nelle nostre scuole negli Usa, ma il desiderio della missione è andato crescendo in me, anche sotto la spinta del Concilio Vaticano II. Quando papa Giovanni XXIII ha lanciato un appello alle suore del Nord America affinché mandassero almeno il 10% del loro personale in America Latina, mi sono resa subito disponibile, incoraggiata anche dal fatto che due dei miei fratelli erano diventati missionari. È stato con immensa gioia che nel 1966 ho ricevuto la notizia di essere parte del secondo gruppo di suore di Namur destinate al Brasile.

Sei finita di nuovo nella scuola?

Sembrava la cosa più naturale visto il tipo di attività che la nostra congregazione faceva, ma le cose sono andate diversamente. Appena arrivate in Brasile, nell’agosto del 1966, siamo andate a Rio de Janeiro, nel Centro di formazione interculturale, per imparare la lingua e per l’inserimento nel paese. Là, tra le nostre guide, c’erano Gustavo Gutierrez e Jon Sobrino. Già da subito, l’impatto con la gente delle favelas di Rio ci ha messo in discussione, a cominciare dal nostro modo di vestire, per cui abbiamo lasciato l’abito «da suore» e abbiamo cominciato a vestirci con abiti semplici.

Dopo il corso di inserimento dove siete andate?

Appena prima di Natale siamo partite per la nostra prima destinazione, Coroatá, nel Maranhāo, accolte con calore da due missionari italiani e sistemate in una casa crollata a metà, quindi tutta da sistemare. Pensavamo di insegnare nella scuola, invece ci hanno mandato subito a visitare la gente del posto e ad animare le nascenti comunità ecclesiali di base. Era una pastorale nuova, attenta ai poveri e quindi, quasi da subito, ci siamo trovate in contrasto con i fazendeiros, che erano abituati a dominare tutta la vita dei loro contadini, anche quella religiosa (con messe celebrate solo nelle loro fazendas e feste patronali organizzate in tutto e per tutto da loro).

Un contesto carico di problemi e di tensioni sociali.

Indubbiamente. I latifondisti trattavano i contadini come gli schiavi di un tempo e impedivano qualsiasi azione di riscatto sociale. Anche costruire una scuola era visto male perché avrebbe reso i poveri più coscienti della loro situazione. Inoltre, c’era un meccanismo di sfruttamento ben oleato. Il governo prometteva lotti di terra a chiunque era disposto a entrare nella foresta e disboscare. Così molti poveri contadini senza terra si buttavano all’avventura. Disboscavano, preparavano la terra, la rendevano pronta per la coltivazione. Passati cinque anni, arrivavano i fazendeiros o le grandi multinazionali, che intanto si erano assicurati i titoli di proprietà di quelle terre, e, forti dei loro «diritti», cacciavano via tutti per impiantare le loro grandi fazendas. Nessun compenso era pagato ai contadini, anzi veniva usata la forza della polizia o di sgherri privati per costringere la gente ad andarsene, il tutto accompagnato da case bruciate, pestaggi, imprigionamenti di chi resisteva e anche uccisioni.

E voi closa facevate per aiutare la gente?

La priorità era il sostegno alle comunità di base, poi abbiamo cominciato a celebrare le messe, gli incontri e le feste nei villaggi dei contadini invece che nelle case dei possidenti.

Questo è stato vero a Coroatá, la prima missione. Ma lo stesso abbiamo fatto quando ci siamo spinte ancor più nell’interno, dal Maranhāo al Pará, e ci siamo stabilite prima ad Abel Figueredo (nel 1974) e poi ad Anapu (nell’82), una zona ancora più «calda» nella diocesi di Altamira.

Con una certa audacia fondaste anche il sindacato locale dei contadini.

È stata una scelta ovvia quella di aiutarli a organizzarsi. Era importante che diventassero loro soggetti del loro riscatto. E poi c’era l’istruzione. Immagina che con loro abbiamo costruito (e ricostruito, perché spesso ci venivano bruciate) ben ventitré scuole primarie in un’area dove l’istruzione di base era completamente assente.

Insegnaste anche le tecniche di agricoltura sostenibile.

Certamente. Abbiamo cercato inoltre anche l’incontro e la collaborazione con i popoli indigeni, per renderli coscienti della situazione e far loro comprendere l’importanza di battersi per i loro diritti. Dimostrando a tutti che cosa può fare chi ha fede, coraggio e determinazione per cambiare una parte del mondo disperatamente bisognosa di giustizia.

Ma allora eravate più attiviste sociali che missionarie.

No, proprio perché facevamo ogni giorno una scelta di vita e impegno secondo il Vangelo, avevamo la forza e la lucidità per affrontare quelle situazioni. Era il confronto giornaliero con la Parola di Dio che ispirava non solo me, ma i preti con cui lavoravamo e i leader delle comunità di base.

Inutile dire che la vostra azione sociale e pastorale non era ben vista dai potenti della zona.

Fin dal mio arrivo in Brasile sono stati diversi gli avvertimenti che questi individui ci facevano giungere, mettendoci in guardia per la nostra azione in difesa degli indigeni e dei contadini più poveri. La prima minaccia risale addirittura al 5 agosto 1970. In quel tempo lavoravo a Coroatà, quando un commando di uomini armati ha fatto irruzione nel centro parrocchiale minacciando le suore che in quella sede riunivano la gente per educarla ai propri diritti.

E non solo noi eravamo malviste, ma anche i sacerdoti con cui lavoravamo e i leader della comunità di base, gli insegnati delle scuole. Molti di loro, e non solo noi suore, hanno pagato con minacce, arresti abusivi, imprigionamenti, torture e anche la morte il loro impegno per la giustizia e i poveri.

In ogni caso la vostra situazione peggiorava di giorno in giorno.

I ricchi moltiplicano i loro piani per sterminare i poveri, riducendoli alla fame. Uno di essi, il sindaco di Anapu, mia ultima destinazione missionaria, se n’era uscito con una frase terribile e lapidaria indirizzata alla mia persona: «Dobbiamo sbarazzarci di questa donna se vogliamo vivere in pace».

Tu però non ne avevi nessuna intenzione di lasciare la tua gente.

So che volevano togliermi di mezzo a qualunque costo, ma io di andarmene non ci pensavo proprio. Il mio posto restava con la gente continuamente umiliata, sfruttata e calpestata».

La mattina del 12 febbraio 2005, «mentre cammina da sola nella foresta, la sua via viene sbarrata da due uomini armati. Dal borsello di plastica, che porta sempre con sé, estrae mappe e documenti per dimostrare che l’area contesa è stata dichiarata riserva per i poveri senza terra. Uno dei due uomini le chiede se ha un’arma. Lei sorride e tira fuori la Bibbia. “Questa è l’unica arma che ho”, dice, e comincia a leggere dalle Beatitudini: “Beati i poveri in spirito. Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia. Beati gli operatori di pace; saranno chiamati figli di Dio”.

Quando si volta per ripartire, uno degli uomini la chiama. L’altro impugna l’arma, e mentre la suora si gira, le spara a bruciapelo mentre ha ancora la Bibbia in mano. Continua a sparare, sei volte. Poi i due corrono verso i cespugli e fuggono verso la tenuta di uno dei mandanti». (Da Roseanne Murphy, Martire dell’Amazzonia, la vita di suor Dorothy Stang, Emi 2009).

Dorothy Stang, per il suo sacrificio come «testimone della fede», rappresenta uno dei più luminosi esempi ai nostri giorni di devozione al Vangelo applicata sul campo, accanto ai più umili e poveri, ai così detti «senza voce». Nella sua azione sociale e pastorale, contrastò interessi importanti; per questo venne messa a tacere in una triste, piovigginosa mattina del febbraio 2005. Ma la sua testimonianza è tutt’ora viva e la sua memoria, ripropone temi, problemi e impegni attuali più vivi che mai. Ecco perché «la sua storia è tutt’altro che terminata».

Ad ogni anniversario della sua morte, centinaia di persone si radunano attorno alla sua tomba nella foresta amazzonica. Fra esse i rappresentanti delle tante comunità di base sorte soprattutto dopo il sacrificio di Dorothy Stang, per condividere il Vangelo e viverlo sul campo, come lei aveva insegnato. La recente Esortazione apostolica Querida Amazonia di papa Francesco è un doveroso omaggio a questa piccola donna, paladina della giustizia sociale, e a tutti quelli che hanno donato la vita per difendere la loro fede. 

Ultimo, profetico segnale: nel 2004 – l’anno prima di venir uccisa – suor Dorothy viene insignita con la «Medaglia di Chico Mendes» da parte dell’Organizzazione brasiliana degli avvocati per i diritti umani. Quasi a riconoscerla erede – e tragicamente fu proprio così – del sindacalista, difensore degli ultimi, assassinato nel 1988.

Don Mario Bandera

Da leggere:

Roseanne Murphy, Martire dell’Amazzonia, la vita di suor Dorothy Stang, EMI, 2009




Tra persecuzioni e rinascite

testo di Giorgio Bernardelli |


Dall’Henan nel 1870 a Canton oggi. La missione che più di ogni altra ha segnato la storia del Pime (Pontificio istituto missioni estere) compie 150 anni. Dalla Cina colonia di allora alla Cina colonialista di oggi, seminare il Vangelo è sempre una sfida tra difficoltà e persecuzioni.

Mai come durante questo 2020 la Cina è stata al centro dell’attenzione del mondo: dalle notizie legate al Covid-19 fino allo scontro tutto digitale su 5G e Tik Tok, la geopolitica ha passato ai raggi X ogni mossa di Pechino. Mentre il duro confronto con i giovani dei movimenti pro democrazia a Hong Kong ha mostrato tutte le contraddizioni del modello cinese.

In Cina da 150 anni

In questi stessi mesi, anche il Pontificio istituto missioni estere si è trovato a guardare alla Cina, ma da un altro punto di vista: nel 2020 cadono, infatti, i 150 anni dall’arrivo dei primi quattro missionari dell’istituto nella Cina continentale.

Dall’Henan – la regione «a Sud del fiume (Giallo)», immenso territorio nell’area interna considerata la culla della civiltà cinese – cominciò, infatti, nel 1870, la missione che più ha segnato la storia del Pime. Un tessuto di uomini, strutture, diocesi create quasi da zero, ma soprattutto di relazioni con le persone che nel giro di qualche decennio diedero vita a quel legame profondissimo tra il Pime e la Cina che nemmeno il Calvario durissimo vissuto dai cristiani in questo grande paese durante tutto il Novecento sarebbe riuscito a interrompere.

Passando per Wuhan

Era stata Propaganda Fide a chiamare nel vicariato apostolico dell’Henan l’allora Seminario lombardo per le missioni estere, il primo nucleo milanese del Pime, fondato da mons. Angelo Ramazzotti nel 1850.

La guida ecclesiale di quel territorio era stata affidata al trentottenne padre Simeone Volonteri, un missionario cresciuto nella Milano dei fermenti risorgimentali e con una prima conoscenza del mondo cinese alle spalle, maturata in dieci anni di missione a Hong Kong, dove il Pime era già arrivato nel 1858.

Con lui, per la nuova missione nella Cina continentale, partirono anche padre Angelo Cattaneo, bergamasco, padre Vito Ruvolo, di origini campane, e il siciliano Gabriele Cicalese.

L’8 febbraio 1870 lasciarono Hong Kong alla volta di Shanghai; da lì, poi, risalito per un primo tratto lo Yangtze – il «fiume Azzurro» -, sbarcarono nell’Hubei, nel porto di Hankow, che è poi la parte più antica di Wuhan, la città che la pandemia di questi mesi ci ha fatto conoscere.

Fino a Jingang

Hankow a quel tempo era l’ultimo porto di approdo per i piroscafi e, per questo motivo, era il grande crocevia per quanti si addentravano nelle province interne della Cina. Da lì, dunque, i missionari italiani impiegarono altri venticinque giorni di navigazione sul fiume Han, un’affluente dello Yangtze, per raggiungere l’Henan. Lo fecero a bordo di due piccole barche trascinate da terra con le funi per risalire controcorrente, mentre loro trascorrevano il proprio tempo sottocoperta studiando il cinese.

Solo il 19 marzo sarebbero infine sbarcati a Lahoekou, da dove raggiunsero Jingang, la cittadina nei pressi di Nanyang dove aveva sede la missione ereditata dai missionari Lazzaristi.

Un’antica comunità

Che cosa trovarono allora i missionari del Pime nell’Henan?

Un territorio immenso, abitato da 30 milioni di persone tra i quali esisteva già una piccolissima comunità di circa tremila cristiani.

Erano stati i gesuiti nel XVII secolo a tornare in questa regione dopo che a Matteo Ricci era stato raccontato che, per secoli, a Kaifeng (a circa 300 km da Nanyang, ndr.), sempre nello Henan, erano rimasti degli «adoratori della croce», verosimilmente discendenti dei missionari siriaci giunti già nel VII secolo nel cuore del Celeste Impero (come testimoniato dalla celebre stele di Xi’an).

Nel Settecento, poi, ai Gesuiti erano subentrati i Lazzaristi che, nel difficile contesto cinese dell’epoca – ostile al cristianesimo per reazione ai tentativi di penetrazione coloniale delle potenze europee -, avrebbero pianto nell’Henan due martiri: Francesco Regis Clet nel 1820 e Giovanni Gabriele Perboyre nel 1840.

Nel 1860 la Francia, con la Convenzione di Pechino, aveva ottenuto dall’ormai debole dinastia Qing la libertà per la Chiesa di predicare e battezzare in tutto l’impero. Ma nelle province come l’Henan, lontane da Pechino, a dettare legge restavano amministratori e milizie locali il cui atteggiamento nei confronti dei cristiani non era mutato.

Un contesto difficile

I missionari dell’allora Seminario lombardo per le missioni estere sapevano quindi che la missione alla quale erano stati chiamati non sarebbe stata facile.

Vestiti con abiti cinesi, con la testa rasata e il codino secondo l’usanza locale, vivevano una vita poverissima: «Tre orride pareti di terra e paglia insieme impastate e una quarta di pura carta formata da me stesso, costituiscono la mia, per altro, cara stanza – scriveva da Jingang padre Angelo Cattaneo -. Eppure, sono arcicontentissimo, né cangerei per tutto l’oro del mondo».

Un altro dei primi missionari, padre Vito Ruvolo, sarebbe morto di tubercolosi a soli 28 anni a pochi mesi dal suo arrivo.

Da stranieri si trovavano inoltre a fare i conti con l’ostilità aperta dei letterati confuciani, incattiviti dalle mire coloniali delle potenze europee: padre Volonteri stesso, nel 1873, dovette affrontare una pubblica umiliazione quando, recatosi a Kaifeng per discutere con le autorità di una casa acquistata dai Lazzaristi a Nanyang, ma mai utilizzata a causa dell’avversione dei funzionari locali – si ritrovò in mezzo agli insulti di una folla minacciosa, sobillata dalle stesse autorità.

Carità e saggezza

In un contesto così difficile, fu il cuore generoso dei missionari a scardinare i pregiudizi.

Accadde in particolare durante una terribile carestia scoppiata nel 1877: le ancora povere strutture delle missioni diventarono rifugio e soccorso per tutti, grazie anche a una sottoscrizione promossa in Italia. Fu questo a cambiare radicalmente l’atteggiamento dei mandarini locali, oltre alla saggezza di Volonteri – dal 1873 ufficialmente vescovo della regione – che ebbe sempre molta cura nel tenere le giuste distanze dall’abbraccio ingombrante e pericoloso delle potenze coloniali. Per esempio, fu tra i primi vescovi cattolici in Cina ad alzare la voce contro la piaga del commercio dell’oppio, alimentato dagli interessi europei. Il missionario arrivò persino a scrivere a Propaganda Fide chiedendo un pronunciamento chiaro di condanna da parte della Santa Sede; una presa di posizione che sarebbe però arrivata solo dopo qualche anno.

Nello Shaanxi

Parallela a questa prima presenza nell’Henan, se ne aggiunse poi presto un’altra nel vicino Shaanxi. Una missione legata, questa volta, al Seminario dei Santi Apostoli Pietro e Paolo per le missioni estere, l’istituto romano fondato da mons. Pietro Avanzini che, nel 1926, Pio XI avrebbe unito al Seminario lombardo, dando vita al Pontificio istituto missioni estere.

Questo secondo gruppo di missionari giunse nel vicariato di Hanzhong nel 1887, sempre con il compito di far crescere una Chiesa dal volto cinese.

I primi martiri

Nello Shaanxi sarebbe però cominciata per il Pime anche l’esperienza del martirio in Cina. Capitò nel contesto della rivolta dei Boxer che nel 1900 scatenò in tutto il paese un’ondata gravissima di violenze contro i cristiani. Nel vicariato di Hanzhong fu colpito a morte padre Alberico Crescitelli, missionario campano originario di Altavilla Irpina, giunto in Cina dodici anni prima, e che sarebbe figurato tra i 120 martiri cinesi canonizzati da Giovanni Paolo II nell’ottobre 2000. Una morte violenta che non fermò la dedizione del Pime al popolo cinese. Al contrario: le chiese, le scuole, gli orfanotrofi, gli ospedali realizzati a servizio della gente, continuarono a crescere, accompagnati dall’attenzione alla formazione di sacerdoti e catechisti locali capaci di incarnare il Vangelo dentro la propria cultura, e anche da uno sguardo attento alla bellezza della cultura e delle tradizioni cinesi, come testimoniano – ad esempio – le splendide fotografie di padre Leone Nani, che ha lasciato con le sue lastre uno spaccato straordinario della Cina rurale dell’inizio Novecento.

Uccisi ed espulsi

Accanto a Crescitelli anche altri missionari del Pime in Cina sarebbero stati chiamati a donare la propria vita per il Vangelo: padre Cesare Mencattini nel 1941 nell’Henan, e poi mons. Antonio Barosi, vescovo di Kaifeng, nel 1942, ucciso insieme ai padri Girolamo Lazzaroni, Mario Zanardi e Bruno Zanella, straziati e gettati ancora vivi in un pozzo. E padre Emilio Teruzzi, sempre in quello stesso 1942, anno drammatico per la presenza del Pime in Cina.

Tutti e sei questi missionari caddero vittime di quella miscela esplosiva creata dall’intreccio tra la guerra civile combattuta tra nazionalisti e comunisti, l’invasione giapponese, e le scorribande di milizie sbandate che semplicemente approfittavano della situazione.

Uccisi prima della prova che sarebbe poi arrivata con la vittoria di Mao e della Cina comunista.

All’inizio degli anni Cinquanta, infatti, per tutti i missionari del Pime in Cina, arrivò il tempo più difficile: la persecuzione, i processi popolari, le violenze fisiche e psicologiche in carcere. Fino alle espulsioni a frotte tra il 1951 e il 1954.

Erano quelli gli anni in cui padre Ambrogio Poletti, missionario del Pime nella zona della diocesi di Hong Kong più vicina al confine tra l’ex colonia britannica e la Cina continentale, si recava quasi quotidianamente al ponte di Lo Wu ad accogliere i missionari di ogni congregazione e nazionalità scacciati dai comunisti. «Ne ho accolti più di tremila», avrebbe scritto nelle sue memorie ricordando quell’esodo.

I frutti che rimangono

Con il 1954 si chiuse dunque la presenza fisica del Pime nella Cina continentale. Ma che cosa sarebbe rimasto di quanto seminato dai 263 missionari dell’istituto che avevano svolto il loro ministero nelle province dell’Henan e dello Shaanxi nei 74 anni trascorsi dall’arrivo di padre Volonteri e dei suoi compagni?

Nonostante il tentativo del regime comunista di cancellare le tracce degli «stranieri», e la persecuzione ancora di più dura patita dai cristiani negli anni della Rivoluzione Culturale, i frutti della loro testimonianza non svanirono.

I primi ad accorgersene sono stati i confratelli che, a partire dagli anni Ottanta, quando da Pechino sono cominciate a giungere le prime aperture per le comunità cristiane, sono potuti tornare a visitare l’Henan e lo Shaanxi.

Figure come padre Giancarlo Politi (scomparso lo scorso anno) e padre Angelo Lazzarotto, con i loro viaggi, hanno potuto toccare con mano quanto, nonostante la tempesta immane abbattutasi su queste Chiese, la memoria dei missionari fosse rimasta viva.

Con emozione, per esempio, il Pime ha potuto apprendere che nella cittadina di Zhoukou – dove in un pozzo secco erano state nascoste le spoglie dei quattro missionari dell’istituto uccisi insieme nel 1942 -, i cristiani locali avevano costruito una nuova chiesa proprio in corrispondenza di quel luogo di cui non si era persa la memoria. Esattamente come nella Roma degli inizi del cristianesimo si costruivano altari sulle reliquie dei primi martiri.

Uscire dalle catacombe

La missione del Pime in Cina negli anni più recenti è stata quella di accompagnare nelle poche modalità concretamente possibili la vita delle comunità che, un passo alla volta, provavano a uscire dalle catacombe. Ad esempio attraverso il racconto delle storie dei tanti sacerdoti, religiosi e laici cinesi che avevano subito ogni sorta di persecuzione nel furore ideologico della Rivoluzione Culturale, ma anche aiutando la Santa Sede a ricostruire la fotografia di ciò che restava delle diocesi cinesi; premessa indispensabile per quel cammino di unità tra i cattolici in Cina che Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno auspicato e che l’accordo voluto da Francesco con il governo di Pechino sulla nomina dei vescovi, pur con tutte le sue difficoltà, sta faticosamente cercando di promuovere.

Le suore di San Giuseppe

Anche dentro la cosiddetta «Chiesa ufficiale» – pienamente riconosciuta da Pechino – ci sono segni che parlano dell’eredità lasciata dai missionari del Pime.

Ne è un esempio la congregazione delle Suore Missionarie di San Giuseppe, un istituto femminile fondato nell’Henan da un missionario del Pime – padre Isaia Bellavite -, che quest’anno ha festeggiato il suo centenario.

Queste religiose, in origine, erano un gruppo di donne che nella zona di Anyang nel 1920 si erano prodigate per il servizio a chi aveva perso tutto durante un’alluvione devastante del fiume Giallo. In quel frangente, padre Bellavite intuì quanto preziosa sarebbe potuta essere per l’evangelizzazione una congregazione di suore cinesi: un ordine religioso locale, in grado di arrivare anche là dove il missionario straniero non avrebbe mai potuto accedere. Quando arrivarono gli anni della repressione comunista con l’espulsione dei missionari, le suore furono disperse, e ciascuna tornò alla propria famiglia; ma alcune di esse, in maniera nascosta, sono rimaste fedeli per decenni alla propria vocazione, e quando è stato possibile, hanno ridato vita alla loro comunità.

A quel punto la sorpresa dello Spirito è stata vedere anche giovani ragazze cinesi unirsi a loro.

Così oggi le Suore Missionarie di San Giuseppe sono una congregazione locale della diocesi di Anyang, un ordine che conta 127 religiose, impegnate nella pastorale ma anche nel servizio agli ammalati in una piccola clinica oftalmica che avevano aperto già negli anni Trenta e che è stata loro restituita dalle autorità locali.

Nel segno della carità

Nel segno della carità si inserisce anche un altro legame tra il Pime e la Cina continentale cresciuto negli ultimi anni: l’amicizia con Huiling, un’ong al servizio dei disabili, fondata e animata da una donna cattolica cinese, Teresa Meng Weina, e oggi indicata come un modello dalle stesse autorità cinesi.

In oltre trent’anni, Huling ha infatti aperto più di cento centri in tredici metropoli cinesi, con trecento operatori che assistono oltre mille disabili. Un cammino che i missionari del Pime da Hong Kong hanno costantemente sostenuto, in alcuni casi anche tornando per lunghi periodi in Cina a condividerne l’esperienza.  Da questa collaborazione sono nati anche progetti particolarmente significativi per la promozione della cultura della disabilità: una fattoria dove i portatori di handicap di Huiling lavorano alla periferia di Guangzhou (la città che in Occidente chiamiamo Canton), o una compagnia teatrale che porta in tutta la Cina il messaggio di questa realtà.

Per questo motivo, proprio al cammino di Huiling il Pime ha voluto che fosse legato il ricordo dei suoi 150 anni in Cina, attraverso una raccolta fondi intitolata «AvviCINAbili senza barriere» promossa in Italia. Un modo concreto per andare oltre la retorica sulla Cina come grande potenza, e per ripartire invece dal volto di chi è fragile, il più adatto a gettare ponti anche nei contesti più difficili.

Per tornare a incontrare – anche in un contesto così segnato da paure e contrapposizioni – un’altra Cina, più vicina al tesoro straordinario scoperto nel 1870 dai primi missionari nell’Henan, e provare a scrivere insieme alle comunità cristiane locali una nuova pagina di speranza per il mondo intero.

Giorgio Bernardelli