Casablanca: la forza della tradizione


Era sbarcata dalla Sicilia a Casablanca, migrante tra i migranti, quasi un secolo fa. La Madonna di Trapani, particolarmente venerata nella sua terra natale, aveva seguito l’avventura dei pescatori siciliani stanziati nella regione. «Per quanto lontano scorra un ruscello non dimentica la sua origine» si ripete in Africa.

Per questo, il 15 agosto, festa dell’Assunta, aveva dato appuntamento come da tradizione alla Chiesa italiana di Cristo Re, Boulevard Abdelmoumen (Casablanca). La serata prevedeva la celebrazione eucaristica presieduta dal vescovo emerito mons. Giovanni d’Ercole, una commovente fiaccolata e una condivisione conviviale italo-marocchina.

La statua della Vergine, grandezza naturale, molto delicata e bella, coronata d’oro, tiene tra le braccia un bambino dall’espressione curiosa, dolce e accattivante. I trapanesi, infatti, affascinati dalla sua bellezza vi diranno che non vedrete una Madonna più bella se non in paradiso… Era arrivata per prima nel piazzale ancora vuoto fuori dalla chiesa, sotto gli occhi di TV Trapani in diretta. E subito, come per incanto, i miracoli iniziavano a fiorire tutt’intorno… La piazza diveniva, tra gli alberi e le file di banchi, un’originale cattedrale a cielo aperto. La grande bandiera rossa stellata del Marocco e il tricolore italiano si abbracciavano sotto gli occhi di tutti, all’ingresso. Un coro di filippini, poi, appariva per animare la celebrazione e i canti in italiano. In verità, è sempre una gradita sorpresa ritrovare la propria lingua sulle labbra degli altri!

Con voce commossa, Mons. Giovanni ricorda la storia dell’emigrazione e della fede dei siciliani e di tutti coloro che partono – spesso pieni di speranza e di disperazione – per una vita migliore. Ma tutto questo – ed è veramente sentito questa sera – sotto lo sguardo incoraggiante e materno di Maria «madre universale di tutti» cristiani e musulmani. «La madre rassicura, accompagna, trasmette pace – sottolinea il vescovo – dona coraggio e serenità ad ogni esistenza e alle sue sfide». Poi, al termine di una lunga fiaccolata nel clima di Lourdes, una cascata infinita, interminabile, di «Ave Maria». Ognuno dei presenti mette la sua voce e la sua lingua, chi dal Rwanda, chi dal Libano, dal Congo, dalla Spagna, dalla Francia o da altrove… L’assemblea, in ascolto col fiato sospeso, ripete incessantemente con gioia interiore «Amen».

Poi, su invito del vescovo, alcuni lunghissimi istanti di silenzio, per far parlare solo il cuore. Così, si rimane immobili davanti alla statua della Vergine, illuminata nell’oscurità da un incantevole bouquet di candele. Istanti magici. Spesso, si sceglie il silenzio per dire le cose più importanti. Come scrive Kalil Gibran: «C’è qualcosa di più grande e più puro di quello che dice la bocca. Il silenzio illumina l’anima, sussurra ai cuori e li unisce. Il silenzio ci allontana da noi stessi, ci fa navigare nel firmamento dello spirito, ci avvicina al cielo».

Al termine della preghiera interviene in italiano il Console spagnolo, per dire con emozione come lui stesso ritrovi in questa festa della Vergine un sapore di Spagna. Così, si possono immaginare i sentimenti di coloro che ci seguono in diretta da lontano, soprattutto dalla Sicilia, in una serata di preghiera fatta in tutte le lingue del mondo!

Un grazie, infine, è rivolto a quanti sono venuti dai vari quartieri di Casablanca, agli organizzatori, in particolare ai due appassionati di questa grande tradizione, Francesco e Gilbert, un italiano quest’ultimo diventato il responsabile di tutte le vetture del Re Mohammed VI! Questa sera la chiesa italiana di Casablanca, chiusa da tempo, si è aperta al mondo: è il miracolo più grande di Maria venuta da Trapani.

Lentamente, dopo una fraterna condivisione di fede e di gioia, ognuno, nel buio della notte, fa ritorno alla sua casa. Ma con sé porta le sfide e le speranze di tutta l’umanità. Anche questo è essere italiani oggi a Casablanca.

Renato Zilio
Missionario in Marocco, autore di «Dio attende alla frontiera», EMI




Argentina: Amplificare la voce indigena

testo di José (Giuseppe) Auletta |


Anche in Argentina i missionari della Consolata hanno scelto di operare tra i popoli indigeni. Padre José (Giuseppe) Auletta, oggi tra i Huarpe della provincia di Mendoza, racconta i motivi di questa scelta partendo dalla propria esperienza personale.

La presenza dei missionari della Consolata in Argentina risale al 1946. Gli inizi ci situarono fra Buenos Aires e Rosario. Dopo pochi anni, ci fu la richiesta del vescovo di Resistencia (Chaco), mons. Nicola De Carlo (1940-1951), di dedicarci all’evangelizzazione degli indigeni Tobas, presenti sia nella provincia del Chaco che in quella di Formosa, al Nord Est dell’Argentina. Il servizio in quell’ampia zona andò avanti per un po’ di anni e poi si orientò più che altro a sopperire alla mancanza di clero nella Chiesa locale.

Ad ogni modo, il fatto che si richiedesse a noi missionari, proprio agli inizi della nostra presenza nel paese, e appellandosi allo specifico carisma «ad gentes», di dedicarci ai popoli indigeni, non è un segno da trascurare.

La scelta indigena appare anche negli atti delle Conferenze del nostro istituto. Nell’ultima, si è anche deciso la creazione della vicaria dei popoli indigeni a Yuto (provincia di Juijuy), dove c’è una popolazione guaranì numericamente e culturalmente significativa e dove già presta servizio un nostro confratello, padre Thomas Ishengoma.

La scoperta della realtÀ «Multi»

Donna Rosita Jofré della Comunità huarpe di Asunción. Foto José Auletta.

Per quanto riguarda la mia esperienza personale, capii la chiamata all’accompagnamento dei popoli indigeni quando fui destinato, alla fine del 1983, a Machagai (Chaco). Fu lì che ebbe inizio uno dei momenti forti della mia vita missionaria. Appena presi in carico la parrocchia, mi resi conto che la realtà era «multi»: multietnica e multiculturale, con i criollos/contadini, gli indigeni e gli immigrati europei.

Insieme alle suore della Consolata decidemmo di andare a fare le prime visite alla Colonia aborigen Chaco, che dista dalla parrocchia 20 chilometri. Così, almeno una volta al mese, stabilimmo un primo approccio alla realtà indigena dei Tobas, o Qom, come si chiamano nella loro lingua.

Finito il mio periodo di parroco, la grazia di Dio, con il permesso del superiore, consentì che andassi a vivere dieci anni con loro, inserito nella loro stessa realtà, condividendo la lotta per la terra, da loro iniziata novant’anni prima e coronata, in seguito, con l’aggiudicazione del titolo di terra comunitaria nell’anno 1996. Condivisi, inoltre, diversi progetti che migliorarono le condizioni di vita (strade, centri comunitari, acqua, case, ecc.): tutto portato avanti grazie al tradizionale spirito comunitario indigeno, in un graduale apprendistato da parte mia. Ricordo che quando iniziammo il primo progetto – una strada interna che avrebbe facilitato l’accesso alla scuola, ai posti di assistenza sanitaria e la comunicazione con il centro urbano – nella riunione comunitaria in cui si organizzava il lavoro, misi a disposizione l’aiuto di benefattori per una paga giornaliera di 10 pesos. Alzò la mano un membro della comunità e disse: «Padresito: la ringraziamo, però accettiamo la metà. Il resto è il nostro contributo per qualcosa che si trasformerà in un bene per noi».

Fu lì che appresi come accompagnarli, lasciando da parte assistenzialismo e paternalismo e dando spazio a un reciproco coinvolgimento.

Con lo spirito di Endepa

Sin dai primi anni nel Chaco cominciai a essere in contatto con Endepa (Équipe nazionale di pastorale aborigena).

Endepa mi ha aiutato a essere sempre più concreto e chiaro in questo impegno: prima insegnandomi – con incontri e formazioni – i criteri di accompagnamento, poi assegnandomi alcune responsabilità nella sua struttura organizzativa.

Vissi così una prima tappa, nel Chaco, di 17 anni, a cui fece seguito una seconda di 13, passando dal Nord Est al Nord Ovest, nella diocesi di Orán (provincia di Salta), dove ebbi a che fare con una pluralità etnica molto più varia: Tupí Guaraní, Kolla, Wichi, Tapiete, Chorote e altri.

Come avevo fatto nel Chaco, dovetti seguire problemi di conflitti per la terra, nei quali m’impegnai con tutte le mie forze. L’essere in contatto con quella realtà fu per me sorgente di una grande forza. Vedevo negli indigeni non solo la sofferenza e la fatica di andare avanti per colpa della violenza dei latifondisti e delle multinazionali, ma anche la fiducia che, alla fine, la giustizia avrebbe avuto l’ultima parola.

Questa testimonianza di resistenza indigena fu per me un gran regalo, rafforzando sempre più la convinzione che i popoli indigeni in Argentina sono l’espressione concreta del nostro «ad gentes». Dedicarci a loro ha a che vedere con il nostro carisma. Scoprire e inserirmi in questa realtà mi ha fatto sentire in sintonia con quel carisma.

Donna Rosalba Luxero della Comunità El Puerto, mentre lavora al telaio, importante attività artigianale degli Huarpe. Foto José Auletta.

«Qui non ci sono indigeni»

È stata, ed è, una gioia e una soddisfazione lavorare con lo spirito di Endepa, partecipando al suo impegno con i popoli indigeni e con la Chiesa locale, anche se – proprio a livello di Chiesa e di società – si fa fatica a superare l’idea che, in Argentina, «non ci siano indigeni».

Invece, i popoli indigeni sono una realtà evidente, soprattutto se consideriamo il momento forte dell’auto-riconoscimento della propria identità, in occasione della riforma della Carta costituzionale.

La prima Costituzione risaliva al 1853. Nel 1994, quando fu fatta la riforma, a cui anch’io partecipai, vedevamo i rappresentanti dei popoli indigeni che si aggiravano negli spazi dell’Assemblea costituente rendendo evidente la loro presenza, dal primo all’ultimo giorno. Li chiamavano i «Costituenti di corridoio». Sempre in contatto con un costituente o un altro, per dire loro con tutta chiarezza: «Noi siamo qui, esistiamo e abbiamo diritti!».

Che cosa successe con questa riforma? Dopo tante discussioni, venne approvato l’articolo 75 comma 17, che finalmente riconobbe la preesistenza etnica e culturale dei popoli indigeni, il diritto alla terra, il diritto all’educazione bilingue e interculturale, il diritto a essere consultati su questioni che li riguardano, soprattutto circa l’uso delle risorse (beni) e del territorio. Entrare nella Costituzione rappresentava il riconoscimento dell’Argentina come paese plurietnico e plurinazionale.

In tutto questo cammino Endepa è stata presente. Attualmente faccio parte del Coordinamento nazionale che è composto da una coordinatrice presidente e due coordinatori per le tre regioni (Sud, Nord Ovest e Nord Est). Io rappresento la regione Nord Ovest, insieme con un’altra persona.

Questa appartenenza permette di sentirmi ed essere considerato semplicemente un fratello, nella condivisione del cammino delle comunità originarie, celebrando la fratellanza, che per me è la migliore definizione di missione.

Condividere il cammino con i popoli originari

Asunción, padre Auletta si toglie le scarpe in segno di rispetto per la terra indigena degli Huarpe. Foto: archivio Auletta.

Il cammino condiviso con i popoli indigeni è un vero apprendistato in cui l’agente pastorale – laico, religioso, missionario – accede a una profonda e collettiva esperienza dello Spirito che in tutto esercita il primato, che vive ed è presente in ogni forma del Creato. Questo atteggiamento contemplativo e vitale offre alla Chiesa e all’umanità una profetica purificazione di fronte al secolarismo imperante e alla perdita dei valori spirituali e del senso della vita.

Inoltre, la sfida dell’inculturazione obbliga oggi più che mai a valorizzare l’esperienza religiosa dei popoli originari che credono che il Dio di Gesù Cristo sia stato presente e abbia operato da sempre nelle loro culture e successivamente fu loro annunciato nel Vangelo. Di questo Gesù di Nazareth fa gioiosa esperienza il missionario nel suo quotidiano camminare con i popoli. Si arriva così alla convinzione, secondo la quale, l’esperienza religiosa dei popoli indigeni è valida ed è stata suscitata dallo Spirito. Perciò deve muovere al dialogo interreligioso con coloro che si mantengono fedeli alla cosmovisione e alle esperienze religiose dei predecessori, superando i diversi etnocentrismi.

 

Compagni di cammino

Asunción, padre Auletta si toglie le scarpe in segno di rispetto per la terra indigena degli Huarpe. Foto: archivio Auletta.

È importante superare la paura della scomodità che possono dare gli indigeni all’interno della Chiesa, dovendo cambiare certi schemi. Trent’anni fa la Chiesa era chiamata a essere la «voce dei senza voce». Oggi i popoli indigeni hanno voce propria e la Chiesa deve soltanto amplificarla.

«Non è più ammissibile continuare a vedere gli indigeni come oggetti di studio o solamente come vittime e oggetto di benevolenza, ma come compagni di cammino, come soggetti protagonisti della nostra storia, del nostro sviluppo ed evangelizzazione» (Petul Cut Chab Huistán, teologo indigeno del Chiapas).

Come ebbe a dire papa Francesco a Puerto Maldonado (Perú): «Più che parlare di “minoranze etniche”, bisogna parlare di “rappresentanti autorevoli” della loro realtà e identità di popoli». «Gentes», appunto, e non minoranze.

Riprendendo il «vissuto» della missione come fratellanza, mi preme mettere in risalto che questa ha come basi fondamentali due elementi: la presenza dei «semi del Verbo» in ogni popolo e cultura e il paradigma dell’interculturalità.

 

Un rapporto tra eguali

I «semi del Verbo» sostengono la saggezza, le varie espressioni di spiritualità e perfino una vera e propria teologia indigena.

Il paradigma dell’interculturalità ci permette di stabilire un rapporto da uguali fra culture, lasciando da parte ogni pretesa di superiorità che, per troppo tempo, abbiamo manifestato nel nostro modo di fare missione.

Diventa, per noi missionari ad gentes, essenziale scuoterci dal torpore e prendere coscienza della necessità di formarci al riguardo sin dai primi anni, in vista del presente e del futuro di quanti scelgono la missione.

L’Argentina fa parte di un continente con una ricchissima varietà di popoli indigeni. Finalmente riconosciuti, essi non sono solo il passato, ma il presente per qualsiasi società. Come anche per il carisma dei missionari della Consolata, arricchito dal «cosmo vissuto» di questi popoli.

José (Giuseppe) Auletta*

(*) Oggi padre Auletta lavora nella provincia di Mendoza, occupandosi, su delega del vescovo mons. Marcello Colombo, del territorio denominato «Secano Lavallino» abitato da 11 comunità indigene appartenenti al popolo huarpe. Le comunità sono sparse su una superficie di 700mila ettari (7mila chilometri quadrati). Ne parleremo in maniera approfondita in un prossimo articolo.


Il coronavirus in Argentina

Tanta uva, poca solidarietà

Anche in Argentina è arrivato il virus della Covid-19. Nell’attualità sembra che i casi siano relativamente pochi, sia di malati che di morti (27.373 positivi, 765 deceduti, all’11 giugno). Tuttavia, dare cifre di contagiati, quantità di tamponi, ricoverati con diversa gravità e deceduti, è molto relativo, se non azzardato, soprattutto con riferimento a quanto succede nelle grandi città (Buenos Aires, Rosario, Córdoba, Santa Fe, Mendoza) o in provincie dell’interno, ognuna con situazioni diverse.

La maggior parte dei casi complicati si registra nella capitale e nella Gran Buenos Aires e in fase di lento però costante aumento, soprattutto negli insediamenti tipo «villas miserias».

La situazione potrebbe aggravarsi in prossimità della stagione fredda di metà autunno e successivamente della prima parte dell’inverno.

Il governo nazionale, in accordo con le provincie, ha adottato misure restrittive abbastanza rigide (un lockdown dal 19 marzo fino al 7 giugno), ma c’è parecchia incertezza circa la decisione di un allentamento delle stesse e l’inizio delle fasi che permetterebbero l’apertura graduale delle varie attività sia istituzionali (istruzione, giustizia ecc.) che private (produzione, commercio, sport ecc.).

Ci sono state eccezioni, nel contesto generale dell’isolamento sociale, che hanno permesso lo svolgimento di alcune attività produttive. Tra queste, nella provincia di Mendoza, è stata autorizzata la vendemmia, iniziata alla fine di dicembre e conclusa a fine aprile. Quella della vendemmia è un’attività che attrae molta mano d’opera proveniente dalle provincie del Nord Ovest (Salta e Jujuy) e anche da alcune più lontane come Formosa, del Nord Est del paese. Molti operai appartengono a comunità indigene.

Quest’anno si è verificata una situazione molto complicata, per quanto riguarda il ritorno a casa di quanti erano stati impegnati nella raccolta non solo dell’uva ma anche delle olive e delle mele cotogne, che è coincisa con le misure di restrizione che non consentivano il viaggio di ritorno al luogo di provenienza: un doloroso panorama di centinaia di lavoratori e lavoratrici migranti rurali, bloccati nei terminal dei bus. È stato un vero dramma umano che ha evidenziato l’assembramento di intere famiglie, in condizioni sanitarie d’emergenza in mezzo alla pandemia della Covid-19, nell’incerta e lunga attesa che le imprese di pullman ricevessero l’autorizzazione per il viaggio di ritorno, pur avendo già riscosso i soldi del biglietto. Le autorità governative provinciali hanno brillato per la loro assenza, nonostante il permesso ottenuto per realizzare la vendemmia che senz’altro ha favorito le grandi imprese vitivinicole. L’inumana situazione creatasi potrebbe essere definita «la vendemmia dello scarto».

Le varie équipe di pastorale aborigena, così come la pastorale dei migranti e altre organizzazioni solidali hanno cercato di collaborare per alleviare tanta sofferenza, sia in occasione del ritorno come dell’arrivo delle persone alle proprie comunità d’appartenza.

José (Giuseppe) Auletta


Imc in Argentina

La presenza dei missionari della Consolata (Imc) in Argentina ha visto notevoli cambiamenti nel corso degli oltre settant’anni di presenza:

  • il numero delle comunità Imc del Nord è stato importante fino al Duemila (Bartolomé de las Casas, El Colorado, Pirané, Palo Santo – diocesi di Formosa – nell’omonima provincia; Machagai e Colonia Aborigen Chaco – diocesi di San Roque – nella provincia del Chaco), per poi ridursi progressivamente, fino a spostarsi in seguito dal Nord Est al Nord Ovest;
  • qui attualmente operiamo in quattro centri (Tartagal – diocesi di Orán – nella provincia di Salta; Yuto, Alto Comedero e Seminario filosofico nella città di San Salvador di Jujuy – diocesi di Jujuy – nell’omonima provincia);
  • nel resto del paese, dopo aver lasciato Rosario (provincia di Santa Fe) e San Francisco (Córdoba) dove però conserviamo il collegio, le altre presenze Imc sono: Las Heras (Mendoza), con parrocchia e Comunità apostolica formativa (Caf), Merlo (parrocchia e quasi parrocchia) e Martín Coronado – ex noviziato (provincia di Buenos Aires); Casa regionale (Buenos Aires, capitale).

Jo.Au.

L’interculturalità

  • È un modo di intendere e orientare il nostro comportamento sociale. Quando ci decidiamo a cercarla, la incontriamo nella capacità di ascoltare l’altro, sapendo che questo scambio favorisce crescita e arricchimento reciproci.
  • L’interculturalità non pretende di fare di due uno, ma di rispettare ogni parte del tutto. Un rispetto che comprende ogni cultura, ogni forma di espressione, ogni sviluppo, ogni valore sociale e giuridico, ogni voce, ogni popolo.
  • L’interculturalità ha bisogno di una interazione pacifica e di un contesto di uguaglianza. Probabilmente, parte dell’umanità fa ancora fatica a capire che non esiste un pensiero unico, una sola cultura, una sola storia o un’unica espressione della verità.
    Nel caso dell’Argentina, questo sforzo di comprensione fu fatto, in termini istituzionali, grazie alla riforma della Costituzione nazionale dell’anno 1994, una tappa fondamentale per i popoli indigeni. Anche se fra la parola scritta e la realtà rimane una grande distanza.
  • L’interculturalità esprime la possibilità di un nuovo paradigma, più giusto, più equo e, perciò, più umano.

Jo.Au.

 




Consolata mission centre: Si aprono i cancelli

testo di Francesco Bernardi |


Dal 2008 il Consolata mission centre è luogo di formazione, incontro, scambio, crescita. Giovani, vescovi, protestanti, musulmani, personalità, attivisti dei diritti umani, bambini sieropositivi all’Hiv: ciascuno trova lì uno spazio per proseguire la sua strada con maggiore consapevolezza e verità.

Sul pavimento spicca a caratteri cubitali e istoriati la data «2008». È l’anno in cui fu inaugurata la chiesa del «Consolata mission centre».

È l’anno in cui il centro aprì i suoi battenti: la porta con bassorilievi della chiesa e quella del salone conferenze; le porte ariose della sala da pranzo e della cucina; quelle della casa dei missionari e delle camere per gli ospiti.

Al Consolata mission centre possono dormire comodamente cento persone; in 250 possono sedersi attorno alla tradizionale polenta e ad altre saporite vivande; in 300 possono partecipare, nel maestoso salone, a dibattiti e conferenze con oratori che intrattengono l’uditorio con scritti, filmati e power point.

Inoltre ci sono sale, salette e quattro gazebo per discussioni di gruppo. E alberi, aiuole, fiori. Maree di fiori estasianti.

Benvenuti nel Consolata mission centre. Siete a Bunju, 35 chilometri a Nord di Dar es Salaam («porto della pace»), la metropoli del Tanzania, ricca di circa sei milioni di persone.

Se procedete ancora verso Nord per altri 35 chilometri, ecco Bagamoyo, ex porto degli schiavi, razziati dall’intero paese. «Bagamoyo» significa «lascia il tuo cuore», proprio in riferimento agli schiavi deportati.

Nel 2008, quando il Consolata mission centre spalancò cancelli, porte e finestre, la prima impressione del visitatore poteva essere: «È un enorme apparato immerso nella confusione e nel nulla». Vero. L’ambiente circostante era una spianata inselvatichita, un groviglio di rovi, serpenti e sporcizia.

Ebbene, pulizia subito. «Piantiamo alberi degni di tale nome. Piantiamo, ad esempio, mwa arobaini».

Mwa arobaini è un albero di origine indiana, che incuriosisce e incanta. È tenacissimo. Resiste alla siccità come pochissimi. Ha una vitalità che non conosce remore. I suoi rami entrano presto in casa, se non li ridimensioni debitamente. Infatti la gente lo massacra quando lo pota, e lo abbandona con moncherini che gridano pietà. Ma, poco dopo, è di nuovo garrulo nel suo verde lussureggiante.

È un albero beneaugurante per il nostro centro, infatti si chiama mwa arobaini, «di quaranta», perché si dice che guarisca quaranta malattie.

 

Il centro di Bunju. Foto Ema Maglioli

Arrivano i cardinali

Oggi, chi frequenta il centro, ringrazia e complimenta i missionari della Consolata per «aver pensato in grande e in bello».

Il Consolata mission centre viene additato come un faro che illumina presente e futuro, tutto e tutti. E veramente ne usufruiscono proprio tutti: uomini e donne a livello personale o raccolti in movimenti o gruppi, professori e studenti d’università, difensori dell’ambiente e dei diritti umani, bambini. Numerose suore. Seminaristi, preti, vescovi.

E proprio i vescovi furono fra i primi «clienti».

Come non ricordare l’incontro che fu ospitato dal 28 giugno al 5 luglio del 2009, richiesto dalla congregazione per la Dottrina della fede di Roma? Vi parteciparono i presidenti delle Commissioni episcopali teologiche dell’intera Africa.

Tra i circa trenta prelati presenti, c’erano, da Roma, il cardinale Levada e l’arcivescovo Ladaria; dal Senegal, il cardinale Sarr; dal Ghana il cardinale Turkson; dal Congo l’arcivescovo Monsengwo. L’eucaristia di apertura fu presieduta dal cardinale di Dar es Salaam, Polycarp Pengo.

L’anno successivo, dal 4 al 7 novembre, ci fu un congresso missionario. Vi parteciparono vescovi, professori di università, missionari e missionarie di vari istituti religiosi, laici. Settantadue persone in tutto.

Method Kilaini, vescovo ausiliare di Bukoba, città tanzaniana sul lago Vittoria, disse: «Come storico, io ammiro i missionari. Ammiro il loro coraggio, la loro forza, nonché la loro capacità di capire la nostra lingua e cultura. Molti di loro hanno anche criticato il nostro modo di vivere. Tuttavia, nel complesso, hanno contribuito molto a documentare e salvare gli elementi positivi della nostra cultura».

Catechisti e giovani

I frequentatori prediletti del Consolata mission centre sono i catechisti e i giovani. Il centro è stato pensato e realizzato specialmente per loro.

I catechisti sono la spina dorsale dell’evangelizzazione. Il sacerdote, senza il catechista, finirebbe per essere solo un «distributore» di sacramenti e sacramentali all’ultimo istante.

Sì, certo, il presbitero la notte di Pasqua o il Lunedì dell’Angelo battezza persino 150 persone. Ma chi le ha preparate? Il catechista. E chi visita gli ammalati, chi prepara i fidanzati al matrimonio, chi celebra i funerali? Il catechista. Sempre lui. E quasi sempre «sottopagato», pur avendo famiglia.

I catechisti, nel Consolata mission centre trovano una formazione accurata e approfondita attraverso corsi settimanali, sotto il patrocinio dell’ufficio catechetico diocesano di Dar es Salaam.

I partecipanti variano da settanta a cento, e provengono anche da Zanzibar e Morogoro.

Alcuni temi affrontati sono rivoluzionari nel contesto africano: ad esempio la pianificazione delle nascite, secondo il metodo Billings. Urgente è, soprattutto, la formazione biblica. L’eucaristia è l’azione di Gesù Cristo maestro e salvatore, non uno show di cerimonie e canti, pure se gradevoli.

I giovani frequentano in massa il centro: anche quattrocento per volta, se si tratta di incontri di una giornata. Meno nei seminars di tre giorni. Le famiglie, infatti, sono chiamate a partecipare alle spese di viaggio, vitto e alloggio.

Gli argomenti dibattuti si avvalgono di testimonianze di altri giovani, riflessioni di missionari e missionarie, lezioni di psicologia per la conoscenza di se stessi.

Ai giovani non si proclama «voi siete il futuro della chiesa e della società», bensì «voi siete il futuro che incomincia oggi».

La chiesa spende tante risorse per l’educazione dei bambini, ma poche «pagnottelle» per i giovani. Potrà succedere che «cinque pani e due pesci» sfa-mino cinquemila persone? (cfr. Matteo 14, 13-21).

Diritti umani e Radio Maria

Qualche tempo prima dell’emergenza Covid, sono arrivati dall’intero Tanzania diversi giovani della Comunità di sant’Egidio. A tavola hanno spezzato il pane con quattro coetanei che stavano redigendo un «Rapporto sui diritti umani in Tanzania», nonché con un quartetto di ambientalisti.

La settimana successiva è stata la volta di diversi operatori di Radio Maria provenienti da vari paesi africani. Costoro, in cortile, hanno potuto anche esercitare il loro inglese, giacché il centro ospitava, in contemporanea, una scuola di Boston gemellata con una di Dar es Salaam. Erano liceali provenienti da collegi dei gesuiti. Missionario il loro motto: «Men and women for others» (uomini e donne per gli altri).

La luce che il faro del Consolata mission centre sprigiona è pure ecumenica e interreligiosa, giacché il centro ha aperto i cancelli anche a non cattolici: luterani, anglicani, pentecostali; senza escludere i musulmani.

Protestanti in arrivo

«E chi è costui?», mi sono detto un giorno. «Dall’abbigliamento sembra un pastore luterano».

Tutte le volte che ne incontro uno, ricordo padre Igino Lumetti, buon’anima, che quarant’anni fa cercò di aiutare un pastore protestante rimasto in panne sulla strada per un guasto all’auto. Padre Igino gli si accostò. Ma il protestante, quando seppe che era un prete cattolico, rifiutò l’offerta.

Ora, cosa è venuto a fare al Consolata mission centre questo «eretico» in camicia nera e colletto clericale romano?

«Padre – ha esordito l’ospite -, complimenti per questo magnifico centro. È un luogo che sa leggere e interpretare i segni dei tempi alla luce del Vangelo. Ne abbiamo assoluto bisogno».

Avendo vissuto sette anni a Roma e trentaquattro a Torino, mi è venuto spontaneo pensare: «Cavolo! Quanta acqua è passata sotto i ponti del Tevere e del Po!». Come sono mutati i rapporti con i protestanti.

Il ministro dell’Interno

Alcune settimane fa è comparso al nostro centro un pezzo da novanta del governo. Un incidente stradale gli aveva strappato il figlio maggiore, ventenne. L’uomo si era chiuso in camera per quattro giorni, solo nella sua disperazione, affogando nel whisky.

Un giorno, mentre sedeva in parlamento accanto al presidente della Repubblica, è stato scoperto dal suo alito cattivo. È stato svergognato in pubblico dal presidente stesso e rimosso dal suo ufficio seduta stante. Era ministro dell’Interno. È arrivato al Consolata mission centre con la moglie taciturna. Entrambi in cerca di serenità. Dopo una settimana di riflessione, prima di rincasare, hanno chiesto: «Padre, ci ripeta ancora il discorso notturno di papa Giovanni XXIII all’apertura del Concilio Vaticano II nel 1962, in piazza san Pietro, illuminata da migliaia di fiaccole».

«Cari figlioli, disse pressappoco il papa buono, oggi abbiamo terminato una giornata di pace. Stanotte anche la luna in cielo è venuta a pregare con noi… Andando a casa, troverete i bambini. Fate una carezza ai vostri bambini e dite loro: questa è la carezza del papa!».

«E noi faremo altrettanto», hanno concluso i due.

Bimbi che fanno pipì

Tempo fa il centro si è sobbarcato una spesa corposa fuori programma. Erano attesi un’ottantina di ragazzi, tra cui numerosi bimbi. Come proteggere i materassi se non comprando teli di plastica impermeabili alla pipì? Ecco la spesa extra.

Con i bambini c’erano alcuni genitori ed educatori. Hanno soggiornato al centro per 15 giorni, al termine dei quali, ai più grandi è stato rivelato che erano nati sieropositivi al virus dell’Aids.

In quel giorno si sono alzate strazianti grida di dolore nel centro.

Anche i ragazzi sieropositivi sono nostri «clienti».

Elevare l’ambiente

Ebbene, dopo una complessa gestazione, nel 2008, i missionari della Consolata diedero alla luce il Consolata mission centre per offrire a tutti un luogo in cui pregare, pensare e cambiare.

È un punto di riferimento per l’intero Tanzania con la parola «missione» al centro.

La struttura ospita pure la redazione della rivista in lingua swahili «Enendeni» (Andate): mo-desta nella veste tipografica, ma significativa nei contenuti, specialmente in tema di formazione, pace, giustizia.

L’editoriale di marzo 2020 recita: «Se manchi di giustizia, le tue preghiere, i tuoi digiuni, le tue offerte, sono ipocrisia». Espressioni forse scontate in Italia, non in Tanzania.

Delle quattro riviste cattoliche del paese, Enendeni non è la… peggiore!

Il Consolata mission centre ha un alto costo di gestione, con i prezzi in costante ascesa e i nostri quattordici lavoratori da retribuire ogni mese.

Qui risuonano le dolenti note sociali del Tanzania. Quanti lavoratori, a metà mese, ci chiedono un anticipo di stipendio. E quanti richiedono un prestito.

Noi missionari abbiamo scelto l’impegno nel centro perché crediamo nell’«elevazione dell’ambiente» a 360 gradi, alla stregua della magna carta del Vangelo, come dettava il nostro fondatore beato Giuseppe Allamano.

Tuttavia carmina non dant panem, scriveva il vecchio Orazio. Ossia: lo studio, la ricerca culturale (meno che meno quella evangelica) e la formazione, non fanno quattrini. Il centro sarebbe in bancarotta da tempo, se non ci fosse il sostegno di amici italiani amanti della missione.

Recita un proverbio swahili: «Elimu ni mali» (la conoscenza è un capitale). Sì, la conoscenza, la verità, la chiarezza. Non bastano l’entusiasmo, il tamburo, la danza. Bisogna leggere, pensare, capire, «formarsi», perché guerre, carestie, corruzione, Aids…, sono emergenze crudeli in Africa e la «formazione» è prevenzione e cura di ogni miseria.

I missionari della Consolata ne sono convinti. Ecco perché hanno inventato il Consolata mission centre: per promuovere ed evangelizzare l’uomo, partendo dalla cultura locale e con il fine della «consolazione».

Presidente, attenzione

Mentre scrivo siamo a fine maggio, e non sono sereno. Il Consolata mission centre sprofonda nella solitudine: anche in Tanzania imperversa il coronavirus.

«La nostra economia viene prima della lotta al Covid-19». Parole discutibili di John Magufuli, presidente del Tanzania. La vita deve andare avanti. Ma come?

Fonti ufficiali parlano di 21 decessi per coronavirus e 509 contagiati totali. Dati fasulli, perché risalgono all’8 maggio, e non se ne forniscono altri per ora.

Ha destato scalpore (e ilarità) la seguente dichiarazione del presidente: «Abbiamo sottoposto ad analisi campioni di capra, olio d’auto, papaia… ed ecco che alcuni elementi sono positivi al coronavirus. Siamo di fronte a fatti strani. Non possiamo fidarci delle informazioni degli esperti».

Risultato: si usino mascherine, disinfettanti, acqua e sapone; si chiudano le scuole. Ma le merci circolino liberamente. «Non possiamo chiudere il porto di Dar es Salaam – dichiara ancora Magufuli -, perché sette paesi confinanti fanno affidamento su di esso per i loro rifornimenti alimentari». Vero e non vero, giacché Uganda, Zambia e Kenya ignorano la «benevolenza» del presidente tanzaniano, avendo chiuso le loro frontiere.

Anche le chiese sono aperte, perché «il Covid-19 non può entrare nella casa di Dio», afferma ancora Magufuli. Però, da Pasqua i fedeli in chiesa sono rari.

Gli ospedali governativi ospitano pochi malati di Covid-19, perché i contagiati non vi trovano adeguata assistenza. Quelli privati, come l’Aga Khan, sono un lusso. L’uomo della strada resta in casa curandosi con bevande al limone e zenzero o decotti tradizionali di erbe.

Fra la gente si registra rassegnazione o fatalismo. L’uso di mascherine è diminuito, anche nelle città, luoghi più esposti al virus, nonostante la paura sia tanta a causa delle persone che si vedono morire «senza ragione».

Intanto Magufuli ha proclamato tre giorni di ringraziamento a Dio, «affinché le preghiere possano continuare a tenere lontano il virus».

Forse sarebbe meglio pregare per una buona morte.

E qui mi rattristo. Vivo in un luogo che vuole «centrare la vita» nella trasparenza, nella solidarietà e nella verità.

Che cosa stiamo centrando oggi in Tanzania?

Francesco Bernardi

Entrata al centro di Bunju; foto Ema Maglioli.




Il ponte più lungo

testo di Giorgio Marengo |


Il 13 novembre scorso, nella sala Congregazioni del comune di Torino, è stato rinnovato il «Patto di collaborazione» tra la capitale subalpina e Kharkhorin, cittadina della Mongolia che sorge sul sito di quella che, nel XIII secolo, fu la capitale del più esteso impero (di terra) della storia.

Fu lo stesso Gengis Khan, nel 1220, a dare disposizioni perché a Kharkhorin si stabilisse il cuore dell’impero, anche se la capitale prese forma solo nel 1235 con suo figlio Ögodei Khan e rimase tale fino a quando Kubilai Khan (noto in Occidente soprattutto per il rapporto con Marco Polo) nel 1264 la spostò più a Est, fondando l’odierna città di Pechino.

Torino Palazzo Civico, Sala della Convenzioni, rinnovo del patto di collaborazione tra la città di Torino e la Mongolia (© AfMC/Gigi Anataloni)

I come e i perché

Il «Patto di collaborazione» tra Torino e Kharkhorin, siglato nel 2016 e rinnovato nella sede del comune di Torino il 13 novembre scorso, è un atto formale che consente alle due parti, nei rispettivi paesi, di intraprendere e consolidare percorsi di collaborazione nei settori della cultura, della ricerca scientifica, del turismo e del commercio.

Questo accordo è stato possibile perché noi missionari e missionarie della Consolata abbiamo fatto da ponte affinché queste due realtà si potessero incontrare, nell’interesse delle cittadinanze che esse rappresentano. Furono le autorità locali della regione mongola di Uvurkhangai – all’interno della quale sorge la nostra missione di Arvaiheer – a chiederci, ormai sei anni fa, se fossimo disposti a favorire un’intesa ad ampio raggio con una realtà europea, in vista di una collaborazione internazionale sempre più necessaria per ottimizzare i servizi ai cittadini e anche per promuovere una maggiore apertura ai temi della interculturalità e della pace.

Pensare a Torino fu spontaneo, sia per il legame con le nostre origini di Istituti missionari sia per le curiose similitudini che cominciammo a scoprire; a partire dai nomi stessi delle due regioni. Se il nome «Piemonte» richiama immediatamente la conformazione geofisica del territorio, situato appunto ai piedi dell’arco alpino occidentale, «Uvurkhangai» significa letteralmente «a sud dei monti Khangai». I Khangai sono un’importante catena montuosa che attraversa tutta la Mongolia. Inoltre, se Kharkhorin fu la capitale dell’impero mongolo, Torino lo fu per il Regno d’Italia.

Insomma, ci sembrava che le due realtà, seppur diverse sotto alcuni profili, potessero considerarsi accomunate da interessanti analogie storiche e territoriali.

Torino Palazzo Civico, Sala della Convenzioni, rinnovo del patto di collaborazione tra la città di Torino e la Mongolia. Padre Giorgio Marengo traduttore ufficiale. – Con la sindaca Appendino. (© AfMC/Gigi Anataloni)

Torino e Kharkhorin

Così iniziammo a sondare il terreno delle relazioni internazionali e grazie all’impegno di entrambe le parti e alla collaborazione di molte persone fummo in grado di favorire questo incontro, finora rivelatosi molto positivo. Da tre anni ormai il museo storico di Kharkhorin ospita le attività formative del «Centro ricerche archeologiche e scavi» (Crast) dell’Università di Torino. Il Mao (Museo d’arte orientale) di Torino ha ospitato due mostre fotografiche dedicate al patrimonio culturale e religioso dell’antica capitale. In più, anche altri specialisti e istituzioni sono stati coinvolti nelle iniziative di ricerca, incluso il «Museo della ceramica» di Mondovì che ha accolto una mostra multimediale su Kharkhorin. In questi anni si è inoltre firmato un protocollo d’intesa tra il Centro scavi di Torino, il Museo di Kharkhorin e l’Università di Ulaanbaatar, sempre volto a favorire la ricerca scientifica su questo sito di grandissimo interesse storico e culturale.

Mebri del «Centro ricerche archeologiche e scavi» (Crast) dell’Università di Torino a Kharkhorin (© AfMC/Giorgio Marengo)


La «Casa dell’Amicizia»

Come missionari e missionarie della Consolata già agli inizi della nostra missione in Mongolia ci era sembrato che una presenza a Kharkhorin sarebbe stata molto importante.

Casa dell”Amicizia – Friendship house nei pressi dell’area archeologica di Kharkhorin (© AfMC/Giorgio Marengo)

La cittadella che nel XIII secolo accoglieva al suo interno edifici di culto di Buddhismo, Islam e Cristianesimo nestoriano rappresenta un unicum nella storia antica, un modello da conoscere e ripresentare in chiave contemporanea; fu proprio a Kharkhorin che personaggi come fra Giovanni di Pian del Carpine e fra Guglielmo di Rubruk misero piede intorno al 1240, primi ambasciatori occidentali a entrare in relazione con gli imperatori mongoli. Inoltre, Kharkhorin ospita il più antico complesso monastico buddista del paese, dunque è considerata la patria del Buddhismo mongolo. Quale migliore collocazione per un centro dedicato al dialogo interreligioso e alla ricerca culturale?

Il progetto sta prendendo forma e ora siamo felici di avere a Kharkhorin la «Casa dell’Amicizia» come punto d’incontro, scambio e ricerca, ambiti imprescindibili per la missione in Mongolia.

L’interesse che aveva mosso papa Innocenzo IV a stringere relazioni con i dominatori dell’Eurasia di quel tempo è diventato oggi coesistenza pacifica e attiva collaborazione, sotto la nostra grande ger (la tradizionale tenda mongola) di Kharkhorin.

La Chiesa Cattolica non è estranea alla storia di questo grande paese dell’Asia centro orientale e da quando vi è stata nuovamente accolta nel 1992 è diventata un partner consolidato per promuovere una cultura di rispetto, dialogo e fratellanza universale. Siamo felici che il «Patto di collaborazione» tra le due città sia stato rinnovato e ci auguriamo possa continuare ad offrire valide occasioni di scambio e cooperazione.

Giorgio Marengo

10 luglio 2018 inaugurazione delal Casa dell’Amicizia a Kharkhorin (© AfMC/Giorgio Marengo)

800 anni di storia

È iniziato con i migliori auspici l’anno celebrativo dell’ottocentesimo anniversario della fondazione della capitale dell’impero mongolo, Karakhorum (1220-1260, letteralmente Montagne nere, oggi Kharkhorin). Com’è giusto e prevedibile per un paese che dà sempre molta importanza alle ricorrenze storiche, è stato pianificato un ricco programma ufficiale di iniziative, patrocinato dal presidente Khaltmaagiin Battulga, nel quale è prevista anche la partecipazione dell’Unesco (che nella riunione plenaria del novembre 2019 ha dato particolare rilievo a tale anniversario).

Lo stato che per primo ha dimostrato interesse e concreta volontà di collaborazione è stato il Vaticano. A inizio gennaio l’ambasciatore mongolo presso la Santa Sede e rappresentante permanente presso l’Onu, L. Purevsuren, ha incontrato in Vaticano il segretario per i rapporti con gli stati, mons. Paul Richard Gallagher. I due alti funzionari hanno parlato degli 800 anni di Karakhorum, dove uno dei primi diplomatici a recarsi per incontrare il Khan fu proprio un ambasciatore del papa, il frate Giovanni di Pian del Carpine, che raggiunse la «capitale delle steppe» nel lontano 1246.

Con il suo diario di viaggio il frate umbro contribuì in maniera decisiva a far conoscere in Occidente questo popolo, fino ad allora soltanto temuto per le sue incursioni bellicose in Europa orientale.

A lui fece seguito pochi anni dopo un altro francescano, Guglielmo di Rubruk, questa volta inviato dal re di Francia.

Il Vaticano ospiterà a maggio una mostra fotografica e una conferenza scientifica sugli ottocento anni dell’antica capitale mongola.
In vista di tale evento, il diplomatico mongolo ha anche incontrato mons. Indunil Kodithuwakku, segretario del «Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso» e il prof. Laurent Basanese dell’Università Gregoriana di Roma.

È una storia lunga quella che lega la Chiesa Cattolica al popolo mongolo, anche se non è abbastanza conosciuta.

Proprio per valorizzare questi antichi rapporti – grazie ai quali si ebbe notizia della cristianità nestoriana (oggi si direbbe siriaca) esistente nei territori mongoli già dal X secolo – e attualizzarli, i missionari e le missionarie della Consolata hanno stabilito a Kharkhorin (così si chiama oggi il comune che sorge presso le rovine dell’antica capitale) un piccolo centro per la ricerca culturale e il dialogo interreligioso.

Ed è precisamente alla convivenza pacifica e allo scambio fruttuoso tra diverse tradizioni religiose che è legato il nome dell’antica capitale: i due frati medievali e molti altri testimoni dell’epoca hanno descritto la cittadella come cosmopolita e multi religiosa, con luoghi di culto buddhisti, islamici, cristiani e taoisti. Un esempio straordinario che vale la pena riscoprire e di cui fare tesoro per l’oggi.

La città di Torino è legata a Kharkhorin per il Patto di collaborazione tra le due «capitali» (di cui abbiamo scritto in queste pagine), che ha già prodotto molti scambi culturali e significative iniziative di ricerca scientifica e divulgazione. Oltre alle due mostre fotografiche ospitate dal Mao di
Torino e alla mostra laboratorio allestita nel 2018 al Museo della Ceramica di Mondovì, vanno ricordati i laboratori
didattici offerti in questi anni dagli archeologi del Centro
ricerche archeologiche e scavi di Torino (Crast) al Museo storico archeologico di Kharkhorin.

Gio. Ma.

Casa dell”Amicizia – Friendship house nei pressi dell’area archeologica di Kharkhorin (© AfMC/Giorgio Marengo)

 




Il superamento del paternalismo

Popoli indigeni e missionari


Un tempo era considerata una cosa normale: la benevolenza dei rappresentanti di una cultura ritenuta superiore (i missionari) verso quelli di una cultura considerata inferiore (i popoli indigeni). Un atteggiamento errato, spiega padre José Auletta, 43 anni di lavoro tra gli indigeni dell’Argentina. Oggi la strada è una soltanto: quella della reciprocità e dell’interculturalità. Un cambio di prospettiva che ha suscitato il fastidio del potere politico ed economico.

Testo di Paolo Moiola

Giuseppe o, come lui preferisce farsi chiamare, José Auletta, missionario della Consolata, lavora in Argentina dal 1976. In questi 43 anni si è occupato principalmente – e con una grande partecipazione emotiva – della causa indigena. È membro dell’Equipo nacional de pastoral aborigen (Endepa) e per l’organizzazione è responsabile della regione del Nord Ovest.

Da circa quattro anni padre Auletta risiede nella capitale, la più bianca ed europea delle città argentine. Un po’ fuori dall’azione, osservo malizioso. «No – risponde lui -, perché, come si dice qui, “Dio è ovunque, ma governa da Buenos Aires”».

Il missionario segue i progressi – minimi, in realtà – della legge 26.160 che riguarda il possesso e la proprietà delle terre da parte delle comunità indigene originarie. Inoltre, lo scorso settembre è stato a Ginevra per presentare il rapporto (alternativo a quello dello stato) di Endepa alla 64ª sessione del «Comitato per i diritti economici, sociali e culturali» delle Nazioni Unite.

Insomma, padre Auletta svolge un indispensabile lavoro di relazioni politiche e di comunicazione in un periodo nel quale l’Argentina attraversa l’ennesima pesante crisi economica e sociale ed è in attesa delle elezioni presidenziali del prossimo ottobre.

 

Il modello estrattivista: dalla soia al litio

I 31 popoli indigeni dell’Argentina hanno caratteristiche diverse, ma sono tutti accomunati da un problema: la restituzione o il riconoscimento giuridico e amministrativo della propria terra. «Una terra benedetta – precisa padre José – per tutto ciò che essa significa nella cosmovisione indigena, a livello vitale, culturale, spirituale, identitario».

La legge 26.160 è importante proprio perché prevede la sospensione degli sfratti e un’indagine catastale sui territori indigeni. I quali – nell’incertezza normativa data dalla mancanza dei diritti di proprietà – rimangono in balia delle mire espansionistiche dell’agrobusiness e delle società estrattive. Gli esempi più macroscopici sono quelli legati alla diffusione della monocoltura della soia (transgenica) e delle miniere di litio.

A partire dagli anni Novanta l’espansione della frontiera della soia nelle province di Salta, Santiago del Estero, Formosa e Chaco ha prodotto l’espulsione, l’allontanamento o la marginalizzazione di migliaia di famiglie di campesinos locali, oltre a una gravissima deforestazione e un pesante inquinamento da agrotossici. Rispetto alla soia, lo sfruttamento del litio è più recente (dal 2010), ma è prevedibile un suo rapido sviluppo. Questo metallo – un tempo conosciuto soprattutto in medicina (neuropsichiatria) – oggi è molto ricercato a motivo del suo utilizzo nell’industria elettronica e automobilistica (soprattutto per le batterie delle nuove auto elettriche). Il litio è stato trovato nella regione de La Puna argentina, nelle province di Salta e Jujuy. Oltre a produrre lo stravolgimento dei delicati ecosistemi delle lagune e delle saline che rendono unica la zona, le miniere di litio sottraggono l’acqua alle necessità di sostentamento e lavoro delle comunità locali. Per questo lo scorso febbraio 25 comunità di etnia Kolla hanno fermato i lavori di due imprese – la Ekekos e la multinazionale canadese Ais Resources -, che si dedicano all’estrazione del metallo.

Chiedo a padre Auletta se non sia una romantica idealizzazione il concetto del «buen vivir», che implica l’idea di un maggiore rispetto della natura e dell’ambiente da parte dei popoli indigeni. «No – risponde il missionario -, è un fatto accertato. Endepa infatti non ha esitato a schierarsi con gli indigeni alla luce della parola d’ordine El territorio es vida. Se cuida y se defiende (Il territorio è vita. Si cura e si difende)».

Di certo, una modalità di difesa potrebbe e dovrebbe venire dal «diritto di consultazione e di consenso preventivo, libero e informato» (Consentimiento previo, libre e informado, Cpli), riconosciuto dal comma 17 dell’articolo 75 della Costituzione nazionale. Tuttavia, questo strumento viene sistematicamente ignorato o violato dallo stato argentino.

La resistenza dei Mapuche: morti e arresti

Da Nord a Sud del paese l’offensiva estrattivista non ha cambiato i suoi obiettivi (accaparramento di terre ed estrazione di risorse minerarie), ma a Sud ha trovato sulla sua strada un popolo molto pugnace e determinato: quello dei Mapuche di Chubut e Río Negro, in Patagonia. Come testimoniano le morti dei giovani Santiago Maldonado (28 anni) e Rafael Nahuel (22 anni) e la vicenda – ancora più complicata perché interessa anche il Cile – di Facundo Jones Huala (32 anni). Tutte persone coinvolte in proteste e azioni legate al recupero delle terre ancestrali dei Mapuche.

«Il 2017 è stato un anno attraversato da gravi fatti di violenza. Tra questi va ricordata la repressione effettuata a gennaio dalla Gendarmeria nazionale nel territorio mapuche “Pu Lof in Resistencia”, nella località di Cushamen, provincia di Chubut. E poi una sua ripetizione nell’agosto dello stesso anno, in un contesto nel quale si è prodotta la sparizione e morte di Santiago Maldonado, giovane non mapuche sostenitore delle istanze di questo popolo. Pochi mesi dopo, il 25 novembre, c’è stato l’assassinio di Rafael Nahuel, giovane mapuche della comunità Lafken Winkul Mapu, ad opera di uomini della prefettura navale della provincia del Río Negro».

Padre Auletta non esita quando si tratta di indicare un colpevole. «La violenza che io considero più grave è quella istituzionale dello stato argentino. Da troppo tempo esso viola una Costituzione che riconosce il diritto alla terra da parte dei popoli indigeni. Un diritto che però non si è mai concretizzato, se non in pochi casi».

Facundo Jones Huala e il landgrabbing dei Benetton

Il leader Mapuche,  Facundo Jones Huala, in corte a Valdivia, Cile, il 12/09/2018 arrestato su richiesta del presidente dell’Argentina Mauricio Macri / © Miguel Angel Bustos / Aton Chile / AFP

Nel 2018 la lotta dei Mapuche è stata monopolizzata dalla vicenda del mapuche Facundo Jones Huala, lonko (cacique, capo) del territorio «Pu Lof en Resistencia». Si tratta di circa 1.200 ettari in una terra di proprietà del gruppo italiano Benetton.

Spiega padre José: «Negli anni Novanta i fratelli Benetton acquistarono a condizioni estremamente favorevoli quasi un milione di ettari di terra, senza minimamente considerare l’appartenenza ancestrale e tradizionale di quei territori». In poche parole, una vera operazione di landgrabbing.

Ricercato in Cile, il 28 giugno 2017 Huala è stato arrestato dalle autorità argentine e lo scorso settembre, dopo 14 mesi, estradato. Tre mesi dopo, a dicembre, il tribunale cileno di Valdivia lo ha condannato a 9 anni di carcere per essere stato ritenuto responsabile di un attacco e un incendio (senza feriti) del gennaio 2013 a un fondo agricolo in località Río Bueno (provincia di Ranco, regione di Los Ríos, Cile) durante una protesta mapuche contro la costruzione di una diga sul rio Pilmaiquén. A conti fatti, contro il leader indigeno un processo senza alcuna prova e una condanna spropositata. «Allo scopo – chiosa il missionario – di stigmatizzare e criminalizzare le legittime proteste indigene per il recupero delle loro terre».

La vicenda dei Benetton non è peraltro un’eccezione. Oltre vent’anni fa, il miliardario britannico Joseph C. Lewis acquistò una grande proprietà terriera nella provincia del Río Negro che addirittura impedisce l’accesso a un lago, il lago Escondido.

«Nel 2011 – spiega padre José – fu promulgata una legge (la 26.737, ndr) che poneva limiti all’acquisto di terre rurali. Ciononostante, si continua a permettere che compagnie nazionali e straniere acquistino considerevoli estensioni di terre – con la giustificazione di progetti cosiddetti di sviluppo – in zone abitate da comunità indigene e contadine, provocando esodi forzati e danni ambientali come le deforestazioni».

Dal paternalismo all’interculturalità

La strada che, fin dall’inizio della sua esperienza con i popoli indigeni, padre José Auletta si è proposto di percorrere è segnata da una domanda che è anche un comandamento anti paternalista: «Quanto ancora debbo imparare?».

Tra missionari e popoli indigeni il paternalismo è sempre stato un rischio presente. O incombente.

«Avevamo la pretesa di civilizzare quelli che un tempo – sbagliando – chiamavamo indios. Volevamo essere i maestri. Pensavamo che la nostra cultura fosse superiore. Alla fine abbiamo capito che nessuna cultura è superiore a un’altra. Allora abbiamo introdotto l’idea di “accompagnamento”: ma chi accompagna chi? Occorre introdurre anche il concetto di reciprocità. Ci si accompagna a vicenda: accompagniamo e siamo accompagnati. Tutti siamo discepoli, tutti siamo maestri».

Accompagnatori o accompagnati, maestri o discepoli che siano, missionari come José Auletta si muovono e agiscono per dare forma e sostanza al concetto di interculturalità.

«L’interculturalità – spiega – è la capacità di ascoltare l’altro, sapendo che questo scambio favorisce una crescita e arricchimento reciproci. L’umanità ha impiegato diversi secoli per capire che non esiste un pensiero unico, una sola cultura, una sola storia o un’unica verità. Nel caso dell’Argentina, questo sforzo di comprensione fu fatto, in termini di soggetto statale, grazie alla riforma della Costituzione nazionale dell’anno 1994, che introdusse il riconoscimento dei diritti dei popoli indigeni e il rispetto della loro identità, sancendo in tal modo la nascita dell’Argentina come paese plurietnico e multiculturale».

Parole belle e condivisibili, ma l’obiezione è tanto immediata quanto banale: permane una grande distanza tra le dichiarazioni teoriche e una realtà quotidiana che è dominata da poteri economici e politici sordi, quando non contrari, a simili istanze.

«Sì – ammette padre José -, è e sarà un percorso complesso, tortuoso e contrastato, in Argentina come altrove. Però l’interculturalità è anche questo: non pretendere di fare di due uno, ma al contrario rispettare ogni parte del tutto».

Paolo Moiola




Ricordi personalissimi di 25 anni in Corea del Sud

La testimonianza di padre Paolo Lamberto dalla Corea


Padre Paolo Lamberto è partito per l’Estremo Oriente che era ancora sacerdote di primo pelo. Si è trovato in un mondo affascinante ed enigmatico che gli ha conquistato il cuore ma ha anche preso il meglio delle sue energie. Là ha imparato ad affidarsi all’unica forza che non si esaurisce mai.

Avete presente le case con i tetti ondulati e i paesaggi di quei quadri orientali in bianco e nero dove le nuvole danno il senso della profondità e tutto emana un senso di equilibrio e di pace? Ecco, questo era più o meno quello che mi aspettavo di vedere quando sono atterrato a Seul il 23 settembre del 1992. E invece, a perdita d’occhio, palazzi, palazzi e palazzi. Una foresta di cemento e traffico da far paura.

Apprendista missionario in Corea

Ad aspettarmi all’aeroporto insieme ai miei due confratelli c’era Monica. È stata la prima persona coreana che ho incontrato. Poi ho conosciuto altre due Monica e, siccome facevo fatica a ricordarne i nomi coreani, le chiamavo con nome del luogo in cui abitavano: Monica di Yokkok, di Pupyong, di Mansok. Tutte ci hanno aiutato moltissimo. E poi ricordo Jacinta, la prima presidente del gruppo dei nostri amici, piena di vita. E come dimenticare Rufina, sempre fedele ai nostri incontri ma anche per i servizi più umili? Ha avuto una vita difficile, ma anche adesso nei suoi ottant’anni, è sempre allegra e pronta ad aiutare.

Monica di Mansok è già in paradiso. Viveva a Mansok Dong, un quartiere povero della città di Inchon. I padri Diego (Cazzolato, italiano) e Luiz (Emer, brasiliano) vivevano là e lei, pur essendo un po’ disabile, li aiutava a trovare i più poveri del quartiere o i cristiani non praticanti.

Anche io ho vissuto là in tempi diversi. Qualche volta, in inverno, quando stavamo via per qualche giorno, Monica accendeva per noi il rudimentale riscaldamento a carbone della nostra casetta. Mi ricordo di quando venivano i topi in cucina e al mattino trovavamo i segni dei loro incisivi nel sapone. La cappella era un sottotetto dove si poteva stare solo seduti.
I bambini del quartiere ci visitavano spesso e c’era una bella cooperazione con i volontari di un doposcuola per i bambini svantaggiati del quartiere.

Tra le vecchiette che visitavamo ce n’era una che ci raccontava sempre di quando era scappata dalla Corea del Nord poco prima che scoppiasse la guerra.

Ricordo anche con molto affetto e gratitudine gli insegnanti di coreano che hanno faticato a insegnarmi la loro lingua per quasi due anni. Dopo un anno, appena sono stato in grado di leggere il testo della messa da solo, ho cominciato ad andare in parrocchia tutti i fine settimana. Il mio primo parroco, un sacerdote coreano, si chiamava Kim Venanzio. Mi ha insegnato molte cose sulla cultura coreana, ma mi ha anche fatto mangiare i cibi più strani che abbia incontrato nella vita: dal cane alle ginocchia di bue, da una razza, che eufemisticamente potremmo dire che sa di acido urico, a tutto ciò che si trova nel mare, a parte gli scogli.

Nella sua parrocchia ho cominciato a confessare in coreano. Un’anziana signora veniva e mi diceva: «Padre, ho saltato una messa». Ma io che non sapevo distinguere bene le sfumature della pronuncia capivo: «Padre, durante la messa mi sono mangiata una grossa pera». E un’altra: «Padre, mi sono mangiata l’orecchio» (cioè, ci sento poco). Tra me e me rimuginavo sulle strane abitudini alimentari delle nonnette coreane.

Il bello della vita comune

Padre Rafael Del Blanco, argentino, è stato uno tra i primi otto missionari arrivati qui. Intelligente e di gran cuore, era molto impulsivo, e spesso, testa e cuore non viaggiavano sullo stesso binario. Una volta ha comperato 200.000 won (circa 200 €) di pesce da un venditore ambulante. Gli abbiamo detto: «Ma Rafael, tu non mangi pesce, e qui ce n’è per 6 mesi». E lui: «Ma era un’occasione».

Con padre Benjamin (Martinez Solano, colombiano) ho vissuto per qualche anno. Una volta sono andato a trovarlo quando il nostro centro di dialogo interreligioso era ancora a Okkiltong, e con lui c’era un monaco buddista nostro amico. E lui mi ha detto: «Dai, andiamo al karaoke». E così ci siamo andati, io in clergyman e il monaco col suo abito grigio. E la gente guardava stupita lo spettacolo di un prete cattolico e di un monaco buddista che cantavano insieme in coreano. Quante discussioni teologiche ho avuto con padre Luiz Emer, ma stranamente sulle cose pratiche eravamo sempre d’accordo.

Padre Paco (Francisco López, spagnolo) veniva invece da un altro pianeta. Ci siamo aiutati molto e anche voluti molto bene. Ma una volta mi sono arrabbiato davvero con lui. Era di nuovo in ritardo per un incontro che dovevamo fare insieme. Non erano due volte, non dieci, ma sempre, e ogni volta erano almeno 30 minuti. Quanti rosari mi ha fatto dire quell’uomo. Così quel giorno non sono andato all’incontro e ho tagliato ogni comunicazione con lui. «Non ne posso più», mi sono detto, ma pregando in cappella dopo cena, ho letto queste parole: «Non lasciate che nessuna radice cattiva cresca in mezzo a voi» (Eb 12,15). Mi sono reso conto che quelle parole erano proprio per me, così quella notte l’ho chiamato al telefono, vivevamo in due comunità diverse, l’ho svegliato e ci siamo riconciliati.

Un aspetto simpatico della nostra comunità sono le vacanze estive che quasi tutti gli anni facciamo insieme. Per me le più memorabili sono state le prime, pochi giorni dopo essere arrivato in Corea. Andammo al Soraksan National Park. Io mi aspettavo qualcosa come le Alpi, dove tu cammini fino ai 3.000 metri e poi  sei solo a contemplare la natura. Ma no. Prima di salire in montagna abbiamo fatto la coda per comprare il biglietto, poi la salita e poi gente dappertutto, un bar, venditori di magliette e cibi vari. Addirittura, sulla cima dell’Ulsanbawi (una punta rocciosa alta circa 800 metri) un signore vendeva medaglie ricordo per chi era riuscito a fare tutti gli 888 scalini fino in cima. Ma la cosa più simpatica è stata che, il giorno prima di partire, siccome andavamo in montagna, padre Paco aveva raccomandato a padre Antonio (Domenech del Rio, spagnolo) e a me, appena arrivati, di portarci vestiti pesanti. Così noi due abbiamo riempito gli zaini con maglioni e giacconi come se dovessimo scalare l’Himalaya. Ma quello era il Soraksan a fine settembre e faceva un caldo boia. Un altro anno siamo andati sulle montagne del Jirisan (nel Sud della Corea tra i 1.600 e 1.900 metri di altezza). Avevamo comprato una succosa anguria da 9 kg e qualcuno aveva suggerito di andare a mangiarla in cima a qualche montagnola. Indovinate chi è stato il fortunato prescelto dalla sorte per portare l’anguria fino su? Arrivati in cima, però, nessuno aveva voglia di anguria, ed è toccato ancora a me riportarla giù.

Anche le ultime vacanze insieme sono state speciali. Avevamo preparato giochi, birra e stuzzichini per animare la prima sera, ma senza neanche accorgercene abbiamo cominciato a parlare tra noi spontaneamente e liberamente come vecchi amici che si ritrovano dopo anni, ed è stato solo verso le 2 del mattino che ci siamo allegramente resi conto che era ora di andare a nanna.

Corea, tra gioie e fatiche

Alla fine della scuola di lingua, il Signore aveva preparato per me una sorpresa e un’altra chiamata. Avevo messo tutte le mie energie nello studio del coreano ma dopo un anno e mezzo mi ritrovavo senza forze e non riuscivo più a concentrarmi. Mi ci è voluto un bel po’ a riprendermi, ma ogni due mesi rimanevo vuoto di energie per una settimana.

Dal 2000 sono stato incaricato della formazione dei nostri seminaristi coreani. Anche quello è stato un tempo bello, aiutando ognuno a crescere nella fede e nel nostro carisma missionario secondo la sua personalità. E ora i miei cinque seminaristi sono diventati sacerdoti e annunciano il Vangelo in tre continenti: Pietro Han Kyoung Ho in Corea, Martino Han Gyeong Ho in Mozambico, Giuseppe Kim Moonjung in Rd Congo, Benigno Lee Dong Uk in Kenya e Giuseppe Kim Myeong Ho in Colombia.

Alla fine del 2004 ero mentalmente esaurito. Sono dovuto tornare in Italia per un po’ per rimettermi in forma. Sono tornato nel 2005 e da allora non sono più riuscito a fare molte attività. A volte mi sentivo inutile. A volte mi pareva che non ci fosse futuro per me. Ho detto allora a Gesù: «Ero pronto a darti tutto, anche le cose più dure e difficili, ma questo è umiliante. Così non servo a niente! Ma se lo vuoi Tu allora lo voglio anch’io». Così, ciò che da un punto di vista materiale sembrava un tempo di non produttività, dal punto di vista spirituale mi ha aiutato a fare grandi progressi. Ora vedo che se offro immediatamente a Dio non solo le cose buone, ma anche quello che mi fa male, per amore suo ovviamente, tutto diventa sopportabile e ne seguono pace, serenità e gioia.

Ho imparato a cucinare per servire i confratelli della mia piccola comunità, di solito siamo in 2 o 3, e cerco di tenere allegro tutto il nostro gruppo della Corea.

Poi, l’anno scorso, sono andato a Taiwan a predicare gli esercizi spirituali ai nostri quattro confratelli che lavorano lì. Pensavo che mi sarei esaurito nel giro di tre giorni. E invece è andato tutto bene e per sette mesi il Signore mi ha concesso energia come da più di vent’anni non ne avevo avuta. Il Signore mi ha aperto una finestra di speranza per un lavoro missionario più fruttuoso, e gliene sono veramente grato. Ma adesso so che la cosa più importante è quello che Lui vuole, e voglio continuare a seguirlo con allegria, capiti quel che capiti.

Mentre ero in Corea ho perso entrambi i miei genitori. Prima mio papà nel ’93 e poi mia mamma nel 2005. Perlomeno sono riuscito a vedere mia mamma prima che morisse, anche se già non poteva né parlare né capire. Nella camera mortuaria, mentre aspettavamo che fosse messa nella cassa, eravamo alcuni familiari, e con lei lì presente tutti abbiamo sperimentato una grande pace e unità. E non solo, sentivamo come una pioggia di grazie su tutta la famiglia, e in me una grande gioia del tutto innaturale e inspiegabile. La cosa è durata tre mesi e mi sono ritrovato a dirle: «Grazie mamma ma adesso basta grazie».

Pastorale della pastasciutta

Nel 2012, per un progetto di urbanizzazione del governo siamo stati costretti a muovere la nostra comunità di dialogo interreligioso da Okkiltong a Tejon, una città 160 km a Sud. Padre Diego Cazzolato (il veterano del nostro gruppo) e io abbiamo vissuto per vari mesi in un appartamentino di 45 m2 mentre seguivamo la costruzione della nuova casa. Ma a fine anno, dopo neanche tre mesi di vita nella nuova casa, sono stato trasferito a Tongduchon con padre Tamrat (Defar, etiope). La cosa in realtà si è poi rivelata molto provvidenziale. Ci siamo molto aiutati e sostenuti a vicenda nella pastorale dei lavoratori stranieri. Ci sono stati momenti in cui dicevamo: «Beh, noi non siamo poi così speciali, ma il Signore sta radunando intorno a noi tanta brava gente che fa tanto buon lavoro. Il Signore ci sta usando come catalizzatori per la missione». Durante quei 3 anni insieme abbiamo sviluppato la «pastorale della pastasciutta». Con la scusa della cucina italiana abbiamo invitato a casa ogni tipo di persone, e in un ambiente caldo e familiare abbiamo parlato di problemi pastorali, di religione e di ogni altra cosa con preti, suore, cattolici, protestanti, non cristiani, nigeriani, filippini, latinos e coreani. E poi qualche sabato pomeriggio, Tamrat e io camminavamo insieme per un’ora fino a una montagna vicina, prendevamo una frittata e una brocca di vino di riso, e poi tornavamo a piedi, parlando di tutto.

E adesso bisogna proprio che vi parli della messa. Ci sono stati dei momenti in cui mi sono detto: «Ma cosa faccio qui? Vale la pena stare qui o fare questa vita? Sono utile a qualcosa?», oppure: «Dai, impacchetta tutto e torna a casa». Solo la messa mi ha aiutato, giorno per giorno, a trovare forza e soprattutto significato per andare avanti in questa missione.

Ecco, questi sono alcuni ricordi «a caso» dei miei primi 25 anni in Corea, ma il ricordo più importante è: «Se il Signore non fosse stato con noi, tutto quello che siamo e facciamo ora, sarebbe stato impossibile».

Giovanni Paolo Lamberto


I giovani coreani

Di quali giovani parlare? Qui le cose cambiano rapidamente: chissà che tipo di giovani avremo fra 10 anni? Chi ha più di 50 anni quando era giovane ha dato tutto per il «miracolo economico» della Corea. I 40enni sono gli eroi della lotta contro la dittatura militare. I 30enni hanno avuto la vita più facile: la nazione era diventata ricca e le famiglie molto piccole. I 20enni hanno avuto la vita ancora più comoda ma adesso fanno fatica a trovare un lavoro e spesso rimandano matrimonio e figli perché l’economia non tira più come prima. Chi ha meno di 20 anni è sicuramente cresciuto con un telefonino in tasca e il computer davanti al naso.

Però c’è un’esperienza che li accomuna tutti, e per quanto ne so, lo stesso capita per i paesi di cultura confuciana (Cina, Giappone, Taiwan, Singapore, Hong Kong): la scuola.

In Corea, fino all’asilo i bambini possono fare quello che vogliono, nessuno li rimprovera. Ma dalla 1ª elementare vengono «intruppati» nel sistema e da quel momento è solo studiare, studiare e studiare. E fare tutto il possibile per essere ai primi posti. Qui l’educazione è intesa come: «L’allievo è un contenitore vuoto che deve essere riempito dal maestro». E la scuola normale non basta. Appena finito si va alle cosidette Accademie per approfondire inglese, matematica, piano, tae kwon do (taekwondo, un’arte marziale) ecc. È normale per uno studente coreano uscire di casa al mattino alle 7 e ritornare alla sera alle 10 o alle 11.

Molti anni fa, durante le mie prime esperienze di confessione in coreano, ho capito che quando mi parlavano in modo comprensibile erano peccati normali, quando invece parlavano difficile, con molti vocaboli di origine cinese, erano cose grosse. Un giorno è venuta una ragazza e mi ha detto: «Io sono ko sam». Per stare sul sicuro le ho raccomandato: «Quella roba non farla mai più». Che cantonata. Anche il più sprovveduto dei coreani sa benissimo che ko sam vuol semplicemente dire: «Sto frequentando il terzo anno delle superiori e mi preparo all’esame di entrata all’università per cui non esco di casa, non vado con gli amici, non vado a messa, e dal mattino alla sera è solo studio». Dal mattino alla sera è un eufemismo: sulle pareti di molte scuole c’è questa scritta: «Più di 4 e non ce la fai». Cioè: «Se dormi più di 4 ore per notte quando prepari questo esame non ce la farai a passarlo».

Questo esame determina tutta la tua vita futura, chi sarai, quanto guadagnerai, che amici avrai. Accedere a una università di prestigio è come entrare in un club esclusivo, e, indipendentemente dai risultati e dalle materie scelte, i membri della stessa università si aiutano tra loro, ti assumono nella loro ditta, ti aiutano a far carriera.

Pressione e competitività, a cui si è aggiunto di recente il fenomeno del bullismo, sono spesso causa di un grande numero di suicidi tra i giovani. Senza dimenticare che i giovani che escono da queste scuole saranno poi i dirigenti della Samsung, Lg, Kia, Hyundai, ecc. E che questi giovani, così legati alla loro terra e cultura, diventeranno quegli imprenditori che non esiteranno un attimo a trapiantare la loro piccola azienda, se qui non sarà più competitiva, in Cina, Indonesia o America Latina.

Vincenzo, missionario oblato di Maria Immacolata, italiano che lavora molto nel sociale, mi ha parlato dell’emergenza nascosta di almeno 200.000 ragazzi scappati di casa e mi ha descritto i cambiamenti avvenuti col tempo. All’inizio c’è stata la generazione del «doposcuola»: ragazzi poveri che avevano bisogno di essere aiutati con lo studio per uscire dalla povertà. Quando la società si è arricchita è arrivata la generazione del «rifugio»: ragazzini che magari scappavano di casa per conflitti familiari, ma ancora capaci di ascoltare l’autorità e di farsi aiutare. Solo cercavano un rifugio (shelter in inglese) dove poter stare.

Adesso c’è la generazione del «telefonino»: per loro è importante solo il momento presente. Perché studiare o sforzarsi di migliorare? Vivo adesso e il mio orizzonte è quello che posso godere in questo momento. Sì, questa è l’emergenza, ma non è lontanissima dal sentire del giovane medio.

Sone periferiche e povere di Seul

I giovani coreani amano lo sport: il baseball, lo sport più popolare, riempie gli stadi. Vanno alla grande le bands di teenagers che cantano e ballano, per non parlare delle telenovelas e dei film locali. Questi cantanti e attori sono popolarissimi anche nel resto dell’Asia, tanto che è stata coniata una nuova parola: Hallyu, cioè l’onda culturale coreana che si spande per l’Asia. E non dimentichiamo il karaoke (qui si chiama norepang), uno dei divertimenti più popolari in Corea. In questo momento quello che corrisponde alle nostre pizzerie sono i ristorantini di pollo fritto e birra, sempre pieni di giovani universitari.

In Italia tutti sono orgogliosi di sfoggiare la tintarella. Le ragazze coreane invece no. La sfida è essere più bianche delle altre. E allora quando splende il sole tutte in giro con l’ombrellino o un cappello a larghissime tese. E poi creme sbiancanti e creme antisolari. La bellezza qua è un valore importante, quindi le vedrete sempre truccate in modo impeccabile. Dal resto dell’Asia vengono in Corea per comperare i cosmetici locali che sono molto rinomati. E non parliamo della chirurgia plastica: molte volte il regalo dei 18 anni o per aver passato l’esame di ammissione all’università è proprio un ritocchino al naso, al mento o agli occhi.

E in Chiesa? Purtroppo, adesso sembra di essere in Europa: i giovani sono molto rari. Fino al 2000 non era così. Ma poi la denatalità (che è più alta di quella italiana: 9 nati ogni mille abitanti in Italia; solo 8 in Corea), il benessere, o forse «la notte della cultura occidentale» sono arrivate anche qui. Sta di fatto che dal 2000 le vocazioni religiose, una volta abbondanti, sono crollate drammaticamente, e anche quelle per il sacerdozio diocesano stanno mostrando segni di crisi. Ma mai disperare, i coreani possono essere tutto e il contrario di tutto, questo popolo ha fatto stupire il mondo in più di una circostanza, e sono sicuro che i nostri giovani ci stupiranno nuovamente.

G.P.L.


Corea del Sud su MC:

Crogiuolo di religioni, 11/2010
A Seul si dorme poco, 10/2010
Consolazione di frontiera, 11/2012
Una storia affascinante! 25 anni di presenza per gli IMC, 1-2/2013
Venerando Dio in te… buongiorno!, 4/2013
Speriamo non arrestino il batterista, 3/2014
Isaac e Cristina oggi sposi, 3/2014
La Consolata si è fatta coreana, 10/2015
Good morning Korea, 1-2/2017
L’ospite d’onore, 11/2017.




Corea del Sud: L’ospite d’onore


Ogni missionario sa che, dovunque si troverà a operare, sarà chiamato a scoprire e assumere usi e costumi diversi. La ricchezza della diversità è segno della creatività dello Spirito e, a volte, anche fonte di situazioni divertenti. Padre Gian Paolo, con il suo solito stile ironico e paradossale, ci racconta un paio di aneddoti coreani.

Chiunque si trovi a visitare un paese dell’area confuciana (Cina, Corea, Giappone, Taiwan, Vietnam e diaspora cinese) entra automaticamente in una di queste due categorie fondamentali: straniero o ospite. E per quanto riguarda l’ospitalità, non ho mai sperimentato tanta squisita gentilezza in vita mia come in Corea del Sud. Per questa cultura l’ospite va coccolato al massimo. Permettetemi di raccontarvi un paio di aneddoti veramente accaduti per farvi entrare «a pelle» nel mondo dell’onorevole ospite in Corea.

Geoffrey con la signora Angela degli Amici dei Missionari della Consolata, vestita con l’hambok, l’abito tradizionale.

Ospite o straniero?

Potrebbe capitarvi di essere per strada e avere bisogno d’informazioni. Vi avvicinate a un coreano e cominciate gentilmente a tentare una comunicazione col vostro povero inglese. In quel momento il malcapitato coreano vede il suo mondo ordinato e pre programmato sconvolgersi. Ma questo dura solo per una frazione di secondo, perché subito nel coreano scatta una delle due possibili vie di reazione:

  1. a) Pensa: «È uno straniero! Non posso capire cosa mi dice perché non conosco la sua lingua! Non posso aiutarlo». E così vi guarda come se avesse di fronte un fantasma: non vi sente e non vi vede, e anche se gli crollaste davanti per un colpo apoplettico rimarrebbe indifferente.
  2. b) Oppure pensa: «È un ospite straniero». Allora, non solo vi spiega dove dovete andare, ma lui stesso vi accompagna, prende la metro con voi, vi offre un caffè, vi porta davanti a una porta e vi consegna a un’altra persona a cui si raccomanda di portarvi esattamente alla vostra destinazione e magari vi paga anche il taxi.

Ci è capitato una volta, al bancone di una banca, di rivolgerci in perfetto coreano a una signorina per alcune questioni. La signorina, che ci guardava direttamente in faccia, ci ha risposto: «Scusi, ma non ho capito niente di quello che ha detto, perché non so l’inglese». Accanto a lei lavorava, china su un computer, un’altra signorina. Lei non ci aveva guardati, aveva solo sentito la nostra voce, ed è intervenuta: «Ma se ha detto così e così e così!», ripetendo esattamente quello che noi avevamo detto in coreano. La spiegazione di questo aneddoto è che la signorina che ci aveva guardati in faccia, prima ancora che noi aprissimo bocca, era rimasta paralizzata dalla reazione: «È uno straniero. Non posso capirlo. Non so come interagire con lui».

E adesso lasciate che vi raccontiamo l’esperienza di Geoffrey, dalla sua viva voce, di quando è stato invitato a cena dopo poche settimane dal suo arrivo in Corea.

L’ospite, il nuovo arrivato

«Quel giorno, non ero solo un invitato, ma l’ospite d’onore. Ad accogliermi c’era la padrona di casa, con pettinatura e make up impeccabili, vestita con un hanbok (vestito tradizionale, ndr) stupendo, un sorriso smagliante e un inchino profondo. Appena mi ha accolto in casa… ha urlato. Ma perché? Eh dai, avrei dovuto saperlo che mai e poi mai si entra in una casa coreana con le scarpe. Solo un bruto che viene dall’occidente non lo sa. E sarebbe anche meglio avere i calzini nuovi, o perlomeno non rattoppati. Capito? Allora via le scarpe.

Quindi la signora mi ha offerto con un inchino e con le due mani un souvenir della Corea, impacchettato in modo artistico ed elaborato. Qui, anche se il regalo fosse uno stuzzicadenti, è immancabilmente presentato con un pacchettino elegante.

Quando ci siamo messi a tavola, la padrona di casa si è scusata che non era capace a far da mangiare, che c’era poca roba e senza sapore. Invece ai miei occhi è apparsa una tavolata piena di piatti e piattini saporiti e disposti con gusto, che sicuramente avevano richiesto una giornata intera di lavoro. Ma in questo mondo chi vi ospita deve sempre mostrarvi la propria umiltà e perorare la propria incapacità».

I pomodorini sulla torta

«Allora mi sono seduto a tavola. Con il trascurabile dettaglio che il tavolo è alto 40 cm da terra e che mi sono seduto su un cuscino sul pavimento al posto d’onore, al centro, cosa che mi tagliava ogni possibile via di fuga. Ovviamente non c’erano forchette ma i classici bastoncini. È facilissimo usarli, specialmente se la fame è molta. All’inizio molti bocconcini mi sono caduti sul tavolo, anzi sui calzini, visto che sedevo con le gambe incrociate. I coreani, quando mi hanno visto così imbranato, sono diventati ancora più gentili. A un certo punto è arrivata una torta con le candeline. Sì, io ero l’ospite e dovevo soffiare sulle candeline mentre gli altri cantavano tanti auguri a te. Io sono occidentale, gli occidentali mangiano pane, e la torta è pane. Forti di questa logica mi hanno piazzato una fetta da tre porzioni nel piatto, dopodiché la torta è stata portata via, visto che nessun altro commensale aveva intenzione di assaggiarla: l’importante era compiere il rito. Ma ci si aspettava che io la mangiassi. Quindi ho cominciato dalle ciliegine. Ehi, ma quelle non erano ciliegine, bensì pomodorini. “Sai – mi ha spiegato Gian Paolo -, in Corea i pomodorini non sono considerati verdura, ma frutta, per questo si mettono sulla torta”».

Da qui in avanti le foto raccontano della festa della Consolata celebrata il 20 giugno 2017 nella comunità di Yeokgokdong.

Con le lacrime agli occhi

«La cena è poi andata avanti: c’era una specie di minestra che bolliva su un fornellino al centro del tavolo. Il mio vicino ha subito preso un mestolo per riempire una scodella davanti a me. Era pieno di “bestie del mare”. Io sono un uomo di terraferma e tutto mi pareva molto strano. Ma, come dice quel cantico del breviario, “Mostri marini benedite il Signore”, e, pur di salvare qualche anima, ho cominciato a mangiare. Il brodo era color “rosso sangue dei martiri”, era un concentrato di peperoncino rosso piccantissimo. Comunque ce l’ho messa tutta per finire quel che c’era nel piatto. Ahimè, commettendo un bell’errore: in oriente se uno vuota tutto il piatto vuol dire che ne vuole ancora, quindi il mio vicino, come un fulmine, mi ha riempito di nuovo la scodella. Mi veniva da piangere. Oppure no. Ma le lacrime sicuramente mi sono venute. Per i Coreani un cibo è piccante quando cominciano a lacrimare gli occhi, e io avevo anche la bocca in fiamme e il naso che gocciolava. Purtroppo però mi avevano appena insegnato che una delle regole più importanti del galateo coreano è quella di non soffiarsi il naso in pubblico. Mai. Volevo alzarmi e uscire un momento ma le gambe mi si erano già addormentate e non riuscivo a muovermi. Il fazzoletto l’avevo dimenticato e non c’era il tovagliolo».

Il rito del Soju

«Mi sono guardato intorno e ho visto che miei confratelli, furbacchioni, si stavano concentrando su altri piattini che a loro piacevano di più. Ho visto una salsina fatta di gamberetti in miniatura. Era bianca, buon segno, perché ormai associavo il rosso al piccante, e se quella salsina era bianca non poteva farmi del male. Ne ho presa un po’ con il cucchiaio: era salatissima. Padre Tamrat che mi osservava di fianco a me mi ha detto: “Ma va, non si fa così, quella è una salsa: tu devi prendere una foglia di lattuga, metterci dentro una fettina di maiale bollito, poi la salsina, poi un pezzettino di aglio crudo intinto in un’altra salsina e qualche erbetta di quelle che vedi nei vari piattini, poi fai un boccone e lo mangi”. Mentre Tamrat mi parlava, una signora ha seguito tutti i suoi movimenti e ha capito la situazione. In men che non si dicesse aveva preparato il boccone e me lo ficcava in bocca, aglio crudo e tutto. Era un segno di grande onore: così facevano le cortigiane con il re nei tempi che furono. L’aglio crudo in bocca faceva un bruciore diverso da quello del peperoncino rosso. Il mio cervello sopraffatto da tanto onore gridava: “Acqua, pompieri”. Appena il padrone di casa, seduto di fianco a me, ha intuito il mio sguardo e il mio movimento verso il bicchierino che mi stava davanti, è scattato in azione: nessuno può servirsi da bere da solo. Il gentil signore mi ha riempito il bicchiere di Soju, grappa coreana. Bisogna sapere che: 1) il Soju ha lo stesso colore dell’acqua; 2) il Soju fa dai 18 ai 22 gradi, quindi è “leggermente” più alcolico dell’acqua. L’etichetta impone, senza scarti alla regola, che una volta vuotato il bicchierino io lo prenda, lo riempia di Soju e lo dia a colui che me l’ha appena offerto, il quale, per rispetto a me, lo svuota in un sol sorso. A quel punto è stato come se fosse caduta una barriera invisibile: gli altri commensali, uno per uno, si sono alzati per venire a rendere omaggio all’ospite d’onore, cioè a me, con lo stesso identico rito».

Shiksa

«Abbiamo poi continuato a mangiare, ma adesso anch’io sceglievo le cose che mi piacevano di più. Quando oramai ero ben pieno, la padrona di casa ha annunciato, tutta gaia: “Shiksa”. Ma shiksa vuol dire cibo, mangiare. E fino a quel momento cosa avevamo fatto? In Corea, in effetti, non si è mangiato finché non arriva il riso. Mi sono detto: “E come faccio io adesso? Sono già strapieno”.

Poi improvvisamente la conversazione si è animata e ho capito che stava capitando qualcosa: era arrivato il momento delle canzoni, e ognuno doveva cantarne almeno una da solo. Padre Diego si era appena defilato con la scusa di andare a fumare. Ce l’aveva fatta di nuovo: in 28 anni di Corea pare che nessuno sia mai riuscito a farlo cantare da solo. Io invece, ero già riuscito a imparare una canzone. Quando è venuto il mio turno è stato un successo immediato. Tra gli applausi tutti mi dicevano: “Che bravo, sei da poco tempo in Corea e ami già così la nostra cultura, ecc.”. Ma col successo… è arrivato anche il Soju. A quel punto tutti volevano offrirmi da bere. Io pensavo: “Qualcuno mi aiuti, mi difenda”. Guardavo padre Tamrat che aveva il bicchiere pieno dall’inizio ed era riuscito a fingere di portarlo alle labbra varie volte senza toccarlo: lui riusciva a conversare con tanta naturalezza che nessuno se ne accorgeva. Padre Gian Paolo mi aveva spiegato la teoria del Soju: dopo 4 bicchieri la stanza comincia a muoversi da sola; dopo 8 uno dice: “Posso volare”; dopo 12, uno si sente antiproiettile come Superman. Bene, io ancora non potevo volare, ma dalla torre di controllo mi stavano chiamando per andare in pista.

Finalmente oramai la cena era finita, ero salvo. Mi sono alzato ma le gambe erano addormentate e facevo fatica a stare in piedi. La testa girava un po’ e la bocca era piena di sapori strani e bruciava. Il naso gocciolava. La pancia era strapiena e non capivo più una parola. Troppo onore, troppe esperienze nuove, troppa inculturazione. Allora mi sono detto: “Domani riposo, e magari salto anche pranzo!”».

 Gian Paolo Lamberto




Radio la fatica diversi


Nata a Nueva Loja nel 1992, Radio Sucumbíos ha una forte connotazione sociale e interculturale. Dopo aver superato le difficoltà causate dai cambi e dalle incertezze nella direzione del Vicariato apostolico della locale provincia, oggi l’emittente è alle prese con una grave crisi economica. Come accade per molti altri media comunitari torna un dilemma: è possibile fare un lavoro informativo ed educativo al di fuori delle logiche mercantili?

Nueva Loja. A lato dell’entrata principale, davanti a un piccolo prato, campeggia un grande murale a colori con sette volti: ci sono quelli delle etnie native (Kichwa, Siekopai, Cofán, Shuar, Siona), un volto afro e uno in rappresentanza dei contadini meticci. Lo slogan dà il senso della filosofia e dell’obiettivo di Radio Sucumbíos: «Lavoriamo per l’interculturalità». L’emittente, nata su impulso di mons. Gonzalo López Marañón, carmelitano scalzo, al tempo Vicario apostolico dell’omonima provincia, ha visto la luce nel 1992. Era, quella, un’epoca in cui Sucumbíos aveva poche vie di comunicazione e i suoi abitanti – popoli indigeni e gente venuta da fuori – scarse possibilità di interazione.

Nel corso degli anni molto è cambiato. L’economia petrolifera ha trasformato – spesso in peggio – tutta la regione amazzonica. Oggi nella provincia ci sono una trentina di emittenti, ma Radio Sucumbíos copre un territorio più ampio delle concorrenti. Fa parte delle reti Aler e Corape, in cui confluiscono molte emittenti accomunate da tre caratteristiche: sono comunitarie, sono popolari, sono educative. Nel 2016 la radio del Vicariato ha compiuto 25 anni. Anni di soddisfazioni, ma anche di aspri conflitti.

Una radio inclusiva

A guidarci nella visita dei locali dell’emittente è Marilú Capa Galarza, giornalista, cornordinatrice del settore informativo e conduttrice del radiogiornale (El comunicador).

Marilú, che indossa una maglietta della radio, parla con coinvolgente entusiasmo. Ci conduce subito negli spazi dell’area giornalistica.

Su una grande lavagna sono segnati gli appuntamenti della settimana: la fiera dell’artigiano, il servizio trasporto sicuro, l’acqua potabile a Nueva Loja. Nella stanzetta a fianco un’altra lavagna riporta l’elenco delle interviste. Sulle sedie davanti ai computer sono appoggiati dei giubbotti a maniche corte con la scritta «prensa Sucumbíos» stampata sulle spalle. «Siamo 3 giornalisti fissi più altri due collaboratori dai vicini cantoni di Shushufindi e Orellana». Oggi a Radio Sucumbíos lavorano in tutto 14 persone, ma fino a pochi anni fa erano 23. Su una parete sono appese decine di foto e Marilú, con pazienza, ci racconta le più significative. «Questa radio – commenta – non appartiene a noi: è una radio della gente. Lo dimostra il fatto che in tutti i conflitti che abbiamo avuto la cittadinanza ci ha difesi». La nostra guida ci conduce quindi nel grande archivio storico: vi sono raccolti, in splendido ordine, dischi in vinile, Cd, Vhs, cassette, strumenti tecnici oramai datati.

Entriamo in una sala di registrazione dove sta lavorando Pilar Guaizo, conduttrice di Rostros y Rastros (volti e tracce), un programma del sabato. «Parliamo di personaggi della storia e persone di oggi che hanno fatto un lavoro importante nel campo dei diritti umani e della difesa ambientale. In sostanza, è una trasmissione educativa».

Passiamo in un altro studio dove si sta trasmettendo La trocha, un programma d’intrattenimento. Il conduttore, Miguel Angel Rosero, è un concentrato di energia ed entusiasmo.

Accanto alla consolle spicca un cartello in kichwa: «Allì Shamushka Kai Anki Sucumbiosma». «Benvenuti a Radio Sucumbíos», ci traduce Marilú. La ricerca dell’interculturalità è certamente un punto di merito dell’emittente di Nueva Loja.

Incontriamo German Tapuy, giovane indigeno di etnia kichwa che si occupa del programma in kichwa, trasmesso dal lunedì al sabato dalle 4 alle 5,30 del mattino. La sua trasmissione si chiama Jatarishunchik, che significa «Alziamoci». «Affronto gli argomenti più vari – ci spiega lui con un po’ di timidezza -. Tutto ciò che interessa le cinque nazionalità indigene che vivono in questa provincia».

Nel fine settimana c’è anche un programma destinato al popolo afro dal titolo di Voces y Jolgorio (voci e baldoria), condotto da Antonia Guerrero. «Anche se ci sono poche migliaia di afrodiscendenti, abbiamo deciso che era importante dare spazio anche a loro», spiega Marilú.

«Siamo una radio inclusiva», conferma Amado Chavez, direttore della programmazione. Che vuole anche ricordare il suo programma, Machetes y Garabatos: «Trattiamo argomenti molto pratici: coltivazioni agricole, allevamento, pescicoltura».

Per non essere come le altre

Victor Gómez Barragán è direttore di Radio Sucumbíos dal giugno del 2015. Tra la fine del 2010 e l’inizio del 2012, con il cambio alla guida del Vicariato, gli Araldi al posto dei Carmelitani scalzi (leggere riquadro a pag. 53), l’emittente è al centro di aspre polemiche che ne mettono in forse la stessa sopravvivenza. All’epoca Victor non era direttore, ma quelle vicende sono rimaste impresse nella sua mente.

«Gli Araldi volevano una radio che invece di seguire le marce contadine, le proteste civili, le manifestazioni popolari, le problematiche di genere seguisse soltanto le messe e trasmettesse soltanto preghiere. Senza cioè parlare di un Dio vivo che sta nei campi, accanto ai poveri e agli indigeni. Volevano licenziare tutto il personale e fare la radio con soltanto tre volontari».

L’emittente ha resistito, ma il prezzo pagato è stato molto alto. La contesa religiosa tra i Carmelitani (riuniti nel movimento Isamis) e gli Araldi si trasformò presto in lotta politica ed economica. Con schieramenti e divisioni, anche tra familiari e amici. «Molte di quelle ferite ancora adesso non sono rimarginate», ammette Victor, che oggi però ha altre preoccupazioni.

«Abbiamo sempre dovuto combattere – racconta – con le difficoltà economiche. Ma ora la situazione si è aggravata a causa della crisi che, a partire dal 2015, si è abbattuta sul paese. La prima conseguenza è stata la riduzione della pubblicità che proveniva dalle entità governative e dalle imprese private. Inoltre, essendo noi collocati in una zona petrolifera, a causa della caduta dei prezzi del greggio molte imprese locali hanno chiuso, il commercio è diminuito e con ciò anche gli investimenti pubblicitari».

In questo momento, confessa con visibile dispiacere Victor, l’emittente ha alcuni mesi di ritardo nel pagamento degli stipendi ai propri dipendenti.

«È diventato molto difficile sostenere un progetto di comunicazione come quello che offre Radio Sucumbíos. Se non arriverà l’appoggio di qualche entità non governativa, potremo sopravvivere soltanto riducendo il personale e i programmi. Questo non vogliamo che succeda perché ci trasformeremmo in una delle tante radio che offrono soltanto musica e qualche altro programma senza alcun interesse per le problematiche sociali e comunitarie».

E verrebbe meno il motto che ha guidato Radio Sucumbíos in questi suoi primi 25 anni di vita: fare un giornalismo con responsabilità sociale.

Quando occorre schierarsi

«Se c’è una perdita di petrolio, noi la denunciamo subito. Non abbiamo compromessi con il potere, sia esso quello politico che quello economico. Un mezzo di comunicazione non può sempre essere neutrale o imparziale. Quando c’è una violazione di un diritto umano, quando c’è un disastro ambientale, devi schierarti. E Radio Sucumbíos si è sempre schierata a fianco della gente, dei contadini, degli indigeni».

Paolo Moiola

(fine 7.a puntata – continua)